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V.
ELDORADO.
Riccardo Joanna stese la mano, al cui dito mignolo scintillava un grosso brillante e toccò un bottone del campanello elettrico, sulla sua scrivania. Un usciere, in livrea azzurra cupa filettata di bianco, si presentò, camminando delicatamente sul tappeto.
“Il bollettino,” disse Riccardo, senza alzare il capo da certe carte che leggeva.
Dopo un minuto, l’usciere ritornò, portando sopra un piatto di argento un foglio di carta, una lettera e un biglietto da visita. Senza curiosità, Joanna non aprì la lettera, lesse distrattamente il biglietto.
“Dite al signor Cimaglia che aspetti.”
La porta, foderata di velluto bigio, si richiuse discretamente: Joanna meditava sul bollettino del giorno prima. La provincia aveva comperato cinquantaduemila copie del Tempo: gli abbonati erano sedicimila; la vendita in Roma era di trentunmila ottocento ottanta copie. Totale: novantanovemila ottocento ottanta copie del Tempo. Mancavano, per centomila copie, numero rotondo, altre centoventi copie: e da due mesi, la vendita aveva sempre fluttuato, un po’ meno, un po’ più, ma senza scavalcare mai la cifra di centomila.
— Ancora centoventi ostinati che non vogliono il Tempo, — pensò fra sè.
E solo solo, nella grande severità della stanza mobiliata di velluto bigio, tutta incorniciata di legno quercia scolpito, dall’ampio caminetto fiorentino dove una bella vampa consumava le legna, seduto dietro la larga, profonda scrivania che aveva il massiccio e la forma di una fortificazione, egli pensò a questi centoventi ostinati, esseri fantastici, scettici, che non volevano saperne del Tempo. Forse il giornale non era abbastanza bello per loro, forse la corrispondenza telegrafica da Parigi, Londra, Berlino e Vienna, non sembrava loro abbastanza ricca: e quietamente, pesando le parole, egli scrisse quattro telegrammi, esortando i corrispondenti a telegrafare di più, a telegrafare sempre. Stese la mano sopra un altro bottone della tastiera elettrica: un altro usciere si presentò:
“Questi telegrammi all’impiegato, li trasmetta subito.”
Poi, pensò di nuovo: forse quei centoventi sdegnosi non trovavano completa la cronaca, i reporters che aveva, evidentemente non bastavano al lavoro. E un’idea gli balenò, chiamò di nuovo il primo usciere:
“Aspetta sempre il signor Cimaglia?”
“Sempre.”
“Fatelo entrare.”
Il signor Cimaglia entrò, con un’aria fra rispettosa e disinvolta: era un giovanotto biondo, con gli occhi un po’ stanchi, di fisonomia simpatica, vestito con grande cura, correttamente; certo egli si era preparato a quel colloquio, come una fanciulla che deve incontrarsi con un presunto fidanzato. E tutto fece crescere il suo rispetto: l’ampiezza del caminetto, la mollezza del tappeto, la vasta mole della scrivania e l’accoglienza gentilmente fredda di quel signore in soprabito e in goletto chiuso, alla militare.
“Le hanno già parlato di me?” mormorò il signor Cimaglia, già un po’ confuso, sentendo che doveva cominciare lui.
“Sì, credo,” disse lento lento Joanna.
“Il signor deputato Galletti è stato tanto buono da scrivere delle cose molto lusinghiere per me....” fece Cimaglia, con un po’ di fatuità.
“Non ho letto la lettera,” disse freddamente il direttore del Tempo, arrestando l’espansione di Cimaglia.
Stese la mano, prese la lettera e l’aprì. Il candidato Cimaglia profittò di quel momento per studiare il volto di quel giornalista onnipotente: era un volto che doveva essere stato bello, ma sciupato, invecchiato; le rughe si diramavano dall’angolo dell’occhio, da quello delle labbra, deturpavano una fronte che doveva essere stata bellissima; poi, come una glaciale immobilità aveva colpito quei tratti, arrestandone la convulsione, e gli occhi erano smorti, spenti, tutta la faccia aveva la tinta terrea della lava raffreddata.
“Anche Galletti la raccomanda caldamente,” disse Joanna, piegando metodicamente la lettera. “Lei vorrebbe entrare nella redazione del Tempo?”
“Avrei questo desiderio,” disse con una certa modestia baldanzosa il Cimaglia.
“E che titoli ha?”
“Io mi sono laureato in lettere e filosofia, ho il diploma, ma la vita dell’insegnante non mi va, non sono nato per fare il pedagogo, voglio lanciarmi nel giornalismo, è l’unico mezzo per riescire....”
“Ha scritto già nei giornali?”
“Sissignore, ho scritto quando ero ancora all’Università degli articoli di erudizione in varie importanti riviste....”
“Questo a me non serve,” disse Joanna, guardando sempre fiso il suo interlocutore, che aveva preso un certo tono di confidenza, l’abbandono dei giovani che credono all’amicizia del primo venuto.
“Capisco,” fece Cimaglia, inchinandosi, “la erudizione è una gran seccatura, ma non è male che un redattore sia istruito. Ho scritto delle novelle in vari giornali letterari della domenica, che ella certamente segue....” e interrogò Joanna con lo sguardo.
“Non leggo mai giornali letterari,” rispose glacialmente il direttore del Tempo.
“Oh già, naturalmente, fa benissimo,” soggiunse subito Cimaglia, con la premura di chi vuole ingraziarsi l’interlocutore, “sono così noiosi! Quelle mie novelle, raccolte in volume, hanno, senza vantarmi, avuto un bel successo.”
“Ah!” fece soltanto Riccardo, come disinteressato.
“Ho anche pubblicato un volume di versi, odi barbare e sonetti, Autumnalia: lo conoscerà, forse....”
“No.”
“.... Siccome anch’ella è stato poeta....”
“Oh pochissimo!”
“Ma sì, ma sì, signor Joanna, e poeta di vaglia,” insistè l’altro.
“Le assicuro di no, signore,” disse duramente Joanna.
Il candidato tacque, scorato. Joanna pensava:
“Lei conosce molta gente, signor Cimaglia?” chiese poi.
“Ben poca, sa, mi tengo da parte....”
“Il prefetto, il questore, li conosce?”
“Nossignore; forse loro, probabilmente, conosceranno me.”
“Ha pratica dei ministeri?”
“Per nulla, i travetti mi sono odiosi, uno scrittore come me, capirà....”
“Senta, signor Cimaglia, io non ho bisogno nè di erudizione, nè di novelle, nè di versi. Mi occorre un reporter, un nuovo e buon reporter, che vada, venga, si ficchi dappertutto, sappia tutto, precisamente.”
“E questo reporter che cosa scrive?” domandò Cimaglia, come inebetito.
“Niente. Scrive il cronista, sulle notizie del reporter.”
“Credo.... credo di non poter fare tale mestiere,” e accentuò la parola con un certo disprezzo.
“Lo credo anche io,” soggiunse Riccardo, con una ironia profonda.
“Scusi tanto; buon giorno, signore.”
“Buon giorno.”
Lo scrittore se ne andò, mettendosi sotto l’ascella un manoscritto, che Riccardo non gli aveva neppur dato il tempo di offrirgli. Joanna si alzò dal suo posto, andò a riscaldarsi alla fiamma del caminetto, piegò un po’ la testa, dalle tempia già rade, dai capelli brizzolati: e crucciosamente il pensiero di non aver ancora la cifra di centomila, segnata sulla vendita del Tempo, lo riassalse. Da due mesi aveva fatto preparare una grande leggenda a gas, così fatta:
IL TEMPO
Centomila copie
e voleva metterla davanti al terrazzo, una bella sera, orgogliosamente. Ma non poteva farlo ancora, malgrado il suo desiderio: malgrado il suo desiderio e le molte transazioni che avevano domato e vinto il suo spirito, non voleva mentire. Raggiunte le centomila, non una di meno, avrebbe fatto divampare la superba leggenda, che doveva contristare i suoi piccoli rivali ed empire di meraviglia il pubblico. E l’opera sua, così paziente, così lunga, così forte, gli sembrava meschina, incompleta, poichè ancora centoventi increduli si stringevano nelle spalle, udendo gridare il Tempo.
— Se dessi tre romanzi, invece di due? — pensava.
— Bussarono discretamente alla porta; era Colombani, il segretario della direzione, un impiegato, non un giornalista, di cui il doppio incarico era di scrivere talvolta qualche lettera ufficiale per conto di Joanna, ma quotidianamente doveva leggere tutti i giornali italiani e metter da parte tutti quelli che dicevano bene o male del Tempo. Era del resto un impiegato ignorante, zelante, molto preciso, che quietamente segnava di rosso gli articoli che parlavano male del Tempo, e di azzurro quelli che ne parlavan bene, portando ogni giorno, con un sorriso d’impiegato soddisfatto, questo fascio di giornali a Riccardo Joanna:
“Molti rossi, oggi, Colombani?”
“Abbastanza, abbastanza, da qualche tempo. Il Corriere di Piacenza ha tre colonne.”
“Frati ha buon tempo,” disse ridendo Joanna.
“Se la piglia con lei personalmente,” soggiunse l’altro, con un risolino di compiacenza, da stupido.
“Al solito,” e si strinse nelle spalle.
“Vi è nulla da scrivere, signor direttore?”
“Nulla, andate pure, Colombani.”
Il segretario uscì. Malgrado l’acre desiderio che aveva di leggere il Corriere di Piacenza, anzi per vincersi, Joanna lesse quattro o cinque giornali, segnati di azzurro, una frase, una linea, una parola in lode del Tempo; siccome la vendita cresceva visibilmente, e il Tempo diventava più forte e più orgoglioso, le lodi degli altri giornali diventavano più parche, più brevi, più asciutte: e la gran maggioranza della stampa italiana, irritata dalla grande tiratura del Tempo, confrontandola con la propria meschina tiratura, serbava rancore profondo al giornale e attaccava copertamente, con allusioni maligne, o assaltava a viso aperto, con accuse violente e strampalate. Riccardo Joanna leggeva tutto, dalla prima parola sino all’ultima, talvolta sorridente, talvolta pensoso, non andando, apparentemente, mai in collera, abituato oramai all’ingiuria quotidiana, sapendone la causa palese e quella segreta. Anzi, spesso, tutto questo livore accumulato contro lui, allo scoppio rumoroso di tanti odii, lo rendeva orgoglioso, sentendo la forza che dà l’inimico: e piegava il capo, sorridendo, come per lasciar passare l’insulto. Oh nulla, più nulla restava del focoso animo meridionale, trabalzante a ogni più piccola frase che rivelasse malanimo, nello scrittore! Del giornalista che si era battuto due volte, per certi suoi articoli politici, nel Baiardo, del cronista mondano che quand’era al giornale Quasimodo si era battuto alla pistola, con un coraggio stoico, del direttore del giornale L’Uomo che ride che si era battuto alla spada, con un fortissimo avversario, non rimaneva più nulla: e gli eterni ghiacci dell’indifferenza, dello scetticismo, erano scesi in quell’anima. E non rispondeva mai: e i giornali avversari tornavano alla carica, furiosamente, resi feroci dall’aperto disprezzo del Tempo; sempre silenzioso, il Tempo continuava la sua strada, non facendo polemiche, sentendo di aver sempre ragione di fronte al proprio pubblico, conoscendo tutta la forza del disprezzo muto. In mancanza di risposta, la discussione cadeva, i giornali tacevano, rodendo la propria collera: salvo a ricominciare più tardi, sopra un altro tema, più veementi, più feroci. Qualcuno, talvolta, inconsciamente, imbroccava giusta l’ingiuria e la freccia andava a colpire il cuore di Riccardo Joanna: tutto quello che riguardava il suo passato di scrittore, prima del Tempo, nei tre giornali dove aveva scritto, conservatore, radicale, trasformista, lo faceva trasalire, come per una ferita che frizzasse: ma erano lotte interne, ultimi tumulti, che niuno conosceva e che Joanna vinceva, solitariamente, nella muta solennità della sua stanza direttoriale, passeggiando in su e in giù, fremendo di collera per un’ora, ma calmandosi a mano a mano, facendo risonare sempre, sempre più alta, la voce del suo interesse. La vendita, la vendita, era la grande ragione del suo silenzio, nella lotta fra un piccolo giornale e uno grande, chi ci perde, è sempre il grande. Il Tempo si doveva vendere, molto, sempre più: e il direttore vinceva la sua indegnazione, uscendone pallido, disfatto, ma fiero, come Giacobbe dopo la lotta coll’angelo.
Ma quello che trovava sempre la via del cuore di Riccardo Joanna, era Giulio Frati, il giornalista valoroso ma violento e incoerente, che era rimasto sempre in uno stato di oscura mediocrità vegetando nei giornali di provincia, errando da Cagliari a Perugia, da Ancona a Piacenza, sempre laborioso, sempre collerico, sempre sconclusionato, guadagnando stentatamente e senza gloria il suo pane. Costui aveva fondato, molti anni prima, a Roma, insieme a Joanna, L’Uomo che ride, che era vissuto tre mesi; Frati e Joanna erano partiti quasi insieme, Frati era rimasto per la via, Joanna era diventato potente e temuto. Il giornalista di provincia, iroso per la propria mediocrità, furioso contro il successo del Tempo, se ne vendicava, insultando quasi quotidianamente Joanna. E come Frati sapea molti segreti della vita di Joanna e costui molte debolezze e molti errori aveva nel suo passato, così gli articoli del Corriere di Piacenza erano carichi di un fiele profondo che Riccardo assorbiva, ogni mattina, impallidendo, tutto solo nella maestà della sua grande stanza.
Era Frati, che aveva rinfacciato a Riccardo Joanna l’avventura dell'Uomo che ride, un giornale che aveva mangiato sessantamila lire, prendendone a chi duemila, a chi duecento, a chi dieci: allora, il giornalista fatale, il poeta, aveva detto di voler morire lui, pur di salvare il suo giornale, e all’ultimo momento, vigliaccamente, non aveva avuto coraggio di ammazzarsi, aveva lasciato morire il giornale, non aveva pagato nessuno, nè i redattori che avevano lavorato gratis per lui, impegnando l’orologio, quelli che lo avevano, per far vivere un altro giorno L’Uomo che ride, nè il gerente che doveva avere dodici lire. Ogni tanto, ferocemente, Giulio Frati rievocava il fantasma dell’Uomo che ride, con la sua tragedia comica, con quel miscuglio di straziante e di buffo che porta con sè la morte di un giornale: e Riccardo Joanna ne trasaliva, leggendo quella prosa, verde di bile, ripensando a quel tempo della sua vita. Era Frati che rinfacciava a Riccardo Joanna la fondazione del Tempo, fatta coi quattrini di cento azionisti, di ogni classe, di ogni qualità, di ogni opinione, e di costoro, a mano a mano, aveva difese tutte le idee, tutte le opinioni, tutti i progetti, talchè il Tempo era chiamato il giornale di tutti i colori, il giornale Arlecchino: era Frati che rinfacciava a Joanna tutte le debolezze, tutte le transazioni, tutte le piccole vigliaccherie. L’ex-poeta, diventato speculatore, è sempre eguale a sè stesso: così cominciavano sempre gli articoli di Frati e parea che il Corriere di Piacenza fosse fatto soltanto per ingiuriare il Tempo e Riccardo Joanna; e il giornalista di provincia, sconclusionato ed esagerato, passava il segno e riesciva inefficace, ma la guerra continuava. Dalla sua misera stanza, dove a stento guadagnava le dieci lire quotidiane per vivere, dal piccolo giornale che tirava duemila copie, il mediocre giornalista aveva il potere di turbare il giornalista forte, potente, creatore e animatore di un grande organismo. Invano Riccardo Joanna cercava di corazzarsi nella indifferenza: gli antichi spiriti bollenti si ribellavano. Più volte aveva ruminato una risposta fulminante a Giulio Frati: anzi una volta l’aveva anche scritta, ma sarebbe stato un far conoscere al mezzo milione di lettori del Tempo che uno scrittorello qualunque aveva osato d’insultarlo, sarebbe stato far una réclame a quel giornaletto provinciale. Il Tempo, forse, ne avrebbe sofferto: la salute del giornale, anzi tutto. E reprimeva la voglia che aveva di battersi contro Frati, contro l’antico amico, contro il presente nemico: rinunziava, fremendo, all’idea di trovarsi in faccia, pronti ambedue alla vendetta, sciabola contro sciabola, senza dar quartiere, senza usar pietà. Rinunziava, per la vendita del Tempo.
Per consolarsi della quotidiana dose d’ingiurie di Frati, quel giorno, rilesse il bollettino; ma esso, implacabilmente, portava la cifra di novantanovemila ottocento ottanta.
— Il giornale non è ancora abbastanza bello, — pensò fra sè, di nuovo.
E prese il Tempo del giorno prima per leggerlo, lo scorse da cima a fondo. Due romanzi, tradotti, uno dal francese, uno dal russo, con tre titoli per ciascuno; tre colonne di telegrammi in prima pagina, altre quattro, tutte le quattro della terza pagina; una cronaca amplissima, romana e italiana; e delle notizie, delle notizie di tutto, sempre delle notizie, senza commenti, redatte alla meglio, pur di metterne molte, da tutti i paesi, di agricoltura, di borsa, di commercio, di politica, di suicidi, di deviamenti di treni. Nessun articolo: nessuna opinione politica enunciata, difesa o attaccata. Nessuna traccia di arte, di letteratura, di scienza: nulla.
— È abbastanza brutto, per tirare centomila copie, — egli pensò, — ma si può farlo più brutto ancora. —
E uscì dalla sua stanza, per andare a colazione. Una carrozza chiusa, di rimessa, ma abbastanza elegante, aspettava tutto il giorno innanzi alla porta dell’ufficio il direttore. Egli si fece condurre a casa, in Piazza di Spagna, un grande appartamento mobiliato, al primo piano, di quelli che si affittano pei quattro mesi d’inverno a famiglie d’Inglesi ammalate o lunatiche, che vengono a guarirsi o a fare economia sul continente: appartamento bello, vasto, mobiliato con lusso, ma senza nessun gusto, pieno di broccati, ma incomodo, e in tutto qualche cosa di vago che rivelava lo stato provvisorio, la residenza passeggiera, l’attendamento di un giorno. Ivi, Riccardo Joanna viveva solo, con una cameriera e un servitore; gente che non gli era affezionata, che egli non amava, che vedeva solo due o tre volte al giorno, per cinque minuti. Egli non aveva nè figliuoli, nè moglie, nè fratelli o sorelle: e aveva conservata l’abitudine di pranzare dal trattore, non sopportando la solitudine, all’ora del pranzo, non sapendosi vincere. Soltanto, quando, come in quel giorno, egli invitava un amico a colazione, faceva colazione a casa, un cuoco gli mandava tutto, pietanze, vino, biancheria, cristalli, argenteria, anche l’obbligatorio mazzo di fiori. Dopo un’ora, tutto scompariva, in un paio di canestre che due facchini portavano via: la casa restava solitaria, priva di vita, come abbandonata.
“Bravo, eccovi puntuale,” disse Joanna andando incontro al deputato Bolognetti, un uomo sulla cinquantina, dal viso pallido e floscio, dagli occhi chiari e dalle mani sempre fredde.
E taciturnamente, seduti sulle poltrone di damasco rosso del salone, fumarono i loro sigari di avana. Ognuno studiava l’altro, senza volerlo dimostrare.
“Ebbene, che sarà del ministero?” chiese Joanna, scotendo la cenere del suo sigaro.
“Casca,” mormorò Bolognetti, con la sua voce stanca, semispenta.
“Ma che!”
“Casca, vi dico: fareste bene ad abbandonarlo.”
“Io non sono con nessuno,” rispose vivamente Joanna.
“Ma lo difendete: le sue idee sono le vostre.”
“Cioè, cioè: le mie idee sono le sue. Ma in realtà, Bolognetti, non ci burliamo; nè io, nè voi, nè il ministero, nè i vostri amici, nessuno di noi ha un’idea. Non ci sono più idee.”
“È vero: ma vi sono interessi.”
“Parlate al singolare. Vi è un interesse solo, il proprio.”
“Naturalmente.”
Tacquero: la colazione era pronta, passarono nella saletta da pranzo, un po’ fredda, un po’ malinconica, col caminetto spento, il servitore avendo trascurato di accendervi il fuoco: e vi si respirava, come dappertutto, la mestizia degli ambienti morti. Ma nè Joanna, nè il deputato Bolognetti pensavano a tali delicate sfumature di sentimento: li teneva un desiderio vivo di farsela a vicenda, in quella grande battaglia che avevano impegnata.
“Perchè dicevate che il ministero cascava?” chiese, di nuovo, Joanna, mangiando le ostriche, col pane e burro.
“Vi è una diserzione, ogni giorno: anche ieri, Galluppi con due o tre amici suoi, lo ha abbandonato. Il centro sinistro è tutto nostro. Sentite, Joanna, il momento è grave....” fece Bolognetti, con un falso abbandono.
“Vi pare?”
“Grave assai. Vendeteci il vostro Tempo, non aspettate che cada il ministero, per subire uno scacco anche voi, con esso: il giornale se ne potrebbe risentire. Vendetelo a noi, noi lo faremo apertamente di opposizione.”
“Io non cerco di meglio che vendere il Tempo. Ditemi quello che volete darne,” e si tagliò un pezzo di costoletta di vitello, immergendola nella salsa piccante.
“Fate il vostro prezzo.”
“No, no, dite voi.”
“Anzi tutto, qual è la posizione vera del Tempo?”
“Centomila copie,” disse, decisamente, Joanna.
“Non ancora, Joanna.”
“Manca pochissimo, cento copie, è lo stesso, domani saremo a centomila,” mormorò lui, arrossendo.
“E rende?”
“Ottantamila lire, nette.”
“Non precisamente, Joanna.”
“Poco più, poco meno.”
“E quanto lo apprezzate?”
“Due milioni, naturalmente.”
“Quando ve li daranno,” disse, con un risolino d’ironia, il Bolognetti.
“Voi me li darete, se volete il Tempo.”
“Il Tempo ha molti debiti, caro direttore: io potrei enumerarveli, cifra per cifra.”
“E che ve ne importa?”
“Voi avete bisogno di quattrini per pagarli, è evidente: perciò volete due milioni.”
“V’ingannate: perchè tenendomi il giornale, posso non pagare. Io ho tutto da perdere, vendendo.”
Il Bolognetti tacque, quasi vinto, per un momento.
“E se il Tempo nelle nostre mani discende?”
“È probabile,” fece Joanna, sorridendo, “e se nelle mie mani, sale ancora?”
“No, perchè il ministero cadrà e voi lo sostenete.”
“Sono buon corvo, io, Bolognetti, e sento il morto: io non mi faccio seppellire con nessuno.”
“Voi non avete influenza politica, Joanna, col vostro giornale.”
“È vero: ma la influenza politica è buona per le ambizioni personali, nuoce alla diffusione del giornale.”
“Voi non avete ambizioni personali?”
“No,” disse l’ex-poeta, l’ex-novelliere.
“Nessuna?”
“Nessuna. Io voglio che si vendano molte copie del Tempo: niente altro.”
“Voi volete due milioni: ma il Tempo è un giornale brutale, fatto senz’arte....”
“L’arte non serve a nulla, caro deputato, salvo a contristare la vita degli artisti.”
“Il Tempo avrebbe bisogno di molte modificazioni, noi ci dovremmo spendere altri quattrini. Voi rimarreste come direttore, come articolista?”
“Resta a vedersi.”
E siccome avevano finito di mangiare, passarono nello studio di Joanna, mobiliato di reps verde, con una grande scrivania di acero.
“E che proposte voi mi fareste, Bolognetti?”
“Mah!... io ho poteri fino a un milione e duecentomila lire.”
“Sapete bene che non ne faremo niente.”
“È probabile: ma quello che vi offro, è un bel denaro, confessatelo.”
“Anche il Tempo è un buon giornale.”
“Per un giornalista come voi, che ha cominciato dal nulla....”
“Vi fermo, Bolognetti: io non amo parlare del passato. Credevate mai diventare deputato, quando eravate commesso nella banca Halphen, a Brindisi? Non credo.”
“La politica è una cosa diversa dal giornalismo.”
“Non è vero: sono due mestieri di avventura. Riesce chi riesce, fatalmente.”
“Ecco il progetto nostro, Joanna, scrivetelo, per studiarlo.”
Sulla bella scrivania, dal calamaio di bronzo, Joanna cercò invano un foglio di carta: si decise a staccare un foglietto dal suo taccuino. Ma nel calamaio mancava assolutamente l’inchiostro.
“Non lavorate mai in casa?” chiese Bolognesi.
“No, mai.”
“Capisco: state meglio all’ufficio.”
“Io non scrivo neppure all’ufficio.”
“Non scrivete?!”
“No.”
“Vi riposate?”
“Sono quattro anni che non scrivo.”
“E perchè?”’
“Perchè è inutile,” disse quietamente Joanna. E scrisse col lapis, sul foglietto del taccuino, il progetto della vendita, la forma del pagamento, le firme, tutti i capitoli del contratto.
“Non ne faremo niente,” ripeteva ancora Joanna.
“Pensateci, pensateci, vendeteci il Tempo.”
E con la precisione dell’uomo di affari che non perde un minuto del suo tempo, Bolognetti cercò il cappello per andarsene. Ma dopo aver salutato, un’idea lo colpì: tornò indietro.
“Voi sapete qualche cosa, Joanna, se tenete tanto al vostro giornale. Il ministero ha preparata qualche altra burletta, per avere la maggioranza?”
“Non so nulla.”
“Ditelo, ve ne prego.”
“Siete un avversario, non posso dirvi nulla,” e rideva, rideva.
“Siate leale via, ditemi che vi è.”
“Adesso la facciamo noi la burletta, Bolognesi.”
“Addio, amico.”
“Addio, nemico.”
Joanna restò un po’ preoccupato; malgrado il suo disinvolto cinismo, era grande il suo desiderio di vendere il Tempo. Il suo giornale gli dava, in grande, i fastidi dei piccoli giornali e le stanchezze da qualche tempo lo assalivano, più lunghe, più invincibili. Molti e di cifre rispettabilmente rotonde erano i debiti del Tempo, e un impiegato di fiducia, un ragioniere, li amministrava, pagando gli interessi, rinnovando le cambiali, diminuendone la cifra, ma di poco, sicchè gl’interessi mangiavano la metà dei guadagni del Tempo. E siccome i mesi passavano, ogni tanto, malgrado la crescente prosperità del giornale, un presentimento di male gli veniva, temeva che la vendita diminuisse a un tratto, o lentamente, per una qualche causa misteriosa o palese: ed esausto, avendo dietro di sè venti anni di giornalismo corrodente, dove s’era consumato tutto il suo vigore, temeva, temeva la mala fortuna. Un grande desiderio di pace, dopo tanta lotta, si manifestava attraverso l’ambizione del giornalista. Venduto il Tempo, pagati i debiti, gli restava abbastanza, da vivere signorilmente, come un borghese filosofo, spettatore della vita. Indeciso, dominato da venti anni di abitudine fortissima, dominato da quella seduzione che è il potere e nell’istesso tempo voglioso di abdicare, uscì di casa fumando, senza scambiare neppure una parola col servitore e si fece condurre al Teatro Nazionale, alla Pilotta.
Ivi, nella penombra fioca del palcoscenico, come in fondo a un pozzo, alcune ombre si agitavano, provando una commedia nuova: e le facce erano scialbe e stanche, i vestiti neri di un nero smorto, parevano lugubri, le voci sembravano cavernose e quel muoversi strano di quelle persone, entrando nell’ombra, mettendosi nel raggio di luce che veniva dall’alto, aveva qualche cosa di spettrale, una vita di ombre nei recessi oscuri della terra. Riccardo, abituato da anni a quell’ambiente, avendo vissuto su tutti i palcoscenici e conosciuto tutti i comici, si appoggiò a una quinta, senza interrompere, seguendo il movimento della commedia. Ma gli occhi vivissimi della prima donna lo avevano scoperto e scintillavano nella penombra, guardandolo: e recitando, distrattamente, si voltava sempre verso lui, quasi parlandogli. A un tratto un tumulto di passi e di voci sorse, l’atto era finito, tutti passeggiavano, battevano i piedi per riscaldarseli, chiacchieravano forte, dei loro guai, dei loro interessi, delle loro infermità.
“Come è noiosa questa commedia!” mormorò dolcemente l’attrice a Riccardo.
“Tutte le commedie sono noiose,” disse lui, distratto.
“Non sarebbe meglio andare a passeggiare per la campagna, non ci verreste voi?”
“O Serafina, a quest’ora l’idillio? Fa un freddo cane, fuori.”
“Io vi rapirei,” disse ella, ridendo. “Avete visto che mi scrive quella Gazzetta Nazionale?”
“No: delle lodi?”
“Ma che! delle insolenze, un orrore! E dire che ho sempre accolto bene quell’asino presuntuoso del cronista teatrale.”
“Dovevate accoglierlo male.”
“Ah! se si potesse....” mormorò melanconicamente la prima attrice, rivelando la sua segreta miseria.
“Vi difenderemo, non dubitate, Serafina.”
“Ecco, voi siete un buon amico, ci conosciamo da gran tempo, mi siete sempre stato devoto....”
“È inutile, cara, vi difenderò senza queste dichiarazioni.”
“Voleva dirvi....” soggiunse ella, con un certo stento, “di difendermi, sì, ma senza difendermi troppo....”
“E perchè?” chiese egli, con un sorriso, volendo forse dire tutto.
“Ecco, il Tempo è un giornale troppo forte, per non avere molte inimicizie, nella stampa: se mi proteggete troppo apertamente, gli altri mi attaccheranno ancora,” disse ella, con un innocente egoismo.
“Non temete, figliuola mia,” fece Riccardo, freddamente, “non guasteremo i vostri affari.”
“Siete in collera meco?” chiese umilmente la prima attrice.
“Non sono mai in collera con nessuno, io.”
“Dipende tanto dalla stampa la nostra sorte,” ella disse, come fra sè.
Egli aveva voltate le spalle, sorridendo nel buio: e attraversò il palcoscenico per andare a salutare il capocomico. Ma l’ingenua, una simpatica creatura bruna, lo fermò, tutta vezzi, tutta moine:
“Già, fate sempre le viste di non vedermi, voi, signor Joanna, non mi potete soffrire.”
“Vi fuggo, mia cara, siete troppo pericolosa....”
“Mi burlate ora: voi avete le vostre simpatie altrove, si sa, noi non possiamo pretendere nulla.”
“È la vostra beneficiata, sabato o lunedì, mi pare?”
“Sì: come lo sapete?”
“Me lo immaginavo.”
“E mi farete un bell’annunzio sul Tempo?”
“Non posso, cara.”
“E perchè?”
“Il Tempo non è più mio.”
“Sul serio?” fece lei, arretrandosi, subitamente raffreddata.
“Sul serio: l’ho venduto.”
“A chi? a chi?”
“Non posso dirvelo. Addio carina.”
“Addio,” disse lei, gelida, pensosa, senza dargli la mano.
Riccardo andò via, i suoi dubbi tormentosi erano cresciuti, un turbine di cifre gli si affollava nella mente, la tiratura del Tempo, i debiti del giornale, il milione e duecentomila lire che gli offrivano. Nella strada incontrò un deputato della maggioranza:
“È vero che ella vende il Tempo?”
“Sì,” disse lui decisamente.
“Per molto?”
“Un colpo di fortuna.”
“Mi congratulo tanto.”
“Le pare che abbia fatto bene?”
“Non era il momento, forse.... ma la fortuna è bene afferrarla subito.”
Si lasciarono: Riccardo andava, perduto in riflessioni, con le mani in tasca, il cappello abbassato sugli occhi. Non vedeva ancora il piano da seguirsi, non vedeva quale era la sua strada, come l’aveva trovata dieci anni prima. Si trovava in un momento di stanchezza morale, in cui la potenza dell’organismo giornalistico che egli aveva creato, lo teneva sempre, con tutte le sue seduzioni, e una fiacchezza spirituale, una voglia melanconica di finirla, combatteva dall’altra parte, con tutte le tentazioni della pace. Un crocchio di persone, sue conoscenti, era fermo presso il liquorista, a Piazza Venezia:
“Joanna, Joanna,” chiamarono due o tre, vivamente.
“È vero che vendete il Tempo?”
“Volevano comprarlo,” disse lui, orgogliosamente, “ma non l’ho voluto dare, per due milioni.”
“E quanto ne volete?” domandò qualcuno.
“Mah! sono segreti di ufficio,” fece lui, ridendo, allontanandosi.
Un po’ più innanzi, pel Corso, due o tre giornalisti passeggiavano: uno di essi che aveva lavorato con Joanna, nel Tempo, lo fermò:
“È vero che vendete il Tempo, per un milione e mezzo?”
“Smentitelo, vi prego,” disse vivamente Joanna.
“La notizia o la cifra?”
“La notizia e la cifra.”
“Molti corrispondenti di giornali lo hanno telegrafato.”
“Smentite, smentite.”
Parlando così contraddittoriamente, egli obbediva a un impulso interno. E senza più fermarsi, andò direttamente in ufficio a chiudersi nella sua grande stanza vuota, dove il fuoco sonnecchiava sotto la cenere. Fiocamente, ogni tanto, dal Corso arrivava la voce di uno strillone che annunziava il Tempo: e in quell’anima disseccata al soffio rovente della vita, una memoria indistinta, lontanissima, si faceva largo, una voce dell’infanzia rinasceva, come tremante, di un altro giornale, un povero e piccolo giornale che si tirava a duemila copie e su cui era morto il padre, Paolo Joanna, morto di malattia e di lavoro. E dalla grande tristezza di questo ricordo, da questa storia semplice e funebre, nasceva, egoisticamente, un senso di piacere e di superbia, la distanza enorme fra il piccolo e umile giornale di trent’anni prima e questo fiero Tempo, ricco e diffuso, organizzato come una vasta e solida associazione di forze. Egli pensava al modesto e oscuro lavoro quotidiano di suo padre, che appena gli fruttava il pane: e lo paragonava a queste cifre di milioni, sonanti, brutali, che egli aveva dette a Bolognetti e agli amici.
“Povero padre, povero padre,” disse sottovoce, come se lo avesse lì presente e volesse carezzarlo con la voce e col gesto.
Ma anche da questo compatimento una novella superbia sorgeva, l’ammirazione di sè, della sua opera. Avrebbe voluto averlo colà, il povero padre che era stato così povero, così infelice, averlo colà quieto e sereno, in quello stanzone severamente mobiliato di velluto bigio e di legno quercia, per fargli ammirare il Tempo, il giornale dei tempi nuovi, il giornale dell’avvenire, per farsi dare dal padre il bacio commosso dell’orgoglio paterno. E forse domani doveva disfarsene, così, come di un cencio inutile, di questo giornale che era il trionfo della sua vita tribolata.... come avrebbe potuto rinunziare?
“Un telegramma,” disse uno degli uscieri, entrando, col solito piatto di argento.
Roasenda, candidato ministeriale, sostenuto apertamente dal Tempo, era caduto per cinquecento voti, nel suo collegio. Joanna aggrottò le sopracciglia: queste disfatte politiche toccavano oramai troppo spesso al suo giornale, i suoi candidati spesso non riuscivano. Il giornale era diffuso, ma non accreditato. Molte volte le cause che egli difendeva, fallivano: il pubblico comperava il giornale, ma non se ne lasciava influenzare: ognuno leggeva nel Tempo la notizia, il telegramma che più gli interessava e poi lo buttava via, senz’altro. Chissà, la soverchia diffusione neutralizzava l’influenza del giornale, generalizzandola troppo; e i cittadini calabresi, come i friulani, da un capo all’altro del paese italico facevano l’omaggio del loro soldo, ma non quello della loro stima, i lettori erano troppo lontani, troppo dispersi. O forse per l’ostinato silenzio del Tempo contro le accuse che gli si rivolgevano, molte di queste accuse calunniose si erano diffuse nel pubblico e avevano finito per screditare un poco il giornale. Anzi, due o tre volte, per un giorno solo, era venuto in mente a Riccardo Joanna di portarsi candidato nelle elezioni amministrative o in quelle politiche: ma di fronte a quelli insuccessi, quasi continui, non aveva mai osato. In realtà nessun peccato grosso egli aveva commesso, giammai: e aveva sempre fatto male, nei suoi errori, a sè stesso, non agli altri; ma il ricordo del passato gli era insopportabile, i suoi avversari lo avrebbero ricercato nella lotta, e si sentiva impari.
Questa disfatta lo faceva pensare allo strano destino dei giornali, mai completamente furbi, mai completamente efficaci, dalle grandi apparenze di fortuna, ma sempre con un difetto, sempre corrosi dentro da un baco, portanti, come ogni uomo porta, nel proprio organismo il germe della malattia per cui dovrà morire. Anche il Tempo aveva la sua carie: e in quel grande ingranaggio di uomini, di cose, d’interessi, Riccardo Joanna sentiva una rotellina che strideva, che andava contro il movimento generale, ma non sapeva quale. Dentro il giornale, bello e rigoglioso, come in tutte le cose umane, vi era il germe della morte. Così era: la grande opera sua doveva morire. E non valeva meglio ritrarsi da essa, prima della catastrofe, pilota prudente, a riva, guardando la nave sulle alte onde in tempesta?
“L’onorevole Cardella,” annunziò l’usciere.
Era un deputato della maggioranza, un personaggio alto e robusto, grasso, molto rosso nel viso pingue, con due folti mustacchi bianchi, con l’aria bonacciona di un grosso bove. Riccardo Joanna, ritornato presente a sè stesso, subito, gli andò incontro con cordialità, riattizzò il fuoco, gli offrì da sedere presso il caminetto.
“Sono passato di qua, per caso, e son venuto a farvi una visitina. Non siete occupato?”
“No.”
“È fatto il giornale?”
“È uscito.”
“E quello di domani?”
“Si farà da sè.”
“Siete contento del Tempo, Joanna, sia detto senza giuochi di parole?”
“Abbastanza, onorevole.”
“È un bel giornale, non ci è che dire: ci si trova tutto,” disse Cardella, riversandosi sulla sua poltrona, con aria beata.
“Ancora ci manca molto.”
“No, no, non lo dite, io non posso vivere senza il mio Tempo quotidiano.”
“Io ne farei a meno volentieri,” disse Joanna.
“Veramente?” E la curiosità si rivelò, ardente, in un momento.
“Veramente.”
“Non veggo la ragione.”
“Sono stanco, onorevole.”
“Così giovane ancora e così saldo?”
“Venti anni di giornalismo valgono per sessanta: io mi son guadagnato il mio riposo.”
“Un lottatore forte come voi, non si deve arretrare dal campo, parrebbe una vigliaccheria.”
“Sono troppo stanco.”
“Ma via, non lo ripetete; non vi fa più dunque piacere questo potere, che sebbene sia il quarto, incute tanto timore a tutti gli altri? Noi stiamo sul banco dei rei: voi siete i giurati e potete assolverci o condannarci.”
“Sono vecchio.”
“Ma che! Pensate che se ve ne venisse la voglia, quante novelle vie si aprirebbero facilmente alla vostra attività: la banca, l’industria, la politica....”
“Nulla mi tenta più, onorevole, io ho consumato tutti i miei desiderii: non vi sono più Margherite per questo vecchio Faust....”
“E poi pensate che perdita farebbe il partito, non avendo più voi per campione.”
“Oh si consolerebbe facilmente.”
“Non tanto, non tanto: vi sono persone che non si sostituiscono. E se il giornale non più posseduto e diretto da voi, deperisse, o peggio, cascasse in cattive mani, quale danno al partito!”
“Il partito non ha fatto nulla pel Tempo, perchè io abbia troppi obblighi,” disse duramente Joanna.
“Materialmente....”
“Scusate, il giornale non ha bisogno di appoggi materiali....”
“Lo sappiamo bene,” ribattè l’onorevole, parlando ingenuamente in plurale, “ma l’appoggio morale ci è stato, ci sarà sempre più, il partito ama i suoi amici, sa riconoscerli ed esser riconoscente.”
“Nulla io chiedo.”
“Siamo noi che chiediamo, caro Joanna: da qualche tempo vi lagnate di stanchezza, e questi pensieri vi possono condurre a una determinazione improvvisa, violenta certamente, che farebbe danno a voi e ci dispiacerebbe molto.”
“Vale a dire?”
“La vendita del giornale.”
“Il Tempo è ancora mio,” rispose ambiguamente Joanna.
“Speriamo che sia tale ancora per lunghi anni: è una speranza e una preghiera che vi fanno, per mio mezzo, gli amici del partito. Voi siete una forza: non ci lasciate.”
E il grasso uomo che aveva sin allora nascosta la sua inquietudine, sotto la bonarietà e la cordialità, la lasciò a un tratto trapelare tutta.
“Io faccio quel che posso,” mormorò Joanna.
“Via, sacrificatevi, voi avrete una pagina gloriosa negli annali della nostra storia politica. Restate sulla breccia, non la lasciate occupare dall’inimico. Che debbo riferire agli amici?”
“Che agirò secondo coscienza.”
“Niente altro?”
“Mi pare che basti.”
“Una parola più precisa?”
“È l’unica che potevo dire.”
“La vostra coscienza è sicura: io me ne vado contento. Addio, caro martire. Voi avrete uno splendido avvenire.”
Riccardo s’inchinò, senza rispondere: e accompagnò il deputato sino alla porta. Giusto in quel momento entrava l’usciere con una lettera: era un biglietto da visita dell’onorevole Bolognetti, che diceva semplicemente aver potuto ottenere, come ultimo sacrificio, tre quarti della somma che Riccardo Joanna chiedeva. Il milione e mezzo non era dichiarato, ma era sottinteso. E subito Joanna prese un suo biglietto da visita e vi scrisse:
“O tutto, o niente.”
In carrozza, quel giorno, a villa Borghese, dove egli si recò, — come ogni giorno vi andava, macchinalmente, simile in questo alle donne, che non possono fare a meno di un numero quotidiano di saluti e di sorrisi, — fra i tanti saluti amichevoli e indifferenti, notò sempre un senso di curiosità, come una interrogazione. Spesso entrando nei luoghi dove molta gente sta riunita, egli aveva inteso mormorare il suo nome: Joanna, Joanna, Joanna, ma in quel giorno, da tutte quelle facce, gli parve di leggere un interesse nuovo, un desiderio di sapere, mentre la sua carrozza andava a mezzo trotto.
— Domani io non sarei più nulla per costoro, — pensò fra sè.
E la rinunzia si allontanò un momento da quell’essere che conservava ancora, malgrado l’aridità, in fondo all’anima, le vanità e le debolezze della prima età. Ma il giorno cadeva rapidamente, il crepuscolo era molto freddo, egli andò via dalla villa, dietro agli altri, rabbrividendo; in quell’ora triste di Roma che affligge i cuori più secchi, che fa crollare le più ferme decisioni. Andò un minuto all’ufficio, domandò se vi era stata molta nuova richiesta, in tipografia, del giornale:
“Sì, signor direttore.”
“Più degli altri giorni?”
“Come gli altri giorni.”
Non erano ancora dunque le centomila copie: da due mesi invano tentava di arrivarci. Chissà perchè un giornale aumenta! Talvolta è il resoconto di un processo, talvolta un’epidemia, una inondazione, la morte di un grand’uomo, l’arrivo di una grande cantante: e talvolta non cresce per nessuna di queste ragioni. Negli ultimi due mesi appunto non vi era stato nulla di tutto questo: i grandi uomini del tempo eran tutti morti, la stagione era buona, la salute pubblica ottima. Miracolo, se il giornale non era disceso! Per profonde cause ignote, misteriose, inaccertabili, il giornale discende, talvolta, lentamente o precipitosamente. Un nulla può far discendere il giornale, — e nella carrozza che lo portava da Spillmann, in Via Condotti, Riccardo Joanna, l’uomo indurito nell’esistenza, ebbe un fremito di paura. Meno male che ci faceva caldo in quel piccolo salotto di Spillmann, sui muri del quale vi era una esposizione di piatti giapponesi: e il direttore del Tempo si rincorò, vedendo la bella faccia calma di Marco Farina, un bel signore meridionale che non era nè deputato, nè senatore, nè industriale, nè artista, ma semplicemente un galantuomo ricco, che passava l’inverno a Roma, mangiandosi quietamente la sua rendita, godendo di tutto, amico di tutti, non discutendo mai con nessuno, dando ragione a tutti quanti. Joanna, che lo conosceva, sedette di rimpetto a lui, a quel bel signore, dalla barba bianca, che aveva in sè qualche cosa della pace serena orientale — e parlarono placidamente, mangiando, di molte cose, di teatri, di attrici, di ballerine, di politica, anche, trovandosi quasi sempre d’accordo o cedendo l’uno all’altro, cortesemente, quando non erano d’accordo. Una gran quiete ricca era in quella stanzetta chiusa al freddo e ai rumori della strada, e per Riccardo Joanna il suo commensale Marco Farina era il tipo del borghese felice, lontano da tutte le agitazioni, fuggito dalla battaglia, dilettandosi della vita, in silenzio. E alle frutta, nella naturale tenerezza della digestione che cominciava, Riccardo Joanna vide in Marco Farina tutto il suo avvenire, molti anni di pace, la vita ricca e taciturna, la rinunzia a tutti i turbamenti, a tutte le amarezze.
“L’onorevole Bolognetti è fuori, in carrozza, che l’aspetta,” gli disse sottovoce il cameriere.
“Vengo,” disse Joanna.
La carrozza voltò per Piazza di Spagna, senza che il deputato avesse dato nessun ordine al cocchiere.
“Ebbene, Joanna, vi decidete?”
“Dovete decidervi voi.”
“Non insistete su quella cifra, è troppo forte per noi.”
“Insisto.”
“Ma confessate la verità: siete deciso o no a disfarvi del vostro giornale?”
“Sì, per due milioni.”
“Sapete bene che non possiamo darveli: non volete vendere.”
“La mia parola è una. Debbo pagare i miei debiti, non mi resta molto e ho assai lavorato.”
“Ma la cifra è troppo alta: giammai giornale italiano è costato tanto.”
“Più tardi costeranno di più.”
Si parlavano seccamente, come due avversari dichiarati, senza guardarsi in faccia, guardando nella strada, dove la carrozza correva, senza direzione, avendo avuto ordine di passeggiare a caso.
“Noi vi faremo un giornale contro, con un milione e mezzo.”
“I denari non bastano, ci vuole un uomo.”
“Joanna, Joanna, siate più forte della vostra fortuna, siate superiore al giornalismo, siatene il padrone e non lo schiavo: sappiate rinunziarci a tempo.”
Joanna, per la prima volta, guardò in viso Bolognetti, colpito da questa parola profonda.
“Dite al vostro cocchiere che ci conduca all’ufficio del Tempo.”
E non dissero più nulla, presi dai loro pensieri. Ma la carrozza si fermò un po’ prima: una grande folla si accalcava pel Corso, innanzi all’ufficio del Tempo. Joanna abbassò il cristallo della portiera, mise la testa fuori, rientrò subito dentro.
“Bolognetti, non vi vendo più il giornale.”
“Perchè?”
“Per questo.”
“No, proprio?”
“No.”
“Neanche per due milioni, in sei anni?”
“Neanche.”
“A nessun prezzo?”
“A nessuno.”
“Addio, dunque.”
“Addio.”
Joanna discese, nella folla, nel gran chiarore del gas. Sopra la loggia della direzione fiammeggiava la leggenda:
IL TEMPO
Centomila Copie.
E il suo desiderio grande era là, esaudito, pubblicamente, la soddisfazione del suo orgoglio avvampava, innanzi al pubblico stupefatto, il suo trionfo lo ubbriacava. Era lui, Riccardo Joanna, che aveva fatto quel miracolo, era quella la sera della sua apoteosi.
“Centomila copie,” disse il suo vicino di destra, “credevo tirasse molto di più!”
“Centomila copie,” disse il vicino di sinistra, “chissà se è vero!”
E innanzi a queste due frasi, che davano la misura della inanità dei trionfi giornalistici, Riccardo Joanna, deluso, provava un’amarezza profonda, un profondo rimpianto.