< Vita di Giacomo Leopardi
Questo testo è incompleto.
Capitolo XVI. A Pisa e a Firenze
Capitolo XV Capitolo XVII

307 Capitolo XVI. A PISA E A FIRENZE. 1827-1828. Sommario: Andata a Pisa. — La Crestomazia poetira. — Giacomo all' Università, presentato dal Carinignani agli studenti. — La Pasqua, le uova toste e le schiacciate. — La Via delle ri- munibranze. — // Risorgimeuto e la canzone A Silvia. — Morte del fratello Luigi. — Ritorno a Firenze. — Proposta di una cattedra a Bonn. — Lettera alle Tommasini. — Terribile stato fisico e morale del poeta. — Vieusseux e la sua compagnia. — Dissidio profondo fra lo idee loro e quelle del Leopardi. — Spedizione allo Stella della Crestomazia poetica. — L'au- tore è mal sodisfatto della sua Crestomazia. — Pensieri nello Zibaldone. — Partenza per Recanati. Seguendo il consiglio degli amici di Firenze, il Leopardi, che, come dicemmo, pendeva incerto fra Roma e Massa, deliberò di andare a passare l' inverno a Pisa. Partì la mattina del 9 novembre, in compagnia del dott. Gaetano Cioni, un amico del Vieusseiix e suo, che conduceva all' Università il figliuolo Giro- lamo. Si fermarono a Pontedera, dove il Leopardi fece una piccola refezione, e la sera arrivarono a Pisa. Il Cioni trovò al poeta una pensione a discretissimo prezzo in Via Fagiuoli ' presso un tal Soderini. Fermandosi a dimora in un luogo per lui nuovo, il Leopardi sulle prime non ci si trovava mai con- tento; perchè, com'egli dice, non si trovava nel suo ' Ora si chiama Via Della Faggiuola. La mutazione, secondo il prof. Lupi di Pisa, fu fatta nella prima metà del secolo XIX da gente la (^uale probabilmente ignorava che il Fagiuoli fu un giureconsulto famoso del secolo XIII. 308 CAPITOLO XVI. centro e come naturalizzato, finché non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo.' Ma Pisa fece un'eccezione. Tre giorni dopo il suo arrivo scrisse alla Paolina ch'era rimasto incantato della città per il clima, che l'aspetto di essa gii piaceva più di quel di Firenze, che il Lung'Arno era uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così ridente, che non sapeva se in tutta l'Europa se ne trovassero molti di quella sorta. < Nel resto, diceva, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto al- trettanto. >- A ciò, e a tutte le altre bellezze di Pisa eh' egli enumera, si aggiunga (e questo è l' impor- tante) eh' egli si sentiva bene, che mangiava con ap- petito, ch'era contentissimo della gente di casa. Nello stesso giorno, 12 novembre, scriveva al Vieus- seux, allo Stella, alla Maestri, e due giorni dopo al Brighenti e al Papadopoli, dando a tutti le stesse no- tizie della sua felice dimora in Pisa. Poi scrisse a Carlo chiedendogli alcuni libri dei quali aveva biso- gno per la compilazione della (h-estomasia poetica, l'unico lavoro che aveva allora da fare per lo Stella, e a cui gli premeva di metter subito mano. Erano ora- mai sei mesi che, a cagione della salute, non aveva potuto far niente per lui; e gli importava di non per- dere l'assegno. Ma, per quanto stesso meglio dogli occhi, non poteva affaticarli troppo: avevano sofferto assai, scriveva allo Stella, e si risentivano ancora della fatica durata nel tanto leggere e nel tanto copiare per Valtra Crestomazia. Onde tra per questo o per la dif- ficoltà del lavoro, non gii prometteva la Crestomazia poetica se non pd principio drlT autunno prossimo.' Monaldo, che aspettava il figlio a llccanati, saputo dalia Paolina ch'era andato a l'isa, so n'ebbe a mulo. • V«<U Pxnntérl di mrla ftlotofla oc, voi. VII, png. 232, 233. « Kplutolnrio, voi. II, piig. 24fl, " Idem, png. ii-'W). A ri«A E A FIRENZE. 309 Da prima dimostrò il suo malumore con un lungo si- lenzio; poi quando Giacomo, per consiglio della so- rella, gli ebbe scritto, rispose sfogando, coni' egli diceva, il suo cuore. Dolevasi che il figlio non corri- spondesse al suo affetto e non avesse in lui confidenza. Tare, diceva, che il vostro cuore trovi un qualche in- ciampo per accostarsi al mio, il quale vorrebbe esser veduto da voi una volta sola, per un solo lampo, e questo ffli basterebbe. Quanto al freddo, s'egli fosse andato a Recanati, gli avrebbe con stufa, bussole e tappeti ac- comodata una camera, talmente che potesse vedere V in- verno, sen^a sentirlo. Aggiungeva malinconicamente: < Se nelle stagioni buone dovrete star fuori per ac- costarvi ai letterati, e per accudire alle lettere, e nelle stagioni cattive dovrete star fuori per evitare il nostro clima troppo rigoroso, il luogo e la stagione per vivere assieme saranno il paradiso e l'eternità. >' Non si può negare, l'ho già detto, che Monaldo, a modo suo, amasse il figliuolo, anzi che padre e figliuolo si amassero ; ma due barriere insormontabili impedi- vano il pieno e libero avvicinamento dei loro cuori: il sistema di educazione nel quale Giacomo era cre- sciuto, e le opinioni sue perfettamente opposte a quelle del padre, 11 Leopardi era da pochi giorni arrivato a Pisa, (juando l'amico Francesco Puccinotti, allora profes- sore a Macerata, gli scrisse che un signor Mancini, tipografo in quella città, desiderava stampare un vo- lume di scritti suoi. Il Leopardi, desideroso di con- tentare l' amico e lo stampatore, rispose facendo due proposte: 1* chiedere allo Stella, che n'era il pro- prietario, i manoscritti àoìV Epitttto e àoiV Isocrate; 2* ristampare in un solo volume le Canzoni e i Versi pubblicati a Bologna nel 1824 e nel 1826, con corre- zioni e aggiunta di cose nuove.

  • Lettere scritte a G. Leopardi dai suoi parenti, pag. 233, 234. 310 CAPITOLO XVI.

Il Mancini si mise subito in relazione con lo Stella, ma pare che non si intendessero, benché questi avesse scritto al Leopardi ch'era disposto a trattare; e così la prima proposta non ebbe seguito. Quanto alla se- conda, avanti d'impegnarsi col Mancini, il Leopardi volle sapere dal Brighenti, il quale una volta aveva avuto l'intenzione di fare lui una ristampa delle Can- noni e dei Versi, se questa intenzione gli durasse an- cora, aggiungendo che la ristampa avrebbe potuto accrescersi di due canzoni; e contemporaneamente scrisse al Puccinotti, che fra pochi mesi sarebbe pas- sato da Macerata per andare a Recanati, e allora avrebbero potuto combinare qualche cosa col Mancini. Il Brighenti rispose al Leopardi che non si oppo- neva alla ristampa maceratese, anzi aveva piacere che si facesse, e offeriva per essa il ritratto fatto dise- gnare per quella raccolta delle opere complete, che poi non fu fatta. Quanto a sé, diceva d' avere già co- minciato una ristampa delle poesie, e che l'avrebbe seguitata, purché ciò non dispiacesse al Leopardi, e purché fossero date anche alla sua edizione, come alla maceratese, le correzioni e le cose nuove. Il Brighenti faceva una edizione di soli dugento esemplari, della quale erano già stampati due fogli. Probabilmente il Mancini non giudicò l'affare di sua convenienza; ed anche la seconda proposta del Leopardi rimase perciò senza effetto.

  • *

Il clima di Pisa parvo incantevole al Leopardi; ma h' incannerebbe chi pcnhasse che il freddo non gli desso fastidio anche bV. Più volte nelle lettere si lagna di non poter lavorare, i)erché, a cagione del freddo, tre- mava e tipasimava dalla mattina alla sera. P(;rò di freddo vero, o neppure molto intenso, ci furono in quolP inverno a Pisa soltanto due settimane; e i giorni A PISA E A FIRENZE. 311 che il poeta non potè lavorare aftatto furono ben po- chi; tanto è vero che mise insieme la Crestomazia poetica in minor tempo di quello che aveva preveduto u indicato allo Stella. Fece, per mezzo del dott. Cloni, parecchie cono- scenze, fra le quali quella del famoso Carraignani, pro- l'ossore di diritto penale alla Università, ad una delle cui lezioni assistè, in compagnia del Cioni. L'aula ma- cina era piena, appunto perchè si sapeva che sarebbe intervenuto il poeta. 11 professore salì la cattedra, ma non cominciò subito la lezione: chiamato un bi- dello, gli ordinò di mettere due sedie in luogo distinto presso la cattedra; dopo di che, fatti entrare il Leo- l)ardi ed il Cioni, li invitò a sedersi, e presentò alla scohiresca il poeta con parole degne di lui. Una salva di applausi accolse le parole del professore.' Ad un'adunanza dell'Accademia dei Lunatici, presso una signora Mason, Giacomo conobbe il Guadagnoli. Lo sentì recitare le sue sestine burlesche sopra la pro- pria vita, accompagnando il ridicolo dello stile e del soggetto con quello dei gesti e della recitazione.* Mentre tutti ridevano di cuore alle barzellette del giovane poeta, il Leopardi ne provò un sentimento doloroso. Quello spettacolo di un giovane che poneva in burla se stesso, la propria gioventù, le proprie sventure, dan- dosi come in ispettacolo e in oggetto di riso, gli parve un genere di disperazione de' più tristi a vedersi, tanto più tristo (pianto congiunto cui un riso sincero, e ad una ptrfetta gaieté de cwar. Probabilmente il Leo- pardi, il quale prendeva tutto sul serio, non si ac- corse che lo cose che il Guadagnoli diceva non erano prese troppo sul serio né da lui stesso né dai suoi ascoltatori.

  • Vedi Camillo Astona-Tbaversi, Studi su Giacomo Leo-

pardi; Napoli, Detken, 1887, pag. 249. ' Vedi Pensieri di varia filosofia ec, voi. VII, pag. 356, 357. 312 CAPITOLO XVI. Finché durò l' inverno, cioè fino a tutto febbraio, Giacomo la sera non usciva di casa; e queste erano le ore per lui più noiose, che gli facevano rimpian- gere le serate di Vieusseux. Il resto della giornata lo passava abbastanza bene, passeggiando, lavorando, ri- cevendo visite ; le quali erano tante che qualche volta, scrive al padre, lo annoiavano. < Anche qui, soggiunge, tutti mi vogliono bene, e quelli che parrebbe doves- sero guardarmi con più gelosia sono i miei panegi- risti ed introduttori, e mi stanno sempre attorno. >' Uno di coloro che probabilmente andavano a trovarlo più spesso, e che forse più lo annoiavano, era il Re- sini, alla vanità del quale il Leopardi accenna in uno dei pensieri dello Zibaldone scritto due anni più tardi a Recanati.^ Il Rosini stava allora terminando La Mo- naca di 3Ion^a, con la quale, come è noto, intese ri- valeggiare coi Promessi Siwsi; e naturalmente avrà parlato al Leopardi del romanzo suo e di quel del Manzoni. Giacomo, che non poteva non sentire la di- stanza enorme fra il pigmeo ed il gigante, avrà riso in cuor suo alle fanfaronate del Rosini ; ma non gli sarà dispiaciuto troppo sentir detrarre alcun che alle lodi del Manzoni, la cui adorazione nel crocchio di Firenze dovò parergli eccessiva; come eccessiva gli parve nel- l'articolo del Tommaseo, del quale scrisse al Vieusseux: < L'articolo sul Manzoni potrà trovar molti che abbiano opinioni diverse, ma certo non potrà ragionevolmente esser disprezzato. Solo quella divinienazione che vi si fa del Manzoni, mi ò dispiaciuta, perdio ha dell'adu- latorio, e gli eccessi non sono mai lodevoli. >' Fra i visitatori del poeta e' era il figliuolo del Cioni, rimasto a studio a Pisa; un ragazzo allora di quat- tordici anni, che mezzo secolo dopo scrisse le sue ro- minisconzo leopardiane di quel tempo in una let-

  • K/iinlolario, voi. II, png. 2H2.
  • Vodi l'annitrì di varia fUimofla oc, voi. VII, png. 428.
  • EpUtlolario, voi. II, p»g. 271. A PISA E A FIRENZE. 313

tera ad un amico.' In quelle reminiscenze non c'è nulla d'importante che giA, non si sapesse, ad ecce- zione della visita del poeta alla Scuola del Carmi- gnani, della quale ho parlato. Nel resto il Cioni dice : ■: Del Leopardi molti han scritto e giudicato; raa 1 giudizi son monchi per la ragione che ogni uomo de- v' esser visto anche in ciabatte; > e ricostruisce un Leopardi in ciabatte, che non merita di esser veduto da nessuno; perchè nessuno c'imparerebbe niente che gli giovasse a meglio intendere l'uomo e lo scrittore. Che il Leopardi fosse sempre mesto e taciturno, come afferma il Cioni, il quale dice di non averlo ve- duto lina volta sorridere, è attestato da tutti quelli che lo conobbero, e dalle sue lettere di ogni tempo. Anche noi periodi men tristi della sua vita, come quelli della dimora a Bologna e a Pisa, la malinconia gli era abituale; era, si può dire, il suo stato normale; ma era più o meno grave, secondo gli alti e bassi dei suoi nervi, secondo le circostanze del momento, se- condo le persone alle quali parlava o scriveva. Nel leggere le sue lettere, anche quelle da Pisa, bisogna tener conto sopra tutto di questa ultima circostanza; senza di che non si spiegano certe apparenti contra- dizioni. Al padre scriveva in un modo, al Giordani in un altro; perchè con quello gli premeva giustificare, come necessario alla salute, il suo stare lontano da casa, con questo si lasciava sempre andare alle espres- sioni più malinconiche e disperate. Ma in generale a Pisa stette abbastanza contento ; ed ebbe anche qual- che istante di buon umore. Un malinconico sorriso erra tra le righe della let- tera scritta il 31 marzo a suo fratello Pier Francesco, per rallegrarsi che di canonico senza canonicato fosse divenuto canonico di fatto. < A proposito di pasqua, vi raccomando quelle povere uova toste, che non le stra- ' Vedi Antona-Tkaversi, opera citata, pag. 247 e seg. 314 CAPITOLO XVI. pazziate quest'anno: mangiatevele senza farle patire, e non sieno tante. Io non mangerò né uova toste, né altro; che non posso mangiar nulla, benché stia bene, e passo le 48 ore con una zuppa: me ne dispiace al- l' anima, ma pazienza. Se provaste le schiacciate che si usano qui per pasqua, son certo che vi piacereb- bero più che la crescia: io ne manderei una per la posta a Paolina (perchè è roba che ci entra il zuc- chero), ma bisogna mangiarle calde, e io non posso mandare per la posta anche il forno. >' Povero poeta! Scrivendo queste parole, probabilmente il pensiero gli tornava in mezzo alla famiglia, dalla quale gli dispia- ceva essere lontano in quelle solennità, nelle quali é così dolce alle anime buone ed affettuose trovarsi riu- nite intorno alla medesima mensa presso il focolare domestico. Pisa piacque subito al Leopardi, e ci si trovò su- bito bene, perchè gli rammentava Recanati, la sua aborrita ma pur cara Recanati. Aveva a Pisa il meglio di Recanati, senza ciò che a Recanati gli dispiaceva, con più tutto quello che a Recanati desiderava inu- tilmente. A Pisa si trovò subito nel suo centro, e come naturalizzato. < Io sogno sempre di voi altri, scriveva il 25 febbraio alla Paolina, dormendo e vegliando: ho qui una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle rimnnhrume: lA, vo a passeggiare quando voglio so- gnare a ocelli aperti. Vi assicuro che in materia d'im- maginazioni, mi paro di esser tornato al mio buon tempo antico. >' Questa buoiui disposizione non era soltanto cfVcllo dollu nuova dimora: un mutantento era avvenuto nel- Paninio del poeta, del quale egli prose nota il 19 gen- naio nello Zibaldone con queste parole: < La pri-

  • KpUtolarh, voi. II, pag. 287. * Idotn, png. 280. A l'JSA E A FIRENZE. 315

vazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, a poco a poco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi ritrovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio. >* Che altro è questo mutamento, che altro vuol dire questa speranza risorta, se non che il cuore del poeta si èra risv(^gliato ? Il risveglio, avvenuto due anni innanzi a Bologna,* si era pienamente aflermato e dimostrato ora a Pisa. In quella Via delle rimembranze, che gli rammentava Recanati, il poeta aveva riveduto sognando i cari e dolci fantasmi della sua prima giovinezza; aveva ri- pensato i lunghi giorni di studio nella biblioteca pa- terna, mentre il vento gli recava dalle finestre il canto (li Teresa seduta al telaio ; aveva ripensato i disegni (li una vita libera, feconda, operosa, accarezzati col suo Giordani, le confidenze e gli sfoghi fatti con Carlo e Paolina nelle interminabili sere d'inverno, i suoi colloqui con la luna e le stelle dalle finestre della sua camera o nelle passeggiate solitarie in cara- ])agna; e poi la morte di Teresa, e le sue speranze morte com'essa. Quel cumulo di memorie fece groppo al suo cuore; e quando il groppo si sciolse, il poeta pianse e cantò; cantò il suo lìisorgimento. Il canto è fatto di dolore; ma egli saluta questo dolore come una benedizione del cielo. La poesia II lìisorgimento fu cominciata il 7 aprile (lunedì di pasqua) e finita il 13. Sei giorni dopo, i 19 e 20 dello stesso mese, compose la canzone A Silvia. E il 2 maggio scrisse a Paolina: < Dopo due anni ho fatto dei versi quest'aprile, ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta. >' ' Pensieri di laria filosofìa ec, voi. VII, pag. 248. - Vedi neìV Epistola rio (voi. II, pag. 139 e seg.) la lettera a Carlo sulla relazione con la Malvezzi. ■* Ejjìslolarto, voi. II, pag. 290. 316 CAPITOLO XVI.

  • *

Il Risorgimento è la storia dell'anima del poeta dal giorno ch'egli credè morto il suo cuore fino al giorno della risurrezione. La poesia, che ad alcuni cri- tici non pare delle più perfette, è divisa in due parti, di dieci strofe ciascuna ; e ciascuna strofa è composta di otto settenari, divisi in due periodi legati insieme dalla rima dei versi tronchi. La prima parte canta la morte del cuore del poeta; la seconda il ridestarsi di esso alla vita. La natura, che era muta per lui, torna a un tratto a fargli sentire le sue voci : il mondo appare cambiato al suo sguardo. — Che cosa è av- venuto ? Forse la speranza gli ha rivolto un sorriso V Ah no ! grida egli, contradicendo ciò che aveva scritto poco innanzi nello Zibaldone (e perciò non bisogna credergli), no: la natura è nemica all'uomo; la gloria è negata ai più degni (forse pensava al poco successo delle Operette morali) ; le donne disprezzano chi le fa oggetto di un amore alto e vero (forse pensava alla Malvezzi): tuttavia sente rivivere in so le antiche il- lusioni, ha riacquistato il dono dello lacrime, e gli basta: finchò il suo cuore avn\ un palpito, egli non chiamerà spietato chi lo condanna a vivere. La canzone A Silvia, a strofe libere, misto di en- decasillabi e settenari, ò una delle poesie più perfette del nostro autore, cioò una dello liriche più bollo del nostro Parnaso. Cho semplicità di linee, che dol- cezza musicalo di contorni, che sobrietà di tinte noi piccolo quadro! Così la grande arte sa trar fuori la vera poesia, quella che fa sentire e pensare, d.illo scene più umili della vita. Il lettore ha davanti chiaro luminoso il paesaggio di Hecanati, quale si vede in un bel giorno di primavera dulie liuostro del palazzo Leopardi; e nel paesaggio duo gentili figuro di gio- vani, cho guardano confidenti nell'avvenire: là Teresa A PISA E A FIKENZE. 317 che lavora e canta, lieta e pensosa; qua il poeta, che al suono della sua voce si leva dai libri, si afifaccia alla finestra, e guarda il cielo sereno. Quelle due giovinezze vivevano di dolci pensieri e di liete speranze. Ed ecco, prima che arrivi l' inverno, Teresa muore ; e muore indi a poco la speranza del poeta, muore all'apparire del vero; e additandogli con la mano una tomba gli dice che oramai è tempo di morire. Metricamente la canzone A Silvia segna il pas- saggio dalle canzoni della prima maniera, nelle quali le strofe hanno tutte lo stesso numero di versi, a quelle della seconda. »

  • *

Ai primi di maggio Giacomo scriveva allo Stella che la Crestomazia poetica presto sarebbe terminata, e che fra poco egli sarebbe tornato a Firenze. Ci tornò difatti il 10 giugno, e appena arrivato scrisse al padre che solamente il non poter viaggiare col caldo gì' im- pediva di andare subito a Recanati. Gli era morto, per malattia di petto repentina, il fratello Luigi, nel- l'età di ventiquattro anni; ed egli sentiva il desiderio e il bisogno di trovarsi al più presto fra i suoi. < Io mi vergognerei di vivere, scriveva più tardi alla Tomma- sini, se altro che una perfetta ed estrema impossibi- lità ra' impedisse di andare a mescere le mie lagrime con quelle de' miei cari. > ' Le lettere che in questa occasione si scambiarono Monaldo e Giacomo sono piene di dolore e di affetto egualmente sinceri. E non altro che una prova di questi sentimenti da parte di Giacomo è l'avere egli scritto al padre: < Anch'io in questi giorni ho ricevuto i SS. Sacramenti colla in- tenzione ch'Ella sa. >" 1 Epistolario, voi. II, pag. 319, 320. - Idem, pag. 298. 318 CAPITOLO XVI. Non avendo potuto trovar subito un quartierino a prezzi discreti (glielo aveva cercato inutilmente anche il Yieusseux), Giacomo tornò alla locanda, di dove ai primi d' agosto si trasferì in via del Fosso presso piazza Santa Croce. A Firenze lo raggiunse una lettera del Bunsen del 5 giugno, che, informandolo di avere rin- novato le premure a Roma per il cancellierato del censo, gli offriva una cattedra dantesca nella Univer- sità di Bonn, con queste cortesi parole, non molto lusinghiere pel Governo pontificio: « Stanco di ripe- terle delle promesse, che per altro mi sono fatto rin- novare alla prima conferenza, vorrei poter lusingarmi ch'Ella non fosse alieno di mutare il suolo d'Italia con quello del Reno. Là a Bonna, in un clima eguale a quello di Verona, con un inverno dove la tempera- tura non iscende che raramente sotto 4° di Réaumur, quando fa freddo. Ella sarebbe circondato e di amici dotti e di una turba studiosa, desiderosa di vedere ravvivata la cattedra di Dante al di là delle Alpi. >' Quanto al posto di Cancelliere del censo e alle pro- messe di Roma già sappiamo che Giacomo non ci fa- ceva più nessun assegnamento. Quanto alla cattedra a Bonn : < Come abbandonare, scriveva al suo amico Puccinotti, la mia famiglia e l'Italia, e come soppor- tare il clinia della Germania? >' Se non aveva potuto accettare una simile proposta cinque anni addietro, come l'avrebbe accettata oggi che le sue condizioni di salute erano tanto peggiorate V Ber quanto egli, scrivendo a casa, desse nuovo di 8^ ul)ba8tanza sodisfacenti, e per quanto fosso vero clic si tratteneva a Firenze per non avvcinturursi nel caldo ai pericoli di un lungo viaggio, bisogna, per ve- der chiara la verità vera su (luosti diuì punti, leggere ciò eli' egli scrisse il Iti giugno .'ilIa 'ronmiusini cali;! ' J;'t>ii>liilario, voi. II, pag. 3J02 ili uoln. ' Iduiii, |>ng. 'tO'2. A PISA E A FUiENZK. :^10 figlia, le due amiche nel cui seno deponeva oramai più volentieri le sue confidenze dolorose: < Mia cara Antonietta, mia cara Adelaide, Della mia salute ec- covi brevemente. Tutti ì miei organi, dicono i medici, son sani; ma nessuno può essere adoperato senza gran pena, a causa di un'estrema, inaudita sfHj>i7yi7//« elio da due anni ostinatissimamente cresce ogni giorno; quasi ogni azione e ogni sensazione mi dà dolore.... Son venuto qua (dove ho pur quantità d'amici) per ragioni che sarebbe lungo a dire; starò tinche dure- ranno i miei pochi denari; poi l'orrenda notte di Re- canati mi aspetta. Non posso più scrivere. Vi saluto tenerissimamente tutti. >' Questo era pur troppo lo stato tisico e morale del- l' infelice poeta, stato veramente terribile. Non poteva più lavorare; vedeva quindi cessargli a breve scadenza l'assegno dello Stella, e cessargli insieme la possibi- lità di mantenersi fuori di casa. Desiderava di rive- dere i suoi ; ma non poteva muoversi per il caldo, e l'idea che, tornato in famiglia, non avrebbe avuto più modo di uscire di Recanati lo spaventava. Di qui una irritazione, che non sempre riusciva a dominare. Pochi giorni dopo, riscrivendo alla Maestri, che lo invitava a Parma, e dolendosi con lei di essere costretto alla immobilità, si lasciò sfuggire queste parole: < Mi viene una gran voglia di terminare una volta tanti malanni, e di rendermi immobile un poco più perfettamente; perchè in verità la stizza mi monta di quando in quando: ma non temete, che in somma avrò pazienza sino alla fine di questa maledetta vita. >■ La Maestri e la Tommasini si impaurirono di que- ste parole. Esse conoscevano troppo bene lo stato in- felicissimo del Leopardi, e doveva parer loro tutt'altro che impossibile ch'egli in un momento di disperazione pensasse a por fine ai suoi giorni. La Tommasini scrisse Epiafolario, voi. II. pag. ;Ì04. * Idem, pag. 305. 320 CAPITOLO XVI, subito al poeta una lettera piena d'affetto e di dolore; egli rispose a lungo, scusandosi e rassicurandola: l'amore agli amici e ai parenti gli avrebbe sempre impedito di fare una pazzia. < Non vi posso esprimere, soggiungeva, quanto mi commuova l'affetto die mi dimostrano le vostre care parole. Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né d' altre cose simili ; ma ho bisogno d'amore. > < Credetemi, finiva, che io vi amo con tutta l'amicizia possibile; e che.... come si pos- sono amare in un tempo due patrie come proprie, così io amo come proprie due famiglie in un tempo: la mia e la famiglia Tommasini; la quale da ora innanzi, se così vi piace, chiamerò parimente mia. >' Nonostante le assicurazioni del poeta che stava meglio ed era più tranquillo, le Tommasini madre e figlia sentirono il bisogno di andare a Firenze a ve- derlo. Si trattennero con esso una settimana, che fu- rono, scrisse egli poi all'Adelaide,' i giorni più lieti da lui passati a Firenze. Volevano condurlo con loro a Bologna, dove forse avrebbero trovato il Giordani; ed egli sarebbe andato, se non glie lo avessero im- pedito la cattiva salute ed il caldo. Quando le Tom- masini partirono, Giacomo diede all'Antonietta una lettera per il Giordani, pregando che glie la conse- gnasse, se lo trovava ancora a Bologna, o glie la man- dasse a Parma, s'era partito. Scrivendo all'amico, il poeta sfogava il suo malumore contro Firenze e i fio- rentini, anzi più specialmente contro le fiorentine, le quali, a dire il vero, non avevano nessuna colpa verso di lui. < Ora che mi manca la tua compagnia,... avrei lasciata Firenze assai volentieri, perché ti confesso che questa cittA, senza la tua presenza mi riesce molto ma- linconica. Questi viottoli, che si chiamano strade, mi affogano; questo sudiciume universale mi ammorba; « Hpl»tolnrio, voi, IT, png. 8()J), 310.

  • Idem, png. 31H. A PISA E A FIIÌENZK. 321

queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe, mi fanno ira; io non veggo altri che Vieusseux e la sua compagnia; e quando questa mi manca, come ac- cade spesso, mi trovo come in un deserto. In fine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massi- mamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. >' La lettera seguita e finisce con una eloquente tirata sulla perfetta inutilità degli studi latti dall'età di Solone in poi per ottenere la perfe- zione degli stati civili e la felicità dei popoli. Se Giacomo non aveva ora a Firenze altra compa- gnia che quella degli amici di Vieusseux, si capisce come non dovesse trovarcisi molto contento; perchè, ove si eccettuino esso il Vieusseux, il Montani, e non saprei chi altri, la maggioranza di quelli amici non era (lo dicemmo già) nelle sue simpatie. L'accusa di superbo disprezzo per ogni bello ed ogni letteratura andava a loro diritta diritta; e, diciamo la verità, non era interamente giusta. Il Capponi, il Tommaseo e gli altri non disprezzavano il bello e la letteratura solamente vedevano questa e quello sotto un aspettò diverso da lui. Il sommo dell'arte stava per lui negli scrittori classici greci e romani, e idoleggiava una letteratura italiana che si sforzasse di riprodurre la perfezione degli antichi; essi volevano una letteratura Italiana che fosse essenzialmente moderna nella forma e nel contenuto, che mirasse a fini di utilità pratica e cu educazione morale; e fra i mezzi atti a conse- guire cotesti fini mettevano, principalissimo, la reli- gione cristiana, ch'egli credeva cagione di molti mali al genere umano. Il dissidio, come si vede, era profondo; ed il Leo- pardi non Ignorava che le idee allora predominanti

  • Epistolario, voi. II, 315.

Chiabini, Leon, ^ 21 322 CAPITOLO XVI. non "erano le sue : fortunatamente però non sapeva quale giudizio facessero degli scritti suoi alcuni di quelli amici, che più gli si mostravano, ed allora gli erano veramente affezionati. Il Colletta, ad esempio, che più di tutti gli altri si adoperò in favor suo fino dal 1827, scriveva nella intimità dell'amicizia à Gino Capponi: < Leggerò i dialoghi del Leopardi, ma sem- brami impossibile che mi piacciano in istampa, se mi dispiacquero in scrittura; >' cioè quando il Giordani li portò a Firenze manoscritti. Il giudizio del Tom- maseo parte lo sappiamo, parte è facile indovinarlo. Fortunatamente il Leopardi ignorava ciò : e non potè sospettarne nemmeno più tardi, perchè quando pre- sentò le sue Operette morali al concorso per il premio della Crusca, il Vieusseux e gli altri lo confortarono a sperare, e il Colletta gli scrisse: < Se gli Accade- mici hanno in pregio il puro, il gentile e '1 bisogno d'Italia di bello scrivere, le opere vostre saran prefe- rite, perchè in qualità di stile voi non avete superiore compagno. >* Tuttavia il Leopardi non potè non avere intuito che gli amici di P'irenze non apprezzavano degnamente quella perfezione dello scrivere alla quale egli mirava con tante fatiche: e ciò gli era a volte cagione di sco- raggiamento e di dispetto. Il 25 febbraio scriveva da Pisa al l'apadopoli: < Studiare e lavorare sono cose che ho dimenticate, e dalle quali divengo alieno ogni giorno più. Con questa razza di giudizio e di critica jh che si trova oggi in Italia, e chi si afi'atica a ^ pensare e a scrivere. Scrivere poi senza affaticarsi l punto e senza pensare, va benissimo, e lo lodo molto; . ma per me non fa, e non ci riesco. >" K poco appresso scriveva al Giordani che, veduta la qualità dei giudiei |; > leopardi $ Collutta, Episodio di otoria letteraria niirnilo <1n AMKRiro I)K Ornkauo Fkiikioni; Napoli, Tipografia dulia Itogia UnivorNilh, 1HH8, pnf^. 0. * Idom, pag. 10.

  • epistolario, voi. II, pag. 278. A PISA E A FIRENZE. 323

del secolo, quasi non gli dava più il cuore di logorarsi in far cose che lo contentassero.^ Diceva così, e intanto componeva, cioè aveva composta allora allora, la can- zone A Silvia. Egli capiva di non essere l'uomo del suo tempo: era piuttosto l'uomo del passato e dell'avvenire; era cioè l'uomo di ogni tempo: gli uomini che sono sola- mente del loro tempo, in generale, sono menti anguste. Ma, benché avesse piena coscienza del proprio va- lore, e a tempo e luogo sapesse farsi valere, era mo- desto, era tollerante; e la benevolenza altrui lo sog- giogava. Così, senza troppo simpatizzare coi letterati di Firenze, e dissentendo in molte cose da loro, ne apprezzava i meriti, e ne amava la compagnia: salvo, quando gli montava la stizza, a sfogarsi contro il su- diciume, i viottoli, e le donne fiorentine; le quali poi si vendicarono, cioè una di esse si vendicò, aggiogan- dolo al suo carro. Era anch' egli un esteta; ma vittima, non trionfatore di donne. • * Quando tornò da Pisa a Firenze, aveva già finita la Crestomazia poetica; ma non la mandò allo Stella fino al r di luglio, cioè dopo perduta la speranza che l'editore venisse in Toscana. Nella prefazione alla Cre- stomazia dei prosatori il compilatore aveva detto che forse avrebbe fatto cogli stessi ordini e nella stessa forma la Crestomazia dei poeti; ma postosi all'opera, vide che la cosa non poteva andare, < perchè il por- gere distribuite per classi le impressioni poetiche, gli parve primieramente impossibile, e poi di pessimo ef- fetto se si fosse potuto fare. >■ Per questa ragione, ' Epistolario, voi. II, pag. 292. - Fiefazione alla Crestomazia dei poeti, nei citati Scritti ìetttf- rari di Giacomo Leopardi, voi. II, pag. 372. 324 CAPITOLO XVI. . in cambio dell' ordine delle materie, seguì quello dei | tempi. Escluse dalla Crestomazia Dante, il Petrarca, * le opere maggiori dell'Ariosto, del Tasso e del Parini ; le tragedie, i drammi, le traduzioni, e le poesie di autori viventi ; e cominciò dagli autori del secolo de- cimoquinto, parendogli che < dei più antichi, fuori di Dante e del Petrarca, quantunque si trovino rime, non si trovi poesia. >' Il 9 agosto lo Stella, accusando ricevuta del mano- scritto della Crestomazia, pregò il Leopardi di man- dargli presto la prefazione, e gli chiese quando spe- rava di terminare V Enciclopedia. Il Leopardi rispose, che alV Enciclopedia mancava ancora ima buona parte di lavoro, e che non avrebbe potuto condurla a fine senza impiegarci tutto l'inverno 2Jrossimo. La verità vera pro- babilmente è questa: che, all' infuori di qualche ma- teriale raccolto nello Zibaldone, non ne aveva fatto niente; e che oramai ne aveva deposto l'idea. Perciò metteva innanzi quel termine lontano. Nelle presenti sue condizioni di salute, le quali era poco sperabile che mutassero in meglio, sentiva di non potersi impegnare in un lavoro assiduo e di qualche en- tità per lo Stella; aveva stabilito di andare a passare l'inverno a Recanati, e non sapeva quanto avrebbe do- vuto trattcnervisi. Onde gli parve indiscreto, non dirò chiedere, ma soltanto supporre, che l'assegno mensile dello Stella potesse seguitare indefinitamente. L'editore ^ dal canto suo, per aft'ezioiiato che fosse al Leopardi e desideroso di aiutarlo, capiva che non ci era molto da contare sull'opera di lui: oltre di ciò stava per met- ^ tersi in altre imprese librarie gravi o dispendiose; cosiceli^ non doveva avere l'intenzione di seguitare l'assegno ancora por molto tempo. Ma Giacomo lo prevenne, aprendogli francamente l'animo suo, e pre- gandolo, con la lettera stessa con cui gli parlava della ' ij...h./u,,.,, voi. II, p«g< 873. h A l'ISA i: A 1 IKLNZi:. ò\>ó Jùiciclopedùi, di continuargli l'assegno per tutto il resto dell'anno, o almeno fino a tutto novembre. « Dopo di che cesseranno, gli diceva, i suoi sborsi men- sili, e le nostro relazioni pecuniarie. >' Lo Stella ri- spose cortesemente che l'assegno avrebbe durato tino

i tutto dicembre, e lo avvisò che la Crestomazia era

([uasi Unita di stampare. Giacomo non potò mandare la prefazione che il 30 settembre, e mandandola scrisse: < Lo stato della mia povera salute è talmente contrario ad ogni bencliò minima applicazione, che, anche ora, e per comporre queste sole due pagine, son dovuto entrare in convulsione e in una specie di febbre. >* Aggiungeva che ai primi di novembre sarebbe partito per Recanati, e pregava che col mensile di ottobre gli fosse pagato anche quello di novembre, onde poter provvedere alle spese del viaggio ; ciò che gli fu su- bito concesso. E con ciò terminarono le relazioni di autore a editore fra il Leopardi e lo Stella; ma non terminarono le loro relazioni amichevoli. La Crestomazia poetica fu pubblicata verso la fine dell'anno; ma parve, ed era, riuscita men bene della Crestomazia di prosa. Il Leopardi stesso, scrivendone al Vieusseux nell'aprile del 1829, diceva: < Io feci tutto quel che potei; ma, o fosse l' incapacità mia, o la qua- lità de' materiali, il lavoro venne malissimo, ed io ne* sono pessimamente sodisfatto. Così ho detto sempre a tutti, e così vi prego che diciate ancor voi a Gior- dani, a Montani, a chiunque ve ne parlasse. >' Nei sette mesi (9 novembre 1827-10 giugno 1828) che il Leopardi stette a Pisa compilò, come abbiamo veduto, la Crestomazia poetica e compose due poesie: nei cinque mesi che restò a Firenze fino alla sua par- tenza per Recanati, che avvenne il 10 novembre 1828, non compose niente altro che le due paginette di pre- ' Epistolario, voi. II, pag. 323. - Idem, pag. 331. ' Idem, pag. 364. 326 CAPITOLO XVI. — A PISA E A FIRENZE. fazione alla Crestomazia poetica. Ma non perciò la mente sua stette oziosa. A Pisa aveva scritto soltanto una doz- zina di pagine à.e[\o Zibaldone: a Firenze ne scrisse 96. Queste 96 pagine sono occupate in gran parte da lun- ghi estratti ed appunti da scritti del Miiller, del Wolf, dello Scliubarth e d'altri, intorno ad Omero e alla que- stione omerica; ed agli estratti ed appunti seguono osservazioni dell'autore; il quale esamina le opinioni altrui, le discute e vi oppone le proprie; tratta que- stioni letterarie, filologiche, estetiche; parla della poe- sia epica, della lirica, della drammatica, estendendo le sue osservazioni alla letteratura latina, all'italiana e alle altre letterature moderne. Probabilmente il Leo- pardi si preparava i materiali per un articolo su Omero richiestogli con molta insistenza dal Vieusseux per V Antologia ; ma le sue condizioni di salute non gli per- misero di scriverlo nò allora, nò più tardi, per quanto il Vieusseux, con molta discretezza, glie lo rammen- tasse. Giacomo 1*8 noveml)re scrisse al padri; che fra due giorni sarebbe partito i)er llecanati, conducendo seco un signore torinese, suo buon amico, che faceva con lui il viaggio delle Marche, principalmente per tener- gli compagnia. Partì difatti al giorno fissato, con un tcm])0 molto cattivo, ciò che fece stare in pena il buon Vieusseux; e dopo undici giorni di viaggio, con una fermata di tre giorni a Perugia, arrivò il 21 a Hecanati.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.