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327 Capitolo XVII. L' ULTIMA DIMORA A UECANATI. 1828-1830. Sommario : Ritorno a Recanati. — Maria Belardìnelli. — Matri- monio di Carlo. — La dimora a Recanati diviene più incre- sciosa che mai al poeta. — Sfoghi con gli amici e preghiere cho gli trovino un impiego che gli permetta d'uscire di Re- canati. — Impossibilità di lavorare, e conseguente tristezza. — Proposta di una cattedra di storia naturale all' Univer- sità di Parma. — Offerte del Colletta. — Corrispondenza fra il Leopardi e il Colletta. — Disegni di opere letterarie. — Scoraggiamenti. — Lettera al Bunsen. — Monaldo non com- prende r infelicità del figliuolo. — Le Ricordanze. — Nerina. — Pericoli della critica erudita. — La quiete dopo la tempe' gta. — // sabato del villagtjio. — Il canto notturno di un po- nitore errante dell'Asia, — Pur d'uscire di Recanati il Leopardi ò disposto di abbracciare qualunque partito. — 11 premio della Crusca. — Risoluzione disperata. — Il Colletta offre al Leopardi il sussidio tiorentino. — Accettazione del Leopardi. 11 signore torinese, che accompagnò Giacomo nel viaggio da Firenze a llecanati, era l'abate Vincenzo Gioberti. Si erano conosciuti a Firenze, in quel- l'anno 1828, al Gabinetto Vieusseux. 11 Gioberti, gio- vine allora di ventisette anni, sentì subito la grandezza dell'ingegno e la bontà dell'animo del Leopardi, e lo ammirò e l'amò. L'atì'etto alle medesime discipline, nonostante l'indirizzo e le tendenze perfettamente opposte, e la sincerità e il candore degli animi strin- sero fra i due un' amicizia, che trovò pascolo e si cementò nelle prime loro conversazioni. Il Giordani nel 1815 si meravigliò, e quasi mostrò di non cre- dere, che il Leopardi avesse rivelato i suoi pensieri 328 CAPITOLO XVII. a un prete appena veduto, mentre non li aveva mai aperti a lui confidente antico de' suoi primi anni, e provato.^ Ma non ci è niente di strano, anzi è natu- ralissimo, che Giacomo disputasse volentieri di filo- sofia con un giovane di opinioni opposte alle sue, mentre non aveva occasione di disputarne col Gior- dani, col quale andava perfettamente d'accordo. Del resto una lunga lettera che il Gioberti scrisse il 2 aprile 1830 da Torino al Leopardi, e trovasi fra le carte napoletane, fa testimonianza di quelle conversa- zioni, delle quali è come un seguito. La presenza del Gioberti, che si trattenne in casa Leopardi un solo giorno, potè per un istante distrarre Giacomo dai tristi pensieri : ma appena si ritrovò solo coi suoi, dovè rinnovarglisi il dolore della morte del fratello Luigi. Egli sentiva vivamente gli afi'etti di famiglia, e la morte delle persone giovani gli aveva fatto sempre una impressione profonda. A Pisa, ri- svegliatesi in lui le memorie della prima giovinezza, gli era rifiorita nell'animo l'immagine di Teresa. Tor- nato a Recanati, non ci trova più il suo Luigi; e sa che è morta anche un'altra giovane, che gli era cara, Maria lielardinelli. La famiglia di questa giovane, famiglia di campa- gnuoli, si era stabilita a Uecanati fino dal 1821, abi- tando successivamente tre case diverse, tutto vicine al palazzo Leopardi. La Maria, nata il P dicem- bro 18("K), ora già una ragazza fatta nel 1821; atten- deva, come quasi tutto le altre popolane, all'arte del tessere ; era amica della cameriera di casa Leopardi ; andava, per attingere acqua, entro il palazzo, e vi andava a scuola da Don Vincenzo Diotallevi. Era alta e ben fatta, bianca di carnagione, di capelli biondi; e la chiamavano la beatella. Giacomo dovè avere oc-
- L«lt«r:i itiniìta ni conto Oiunoppo Riccinrdi noUn Nn/ionalo
di Firon/.o, citata nella nota 2 a png. 110 di quonto volumo. L' ULTIMA DIMORA A KECANATI. ;i2'J casione di vederla fino dal 1821, sia dalle finestre, sia riuando essa andava al jjalazzo. Anche questa Maria, benché venuta più tardi, e non giovanissima, appartiene a quel gruppo di fan- ciulle popolane del quale parlai nella fine del capitolo quinto, che il poeta amò idealmente, e che ispirarono le suo poesie d'amore più gentili e più pure. Quando, informandosi delle novità di Recanati, (ìiacomo seppe, probabilmente da Carlo o dalla Pao- lina, che la povera Belardinelli era morta fra dolori atrocissimi, dopo setto mesi di malattia, sentì cre- scere il cumulo delle memorie dolorose che gli susci- tava la vista del luogo natale. A queste cagioni di malinconia si aggiunse il dis- sidio fra Carlo e i genitori. Mentre il conte e la contessa si davano attorno ])er cercare a Carlo una moglie e una dote, Carlo, i nza il loro permesso, s'era innamorato di un'altra t iigina, Paolina Mazzagalli, che pur troppo non aveva hi dote che i genitori cercavano. Essi perciò si op- posero fieramente a questo matrimonio. Giacomo, dopo i primi colloqui col fratello, com- prese che ogni opposizione era inutile, poiché i due cugini erano innamorati; ma poiché dicevano di non aver nessuna fretta di sposarsi, consigliò per il meglio di non contrastare l'amore. Così non la pensava però la contessa Adelaide, la quale pretendeva d'impe- dire assolutamente qualsiasi corrispondenza fra i due cugini. Dall' altra parte la Mazzagalli madre, che voleva il matrimonio, e lo voleva quanto più presto fosse possibile, si adoperava a ciò coli' aiuto del Vicario e di alcuni parenti. Era una specie di guerra dichiarata, fra i vecchi Leopardi da una parte, e i Mazzagalli dall'altra. I Mazzagalli pensarono a far venire la di- spensa per le nozze da Roma : il Vicario, poiché i cu- gini seguitavano a vedersi senza sposarsi, mandò loro 330 CAPITOLO XVII. l'ammonizione canonica; e mentre Monaldo era lon- tano da casa per affari, e tutti stavano tranquilli, poi- ché Carlo aveva promesso che non avrebhe fatto un passo decisivo durante l'assenza del padre, il 12 marzo avvenne il matrimonio. L'inaspettato avvenimento, che scompigliava tutti i disegni di Monaldo e della contessa Adelaide, portò la costernazione in famiglia. Carlo, abbandonata la casa paterna, andò ad abitare con la sposa e con la madre di lei; e i genitori lo considerarono oramai come un figlio perduto. Egli forse sperava che, in un avvenire non lontano, lo avrebbero ribenedetto, es- sendo quello dei figli che pareva destinato a racco- gliere l'eredità e la rappresentanza della famiglia. E Monaldo, dice un suo compiacente biografo, lo per- donò subito. < Io lo perdono, scrisse difatti a Paolina, col cuore di un padre amoroso e cristiano. > PJ non volendo, soggiunge il biografo, clic il tìglio avesse a vivere di elemosina, lo ammise alla stia mensa, e lo sovvenne di consigli e di ainti.^ Questo fu tutto il perdono. Carlo evidentemente sperava ben altro. Tanto è vero che, mentre le famiglie si erano più tardi ricon- ciliate, (juando i suoi trattarono di dar moglie al fra- tello Pier Francesco, la conciliazione fu subito rotta. '
I fatti accennati poterono contribuire a rendere più incresciosa al nostro poeta la sua nuova dimora in Uecanati ; ma anche senza di essi il natio ljor(/o 8clva(f(jio non gli sarebbe sembrato mai tanto selvag- gio quanto questa volta, perchè v'era tornato senza avcrr* la ivrUv/./.a. di poterne uscire. ' Avoli, AuloHofffafia di Monaldo Liopanli, i>n{{. JJOy.
- Vodi UlUrt di Paolina, pAg. 281. mm l' ultima dimora a RECANATI. 331
Una settimana appena dopo il ritorno, scriveva al Rosini: « Fo conto di aver terminato il corso della mia vita; >' e lo stesso, presso a poco, al Vieusseux e ad altri. Il suo primo pensiero, il suo pensiero d'ogni {giorno, durante i terribili sedici mesi che passò que- sta volta a Recanati, fu di trovar modo di uscirne. Tutta la sua corrispondenza di quei sedici mesi (una (juarantina di lettere, poco più) non ha quasi, si può diro, altro fine. Non poche delle sue lettere erano dirette agli amici perchè gli trovassero un impiego, un itttpieyo letterario onorevole e di non troppa fatica, tale, che si potesse ac- cordare colla sua salute.- Ma quale inipiego letterario si poteva accordare colla salute di un uomo che, co- m'egli diceva, non era in grado nò di letfffere, nò di scri- vere, nò dì pensare i:^^ Si potrebbe supporre ch'egli esa- gerasse la sua impotenza; ma i fatti dimostrano che in quei sedici mesi egli non potè attendere a nessuno dei lavori dai quali avrebbe potuto ritrarre qualche guadagno. Aveva pronto nello Zibaldone il materiale per l'articolo sulla questione omerica; articolo che il Vieusseux aspettava e sollecitava ; ed egli non fu in grado di scriverlo, anzi nemmeno di cominciarlo. Lo stesso Vieusseux gli aveva dato a leggere la tradu- zione inglese della storia romana del Niebuhr per- chè ne pigliasse argomento ad uno scritto per V An- tologia : l'argomento era per lui attraentissimo; sapeva che trattandolo avrebbe fatto cosa gradita, non solo al Vieusseux, ma anche al Niebuhr ; e nei primi tre mesi venne leggendo stentatamente il libro, che gli fece grande impressione, e ne cavò estratti ed appunti; ma questi rimasero nello Zibaldone, senza ch'egli tro- vasse il momento opportuno di metterli a profìtto. E il IG febbraio del 1829, scrivendo al Vieusseux per • Epistolario, voi. II, pag. 340.
- Idem, pag. o4r>. ' Idem, pag. 340. 332 CAPITOLO XVII.
isciisarsi di non aver potuto far nulla per V Antolo- gia, dopo tante promesse, gli domandava se doveva rimandargli il volume del Niebuhr, a proposito del quale diceva : < E un' opera meravigliosa : ed anche sopra di questa io farei qualche cosa ben volentieri, se la mia salute non fosse così contraria ad ogni applicazione. >' L' Enciclopedia delle cognizioni inutili aveva preso tempo a comporla tutto l'inverno 1829-30; ma l'in- verno passò senza ch'egli potesse scriverne una sillaba. Tutto cominciava a fargli credere eh' egli oramai non sarebbe più uscito di Recanati ; e ciò lo rendeva furente. < Quanto a Recanati, scriveva il 31 dicem- bre 1828 all'Adelaide Maestri, vi rispondo ch'io ne partirò, ne scapperò, ne fuggirò tosto eh' io possa ; ma quando potrò ? Questo è quello che non vi saprei dire. Intanto siate certa che la mia intenzione non ò di star qui..., dove morrei di rabbia, di noia e di malinconia, se di questi mali si morisse. > Terminava la lotterà domandando se fosse possibile trovare a Tarma un impiego per lui, quali' impiego che dicemmo, compa- tibile con la sua salute. La Maestri fece leggere la lettera al padre, e que- sti scrisse nel gennaio 182!) al Leopardi proponen- dogli di andare a Parma a vivere con loro, dove egli intanto gli avrebbe procurato un impiego. Una let- tera successiva di Ferdinando Maestri informò il Leo- pardi che l'impiego che si trattava di conferirgli era una cattedra di storia naturale. Giacomo fece subito duo gravissime obiezioni: la diflicoltj\ d'imparare in breve tempo la materia che avrebbe dovuto inse- gnare; nella quale, diceva, < io sono, a dir proprio, un asino; > e la esiguità dello stipendio, quattro luigi al mese, che < al merito njio, dicova, sono tr()])p(), ma ai bisogno sono troppo poco. >* Ciò non ostante
- EpMolarlo, rol. II, png. 866. * Idom, png. 849, 8r>n. l'ultima dimora a kecanatl 333
non rifiutò ; chiese più particolari notizie, aspettando a risolversi. Intanto gli venivano proposte dal Colletta, il quale voleva dimostrargli la sua aniicizia, più che con le liarole, coi fatti. Abbiamo visto che al Colletta non piacevano le Operette morali, ma è certo che il Col- lotta ebbe una grande opinione dell' ingegno e del sapere del Leopardi (perciò forse le Operette gli pa- revano indegne di lui); ed ò certissimo che gli fu sinceramente affezionato. Cominciò anch' egli coli' offerirgli d'andare a con- vivere con lui; ma il Leopardi, pur commosso della offerta, non l'accettò ; e rifiutò anche la proposta di una sottoscrizione pubblica, come quella che aveva fatta il Botta. < Non mi so risolvere, disse, a pub- blicare in quel modo la mia mendicità. 11 Botta ha dovuto farlo per mangiare: io non ho questa neces- sità per ora; e quando l'avessi, dubito se eleggerei prima il limosinare o il morir di fame. >' Il buon Colletta non si sgomentò. Si dovevano stabilire in Firenze alcune cattedre per testamento di un conte Bardi ; una società di brava gente voleva fondare in Livorno un Ateneo. — Possibile che nell'una neir altra città non si potesse ottenere una cattedra per il Leopardi? — Ed egli ne scrisse all'amico, dicendo che naturalmente dava la preferenza a Firenze, e che avrebbe accettato Livorno soltanto in mancanza di Firenze. Dinanzi a tanta buona volontà e a tanta perseve- ranza del Colletta, Giacomo cominciò a sperare; e naturalmente sentì crescere la sua affezione per l'amico. Le loro lettere di questo tempo sono piene di confidenza, di espansione, di affetto.
- Epistolario, voi. II, pag. 366. 334 CAPITOLO XVII.
Il Leopardi aveva sentito dagli amici di Firenze parlare con molta lode della Storia del Colletta ; ma, quasi sempre ammalato, non aveva potuto sentirne leggere nessuna parte; e il Colletta aveva desiderio die lo aiutasse a correggerla per la lingua e lo stile. 11 Leopardi si mostrava dispostissimo a ciò: ed ove egli andasse a Firenze, i due amici si proponevano di star vicini di casa, vedersi spesso e far vita quasi comune. Il Colletta mostrava interessarsi vivamente agli studi del Leopardi. E il Leopardi, poiché non poteva lavorare, si sfogava a fare, com' ei diceva, castelli in aria, e a comunicarli all' amico. Con una lettera del- l' 11 febbraio, che non si trova nell'Epistolario, gli diceva i titoli di alcune opere che aveva in animo di scrivere, due dei quali ci sono conservati dalla ri- sposta del Colletta; e son questi: 1" Parallelo della civiltà degli antichi e di quella dei moderni; 2° Trat- tato delle passioni e dei sentimenti degli uomini.' — Avendo il Collctta fatto qualche osservazione sul primo di questi temi, Giacomo con una successiva lettera del marzo dava qualche spiegazione intorno a tutti e due, e mandava una nuova lista di opere da comporre. < Della civilt{\, scriveva, sono con voi; e se dico che resta ancora molto a ricuperare della civiltà de- gli antichi, non perciò intendo negare, nò anche vol- gere in dubbio, che la moderna non abbia moltissime e bellissime parti che l'antica non ebbe. > < Il trattato della natura degli uomini e delle coso conterrebl)e le questioni deUe materie astratte, delle origini della ragione, dei destini dell' uomo, della fe- licità e simili; ma forse non sarebbe oscuro, nò ripe- terebbe le coso dette da altri, nò mancherebbe di utilità pratica. >* I KpUtoUtflo, voi. Ili, pAg. 288. Idem, voi. II, pag. 866. l' ultima dimora a recanati. 335 A queste spiegazioni seguitava la notizia dei suoi castelli in aria: < Storia di un' anima, Romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche e queste sarebbero delle più ordinarie; ma racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte. > Caratteri morali. > Paradossi. Non quelli di Cicerone, né quei del Zanotti, nò di quel genere: più lontani dall'opinione e non meno veri. > Lezioni, o Corso, o Scienza del senso comune. Cioè del modo più naturale, più ragionevole e più retto di pensare intorno alle materie più comuni della vita, alle cose di politica, di morale e simili. > Parallelo delle cinque lingue, delle quali si com- pone la nostra famiglia di lingue colte, cioè greca, latina, italiana, francese e spagnuola. La valacca non è lingua colta, nondimeno anche di quella si toccherebbe qualche cosa in trascorso; la lingua portoghese sta colla spagnuola. Di questo ho già i materiali quasi tutti ; e fa- rebbero un libro grosso. Resta l'ordinarli, e poi lo stile. > Colloqui dell'io antico e dell'io nuovo; cioè di quello ch'io fui con quello ch'io sono; dell'uomo anteriore all' esperienza della vita e dell' uomo spe- rimentato. > Vita e Bollarlo della felice espettazione di Pie- tro secondo, papa. > A questo elenco di opere soggiunge: < Voi ride- rete di tanta quantità di titoli; e ancor io ne rido, e veggo che due vite non basterebbero a colorire tanti disegni. E questi anche non sono una quinta parte degli altri, eh' io lascio stare per non seccarvi di più, e perchè in quelli non potrei darvi ad inten- dere il mio pensiero senza molte parole. >' » Epistolario, voi. II, pag. 357, 358. 336 CAPITOLO XVII. Il Colletta da una parte e i Tommasini dall'altra facevano sforzi sovrumani per trovare al Leopardi l'impiego ch'egli desiderava: ma intanto passavano i mesi, e le condizioni sue, specialmente dell' animo, andavano di dì in dì peggiorando. 11 19 maggio, non potendone più della sua solitudine, scriveva all'amico Puccinotti, pregandolo di andarlo a trovare. < Non so, gli diceva, se mi conoscerai più: non mi rico- nosco io stesso : non son più io : la mala salute e la tristezza di questo soggiorno orrendo mi hanno finito. >* Mentre egli si struggeva così, Monaldo tanto poco conosceva il figliuolo, che, scrivendo al Bunsen, gli dava notizie di lui piuttosto sodisfacenti; e Giacomo, saputo ciò dal Bunsen stesso, si affrettava a correg- gerle: < Mio padre, il quale ama d'immaginarsi che nella casa paterna io stia meglio che altrove, le ha dato del mio stato un' idea ben diversa dal vero. Non solo i miei occhi, ma tutto il mio fisico, sono in istato peggiore che fosse mai. Non posso né scrivere, né leggere, nò dettare, nò pensare. Questa lettera sinché non l'avrò terminata, sarà la mia sola occupa- zione, e con tutto ciò non potrò finirla se non fra tre quattro giorni. Condannato per mancanza di mezzi a quest'orribile e detestata dimora, o già morto ad ogni godimento e ad ogni speranza, non vivo che per patire e non invoco che il riposo del sepolcro. >' Erano passati quasi dieci mesi; e lo speranze di un impiego accarezzate dui poeta cominciavano a di- leguarsi. Delle cattedre di Firenze e di Livorno nes- suna notizia: quella di l'arnia era gii\ tramontata; cioò il Leopardi Htcsso aveva riconosciuto conveniente di rinunziarvi. Si trattava di una cattedra che c'era «tata una volta, ma allora non c'era più: il Maestri aveva proposto di ristabilirla per darla a Giacomo: ' h:i„^i„i.n,n, voi. II, png. '.wx ' Idoin, png. '170. L' ULTIMA DIMORA A RECANATI. 337 quando questi seppe ciò, scrisse all'Adelaide : < Prego voi tutti, e il nostro Ferdinando in particolare, a non pensarci più.... che insistessi per ottenerla, anzi per farla rimettere in piedi, essendo poi totalmente igno- rante della materia, sarebbe assurdo e ridicolo. >' I Tommasini e i Maestri erano disperati, e imma- ginando le tristi condizioni dell'infelice poeta, insi- stevano perch' egli lasciasse Recanati e andasse al- meno per un po' di tempo a Parma presso di loro. Egli ringraziava, promettendo che in caso di necessità avrebbe accolto l'invito.'
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Il Leopardi era divenuto oramai un oggetto di profonda pietà per tutti quelli che lo conoscevano e ne ammiravano l'ingegno. Soli a non partecipare quel sentimento, perchè non comprendevano la grandezza della sua infelicità, erano i suoi. Monaldo certamente s' ingannava scrivendo al Bunsen notizie sodisfacenti del tìglio ; ma anche que- sti nel correggerle andava un poco di là dal vero. Chi sotìre, tanto più facilmente è portato ad esagerare i suoi mali, quanto più crede che non siano compresi, e quanto più dispera che cessino. Che lo scrivere fosse al poeta, in quelle condizioni, una fatica grave, non si può mettere in dubbio ; ma eh' egli non potesse assolutamente né pensare né scrivere, non è vero. Proprio allora, dal '26 agosto al 12 settembre (la lettera al Bunsen è del 5 settembre) egli compose una delle poesie più lunghe e più perfette. Le Ricor- danze; dal 17 al 20 settembre, La quiete dopo la tem- pesta; il 29 settembre, Il sabato del villaggio. Piuttosto
- Epistolario, voi. II, pag. 370.
- Idem, pag. 3T8.
Chiaki.ni, Leop. 22 338 CAPITOLO xvir. possiamo credere che quei versi, i versi specialmente delle Ricordanze^ non uscissero dal suo cervello senza dolore. L'anno innanzi egli aveva cantato il suo risorgi- mento alle sensazioni della vita: Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto ob})lio? E come la sua infelicità era andata e andava cre- scendo di giorno in giorno spaventosamente, era na- turale che il sentimento di essa si facesse di giorno in giorno più vivo e pungente. In questo ultimo ritorno a Recanati, le cose e i luoghi che nei ritorni precedenti non avevano avuto una voce per lui, ritrovarono l'antico linguaggio e gli suscitarono i dolci e mesti ricordi degli anni primi. Il suo cuore palpitò come non aveva palpitato da un pezzo. Il Risorgimento è come il preludio delle Ricor- danze. Le quali cantano quei ricordi con una dol- cezza accorata ed una varietà di suoni, che vanno dalle flebili note del flauto ai gemiti e ai singulti del violino. Nel preludio e' è il grido dell' uomo clie si sente rinascere agli affetti e alle illusioni, grido di gioia e di dolore al tempo stesso; nel poema e' ò la storia di quelli affetti e di quelle illusioni; e di contro ad esse, la dura ed orribile realtà del presente. Il contrasto delle immagini, dei sentimenti, dei suoni che si succedono o s'intrecciano nello Ricordanze, produce l'off^etto di una dello grandi sinfonie del Beethoven. 11 poeta si affaccia alla finestra della sua camera, e le stello dell' Orsa scintillanti sul giardino gli ram- mentano le fole che fanciullo andò immagimuulo nioii- tre fissava come incantato ((uellc luci; guarda il mare i monti lontani, e gli tornano in mente i pensieri immensi e i dolci sogni che la loro vista spirò a lui L' ULTIMA DIMORA A RECANATI. 339 giovinetto ; arcani mondi, arcana — felicità fìngendo al vìver suo. Sente suonare le ore alla torre del borgo, e ripensa il conforto che quel suono gli arrecava nei suoi terrori notturni, quando fanciullo vegliava nella buia stanza, sospirando il mattino. Le antiche sale, dove, al chiarore delle nevi e sibilando il vento in- torno alle ampie finestre, rimbombarono le festose sue voci infantili; le pitture dipinte sulle mura, ch'egli ammirava fantasticando ; la loggia in fondo al giar- dino, dalla quale contemplava il tramonto; la vasca, suir orlo della quale sedè più volte pensando di ces- sare in essa le angoscie dei suoi fantastici amori; il letto sul quale seduto nelle ore tarde poetava do- lorosamente al fioco lume della lucerna, cantando a sé stesso il canto funerale; tutte queste e le altre cose ch'egli vede o ripensa fanno rivivere nella sua memoria le gioie, le speranze, i dolori del tempo pas- sato. Poi si guarda intorno, e considerando la sua vita presente, e sentendosi dannato a consumarla nel Natio borgo selvaggio, intra una gente Zotica, vii ; cui nomi strani, e spesso Argomento di riso e di trastullo, Son dottrina e saper; • prorompe disperato: Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza Tra lo stuol de' malevoli divengo : Qui di pietà mi spoglio e di virtudi, E sprezzator degli uomini mi rendo. Per la greggia eh' ho appresso : e intanto vola 11 caro tempo giovauil ; più caro Che la vita e l'allor, più che la pura Luce del giorno, e lo spirar : ti perdo Senza un diletto, inutilmente, in questo Soggiorno disumano, intra gli affanni, dell' arida vita unico fiore. 340 CAPITOLO XVII. Non mai lamento suonò nella poesia umana più com- movente di questo. Dopo il lamento, il poeta torna a parlare colle sue illusioni, dalle quali pare non sappia staccarsi; e l'onda dei dolci e dolorosi ricordi gli porta in fine dinanzi una gentile figura di donna: Nerina! e di te forse non odo Questi luoghi parlar? Chi è Nerina? — Nerina è dunque Maria Belardi- nelli? — No, Nerina è la sorella di Silvia, è, come lei, una creazione della mente del poeta. Che in quella creazione sia adombrato qualche particolare della vita della Belardinelli e delle fuggevoli, e forse immagi- narie, relazioni eh' essa potò avere col poeta, ciò non toglie che la figura poetica di lei appartenga, come dissi, a quel gruppo ideale di fanciulle popolane che consolarono di sogni amorosi la prima gioventù del Leopardi. Cercare, come oggi usa, il substrato storico delle figure create dai poeti, collo specioso pretesto di me- glio illuminarle e renderle più interessanti, è per lo meno pericoloso. Il poeta, eh' 6 veramente poeta, se anche nella creazione di un personaggio preso le mosse dal vero, non rappresenta nell'opera poetica quel vero, f ^ ma il fantasma nel quale esso si trasformò passando f< per la sua mente. E nella trasformazione, come ri- j, masero eliminati tutti gli elementi del vero che al poeta parvero eterogenei, così altri se ne aggiunsero che gli parvero omogenei alla formazione del fan- tasma. Non c'ò occhio di critico cosi penetrante ed acuto, che riesca a distinguere nettamente e separare l'uno dall'altro tutti cotesti elementi. Il poeta ('• un sognatore; e nessun.pocta, cantando le donne e l'amore, fu più sognatore del Leopardi, il quale cercava la sua donna fra le idee di Platone, nella luna e nei pianeti del sistema solare o degli altri sistemi di stelle. iStul' ultima dimora a recanati. hi diare nel Leopardi il verista, indugiarsi a vedere se le sue figure ideali combaciano esattamente con le figliuole di un cocchiere e di un contadino, potrà sodi- sfare la curiosità di qualche erudito, ma esteticamente non può avere altro efletto che di ofiuscare le luminose creazioni del poeta.
Il canto Le incordante è in versi sciolti di una mi- rabile perfezione. Le altre due brevi poesie composte nel settembre sono canzoni a strofe libere, come la can- zone A Silvia; salvo che in queste comparisce qualche rima al mezzo. Oramai il Leopardi nelle sue poesie non userà più che questo metro e il verso sciolto. La quiete dopo la tempesta è la descrizione di un piccolo paese di campagna, i cui abitanti, all'improv- viso tornare del sereno, dopo un temporale che li ha spaventati, riprendono le opere loro lieti e sorridenti. Tutta la poesia sta nella evidenza pittoresca e musi- cale della descrizione ; la quale in ventiquattro versi ti mette sotto gli occhi, coi più minuti particolari, il ridestarsi della vita nelle strade e nelle case della città e nelle campagne circostanti, al riapparire del sole. Tu senti il fresco e il profumo della pioggia recente; senti il remore delle finestre che si ria- prono, il brusìo della gente che affaccendata corre di qua e di là, il grido dell' erbaiuolo, il tintinnire dei sonagli del carrettiere ; vedi il fiume che, sgom- bratesi le nebbie, torna a correr chiaro giù per la valle ; indovini la letizia dei cuori di quei poveri pae- sani riavutisi dallo spavento. Alla descrizione seguono le riflessioni del poeta, che, se ne togli la musicalità del verso, non sono poesia, almeno poesia lirica ; ma la musicalità del verso, la novità e l'opportunità dei pensieri, che discendono spontanei dal fatto poetico, 342 CAPITOLO XVII. non ti fanno avvertire il distacco fra la prima parte della poesia e le altre. Il Leopardi dovè più d'una volta essere spetta- tore della scena che descrive nella Quiete dopo la tempesta. Chi è stato a Recanati, gli par di vedere quel falegname che, con in mano il pezzo di legno sul quale stava lavorando, si fa suU' uscio a guardare il cielo ; e quella femminetta che vien fuori a racco- gliere acqua gli pare di conoscerla. Non diversamente architettato, anche il Salato del villaggio comincia con la descrizione di una scena che al poeta dovette essere famigliare. La donzelletta che viene dalla campagna col fascio dell'erba in capo, ed in mano un mazzolino di rose e di viole; la vecchierella che siede sulla scala a filare con le vicine, novellando del suo buon tempo; i fanciulli che gridano e saltano sulla piazzetta; lo zappatore che torna a casa fischiando; quel legnaiuolo che veglia nella bottega chiusa per finire il suo lavoro avanti che trascorra la notte ; tutta questa gente allegra e contenta nel pensiero che do- mani è festa, che domani è il giorno in cui si riposerà e godrà la vita, sono care e antiche conoscenze del poeta. Egli ha notata chi sa quante volte su quello faccie rudi e serene la loro letizia, e forse e' ò stato un tempo in cui se n'ò compiaciuto. Ma ora, dopo scritte le liicor- danzc, è in una disposizione d'animo per la quale an- che il piacere altrui lo richiama a tristi considerazioni. Si direbbe eh' egli invidii albi gente non tormentata clall'assillo del pensiero il godimento di quel po' di fe- licità che la natura ha messo puro nella vita. No, pensa lui; la natura ha creatogli uomini alla infeli- cità.— sciocchi, che vi rallegrato porchò dojìo il tem- porale è tornato il sereno, non vedete die questo che vi sembra piacere, ò solamente la cessazione di un doloro V sciocchi, e non sapete che quella festa che ora noi vostro pensiero ò bella e piacevole, dom.mi quando sarà venuta vi sarà triste e noiosa V — L' Ur/riMA DIMORA A RECANATI. 343 Dovè esser pure un grande infelice l'artista che, dopo aver dipinto quo' due graziosi quadretti fiam- minghi, sentì l'amara voluttil di ofluscarli con le tristi nebbie delle sue riflessioni. Posteriore di pochi giorni alle tre poesie di cui abbiamo parlato ò il Catito notturno di un pastore errante dell'Asia, cominciato il 22 ottobre e finito soltanto il 9 aprile 1830. Il lungo intervallo di tempo trascorso fra il principio e la fine di questa, eh' è una dello più splendide e nella sua semplicità /ardite li- riche del nostro autore, non si spiega che con una o più interruzioni. Negli otto mesi dal settembre 1829 a tutto apri- le 1830 il Leopardi scrisse appena una diecina di let- tere, né tutte da sé ; e in alcune meno brevi impiegò più giorni: oltre queste lettere ed il Canto del pa- store, non scrisse assolutamente niente altro; nem- meno una pagina dello Zibaldone. Ma la poesia, se la scrisse in più tempi, la pensò, credo, tutta d'un fiato ; poiché pare gittata nel verso, come nella forma una statua di bronzo. Che cosa fossero di tristo per il poeta quelli otto mesi di assoluta inazione è ditìicile immaginare. Ed é meraviglioso come in quello stato potesse comporre quel Canto; è meraviglioso come da quella folla di torbidi e foschi pensieri che tenevano oppresso e come atterrato l'animo suo si sprigionasse a un tratto una viva e lucida fiamma di poesia. Nelle altre poesie egli, pure discendendo talora a conclusioni e considerazioni generali, aveva sempre trattato qualche argomento particolare avente atti- nenza più meno stretta col gran problema dell' es- sere. In questo Canto affronta senz' altro tutto intero il problema. 344 CAPITOLO XVII. Gli era accaduto di leggere nella relazione di un viaggiatore dell'Asia che alcuni pastori di quelle na- zioni erranti passano la notte seduti sopra una pietra a guardare la luna e improvvisare parole assai tristi sopra arie non meno tristi. Da questo motivo trasse occasione al Canto. Messosi nei panni del pastore, il poeta parla alla luna un linguaggio semplice e piano, e nella sua in- genuità suggestivo : dentro il poeta e' è il filosofo, che non ha sempre la virtù di tenersi nascosto abba- stanza. Il Canto si compone di sei strofe libere, con qual- che rima al mezzo, terminanti tutte con la rima in ale, che sapientemente prepara la conchiusione. In una breve poesia di Enrico Heine, intitolata Fragcn, un giovane, seduto sulla riva del mare, chiede alle onde la spiegazione dell' antico e tormentoso mistero della vita; e fatta la domanda, sta lì ad aspettare la risposta, che naturalmente non viene. Il pastore del Leopardi comincia domandando quella spiegazione alla luna, e risponde egli stesso alla sua domanda, dicendo che la vita umana è una vicenda continua di dolori e di affanni, la quale non ha altro fine che la morte, cioò il nulla. Questa risposta, che non risolve l'enigma, non può appagare il pastore; il quale seguita con ansia crescente le sue interro- gazioni. Che cosa fanno lo stelle in cielo? Cho fa l'arin infmitft, o quel profondo Infinito seren? cho vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? A questo incalzanti domando il povero pastore ò costretto a risponderò elio egli non sa niente; cioò, sa una cosa sola: Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, L' ultima dimoka a 14ECANATI. 345 Che dell'esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors' altri; a me la vita è male. Qui finisce la quarta strofa, eh' è la strofa cen- trale del Canto, quella in cui si appunta il pensiero del poeta; ed è lunga più del doppio di ciascuna delle prime tre, tutte presso a poco della stessa lunghezza, le quali posero il problema, che la quarta doveva ri- solvere, e non risolve ; perchè la soluzione ò impossi- bile. Le onde risposero col loro eterno mormorio al giovane seduto sulla riva del mare ; la luna risponde al pastore col suo eterno silenzio. Egli allora, guardando la sua greggia, che riposa tranquilla, sente invidia di lei; e, s'ella sapesse par- lare, vorrebbe domandarle: Dimmi : perchè giacendo A beir agio, ozioso, S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? Poi, non sapendo acquetarsi della sua ignoranza, cerca riparo nel dubbio, e dice alla sua greggia, dice alla luna : — Forse, se avessi l'ali da volare su le nubi e noverare ad una ad una le stelle, forse sarei più felice. — Ma un dubbio più grave gli vieta anche que- sta illusione: — Forse m'inganno: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il dì natale. Così la poesia finisce là d'onde era cominciata, che cioè la vita dell' uomo è infelice ; e forse è infe- lice anche la vita di tutti gli altri animali. Le due ultime strofe sono legate insieme dalla rima finale della penultima, che si ripete nel primo verso dell' ultima. 346 CAPITOLO XVII. La sapiente collocazione delle rime, che fermano l'attenzione del lettore nei luoghi dove il pensiero e l'immagine vogliono essere più in vista, lo svolgimento naturale del periodo poetico che segue e seconda senza nessuno sforzo il pensiero, la semplicità del linguag- gio, fanno di questo Canto la lirica più alta e per- fetta di quante fino allora ne aveva scritte il poeta. Pietro Giordani, che qualche diecina di anni fa era ancora di moda chiamare un retore e un parohiio, letto appena il Canto, scriveva al Leopardi : < Coni' ò stupendo quel pastore errante nell'Asia! Sei proprio arrivato all' estremo della grandezza e della, schiet- tezza nello stile. > Non si poteva dir meglio. Il pa- store parla più schiettamente, e però più lucidamente ed efficacemente, di Bruto e di Saffo; e in quella schiettezza sta la superioritil della poesia. E famoso il monologo di Amleto: < Essere, non essere — ....morire, dormire — dormire! forse so- gnare! — > In esso tutto si riduce al mistero dell' ol- tre tomba. — Chi vorrebbe soppertare i mali della vita, dice in sostanza Amleto, se il timore di ciò che avverrà di noi dopo la morte non turbasse la nostra volontà? — Nel Canto del Leopardi il pensiero del pastore spazia per la immensità del creato; egli vor- rebbe sapere non soltanto ciò che avverrà di lui dopo morte, ma il perchè di tutto ciò che esiste nell' uni- verso; e smarrito nella ricerca di questo i)erch(>, e non vedendo nella vita altro che dolore, arriva a questa conclusione, che forse il fine ultimo di tutto lo cose che esistono ò il male. »
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Il 20 ottobre 1820 il Leopardi scrisse una breve lettera al Giordani, con la quale dava a lui e agli altri amici di Firenze le sue nuove, e lo pregava di fare le sue scuse al Vieusseux se non gli rispondeva, L' ULTIMA DIMORA A RECANATI. 347 perchè ogni applicazione détta mente gli era impossi- bile, anche il dettare, anche il discorrerei La lettera fu letta anche dal Colletta, il quale, perduta oramai ogni speranza delle cattedre di Firenze e di Livorno per il Leopardi, stava tentando altre vie per venire in aiuto all' amico, p] gli scrisse una lettera affettuosa, pregandolo di contidarsi con lui e lasciandogli inten- dere che forse avrebbe potuto agevolargli il modo di tornare a Firenze." A questa lettera, che gli portava un raggio di luce, il Leopardi rispose, che l'orrore e la disperazione del suo stato era tale, ch'egli, pur d'uscire di Recanati, avrebbe deposto V antica alterezza, ed abbracciato qualunque partito, accettata qualunque offerta.'* Litanto anche un' altra speranza era venuta meno all' infelice poeta. Egli aveva concorso con le Operette morali al premio quinquennale di scudi mille, che do- veva conferirsi nel 1830 dalla Accademia della Crusca; e sapeva che alcuni degli amici suoi di Firenze avreb- bero sostenuta la sua causa. Egli sospettò per un mo- mento che l'Accademia volesse conferire il premio ai Promessi Sposi del Manzoni ; ma il sospetto fu vano. Invece il premio fu assegnato al Botta, e al Leo- pardi e a molti altri V Accessit. Ebbe notizia di ciò dal Vieusseux, il quale dolendosi del fatto, che giudicava ingiusto, gli diceva : < 11 buon Colletta ed io, dunque, non speriamo per farvi tornare a Firenze che sopra altre combinazioni. Caro amico, se poteste leggere nei nostri cuori, vedreste quanto vivamente siamo occu- pati di voi e del vostro avvenire. >^ Ad ogni giorno che passava, le smanie e la impa- zienza del Leopardi crescevano. Arrivato al 17 di marzo, prese la risoluzione di mettersi in viaggio, con quei pochi denari che aveva in serbo, per cercar salute
- Epistolario, voi. II, pag. 380.
- Idem. voi. Ili, pag. 291. » Idem. voi. II. pag. 381.
- Idem, voi. Ili, pag. 274. 348 CAPITOLO XVII.
morire e a Recanati non tornare mài più. E ne scrisse al Vieusseux, domandandogli se credeva ch'ei potesse a Firenze trovar da campare dando lezioni e tratteni- menti letterarii in casa. < Dico, soggiungeva, lezioni letterarie di qualunque genere ; anche infime ; di lin- gua, di grammatica, e simili. E vorrei che mi rispon- deste subito che potete, perch' io partirò presto, e secondo la vostra risposta determinerò se debbo vol- tarmi a Firenze, o cercare altri barlumi di speranza in altri luoghi. >' Era, come si vede, la risoluzione della disperazione; qualche cosa di somigliante alla fuga dalla casa paterna tentata nel 1819. Mentre la lettera di Giacomo al Vieusseux viag- giava da llecanati a Firenze, una lettera del Colletta al Leopardi, in data 23 marzo, era in viaggio da Fi- renze per Recanati. La lettera diceva: < Sta a voi, amico mio, venire a viver tra noi, provvedere alla vostra salute, compiacere i vostri amici. Mi diceste una volta che 18 francesconi al mese bastavano al vo- stro vivere: ebbene, 18 francesconi al mese voi avrete, per un anno, a cominciare, se vi piace, dal prossimo aprile. Io passerò in vostre mani, con anticipazione da mese a mese, la somma suddetta; ma non avrò altro peso ed uHìcio che di passarla: nulla uscin\ di mia borsa: chi dà, non sa a chi dà; e voi che ricevete, non sapete da quali. Sarà prestito, qualora vi piaccia di rendere le ricevute sommo; e sarà meno di prestito, se la occasione di restituire mancherà: nessuno sa- prebbe a chi chiedere ; voi non sapreste a chi rendere. Nessuna leggo vi ò imposta. > La lettera finiva: < Ri- spondete subito; venite presto: noi vi aspettiamo a braccia aperte. Non fantasticate su le persone, e sui modi; voi sbaglicrcsto facilmente. Credete, parola per parola, a quanto vi ho scritto. >' I /•;„wo//»»'M, Tol. II, pag. 886. ' Il M vi. Ili, pftg. 294, 296. l' ultima dimoka a kkcanati. 349 Il Leopardi rispose subito accettando con animo commosso, e dicendo che sarebbe partito fra pochi giorni. La lettera finiva: < Differisco il ringraziarvi a quando lo potrò fare a viva voce.... Per ora vi dirò solo che la vostra lettera, dopo sedici mesi di notte orribile, dopo un vivere dal quale Iddio scampi i miei maggiori nemici, è stata a me come un raggio di luce, più benedetto che non è il primo barlume del cre- puscolo nelle regioni polari. >' Fu generosa e nobile l'azione degli amici di Fi- renze, rappresentati dal Colletta; né il benefizio po- teva essere fatto con garbo migliore. Ma nella so- stanza questa che ora il Leopardi accettava era né più né meno la sottoscrizione che qualche mese innanzi aveva rifiutata, ripugnandogli di puhbìicare ìa sua mendicità. C'era questa sola differenza, che la pub- blicazione della sua mendicità era ristretta a un pic- colo numero d'ignote persone. Chi avesse potuto in quei disgraziati ultimi otto mesi della dimora del poeta a Recanati penetrare neir animo di lui, avrebbe assistito ad una lotta ter- ribile, che non potè finire senza grande strazio ; la lotta fra la sua disperazione e la sua alterezza; lo strazio di dovere, povero nelV agiatezza dei suoi, ac- cettare l'elemòsina degli amici. • Epistoìat'io, voi. II, pag. 386.