< Vita e avventure di Riccardo Joanna
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V

VI.

UNA CATASTROFE.

Agabito entrò senza bussare e richiuse la porta. Riccardo Joanna non si mosse, non trasalì: soltanto rivolse sul servo i suoi occhi smorti, dalle palpebre un po’ rosse: occhi così indifferenti, così glaciali che parea più nulla avessero a vedere, di bello o di brutto.

“V’è un signore che cerca di lei,” disse il servo con aria fra distratta e annoiata.

“Sarà uno dei soliti.... seccatori,” mormorò Riccardo con la sua stracchissima voce.

“No, no, non cerca denaro: io non lo conosco,” ribattè il servo crollando il capo.

“Allora sarà un usciere,” disse Riccardo.

“È troppo giovane.”

“Oh ve ne sono dei giovanissimi,” mormorò Riccardo con una convinzione profonda.

“No, non è un usciere: è un signore.”

“Basta: entri pure,” disse il giornalista chinando il capo sullo scrittoio e rimettendosi a scrivere.

Un giovanotto, bruno e snello, entrò. Era vestito correttamente di nero, con un solino lucidissimo; era inguantato e stringeva fra le dita una mazzettina sottile. A metà della stanzetta nuda, senza tappeto, esitò, si fermò.

“Venga, venga,” disse Riccardo Joanna con la sua cortesia un po’ altera e senza levare il capo dal lavoro, “si accomodi: trovi una sedia: scusi, ma siamo di trasloco, siamo venuti ieri qui....”

“Disturbo?” chiese timidamente il giovane.

“No, no, finisco qui e sono con lei,” ribattè Riccardo Joanna.

Il giovanotto bruno e snello aveva preso una seggiola, delle due che ornavano la nuda stanzetta, e aveva fatto per sedersi, ma la seggiola si era piegata leggermente: egli aveva arrossito un pochino e senza far rumore aveva preso l’altra: per timore che fosse anch’essa sfiancata, si era seduto sull’orlo, tenendosi leggiero. E di sottecchi, modestamente, egli sogguardava Riccardo Joanna, questo giornalista grande, questo giornalista terribile, di cui favolose storie si narravano in provincia, il cui nome era conosciuto e venerato dal più umile cronista di giornaletto settimanale e clandestino. Il giornalista grande e terribile aveva le tempie sguarnite di capelli e un po’ ingiallite, ma sulla fronte un ciuffetto si arricciava ancora: gli occhi pallidissimi sotto le palpebre rossicce erano anche deturpati da due borse flosce, ma sogguardavano ancora, ogni tanto, con un languore inconscio: il volto era tagliato da mille sottilissime rughe, ma non aveva perduto un resto di antica nobiltà: i denti erano neri pel sigaro. Quello che era ignobile, era il corpo: il collo si era ingrossato, le spalle si erano curvate, la pancia, la pancia era diventata enorme: e sotto quella pancia le gambe parea si fossero rattrappite. Ma il corpo non si vedeva nella poltroncina rotonda: e sulla immaginazione del giovane bruno, il grande giornalista, il terribile giornalista, Riccardo Joanna, apparve ancora come un magnifico avanzo di nome.

Intanto Riccardo Joanna aveva finito di scrivere la sua lettera, aveva fatto l’indirizzo sulla busta e aveva sonato sopra un timbro: n’era venuto fuori un suono rauco, come un singhiozzo sbagliato — la campanina del timbro era rotta. Pure Agabito si era presentato, con la sua ciera di servo infinitamente seccato.

“Questa lettera a Sua Eccellenza.”

Agabito la girava fra le mani, restando impalato.

“Debbo portarla io, signor cavaliere?”

“Non vi è Francesco, di là?”

“Oggi Francesco non è comparso.”

“Lo faremo multare di cinque franchi Francesco: andate voi, Agabito.”

“Non vi è nessuno, di là....”

“Pregherete il signor cronista di dare un’occhiata....”

“Non è venuto: ha la moglie soprapparto, del quinto.”

“Bene: andate.”

Agabito andò via lentamente, trascinando le scarpe.

“Eccomi a lei, signore,” disse Riccardo Joanna, voltandosi al giovanotto, serbando sempre un’aria di fierezza nella sua bonomia.

“Ecco, signor Joanna, io ho osato venire da lei, così, senza presentazione: ma è un forte impulso che mi spinge.... lei mi scuserà....”

Riccardo squadrò il giovanotto, fiutando forse lo studente bisognoso, o il questuante signorile. E subito, come una immobilità colpì il suo volto, e si occupò profondamente a guardarsi le unghie. Il giovane, intimidito, taceva.

“Dica,” mormorò dopo una pausa, freddissimamente, Riccardo.

“Ecco, signor Joanna: io son venuto da lei per fare il giornalista,” buttò giù tutto di un fiato il giovanotto.

“Ah!” fece Joanna e squadrò di nuovo il giovanotto con una lunga occhiata.

“Le pare soverchia pretensione, la mia?”

“No, non mi pare. Continui pure,” disse, glacialmente, Riccardo Joanna.

“Io ho pel giornalismo una vocazione irresistibile....”

“Una vocazione....”

“Passione, passione. Potrei fare l’avvocato, lo dovrei fare, perchè così vuole mia madre, perchè non facendolo le do un grave dispiacere: ma non mi riesce, non mi riescirà mai. Il giornale mi attrae, fatalmente, coi suoi miraggi di gloria e di prosperità....”

“Capisco....”

“Io ho lo spirito battagliero: non posso ammiserirmi nelle meschinità delle enfiteusi, delle servitù di passaggio, delle liti ereditarie. Ho bisogno di lotta, di vita ardente: qui è la vera vita, tutta lucente.”

“Fulgida....” corresse Joanna.

“Fulgida,” si corresse il giovanotto arrossendo, “è la parola. La stampa è una grande forza, uno strumento magnifico, una spada....”

“.... a due tagli,” completò macchinalmente Riccardo, con gli occhi socchiusi, sotto le palpebre rosse.

Il giovanotto era rimasto interdetto.

“Continui pure,” soggiunse di nuovo Riccardo Joanna, rimettendosi a studiare le proprie unghie.

“Scusi sa.... signor Joanna,” riprese quello, “ma ecco, le confesso, ella mi dà soggezione.”

“Io?”

“Certo un giornalista così fortunato in tutta la sua carriera, che ha guadagnato quello che vuole, che guadagna quello che vuole, che ha avuto i più grandi successi! Non si scherza! Noi di provincia la invidiamo, signor Joanna: il suo splendido esempio ci esalta, ci entusiasma.”

“È di provincia, lei?” fece Riccardo con un tono indescrivibile di voce.

“Di Bergamo. Ho preso la laurea a Padova. Oh, le ho scritto due o tre volte, Antonio Amati, ma ella non mi ha mai risposto!...”

“Sa, sono molto occupato e....”

“Capisco, capisco. E.... senta, quello che le chiedevo per lettera, glielo chieggo ora a voce. Mi prenda, qui, al Tempo....”

“Come redattore?”

“Come redattore.”

“I posti sono occupati,” fece Riccardo seccamente.

“Come cronista, reporter, traduttore....”

“Non vi è posto.”

“Vengo anche a copiare, purchè mi prenda....”

“Sa, l’Amministrazione non si carica di nuove spese a metà anno.”

“Il Tempo è così ricco!”

“È ricco, ma ha un bilancio assai rigoroso.”

In questa Agabito rientrò, sempre senza bussare.

“La lettera è recapitata,” disse. “Vi sono due vaglia da firmare.”

“Ah!” fece Riccardo e firmò rapidamente, sogguardando la cifra dei due vaglia, sedici e ottanta.

“Tornate subito alla posta,” ingiunse poi ad Agabito, con un’occhiata magnetica, di cui il servo dovette sentire tutto il fáscino, perchè andò via rapidamente.

“Senta, signor Joanna,” susurrò Antonio Amati, “non importa il compenso, mi prenda come volontario, per due mesi, per un trimestre, per un anno....”

“E come vivrà?”

“Dirò una bugia a mia madre: dirò che faccio pratica d’avvocato: che intanto non guadagno nulla: è bonissima, ingenua, mi crederà: mi manderà la solita mesata da studente.”

“Sa, signor Amati, in coscienza io non posso accettare la sua offerta.”

“E perchè?”

“Non tutti i perchè si dicono.”

“Ma infine.... uno che si offre gratuitamente.... capisco che il Tempo è un grande giornale, pieno di redattori.... capisco che non ho ancora fatte le mie prove.... e lei è troppo in alto per giudicare un meschino come me.... ma, infine....”

“Mi ascolti, signor Amati, smetta questa sua idea.”

“Lei scherza....”

“No, non scherzo, sono assai serio.”

“Si burla dunque di me.”

“Le assicuro che glielo dico per suo bene.”

“Ma non le ho detto che ci ho la vocazione?”

“Vocazione falsa.”

“Che non veggo nulla di meglio per me?”

“Vi sono centomila cose migliori.”

“Ma, signor Joanna, lei può parlar così, lei che è arrivato....”

“Arrivato dove?”

“Alla grandezza.”

“Signor Amati, lei mi pare un giovane buono e gentile, si levi dalla mente di fare il giornalista.”

“Forse, perchè non ho talento?”

“Che importa il talento? Se non ne ha, tanto peggio; se ne ha, tanto peggio!”

“Lei vuole sgomentarmi, perchè sono giovane, erchè vengo dalla provincia; mi tratta male, signor Joanna, e non me lo merito....”

“Figliuol mio, pensi che io le do una prova di stima parlandole così.”

Agabito rientrò, portando certi quattrini in mano: li consegnò a Riccardo Joanna.

“Mancano cinque lire e venti, Agabito.”

“Una lira di carta da pacchi....”

“Sempre questo spreco! E poi?”

“La sua colazione di ieri, il caffè e la birra sono quattro lire.”

“E poi!”

“Venti centesimi, un francobollo pel sor Rinaldo, il redattore capo.”

“Bene: andate.”

Antonio Amati non aveva ascoltato, tutto assorbito nel suo dispiacere di non venir accettato al Tempo, giornale così diffuso, così autorevole e così ricco. E si alzò a malincuore:

“Le tolgo il disturbo: andrò dunque a un altro giornale....”

“A un altro?”

“Sissignore. Oh non mi scoraggio, io! sono ostinato, con la volontà si vince qualunque ostacolo. Farò il giro di tutti i giornali di Milano. Mi offrirò gratuitamente: vedrà che in qualche giornale mi prenderanno.”

E il bel giovanotto bruno e snello era così pieno di fiducia, di volontà, di passione, gli traluceva tanto dagli occhi il suo ardore, che Riccardo Joanna lo guardò intensamente, come se solo in quel minuto lo giudicasse. E stettero pensosi, ambidue, un minuto.

“Resti al Tempo,” disse improvvisamente Riccardo, “ci resti da oggi: la inizierò al giornalismo.”

Antonio Amati si fece prima pallido, poi rosso: le lagrime gli salirono agli occhi.

“Lei è assai buono....”

“Assai buono,” ripetette Riccardo Joanna misteriosamente. “Vada di là e mi faccia un articolo.”

“Su che?”

“Su qualunque cosa. Quello che le piace.”

“E i lettori?” osservò, meravigliandosi, Antonio Amati.

“Ai lettori piace tutto, quando piace.”

“Ho paura di essere noioso, volgare: mi dica lei....”

“Se le riesce di esser volgare, la sua carriera è fatta, signor Amati.”

“Senta, mi dia lei un’idea....”

“Sono anni che non ho più idee, io. Ma non servono nel giornalismo: nessuno ne ha.”

“E se ne avessi io?” osservò con lieta baldanza Antonio Amati.

“Le consiglierei di non buttarle via. A ogni modo faccia lei.”

“Sulla questione di Oriente?”

“È da trent’anni sul tappeto: e il tappeto cade in pezzi.”

“Sulle donne che uccidono!”

“Non uccidono neppure più.”

“Su quelle che si uccidono?”

“Sono morte: le lasci in pace.”

“Basta, basta, io scrivo, poi vedrà lei,” e se ne andò di là tutto felice.

Riccardo lo seguì con l’occhio, poi rovesciò il capo sulla spalliera della poltroncina, e guardò il soffitto.

“Ci ha una penna,” disse, rientrando, il giovanotto.

“Eccola qua,” e gli dette la sua.

“E dica.... vorrei anche un po’ di carta.... se non le incomoda.... lì fuori, non ce n’è neppure un foglio.”

Riccardo frugò fra le carte, e trovò, dopo lunghe ricerche, tre o quattro fogli, un po’ gualciti, un po’ macchiati.

“E non ho calamaio,” finì per dire Antonio Amati.

“Eccole il mio,” disse pazientemente Riccardo Joanna.

“Il suo, le pare? Non lo prenderò mai.”

“Tanto, non ho da scrivere nulla.”

“Non scrive?”

“No.”

“E perchè?”

“Perchè non ho nulla da scrivere.”

“E chi lo fa il giornale?”

“Mah!... si fa!”

“Senta, mi permette che vada a comperarmi un calamaio?” e tastò il taschino.

“Faccia pure. Anzi, faccia così: dia quaranta centesimi ad Agabito. Costui le compra una bottiglina d’inchiostro: e lei ha il liquido e il recipiente nello stesso tempo. Raccomandi: doppio nero.”

Si sentì, in anticamera, l’allegra voce di Antonio Amati che si raccomandava ad Agabito, per aver, presto, presto, una bottiglina d’inchiostro assai nero.

“A che ora vengono i redattori?” chiese Antonio Amati, rientrando.

“Mah!... quando vogliono. Io non li obbligo a venire puntualmente,” disse Joanna, con suprema indifferenza.

“Verranno puntualmente il giorno della paga,” ribattè Amati, credendo di fare dello spirito.

“Si paga quando si può,” rispose tranquillamente Riccardo.

Amati lo guardò un po’ mortificato.

“Ciò non mi riguarda,” riprese poi, il buon giovanotto: “io sono a gratis. Ciò riguarda loro. Che dicono, essi?”

“Nulla.”

“Nulla?”

“Cioè, alcuni strillano, alcuni si lamentano, alcuni se ne vanno, altri si rassegnano e restano, sperando sempre.”

“Ma da che dipende?” chiese ingenuamente Antonio Amati.

“Dalla mancanza dei quattrini,” disse asciutto, asciutto, Riccardo Joanna.

“Il Tempo non ha quattrini?”

“No.”

“E perchè?”

“Mah! Nessun giornale ha quattrini.”

“Nessuno?”

“Nessuno.”

“Neppure quelli a trentamila copie?”

“Neppure quelli a centomila.”

“Da che dipende?”

“Non lo saprei dire: ma accade sempre così.”

“Io vado a fare l’articolo,” mormorò remissivamente Antonio Amati. “Per che ora lo debbo fare?”

“Per l’ora che le piace.”

“Come? L’ora che mi piace? A che ora va in macchina, il Tempo?

“Alle sette e mezzo, spesso: o in nessuna ora talvolta.”

“In nessuna ora?”

“Già.”

“Non intendo. Talvolta non va in macchina?”

“Talvolta.”

“E perchè?”

“Oh, per varie cause! Talvolta si sfascia una pagina, o il motore non va, o i nastri non afferrano la carta: o semplicemente il tipografo è di cattivo umore. Non ha mai letto, in cima al Tempo, la narrazione di uno di questi guasti, per cui il giornale non è giunto agli abbonati?”

“Ho letto, ho letto,” disse macchinalmente Antonio Amati, “ma non il malumore del tipografo.”

“Quello, no, naturalmente: ma è la causa più facile, veda: i tipografi sono assai nervosi, massime il sabato.”

“Vado a far l’articolo,” rispose, sempre più remissivamente Antonio Amati.

“Ci ha un Minghetti?

“No, un Virginia.”

“Me lo dia, tanto fa lo stesso.”

E si mise tacitamente a far ardere, sopra un fiammifero, la punta del Virginia. Antonio Amati era andato di là, sopra un tavolino tutto macchiato d’inchiostro: guardando la parte della stanzaccia nuda, tappezzata da una meschina carta da parati, si affannava a comporre il suo articolo. Ogni tanto, alzando il capo, si meravigliava che nessuno venisse: solo solo, in anticamera, Agabito mangiava un pezzo di pane, lungamente, scotendosi ogni tanto le molliche dalla giacchetta, con aria filosofica. Poi un ometto piccolo, unto e bisunto, venne a parlamentare sottovoce con Agabito, il quale lo ascoltava e crollava il capo: poi entrò nella cameruccia di Antonio Amati, e lasciò che sull’angolo della tavola, dove il neo—giornalista scriveva, l’ometto piccolo, unto e bisunto, scrivesse qualche cosa in certi suoi lunghi fogli di carta. Anzi, Antonio Amati prestò la sua penna, e aspettò che gliela rendessero. E Agabito lasciò i fogli sul tavolino, senza curarsene.

“Non li portate di là, al signor direttore?” domandò Antonio Amati.

“No,” fece il servo. “Tanto, quando vede carta bollata, non legge mai.”

“Ma la carta bollata si paga!”

“Mah!... ne abbiamo un fascio, e non ci dà nessun fastidio.”

“Pare a voi,” mormorò il neo—avvocato, tutto pensieroso.

“A quello niente gli dà fastidio,” susurrò Agabito, indicando la stanza di Riccardo Joanna.

“Omo grande, eh?” disse Amati, con ammirazione.

“Grande,” fece laconicamente il servo.

Ma il suono rauco del timbro, quel singhiozzo sbagliato fece andare Agabito di là, dal direttore. Quando uscì crollava il capo, con quel suo fare fra distratto e annoiato: e nell’anticamera, da certe scansie a casella, da certe canestre si pose a cavare dei giornali, a fasci, e a buttarli in mezzo alla camera, confusamente: se ne formò una montagnola. Antonio Amati, che andava e veniva, nel fervore della ispirazione che lo aveva fatto alzare dal tavolino, arrivò in anticamera.

“Sono giornali che vanno agli abbonati, questi?” domandò.

“Vanno tutti al nostro migliore abbonato,” disse Agabito filosoficamente.

“E chi è?”

“Il pizzicagnolo.”

“Giornali vecchi,” fece con disinvoltura, per parere informato, Antonio Amati, “quanto al chilo?”

“Cinque soldi.”

“Bene, bene!”

E ritornò al suo articolo. Mentre scriveva, venne il garzone del pizzicagnolo, e il contratto durò lungamente, fra lui e Agabito: le voci si alzarono. Riccardo Joanna, attratto dal rumore, comparve sulla porta: e assistette al dibattito. Ora che lo vedeva in piedi, Antonio Amati si rimetteva dalla impressione di magnificenza che gli aveva fatto Riccardo Joanna. La pancia rotonda si vedeva troppo, gonfiante il panciotto bianco di un candore un po’ dubbio, e quella pancia incongrua, assurda, squilibrava tutto il corpo. Malgrado la stagione calda, Riccardo portava una redingote greve: la testa si affogava un po’ nelle spalle. Intanto il garzone del pizzicagnolo, dopo aver contato e ricontato i quattrini di rame, se ne andava, borbottando ancora. Agabito rimaneva, con le mani cariche di soldoni.

“È venuta la risposta di Sua Eccellenza?”

“No, signor cavaliere.”

“Ah! E quanto avete fatto?”

“Nove lire e venticinque, signor cavaliere.”

“Quanti chili?”

“Trentasette.”

“È strano: parevano di più.... Cambiatemi questi soldoni.”

Se ne andò in camera sua: si sentì che spazzava il suo cappello, lungamente. Poi Agabito gli portò le nove lire in argento. Riccardo Joanna si accostò al tavolino di Antonio Amati, e gli domandò:

“Ha finito?”

“No,” fece l’altro, tutto vergognoso, “sa, è la prima volta....”

“Venga a far colazione meco.”

“Veramente.... sarebbe meglio, forse, che finissi l’articolo....”

“È sempre meglio far colazione, che fare l’articolo: se lo abbia per assioma. — Agabito, se viene il sor Rinaldo, ditegli che mi faccia un pezzo sulle conquiste dell’Inghilterra in Africa.”

“In Africa? Bene, signor cavaliere.”

“Se venisse la risposta di Sua Eccellenza....”

“La porto subito al signor cavaliere, alla trattoria.”

“Bene: veggo che capite. Vi farò dare due lire di gratificazione, rammentatemelo.”

“Veramente, signor cavaliere, vorrei che si rammentasse le mesate arretrate: la padrona di casa non mi fa aver bene....”

“È una donna immorale, essa offende la libertà della stampa. Addio, Agabito.”

Antonio Amati, pieno di meraviglia, seguiva docilmente Riccardo Joanna.


Mangiavano in una cattiva trattoria, di Via Rastrellieri, in una stanza bassa, dove si sentiva un acre odore di burro soffritto, quell’odore fitto delle trattorie milanesi: e in quella stanza bassa, le mosche ronzavano pesantemente. Il cameriere li serviva con un’aria addormentata, con un vago sorriso. Antonio Amati, tutto esaltato ancora dell’articolo interrotto, mangiava assai poco: e Riccardo Joanna mangiava pochissimo, con la più pallida cera di uomo nauseato, a cui nulla fa venir più l’appetito.

“Che bettola!” disse a un tratto, respingendo il suo piatto.

“Perchè non va altrove?” chiese Antonio Amati.

“Tutte bettole, tutte bettole!” borbottò Joanna.

“Avevo letto.... in un giornale, credo.... in un giornale di provincia, che ella andava al Cova, con altri colleghi suoi.... vi era anzi la descrizione di un banchetto....”

“Può darsi,” fece Joanna, duramente.

“Scusi,” mormorò Amati, con civiltà.

“Quella è bettola più elegante,” riprese Joanna, “ma su per giù, vale questa. È più pulita, ecco: ma tutte sono nauseanti.”

“Perchè non pranzare a casa, allora?”

“Oh questo, mai! Un giornalista pranza talvolta a casa, ma non vi fa mai colazione.”

“E la famiglia?”

“Quale famiglia?”

“La madre, la moglie, i figliuoli!”

“Io non ho nessuno,” disse con una certa fierezza Riccardo Joanna.

“E gli altri?”

“Non hanno nessuno, come me: o se hanno famiglia, la nascondono.”

“Lo vuole il caffè?” venne a domandare, con voce sonnacchiosa, il cameriere. “Lo farò fare espressamente.”

“No, caro.”

“Lo paga, il conto?” disse più sommessamente, il cameriere.

“Sì, caro.”

“E il vecchio?”

“Diventi decrepito!”

“Posso....” chiese con timidezza Antonio Amati, volendo pagar lui.

“No, signor Amati: è mio ospite.”

E lasciò generosamente una lira di mancia al cameriere. Camminavano piano, per la via affollata: due volte si fermò Riccardo Joanna, con due persone. E dal modo come gli parlavano, dalla fiacchezza con cui egli rispondeva, si capiva che erano creditori e che egli non dava loro neppure delle buone ragioni. Antonio Amati si teneva in disparte, per prudenza. Riccardo Joanna riprendeva il suo cammino, lentamente, l’occhio impallidito sotto le palpebre rossicce: in Piazza del Duomo una bella signora che passava, lo salutò, sorridente. Egli le fece una profonda scappellata.

“Posso domandare?...” disse Antonio Amati.

“La contessa Colletta.”

“Dama?”

“Dama.”

“Amica vostra?”

“No.”

“Amante?”

“No.”

“E che cosa?”

“Ha un processo. Teme il giornalista. Dopo.... non mi saluterà più.”

Traversarono la Galleria. Una delicata figurina di donna, trasvolante rapidamente, negli abiti modestissimi, fece un timido saluto.

“Una signora?”

“Signora.”

“Amante o amica?”

“Niente di niente.”

“E che è?”

“Una povera: il Tempo le ha fatto una colletta di milleottocento lire.”

“Che forza, il giornalismo!”

“Sì, dà da mangiare agli altri, ma non a sè stesso.”

Erano giunti al Caffè Cova: entrarono. Riccardo Joanna si era raddrizzato e teneva lo stuzzicadenti alle labbra. Buttato sopra un divano di velluto verde, col panciotto bianco che si arrotondava sulla pancia, misurando i quadrettini. Allo zucchero nella tazza del caffè, Riccardo Joanna aveva la cera di un felice della terra, di un perfetto gaudente.... Dei colleghi passarono: egli li salutò con un cenno superbo e condiscendente della mano.

“Altri giornalisti?”

“Sì, il direttore dell'Oggi.”

“Che.... mi pare.... è rivale del Tempo?

“Rivale.”

“Rivale sfortunato, naturalmente.”

“No, fortunato.”

“Oh!”

“Fortunatissimo.”

“E ciò le secca assai?”

“Mi ha seccato, ora non mi secca più.”

“E non odia quell’uomo?”

“Io? neppur per sogno. Non è un giornalista come me? Oggi tocca a me, domani a lui.”

“Non ci si è battuto in duello?”

“Sì, anche: e che perciò?”

“Quanti duelli ha avuti, signor Joanna?”

“Otto, o dieci, forse.”

“Beato lei!”

“E perchè?”

“Mah.... l’idea del duello mi esalta.”

“Io non ne fo più.”

“Già: ne ha fatti tanti!”

“Non per questo. Un duello, dove ferite l’avversario, costa almeno trecento lire: dove siete ferito leggermente, ne costa seicento: se la ferita è grave, allora ci vogliono due o tre mila lire. Troppi quattrini: non mi batto più.”

Avevano anche preso il cognac: Riccardo Joanna ne aveva bevuto due bicchieri, un lieve calore era salito al suo volto scialbo, una certa vivacità aveva dato un’attrazione ai suoi occhi smorti.

“Andiamo in ufficio: forse Sua Eccellenza avrà risposto,” mormorò, con una dolcezza nuova nella voce.

“Ma Agabito non sarebbe venuto?...” osservò Antonio Amati.

“Forse Agabito mi cerca dappertutto.... andiamo in ufficio.”

E furono subito in quella Via di San Dalmazio stretta e sinuosa, a quel terzo piano tetro e nudo. Agabito era seduto in anticamera e con un forbicione tagliava le fascette dei giornali.

“Vi è nulla, per me, Agabito?”

“Nulla, signor cavaliere. Vi è di là il signor Casiraghi.”

“Bene, bene.”

“Aspetta da un’ora.”

“Continui pure il suo articolo, signor Amati.”

Ed entrò nella sua cameretta. Antonio Amati udì che una voce si alzava, irosa, e che un’altra, fredda tranquilla, gli rispondeva, come per acquietarla. La discussione si chetava, poi ricominciava, più forte: e impediva ad Antonio Amati di scrivere. Infine Riccardo Joanna schiuse la porta, venne sino al tavolino di Amati, guardò per poco il giovanotto che si affaccendava a scrivere e d’un tratto, gli disse:

“Ce le avrebbe mille lire, addosso, signor Amati?”

“No.... non le ho.... non le ho proprio....” fece l’altro, interdetto, tremante.

“A casa, allora? Le vada a prendere.”

“Mi dispiace.... ma neppure a casa.... mi scuserà.... sono confuso....”

“Non importa. Le volevo dare qui, a Casiraghi, che non stampa il giornale se non ha per lo meno mille lire.”

“E come si fa?”

“Ma non si dia pena. Continui il suo articolo. Grazie tanto.”

E voltò sui tacchi, con disinvoltura giovanile, come se nulla fosse stato. La discussione, di là, ricominciò più viva. Riccardo Joanna ritornò fuori.

“Che le avrebbe disponibili quattrocento lire, signor Amati? Casiraghi si contenta di queste, intanto.”

“Non mi mortifichi, signor Joanna: ma io non ho neppur queste.”

“Non importa. Continui pure il suo articolo.”

Di là vi fu un discorso a voce più bassa, ma concitata. Il signor Casiraghi, un omaccione grosso e rosso, uscì con la faccia stravolta: andò via sbattendo le porte. Tutto contrito, Antonio Amati si azzardò a penetrare nella cameretta di Riccardo Joanna. Costui era seduto tranquillamente nella poltrona, col capo rovesciato sulla spalliera e guardava il soffitto.

“Che dice?” chiese con ansia dolorosa il neo—giornalista.

“Casiraghi? Vuole quattrocento lire: se no, non va in macchina.”

“Deve aver molto?”

“Quindici, o diciottomila lire, o forse ventimila.”

“Non sa bene?”

“Non so.”

“E come farà, oggi?”

“Mah!...”

“E può esser tranquillo così?”

“Sulle prime non si è tranquilli; poi.... ci si abitua. Ha finito il suo articolo?”

“L’ho finito: ma è certamente bruttissimo.”

“Non importa,” rispose distrattamente Riccardo Joanna.

E si mise a rivederlo, minutamente, con l’abitudine del vecchio giornalista. Antonio Amati guardava Riccardo Joanna, il gran giudice inappellabile e tremava in sè. Ma Riccardo Joanna non disse nulla: e nulla osò domandare Antonio Amati. Agabito si presentò al suono rauco del timbro rotto: Joanna gli consegnò il manoscritto:

“Va’ in tipografia, Agabito. Il sor Rinaldo è venuto?”

“Sissignore: è andato subito a far colazione. Scriverà in tipografia.”

“Se viene il cronista, lo manderai in tipografia anche lui.”

“È venuto: ha chiesto dell’amministratore.”

“È ammalato. Andiamo, signor Amati, qui non vi è più nulla da fare.”

E se ne andarono di nuovo in Galleria, a ciondolare, chiacchierando un po’ qui, un po’ lì. Riccardo Joanna presentava a tutti Antonio Amati come un nuovo suo redattore: anzi lo presentò a due o tre celebrità, di musica e di letteratura. Il giovanotto bergamasco si ringalluzziva: e due o tre volte volle entrare nel discorso, credendo di dire qualche cosa di spiritoso e provocando certe occhiate di profondo disprezzo. Che importava? Egli apparteneva oramai a quel mondo, era un giornalista. Il più grande dei giornalisti italiani lo conduceva a passeggio, lo proteggeva, lo presentava a tutti.

“Viene con me da Margari?”

“Vengo dove vuole lei.”

“Margari è il negoziante di carta. Vedrà, è un bel tipo, si divertirà.”

Andavano, per la Via dei Mercanti, ai vecchi quartieri di Milano, al Broletto, dove ferve così forte quella vita industriale. Attraversarono un cortile tutto pieno di balle ed entrarono in un camerone semibuio, tanta era la carta che vi era accumulata.

“Quattrini?” disse un vecchietto, dal volto raggrinzito come una mela, uscendo di dietro a un monte di carta.

“Niente, Margari.”

“E niente carta, sor Riccardo.”

“Volete che il Tempo muoia, Margari?”

“Voglio dei quattrini.”

“Non ne ho.”

“Io non ho carta.”

“Ve ne darò di quattrini.”

“Datemeli adesso: mi contenterò di un cinquemila lire, sulle trenta che mi dovete.”

“Non le ho cinquemila.”

“Duemila, allora.”

“Non le ho.”

“Via, mille, ce le avrete. Avete fatto i rinnovi.”

“Scarsi.”

“Mi contento di cinquecento lire.”

“Se vi dico che non ne ho, Margari.”

“E allora che siete venuto a fare qui?”

“A chiedervi la carta per oggi.”

“Io non ve la do se non veggo i quattrini.”

“Niente.”

“E niente, sor Riccardo.”

Antonio Amati assisteva alla scena, muto, addolorato, non osando intervenire, non osando interrompere, con gli occhi abbassati, un po’ stordito da quel sazievole odore di carta che era nel camerone. Il vecchietto, tutto coperto di risecature di carta, di filucci bianchi di carta, prendeva tabacco da una piccolissima tabacchiera rotonda e aspettava pazientemente, come se da un momento all’altro gli dovessero capitare le sue trentamila lire. Era un ometto piccino e bonario, tutto roseo, malgrado quell’aria affogante di carta che si respirava lì dentro. A un tratto Riccardo Joanna, decidendosi, disse ad Antonio Amati:

“Avrebbe per caso cento lire?”

“Queste, sì, le ho, mi servono per finire il mese, ma non importa,” disse Antonio Amati, tutto felice di aver le cento lire.

“Bene, gliele ridarò domani o dopodomani, per certo, o fra tre giorni. Me le favorisce?”

“Non le ho addosso, le ho a casa.”

“Senta me, porti sempre addosso tutto quello che possiede.”

“Lo farò sicuramente. Mi permette? Vado e torno.”

Uscì di corsa. Riccardo Joanna ebbe un lieve sorriso di trionfo. Aveva vinta una delle difficoltà della giornata. Il sor Margari tranquillamente andava e veniva fra le sue balle di carta, pigliando annotazioni sopra un taccuino, attaccando cartellini con lo spago, genio sorridente e familiare. Riccardo Joanna fumava ancora un mozzicone di un sigaro di Avana, comperato al Caffè Cova, e appoggiato alle balle di carta guardava il fumo salirsene al soffitto. Antonio Amati ritornò dopo un quarto d’ora tutto scalmanato. Principescamente, senza contare, prese i quattrini dalle mani di Antonio Amati e li depose in quelle del sor Margari. Costui contò e scomparve in uno stanzino.

“Andiamo,” disse Riccardo Joanna, crollando le spalle come se si liberasse di un peso.

“Pigliate la ricevuta!” disse il vecchietto dal suo stanzino.

“A che serve?” fece il direttore del Tempo.

“Per regolarità di amministrazione.”

“È ammalato l’amministratore.”

Il vecchietto ritornò con la ricevuta dall’inchiostro ancora fresco.

“Fatevi dare da questo vostro amico le trentamila lire, sor Riccardo.”

“Non le ha, sor Margari; a quest’ora me le avrebbe date.”

“E voi le avreste mangiate.”

“Non io, il Tempo; è il mio verme solitario, mangia tutto.”

Uscirono. Il facchino, nel cortile, già caricava le risme di carta del Tempo, per portarle in tipografia; e le sue nerborute spalle si piegavano sotto i colli che trasportava al carrettino. Stava la carta, rettangolare, avvolta nella sua fodera di cartone grosso, scuriccio, stava massiccia, fitta, elevantesi l’una dall’altra risma, come pietra fortissima di un edificio incrollabile. Il facchino compariva sulla porta del deposito, curvo in due sotto il peso delle risme, e trascinantesi a stento veniva a deporle, con un tonfo sordo, sul carrettino. Riccardo Joanna e Antonio Amati rimasero fermi a guardare lo spettacolo, e mentre il vecchio e grande giornalista aveva ripreso la sua cera di uomo esaurito, sfinito, morto, Antonio Amati, al cospetto di tutta quella carta bianca, era nervoso, ridacchiava come preso da un principio di ebbrezza. Quando l’ultima risma fu messa sul carrettino, egli si accostò timidamente e toccò col dito, come un bimbo pieno di soggezione, la carta.

“Questa fa venir la voglia di stampare giornali,” mormorò Antonio Amati.

“Sì, la carta è bella,” rispose Joanna.

“Quanto peserà?”

“Pesa ventisette chili la risma.”

“E in tutto? Quell’uomo potrà trascinarla?”

“La può trascinare: sono centonovanta chili.”

“È assai, è assai,” ripeteva Antonio Amati, preso da un rispettoso timore, “quante risme?”

“Sette.”

“E ogni risma, quante copie? Diecimila?”

“No, mille.”

“E voi mettete sette risme?”

“Sette.”

“Sicchè avete settemila copie di tiratura?”

“Settemila.”

“Io credeva.... credeva che tiraste sempre centomila copie.”

“Le ho tirate, cinque anni fa.”

“E perchè tenete quel centomila, in testa al giornale?”

“Mah!... per abitudine.”

“Ah! ah!” fece Antonio Amati, guardando con malinconia il carrettino torreggiante di carta, che traballando se ne andava verso la tipografia. “Settemila copie! Sono poche, mi pare.”

“Sono pochissime,” confermò Riccardo, non accorgendosi neppure che Amati gli dava del voi.

“Come è stato, come siete disceso a settemila da centomila?” si azzardò a chiedere Antonio Amati.

“Non dimandate,” ribattè Riccardo, con durezza. Essi tacquero, ritornando verso il centro di Milano.


Lentamente Riccardo Joanna e Antonio Amati si avviarono di nuovo verso l’ufficio del Tempo. Non parlavano. Il vecchio giornalista aveva abbassato il cappello sugli occhi e portava il capo chinato sul petto: non come colui che è preso da un forte e assorbente pensiero, ma come colui che si piega sotto la stanchezza. Il giornalista novellino non osava dire più nulla, temendo di turbare quel sacro silenzio: e andava accanto a Riccardo Joanna, timidamente, impacciato, con le mani penzoloni, guardando le botteghe.

“Io l’annoio, forse....” mormorò, a un tratto, facendo quasi per allontanarsi.

“No, no,” fece Riccardo, trasalendo, cercando di scuotersi.

Ma mentre andavano, fra la gente, Riccardo ricadde nel suo mutismo: una lieve tinta giallastra, ora, gli si distendeva sul volto, un pallore di collera, un pallore di bile. Sotto il mustacchio brizzolato, il labbro pendeva, scolorato. E pareva vecchissimo, ora; più che vecchio pareva accasciato, consumato, crollato come per interna macerazione.

“È preoccupato?...” chiese Antonio Amati.

“Io? no,” rispose, come ridestandosi da un sogno, Riccardo Joanna. “Di che dovrei essere preoccupato?”

“Mah!... Del suo articolo, forse....”

L’altro dette in una spallata.

“Chi pensa mai all’articolo?” disse, con disprezzo.

“È vero,” mormorò il novellino, “ma noi altri che arriviamo, sa, bisogna compatirci....”

“Lei farà.... farà....” disse Riccardo con profonda malinconia.

Erano di nuovo in Via San Dalmazio. Un uomo, tutto unto, lo fissò coi suoi occhi smorti e glaciali.

“Era per quel conticino del sarto....” disse, a bassa voce.

“Quale sarto?” chiese Joanna con fare altiero.

“Roberto Pacilio.”

“E deve avere?”

“Duecentosessantatrè lire.”

“Non vi ho dato degli acconti, varie volte?”

“Due volte: una volta sette lire, una volta cinque.”

“Venite domani,” disse imperiosamente Riccardo Joanna.

“Domani?” fece l’esattore intimidito, ma esitante.

“Domani.”

“Mi darà il saldo?”

Riccardo Joanna fece un gesto così largo di magnificenza, che l’esattore andò via subito. Ma il direttore del Tempo fu ancora fermato, innanzi al casotto del portinaio: questa volta era un esattore lungo e scarno, uno scheletro ambulante:

“Signor cavaliere, scusi, sa, venivo per quel conto del tappezziere Martelluzzi....”

“Ebbene, che vuole? Io non li ho più i suoi mobili.”

“È vero, è vero, signor cavaliere, ma la colpa non è di Martelluzzi se le han fatto la vendita. Alla fine sono ottomila lire.... e capirà....”

“Capisco: venite domani.”

Ma l’esattore doveva conoscere il valore di questa promessa, perchè guardò Riccardo Joanna con un’aria di rassegnazione malinconica.

“Domani, dunque,” mormorò.

“Alle tre,” ribattè Joanna imperiosamente.

L’esattore di Martelluzzi lo guardò con un muto e ossequioso rimprovero, come a dire: — Che ti ho fatto, per parlarmi così? — E pian piano, se ne andò, crollando il capo, fidando in questo domani che egli udiva da tre anni, fingendo di fidarsi, non osando, nella sua povertà di servo, mostrare alcun dubbio.

“Ha debiti, lei?” domandò Joanna, per le scale, ad Antonio Amati.

“Io, no,” fece l’altro, come vergognoso.

“Ne farà.... ne farà.... non dubiti che ne farà,” canticchiò Joanna.

Per le scale scendeva un giovanottino piccolino, dal musetto di volpe, vestito leggermente per la stagione, tenendo un mozzicone spento e nero fra le labbra.

“Buon giorno, direttore. Che le serve la cronaca, oggi?”

“Parrebbe,” disse profondamente Joanna.

“Mi dica la verità, tanto non faccio un lavoro inutile.”

“Il lavoro è sempre inutile,” soggiunse Joanna, con gli occhi socchiusi, con la sua aria di bronzo.

“Ce le avrebbe cinque lire, oggi, direttore? Ho la moglie di parto.”

“Quanti figli?”

“Cinque.”

“Non legge Malthus, lei?”

“No, direttore.”

“Fa bene, non legga mai nulla; e non scriva neppure.”

“Dunque, direttore?”

“Passi dall’amministratore.”

“Mi ha detto di venir da lei.”

“È uno sciocco. Buon giorno.”

E passò avanti con la sua aria principesca. Il cronista, colpito, non disse più nulla: ma scendendo per le scale, fischiettava di mala voglia. Nell’anticamera l’usciere dormiva, col capo sulle braccia.

“È venuta nessuna lettera di Sua Eccellenza?” domandò forte Joanna.

“Niente, niente,” balbettò l’altro fra distratto e sonnolento.

“Andate a domandarla di nuovo.”

“Va bene,” fece l’altro sbadigliando.

Poi, come rammentandosi:

“Signor cavaliere, è venuto il postino delle raccomandate.”

“Ah!” fece Joanna, e un lievissimo rossore gli salì alle guance. “Ha lasciato?”

“Non ha voluto....”

“Che bestia!”

“Tornerà alle sei. Veniva da Napoli.”

“Forse....” pensò ad alta voce Joanna. “Forse è un manoscritto....”

Ed entrò nella sua stanzetta, seguito da Antonio Amati. Il giornalista novellino taceva, ora, senza più voce: tanto quello che vedeva e ascoltava lo empiva di meraviglia. Riccardo Joanna si sedette al suo posto e un sospiro di stanchezza si sprigionò dal suo petto: stava col capo chino, gli occhi chiusi dalle palpebre rosse e gonfie, più pallido, più giallastro che mai. Ad Antonio Amati parve che il direttore del Tempo avesse cento anni, ma cento anni di dolori, di travagli, di sfinimenti.

“Orsù....” fece Joanna, come se fosse solo e si decidesse a qualche cosa.

E cercò un foglietto e una busta, fra le sue carte. Ne trovò: era una carta a mano elegantissima, delicatissima, con certi bizzarri geroglifici verdi per cifra.

“Le piace questa carta?” domandò ad Amati.

“Assai. Che dice il motto?”

“Non si dice.”

“Scusi.”

Mentre Antonio Amati abbassava la testa, come mortificato, Riccardo Joanna carezzava la carta dolcissimamente.

“Ho sempre amata la bella carta: è stata la gran seduttrice, per me,” e parlava come a se stesso.

Ora, con la penna sospesa sulla carta, pensava. Due o tre volte l’abbassò, per scrivere, ma si pentì: due o tre volte fece un cenno di sfiducia, con la mano sinistra, come per dire: — A che serve? — Antonio Amati, per darsi un contegno, sfogliava i giornali, giunti dalla posta, ancora chiusi dalle fascette. Riccardo Joanna non si decideva a scrivere: guardava in aria, almanaccando. Alla fine abbassò il capo, cominciò a scrivere. Ma un signore entrò: era un ometto con la barba rada, come sporca, con una pancetta rotonda e una calvizie che lasciava vedere il cranio giallo, con certe labbra grosse e violacee. Tenne il cappello in testa, si appoggiò al pomo del bastone. Riccardo Joanna gli fece qualche barzelletta, ma l’altro non si placò, era venuto per avere le sue millenovecento lire, non aveva voglia di scherzare, facesse il piacere di dargliele. E si faceva insolente, col cappello abbassato sopra un’orecchia, insultando i giornalisti, chiamandoli tutti bugiardi e straccioni. Riccardo Joanna faceva ancora dello spirito, ma gli occhi gli si erano intorbidati; e l’ometto calvo, dalla barbetta sudicia, continuava a sfogarsi, nulla curandosi della presenza di Antonio Amati che era sulle spine.

“Vuoi una cambiale, o strozzino?” domandò Riccardo Joanna al suo creditore, e la voce gli tremava di collera.

“E che me ne faccio?”

“Allora battiti in duello con me: ma non seccarmi più.”

Il creditore voleva aggiungere qualche cosa, ma vide che la mano di Riccardo Joanna giocherellava nervosamente attorno al calamaio di bronzo.

“Addio,” disse, “vado a vendere il mio credito al direttore del Fulmine.”

“Oh, non ha denari da comperarlo!” strillò Riccardo, ridendo, esasperato.

Quando il creditore fu uscito, egli rideva ancora: ma come se non si ricordasse più della presenza di Antonio Amati, si nascose la faccia fra le mani, in un disperato accasciamento. Il giornalista novellino lo guardava, e non osava parlare: mentalmente, confusamente, egli faceva il conto dei debiti di Riccardo Joanna, e avrebbe voluto avere quei quattrini, per darglieli, per levarlo di quella pena. Ma dopo un momento, appena Riccardo Joanna aveva ripresa la penna, un altro creditore entrò: era un trattore, dove Joanna aveva pranzato, per due mesi, un po’ pagando, un po’ senza pagare, e infine aveva piantato il chiodo, non ritornandovi più. E quello di cui più si lamentava il trattore, più del debito, più del tempo che era passato, si lamentava di questa disistima, di questa offesa al suo amor proprio di trattore. E Riccardo Joanna pretestava un viaggio, un’assenza di due mesi, una dimenticanza: prometteva che sarebbe ritornato, senz’altro, ad assaggiare quel buon risotto alla cappuccina: il trattore usciva, obliando di chiedere i suoi quattrini. Poi due altri ne vennero insieme, un litografo per certe incisioni di un numero-strenna, pubblicate un anno e mezzo prima, e il commesso del camiciaio, per certe camicie, da notte, di seta, un conto vecchissimo. Parlavano a gara, l’uno interrompendo l’altro, cantando monotonamente la stessa canzone, insistendo, insistendo con una pazienza, con una rassegnazione di chi conosce la inutilità dei suoi sforzi, ma che pure vuol compire il suo dovere.

Riccardo Joanna li ascoltava, col capo arrovesciato sulla poltrona, con la bocca socchiusa, con gli occhi socchiusi, come se dormisse: e stringeva una stecca di avorio, fra le dita, lassamente, come se dormisse: alla fine tacquero ambedue, come stanchi. Riccardo Joanna non rispondeva.

“Ebbene?” domandò il litografo.

“Ebbene?” domandò il commesso del camiciaio.

“Che cosa?” fece Joanna riscosso.

“Almeno mi dica il giorno,” balbettò il litografo.

“Il giorno,” aggiunse il commesso del camiciaio.

“Domani,” fece Joanna.

“Domani?”

“Sì.”

“Anche per me, domani?”

“Anche per voi, domani.”

I due se ne andarono, curvando le spalle, come se si fossero scaricati del loro obbligo. Antonio Amati, più che mai confuso, aggiungeva tra sè e sè queste altre cifre, a quelle precedenti, dei debiti di Riccardo Joanna. E le cifre ballavano la ridda nella sua testa, egli pensava che ci voleva una somma favolosa per liberare Riccardo Joanna da tutti i suoi debiti. Due o tre altri ne vennero, volta a volta umili o impertinenti, chiacchieroni, lunghi, ripetenti continuamente la stessa canzone, anch’essi: era il meccanico che aveva messo il gas, nell’altro ufficio: era il negoziante di vini, che aveva fornite molte bottiglie di champagne, per una cena d’inaugurazione: era un creditore del redattore capo, che lo mandava dal direttore Joanna, il quale lo rimandava al redattore, come il Cristo da Erode a Pilato. Venne anche un altro sarto: e Joanna s’imbrogliò, lo confuse con l’altro, che aveva trovato sulla porta, ne nacque una lite, perchè l’altro aveva avuto dodici lire in acconto, e costui non aveva avuto mai nulla.

“Quando debbo ritornare?” finiva per chiedere il creditore, esausto, disperato.

E la risposta, fiduciosa, superba, era immancabilmente:

“Domani.”

Il creditore se la faceva ripetere, sempre: e si aggrappava a questa parola, a questo uncino, se ne andava, con una speranza. Ma in questo l’usciere entrò, trascinando il passo, sonnacchioso.

“Ebbene, avete questa risposta?”

“Sua Eccellenza la manderà lui, alle sei.”

“Siete sicuro.”

“Manda lui, alle sei, qui.”

“Bene,” fece Joanna, rasserenato.

Di botto, si rimise a scrivere. Ma fuori, in anticamera, una voce femminile parlava forte, con l’usciere: il quale rientrò, parlò sottovoce, questa volta, con Riccardo Joanna, che gli rispose con un cenno vago. Uscito fuori, lo si sentì che cercava di convincere quella donna ad andarsene.

“Io le do molto fastidio,” disse Antonio Amati, con un mezzo sorriso, “lei vuol forse ricevere quella signora....”

“No, no, caro Amati, io non voglio ricevere quella signora.”

Ma l’usciere rientrò, si mise a parlare energicamente con Joanna, facendo dei grandi cenni di denegazione: Joanna fece un moto di fastidio. E lentamente l’usciere se n’andò, lasciando la porta aperta: e la sora Rosina, la lavandaia, una donna grassa e grossa, con due fili di corallo al collo, con una catena di oro, entrò. Sulle prime cercò il suo denaro, ventisei lire, sottovoce; ma quando vide che Riccardo Joanna neppur le offriva da sedere, che si guardava attentamente le unghie, come se non le badasse, s’irritò, alzò la voce brandendo il suo ombrello come una clava. La scena divenne clamorosa: qualunque cosa le dicessero Riccardo Joanna e l’usciere, che era accorso, non valeva a calmarla; ella urlava come una trecca, voleva le sue ventisei lire o andava alla questura, andava da un altro giornale a denunziare questi bricconi che vanno tutto il giorno in carrozza, e non hanno ventisei lire da dare a una disgraziata.

“Portate le camicie sporche, quando non avete denaro,” strillava.

Invano Joanna le andava ripetendo il suo eterno domani: ella non ci credeva a questo domani, non voleva tornare, li voleva in quel momento. E gridava tanto, diceva tante parolacce, che Antonio Amati, tutto tremante, alzava quanto più poteva il giornale che leggeva, per nascondersi; avrebbe voluto scomparire, tutto.

“Ritornate alle sei,” disse Riccardo Joanna, non sapendo più come placare la lavandaia.

Ma che! non voleva ritornare, le gambe le dolevano, non stava a sua disposizione: avrebbe aspettato sino alle sei, non si moveva di lì, incredula, ostinata. E prese una sedia, si mise a sedere calmata di un tratto, aspettando quietamente le sei.

“Aspettate pure,” aveva detto Joanna, fingendo disinvoltura.

E si era rimesso a scrivere, come se nulla fosse. Ma la sora Rosina restava lì, piantata, con una cera di donna paziente che aspetterebbe così il giorno del giudizio. Per poco Joanna scrisse, ma poi la penna gli schizzò, per un moto nervoso. Antonio Amati continuava a leggere i giornali, ma non capiva nulla: li spiegava e li ripiegava, pian piano, come se temesse di far rumore, come se volesse farsi dimenticare. Immobile, come un dio Termine, la sora Rosina stava lì come un incubo. Alla fine, non reggendosi più, Antonio Amati si alzò, andò presso Riccardo Joanna, e gli parlò sottovoce. Il giovane giornalista arrossiva, il vecchio giornalista impallidiva: e qualche cosa fu fatto, rapidamente, fra loro. Antonio Amati ritornò al suo posto. Dopo cinque minuti, con un alto disprezzo, con un cenno imperioso, Riccardo Joanna tese un batufoletto di carte alla lavandaia:

“Eccovi le vostre ventisei lire.”

Ella se ne andò, borbottando. Non era una cattiva donna, no, ma furiosa quando voleva il suo. Riccardo Joanna non si degnò neppure di risponderle. E Antonio Amati provò un minuto di felicità pura; aveva almeno pagato un debito di Riccardo Joanna! Costui aveva finita la sua lettera, e la mandava in tipografia: aveva promesso al tipografo Casiraghi di dargli dei quattrini per le sei. Macchinalmente, andava rivedendo certe corrispondenze antiche, certi vecchi articoli che non aveva mai voluto pubblicare, e che man mano andava pubblicando, certe vecchie novelle di scrittrici sconosciute: e con le forbici andava tagliuzzando pezzetti di altri giornali, incollandoli sopra pezzi di carta bianca, scrivendovi qualche frase per cominciare e per finire. Macchinalmente, leggendo i giornali francesi, compose due telegrammi particolari, assai lunghi: macchinalmente, fumando, dormicchiando, fece un articoletto, poche cartelline e lo firmò con quell’i lungo che pareva talvolta un’accetta, talvolta una rivoltella. Antonio Amati lo guardava con ammirazione, come si guarda un automa che agisce come un uomo.

L’automa giornalista si moveva precisamente, senza dar cenno di fastidio o di stanchezza: niuna impressione si manifestava sul viso floscio e pallido, l’occhio smorto restava senza sguardo: solo le mani andavano e venivano, meccanicamente, adoperando le forbici, la colla, la penna, il lapis rosso. In mezz’ora di questo lavorío macchinale, Riccardo Joanna, l’automa giornalista, ebbe combinato tutto l'originale pel giornale. L’usciere andava e veniva, senza parlare, anch’esso diventato una macchina, in questa silenziosa asportazione di carta scritta e stampata.

“Ecco fatto,” disse Riccardo Joanna, ficcandosi le mani in tasca.

“Già fatto? È un miracolo. Non avevo mai visto fare un giornale. È bellissimo.”

“Domani il giornale sarà orrendo.”

“Oh!”

“Orrendo, orrendo: io ne capisco.”

“Ma le pare!”

“Almeno questa sua bruttezza piacesse al pubblico! Perchè, vedete, il pubblico ama assai le cose brutte, le cose volgari: ma ama una speciale bruttezza, una speciale volgarità. Chi la indovina, quello è bravo. Io.... non ci riesco. Eppure lo fo abbastanza male, il Tempo. Le dirò una cosa, Amati; e senza posa. Alla mattina, io ho un moto di ripulsione quando veggo il mio giornale.”

Antonio Amati ascoltava, fattosi triste. Di là si udiva un grande scricchiolío di forbici: un ragazzino di dodici anni dava di grandi forbiciate nelle fasce, per la spedizione. Ritto sopra un seggiolone egli tagliava le striscette rosse, azzurre e gialle, che spesso volavano attorno a lui. Nella stanza del direttore si taceva: Riccardo Joanna era ricascato in uno di quei suoi torpori, quel leggiero sonno che lo abbatteva, ogni tanto, in mezzo al lavoro, in mezzo alla conversazione. Antonio Amati taceva, preso anche lui da una stanchezza, da una sonnolenza, con un bisogno prepotente di mangiare e di bere, di sdraiarsi, di fumare, di sonnecchiare. Finiva il giorno e la Via San Dalmazio era già scura. Il ragazzino entrò, con una carta fra le mani; e la mise silenziosamente innanzi a Riccardo Joanna. Costui la guardò, ma parve non la vedesse. Il fanciullo aspettava, pazientemente. Alla fine, disse, sottovoce:

“Trentacinque e settanta.”

Riccardo Joanna lo guardò, lesse la carta, macchinalmente:

“Va bene,” disse. “Va’ di là: ora ti darò le trentacinque e settanta.”

“Non tardi, signor cavaliere: son solo e non arriverò in tempo.”

“Arriverai, arriverai.”

Una inquietudine si manifestò sul volto di Antonio Amati. Si era fatto pallido: e la sua leale e buona fisonomia di giovanotto spensierato si contraeva nervosamente.

“Che ci è?” domandò, come allarmato.

“Niente: è la spedizione.”

“Quale spedizione?”

“Quanto è ingenuo, lei, signor Amati! Oh questi giovanotti! Ma non lo sa, lei, che il giornale deve partire per la provincia, e ci vuole un francobollo da un centesimo, sopra ogni copia?”

“Scusi,” fece l’altro, raumiliato.

“Niente: ci vogliono trentacinque lire e settanta.”

“E se no?”

“Non parte.”

“Oh Dio!”

“Senza trentacinque lire e centesimi settanta il Tempo resta a Milano. Ce le ha lei, queste trentacinque lire?”

“Io?... no, pur troppo, non le ho.”

“E allora.... non partiremo.”

“Com’è possibile?!”

“Oh! sono cose che succedono.”

“Sono.... sono già succedute?”

“Si: talvolta. Pare che questa sera si rinnoverà il caso.”

“Non potrebbe chiederle in prestito a un amico?”

“È inutile,” fece Joanna, crollando il capo.

“Cercare i francobolli in credenza?”

“È inutile,” ribattè, lugubremente, Joanna.

“Infine far qualche cosa, ma partire?”

“Tutto è inutile, tutto,” disse Riccardo Joanna, aprendo le braccia, desolatamente.

Antonio Amati pensava, pensava. Poi alzò il capo:

“Senta, signor Joanna, io ho un’idea....”

“Sarà buona.”

“Io non ho le trentacinque lire, ma posso averle. Ecco qui la mia catena e il mio orologio: li mandi a impegnare.... ma è tardi, le agenzie dei pegni saranno chiuse....”

“No, no, sono ancora aperte,” disse precipitosamente Riccardo Joanna.

“Ebbene, ecco.”

“Grazie,” fece seccamente Joanna.

E chiamò il ragazzino, se lo fece accostare, gli parlò sottovoce. Gigino ascoltava, con aria di furberia, non disse verbo, mise la catena e l’orologio in una carta e scappò via senza salutare.

“Andate da Sua Eccellenza, sono le sei,” disse Riccardo Joanna all’usciere.

“Gliela porto qua la risposta?”

“No, portatemela in tipografia.”

La tipografia era un po’ lontana, in Via Santa Radegonda. Già vi ardeva il gas: e i compositori erano nel fervore del lavoro, i macchinisti davano l’olio alla macchina, un’aria di febbrile gaiezza regnava. Solo il signor Casiraghi se ne stava in un angolo, tutto chiuso nella sua collera. Riccardo Joanna andava e veniva, dal proto ai tipografi, piegandosi sul marmo, guardando la composizione, evitando, ritardando di accostarsi al signor Casiraghi. Ma costui era implacabile:

“Dunque?” gli disse, afferrandolo pel soprabito.

“Ora, ora,” fece Joanna.

“Ma che ora, ora! Troppe ore sono passate.”

“Aspetto una risposta. L’usciere verrà a portarmela qui.”

E schiuse la porta a cristalli, guardando sulla via, se l’usciere comparisse, col suo passo strascicato. Antonio Amati venne a raggiungerlo.

“Non avevo mai vista una tipografia. È una cosa stupenda.”

“Sì,” disse brevemente Riccardo.

“È stampato il mio articolo?”

“Composto, non stampato.”

“Vale a dire?”

“Dalla coppa alle labbra, vi è tempo di morire.”

E guardava sempre sulla via, se l’usciere comparisse. Era nervoso, adesso, col cappello buttato indietro, le mani che sollevavano, dietro, le falde del soprabito, la faccia che interrogava ansiosamente la lontananza di Via Santa Radegonda. Alla fine l’usciere comparve, lentamente si accostò, restò ritto innanzi a Joanna.

“Ebbene?”

“Sua Eccellenza il principe è partito alle ore 5 e 20 per Parigi.”

“Toh!” fece Riccardo Joanna. E rise.

Antonio Amati non l’aveva mai inteso ridere in quella giornata: e se ne sgomentò.

“È partito.... improvvisamente?” chiese, poi, Riccardo Joanna.

“No, signor cavaliere: doveva partire.”

“Nulla ha lasciato detto per me?”

“Nulla.”

“Sua Eccellenza il principe non lascia mai detto nulla. E quando torna?”

“Non si sa, signor cavaliere.”

“Non si sa mai quando ritorna Sua Eccellenza il principe.” E rise di nuovo. L’usciere domandò:

“Posso andare, ha bisogno più di me?”

“Non mi serve nulla, andate pure.”

Riccardo Joanna rientrò in tipografia. Camminava piano, accostandosi al signor Casiraghi. E costui gli lesse sulla faccia la cattiva notizia. Ma la sua collera non esplose. Freddamente gli disse che non stampava, quella sera: un terrore si disegnò sulla faccia di Antonio Amati che stava a sentire questo discorso. E per mezz’ora vi fu un combattimento di parole e di gesti fra il signor Casiraghi, tipografo, e il signor cavalier Riccardo Joanna, direttore proprietario del Tempo; un combattimento dove il vecchio giornalista adoperò tutte le armi della parola, per convincere Casiraghi a stampare quel giorno il giornale. Ma quello doveva conoscere oramai tutti i ripieghi della eloquenza di Riccardo Joanna: perchè nulla valse a persuaderlo: le preghiere più umili, le promesse più larghe, certe vaghe minacce di suicidio.

Antonio Amati assisteva, tremante, commosso, con le lagrime agli occhi. Dunque il Tempo non si stampava? Dunque il suo articolo non sarebbe uscito? Ciò era insopportabile.

“Signor Casiraghi,” disse ad un tratto, “senta, senta. Le prometto di darle io denaro domani.”

“Lei?”

“Sissignore, io.”

“Me lo dia questa sera.”

“Non posso questa sera. Domani telegraferò a mio zio, a mia madre, mi farò mandare quattrini. Cento lire.... anche duecento, sì, duecento, gliele darò tutte, purchè stampi questa sera.”

“Si obblighi sopra una carta. Io non la conosco, ma m’immagino che sia un galantuomo.”

Antonio Amati si obbligò, sopra un foglione di carta bollata, a dare duecento lire l’indomani al signor Casiraghi: e le dita gli tremavano ancora di emozione, scrivendo. Riccardo Joanna lasciava fare senza neppure ringraziare. Il signor Casiraghi andò a dire una parola al macchinista: un sorriso lievissimo comparve sulle labbra di Riccardo Joanna. Il ragazzino entrava col pacco delle fasce; aveva messo i francobolli coi denari dell’orologio impegnato: diede otto lire e cinquanta che ci erano avanzate, avvolte nella cartella di pegno, a Riccardo Joanna. Costui passò il cartoccino ad Antonio Amati.

“Non mi servono,” disse costui eroicamente.

E prese soltanto la cartella.


Mangiavano in silenzio, l’uno di fronte all’altro, con la voracità taciturna di due manovali che hanno passato dodici ore alla fatica. Quella trattoria di Monte Tabor era piena di borghesi allegri, di artisti poveri che parlavano forte, scherzavano col garzone, ridevano; mentre i due giornalisti, il vecchio e il giovane, col capo abbassato, miravano a saziarsi. Solo Riccardo Joanna metteva molt’acqua di Seltz nel suo vino: lo trovava pessimo il vino, ed era abituato oramai a non poter digerire senza l’acqua di Seltz. Si guardavano vagamente, sorridendosi, senza parlare, e nessuno dei due si occupava più del Tempo, la voluttà del pranzo li teneva. Antonio Amati divorava grissini: Riccardo Joanna non mangiava pane per paura d’ingrassare. Verso la fine del pranzo si comunicarono certe loro idee di gastronomia. Riccardo Joanna, se avesse avuto il tempo, sarebbe stato un Brillat—Savarin. Antonio Amati stava per le carni fresche e sanguigne, per le uova, per i latticini, per le frutta: Riccardo Joanna, stomaco rovinato, stava per le salse, per i pesci, per i pasticci. Ora si guardavano affettuosamente nella soddisfazione del pranzo, in quel momento di sonnolenza bonaria che precede la digestione. E Riccardo Joanna pagò un conto abbastanza forte per quell’osteria. Gli restavano un paio di lire delle otto e cinquanta.

“Andiamo in Galleria,” disse.

Camminavano a braccetto, fumando, in uno stato di beatitudine.

“Siete un buon giornalista, farete farete,” diceva Riccardo Joanna, tutto intenerito, non dando più del lei ad Antonio Amati.

“E credete?”

“Ne sono certo, non v’inganno. Avete forza.”

Si sorridevano. Ma una persona li fermò: era Gigino lo spedizioniere che veniva verso il Monte Tabor tutto scalmanato:

“Oh, signor cavaliere?”

“Che c’è?” domandò questi subitamente turbato.

“C’è che non può stamparsi, stasera, il Tempo!”

“E perchè?”

“Manca la testata.”

“La testata?”

“Sissignore. Quello della stereotipia aveva avuto ordine di fare la nuova....”

“E non l’ha fatta?”

“L’ha fatta; ma è venuto una quantità di volte in ufficio per esser pagato.”

“Io non l’ho mai visto....”

“Sì, signor cavaliere....”

“Sarà, ma non me ne ricordo.”

“Allora, oggi, per la rabbia, è andato in tipografia e l’ha portata via.”

“Non si poteva rifare in caratteri tipografici?”

“No, erano troppo piccoli.”

“Di che si trattava?”

“Di diciotto lire.”

“Non avete cercato di questo stereotipo?”

“Sì, signor cavaliere: il proto mi aveva prestato le diciotto lire. Ma la bottega era chiusa: sono andato a casa sua, aveva sloggiato.”

“Bene.”

“E lei non viene laggiù?”

“A far che?”

“Sicchè io posso andarmene?”

“Andate pure.”

“Quella di stasera, di spedizione, che ne fo?”

“Conservatela per domani; denaro e fatica risparmiata.”

“Buona notte, signor cavaliere.”

I due giornalisti rimasero soli, piantati nella via.

“Ebbene?” disse Antonio Amati.

“Era una fatalità,” gli rispose Riccardo Joanna.

Ma non andarono in Galleria: voltarono per Piazza Fontana, girarono per due o tre strade senza parlare, finchè arrivarono in Via Sant’Eufemia, dove abitava Riccardo Joanna.

“Venite su con me?”

“Non vorrei annoiarvi.”

“Venite,” fece l’altro brevemente.

Il vecchio giornalista salì innanzi sino al terzo piano, aprì un uscio pian piano, e attraversarono un’anticamera, in cui il fiammifero di Riccardo Joanna facea sembrar fantastici certi grandi armadi.

“Non risvegliamo la padrona di casa.”

“Dorme così presto?”

“È una levatrice: dorme quando può!”

Era una stanza mobiliata banalmente, con un gramo tappeto, certe mezze tende bianche all’uncinetto e un lettuccio stretto e miserello. Riccardo accese una mezza stearica: sedettero ambedue accanto al tavolino, dove vi era l’occorrente da scrivere: ma non un foglio era intiero, tutti erano macchiati, il calamaio era secco, la penna carica di crosta secca d’inchiostro. Riccardo Joanna guardava il fumo andarsene al soffitto: Antonio Amati guardava Riccardo Joanna e la stearica ardeva in mezzo a loro con luce fioca e giallastra.

“Voi soffrite,” mormorò il giovanotto.

“Io? no. Non soffro neppure più.”

“Non volete confidarvi? Non vi sono amico abbastanza?”

“V’ingannate. Io non mento. Vi assicuro che non soffro più. L’anima, come il corpo, si assuefà a certi dolori. Sono passati tanti anni di questa vita!”

“Sempre questa vita?”

“Sempre uguale l’essenza, varia la forma. Il giornalismo è uno strumento a molte corde: alcune risuonano stridule, alcune cupe, altre truci, ma tutte sono dolorose.”

“Dolorose?”

“Quanto umanamente comporta un uomo, tanta è la misura di questo dolore. E non avete visto? Non avete udito?”

“Ho visto e udito.”

“Ebbene, questo è un giorno solo. Quanti giorni vi sono in un anno, quanti giorni in trentacinque anni? Tanti sono passati sul mio capo e ognuno di essi mi ha ferito, ognuno di essi mi ha portato un colpo.”

“Voi esagerate, credo,” disse timidamente Antonio Amati.

“Non esagero. Sono duro, sono incallito, io, non mi lagno neppure più. Parlo per voi.”

“Pure, vi sono grandi soddisfazioni.”

“Sì, sì. L’amore, per esempio. Le attrici, le cantanti, le ballerine, vi amano. In molte, poverette, è paura dell’articolo sfavorevole, è il timore della critica che le critica: in molte, è un altro lato della debolezza femminile, è il bisogno di appoggio, è la necessità di un bravo, di un camorrista che le difenda: e in altre è l’attrazione per una vita egualmente vagabonda, egualmente randagia, alla giornata, pranzando alla trattoria, dormendo in albergo o in camera mobiliata. Povere donne! Alle volte, ci amano veramente: e veramente noi le amiamo: ma la loro povertà le trascina altrove, la nostra miseria ci inchioda qui e il sogno svanisce, il bell’edificio crolla, ci si divide, addio, addio! Piangono: piangiamo: alle volte ci è un figliuolo...."

"Avete avuto un figliuolo, voi?"

"Sì: ed è morto presso la nutrice, dove la madre aveva dovuto lasciarlo. La madre è morta di febbre gialla a Rio Janeiro," disse seccamente Riccardo Joanna.

La stearica dette in un guizzo, stridendo, come se l’anima della povera morta fosse là presente.

"Ma nessuno ha famiglia dei giornalisti?"

"L’hanno. Nulla di più infelice. Famiglia: ma non si paga il padron di casa e costui vi sequestra i mobili e vi dà lo sfratto. Famiglia: ma bisogna andarsene in camere mobiliate. Famiglia: ma la serva, non pagata, v’insulta e vi abbandona. Famiglia: ma bisogna mangiare in trattoria, spendendo il doppio, mangiando malissimo. La moglie? Poverina, quando ha le scarpe, non ha il cappello; quando si fa il cappello il vestito è già consumato. Vede il marito per due ore al giorno, stanco, pallido, preoccupato, collerico e abbattuto. Non osa chiedergli nulla. Ella soffre in silenzio; egli soffre in silenzio. I bimbi nascono nella malinconia e crescono nella malinconia....”

“Doveva essere buona vostra madre.”

“Credo. Non l’ho mai conosciuta. È morta assai giovane.”

“Mia madre è buona.”

“Amatela assai, amico.”

Un silenzio di tenerezza si fece fra loro. Il sigaro di Riccardo si era smorzato: egli non lo riaccese.

“Grandi soddisfazioni dà il giornalismo! È vero. Potete incrudelire col vostro più gran nemico, e voltare e rivoltare la freccia nella ferita che gli fate. E voi passate un’ora deliziosa, ogni tanto, tenendo alla punta della vostra penna il cuore palpitante della persona che detestate! Ma oggi a uno, domani a un altro: questa volta ve la prendete con un partito, un’altra volta con un’associazione, quest’altra con un gruppo; la schiera dei vostri nemici cresce, si moltiplica, diventa una legione. Voi sentite l’ostilità e aumentate di audacia; ma viene, viene l’ora nera in cui vi vedete solo, sventurato, senza forza, senza coraggio; viene l’ora nera in cui questa legione vi circonda, così fitta, così salda, così minacciosa, che voi chinate il capo e desiderate ardentemente la morte. E quel tormento che avete dato con tanta raffinatezza, lo soffrite voi, lo scontate a oncia a oncia, voi pagate la penitenza del vostro peccato di superbia, dolorando nella superbia: poichè la giustizia che regge il mondo è saggia e profonda. La punizione colpisce dove si è peccato. Sono così vecchio, io, e così solo, così infelice, così caduto, così vinto! Ebbene, i miei nemici non mi hanno perdonato, non mi perdoneranno mai.”

“Eppure,” osservò Antonio Amati, “si trovano anche degli amici, col giornalismo.”

“Già. Dite bene. Ma è più facile dispiacere che piacere; ma dieci servizi che rendete, non valgono un male che fate; ma la più grossa misura di lode equivale appena a una piccola misura di biasimo. Le amicizie cogli uomini politici? Schiavo dovete essere, non amico: non dovete aver bocca che per laudare: non dovete chiedere e tutto dovete dare: vi è impedito il giudizio, il consiglio, l’avvertimento. Le amicizie degli uomini di affari? Durano quanto il loro affare. Le amicizie dei partiti? Non sono cose umane, sono formole impersonali: il partito è un ente, l’ente non ha viscere, l’ente non ha cuore, l’ente non può avere amore e gratitudine. Avete visto che mi ha fatto, oggi, Sua Eccellenza il principe? Sapeva di dover partire, oggi, alle cinque e venti: ha fatto dire al mio servo di ritornare alle sei. Non mi ha detto no, non mi ha respinto, non ha cercato neppure un pretesto: mi ha burlato.”

“Che infamia!”

“Non dite infamia. Egli aveva ragione. Noi ne abusiamo di questa presunta amicizia, noi la vogliamo sfruttare in tutti i modi. Oggi cerchiamo denaro, domani protezione, dopodomani intercessione e tutto ci pare dovuto a noi, noi tutto osiamo di pretendere! Io l’ho seccato, il principe: egli è capo—partito, ma io l’ho seccato assai.”

“Pure gli avete reso dei servigi.”

“Sì, ma non l’ho fatto ministro. Egli non mi perdonerà mai questo.”

“Un grand’uomo come lui?”

“È uno sciocco.”

“Voi scherzate.”

“Uno sciocco, vi dico. Ahimè, nessuno meglio di noi conosce la misura di questi grandi uomini, noi sappiamo il segreto della loro riputazione. Essa è fatta di aggettivi nostri: essa è fatta di false notizie nostre: essa è fatta di articoli nostri. Sono quindici anni che io do dell’illustre a Sua Eccellenza il principe e tutti hanno finito per crederlo illustre, sono quindici anni che quando egli parte io scrivo: È partito Sua Eccellenza il principe per Vienna: si crede che abbia una missione presso quella Corte. — La notizia è riportata, ampliata, travisata, commentata, poi smentita. Oggi io dirò che è andato a Parigi, e che forse lo invieranno ambasciatore nostro colà. Non è vero. Ma per quindici giorni la stampa non si occuperà che di Sua Eccellenza. Sono quindici anni che io dico alla Camera, agli elettori, al pubblico che le cose non andranno bene, sino a che Sua Eccellenza non diventi ministro: e moltissimi, con me, hanno questa convinzione, soltanto perchè l’hanno letto nel Tempo. Ecco come si è fatta la riputazione di Sua Eccellenza, che è uno sciocco.”

“E se lo facessero ministro? finirebbero le vostre pene, mi pare.”

“No. Crederebbe che lo han fatto per premio alla sua grandezza: perchè io ho persuaso anche lui, della propria grandezza: e cercherebbe di comperare il Fulmine, che gli dà noia.”

“Siete pessimista.”

“Non sono niente, caro Amati. Sono vecchio e sono stanco. Vorrei esser povero, ma sconosciuto: povero, ma senza nemici: povero, ma senza le false abitudini di un falso lusso: povero, ma senza questo cancro del giornale che debbo pubblicare ogni giorno! Io invidio tutti i vecchi giubilati, tutti i vecchi ufficiali in riposo, tutti i vecchi operai pensionati: qualunque vecchiaia più umile, più poveretta, è migliore della mia!”

“Perchè non lo ammazzate il giornale?”

“Non posso.”

“Perchè?”

“È superiore alle mie forze: io mi sono battuto varie volte: io ho combattuto sui campi di battaglia, per l’Italia: io ho visto la morte, ma non ho il coraggio di ammazzare il giornale. Sono vigliacco.”

La voce era desolata: il tono era lugubre. Alla luce della stearica, la faccia di Riccardo Joanna sembrava più gialla e più floscia, le palpebre rossicce parevano sanguinanti, le tempie rade di capelli avevano riflessi di cranio dissotterrato: il vecchio giornalista pareva una rovina di uomo.

“Eppure.... eppure,” disse timidamente Antonio Amati, “qualche volta il Tempo non esce.”

“È vero, non esce. È una cosa terribile, ma non esce. Esce l’indomani, se ho quattrini. Una cosa terribile.”

“Come potete resistere?”

“Non so, la prima volta, sino all’ultimo momento, non ho creduto che fosse possibile: credevo nella Provvidenza, credevo che il tipografo avrebbe avuto pietà. Ma non ne ebbe, pietà. Io dicevo: — Se il Tempo non esce, io mi ammazzo. — Giravo intorno alla macchina, ferocemente, come se avessi voluto imprimerle movimento con la volontà. Essa stava immobile, taceva. I bimbi che mettono i fogli mi guardavano: io mi sentiva morire. Vennero le donne che piegano i giornali: aspettarono un poco, silenziose, ravvolte negli scialletti neri, immobili: poi, ad una ad una, se ne andarono. Erano tristi, per la giornata che perdevano. Se ne andarono anche i compositori, a uno a uno, lasciando le nere pagine composte. Il tipografo era scomparso. Ero solo, con quel giornale lì, che non andava in macchina. Soffrivo come un dannato. Uscii di lì, errai per i bastioni, come pazzo, gironzai attorno al Naviglio, per buttarmivi. Ma non ne ebbi il coraggio: pensavo a quell’agonia, come a quella di un mio figliuolo, che se ne morisse di fame ed io non potessi dargli un pezzo di pane. Ah! non sapete, non sapete che è per noi questo foglio di carta, questo foglio volante, che costa così caro, che vale così poco, che è così brutto e che noi intanto adoriamo, ciecamente, per quante delusioni e per quanti dolori ci procuri. Esso per noi ha sangue, ha palpiti, ha vita: non è carta, è carne.”

Gli tremava la voce: al suo muoversi convulso, la luce della stearica s’inclinava. Egli non vedeva più il suo interlocutore, parlava per sè stesso, per sfogare la sua irrimediabile sciagura.

“Eppure non mi sono ammazzato. Non ho dormito, non ho mangiato, ma non sono morto. La speranza, capite, la speranza che il giornale uscisse l’indomani! Ed è uscito l’indomani. Alla seconda volta io ho sofferto quasi quanto la prima, ma non così acutamente. — I lettori, — pensavo, — crederanno che ci sia stato un guasto nella macchina. — E mi consolavo così, mi consolavo pensando che l’indomani sarebbe uscito. Che volete? Ci s’incallisce anche al dolore! Una volta è stato quattro giorni senza uscire: una cosa inaudita. Io non osavo andare in nessun caffè, in nessuna trattoria, fuggivo amici e nemici, dalla mia stanzetta scrivevo lettere a tutti quelli che potevano aiutarmi, bevevo della birra per istupidirmi. Ora.... mi sono abituato anche a questo. Non lo nego: ho un colpo quando questo giornale non esce, ma non più l’anima mia vibra. E certo, vedete, questa indifferenza, questa rassegnazione sono una vigliaccheria, una vergogna, una dedizione della vecchiaia e dell’impotenza!”

Antonio Amati ascoltava, vibrante di emozione, trasalendo a certe frasi più brutali, non interrompendo, sentendo che non doveva interrompere.

“Sapete quale è la parola del giornalista, voi?” chiese a un tratto Riccardo Joanna.

“No: io la ignoro.”

“La parola del giornalista è: Domani. — Domani, per lui, rappresenta tutto: il Fato benevolo, il Caso favorevole, la Fortuna insperata, la Provvidenza che manda il sole sulle terre coperte di neve. Domani, domani, la dilazione, la eterna dilazione, per cui la vita si complica nelle sue cose più semplici, per cui la esistenza diventa una eterna cambiale, sempre scaduta, sempre rimessa al giorno seguente. Domani, per consolare una povera donna che è ammalata: e la povera donna muore, senza consolazioni. Domani, per comperare un vestitino al bimbo: e il bimbo resta senza vestito. Domani, per scrivere a un vecchio parente, che forse vi farà ereditare: e il vecchio parente vi disereda. Domani, per andar a cercare un uomo di affari: l’uomo di affari parte, la occasione sfugge. Non avete sentito, che ho risposto ai miei creditori tutti? Da quello che deve avere ottomila lire a quello che ne deve avere otto? Domani, ho loro risposto, a tutti. Come potrò dar loro qualche cosa, domani? Che accadrà? Chissà! Forse nulla. Ed essi ritorneranno, i creditori, domani, puntualmente, speranzosi e quindi più premurosi, delusi e quindi più accaniti, verranno tutti, ne verranno degli altri, a cui è stata passata la voce, sarà una processione. Che dirò loro? Non lo so. Dirò loro di ritornare il giorno seguente. Così, vergognosamente, sino alla morte. Per questa parola domani, io mi sono perduto.”

Tacque. Riandava sul passato.

“Era un gran giornale il Tempo. Ebbe una fortuna insperata, immeritata, forse. Saliva, saliva, che era una vertigine. Perchè? Non era nè più brutto, nè più bello degli altri: ma trovò il suo momento. Io andava, andava, per impulsione magnetica, passando di buona fortuna, in buona fortuna: non avevo scrupoli, non mi importava nulla di quanto non riguardava il giornale, non vedevo se non l’affare da farsi, la vendita che cresceva. Ebbi la fortuna di stare tre anni all’opposizione, fierissimamente: quando il mio partito trionfò, me ne staccai, sentendo che era dannoso appartenere ai trionfatori. Volli essere indipendente. Sapete che significa questo vocabolo? Appartenere a chi meglio vi conviene, per un momento: e poi rompergli fede, e passare all’avversario. Si ha l’aria di esser liberi, di esser giusti: molti vi temono, nessuno osa lagnarsi, e si fanno i propri affari magnificamente. Sapete a che tiratura è asceso il Tempo? A centomila copie! Tiratura favolosa in Italia, una fortuna che nessuno ha avuto più. Sapete? In quel giorno che il Tempo ha toccato le centomila copie, vi è stato qualcuno che me ne ha offerto mezzo milione. Ho rifiutato. Ho detto: Domani. L’indomani, la tiratura era discesa. Poi è discesa sempre, senza causa apparente, senza ragione, per le stesse cause forse per cui era salita, o perchè era finita la sua fortuna. Potevo aver mezzo milione. Ho detto, superbamente: Domani. Eccomi qua....”

“Ma non avete lottato?”

“Ho lottato. Ma per certe battaglie ci vuole il coraggio e la flessibilità dei giovani; ci vuole la fede nel talento, che nel giornalismo si perde; ci vuole la sensibilità che nel giornalismo si smarrisce. A che scopo, poi? Ho lottato, lotto ancora come un disperato, ma sono vecchio.”

“Perchè non ammazzate il Tempo?

“Sì: e dopo? Come vivo? come faccio? dove vado a naufragare? Quando avete in corpo trentacinque anni di giornalismo, non sapete, non potete fare più niente: e quando il giornale è morto, nessuno vi prende più, tutti vi respingono, tutti vi voltano le spalle. Il giornale, capite, è un pretesto per non mendicare. O piuttosto, m’inganno: è un pretesto per poter mendicare, senza che le guardie vi arrestino, per improba mendicità.”

“Che dite!”

“Dico questo, giovanotto. Dico che se oggi voi non foste venuto, io non avrei potuto dare cento lire al mio cartaio, ventisei lire alla mia lavandaia. Vi ho fatto impegnare l’orologio, e non vi conoscevo, stamane! Vi ho fatto firmare una obbligazione, per domani: e domani, se non pagate, vi possono citare e trascinarvi in tribunale. Vi ho invitato a pranzo, e ho pagato coi denari del vostro orologio. Oggi vi ho levato tutto: e vi rammentate? Non vi ho ringraziato neppure, tanto mi sembrava naturale il mio accattonaggio e naturale il vostro sacrificio. Domani, quando non avrete più denari, io passerò avanti, poichè voi mi avete già fatto l’elemosina, io cercherò un altro che me la faccia, fino a che non l’abbia trovato! E sarà così ogni giorno! Ogni giorno, così, sino a che io non muoia, di questa malattia di cuore: e se è breve, morirò nella via, o in tipografia, o sulla mia scrivania, con la faccia nel calamaio, con la mano sulla penna: e se è lunga, mi porteranno all’ospedale. Qualche amico verrà; forse faranno una sottoscrizione per me, ancora l’elemosina; sulla mia morte, all’ospedale, faranno una colonna di elegia. Così finirà.”

Bruciava la carta della stearica, allegramente, con una vampata: poi la fiamma si abbassò, ondulò un poco, si spense. I due restarono all’oscuro.

“Non ho altra candela,” disse con voce fievole Riccardo Joanna.

“Non importa, non importa,” fece l’altro, quasi singhiozzando.

Joanna si alzò e aprì le imposte: un po’ di luce venne dalla strada. Fissandosi bene, nell’ombra, si vedevano. Il vecchio era curvo, disfatto, come crollato: e il giovane non alzava il capo.

“Questa è la catastrofe,” riprese fievolmente Riccardo Joanna, come se si svegliasse dalla febbre. “Non già la bella catastrofe, violenta, grande, una tempesta che tutto abbatte, un buon colpo di spada attraverso il polmone, una buona palla di pistola dentro il cranio, la morte dei forti infelici: la morte che attira l’ammirazione, e dà un’aureola di grandezza. No. La catastrofe piccola, minuta, volgare, quotidiana: oggi se ne va uno scrupolo, domani si abbandona una fierezza, l’altro giorno si sacrifica un sentimento, quest’altro giorno si dice addio a una fede. Il pudore si sgretola, l’amor proprio si annulla. Si soffre assai, prima: poi, viene l’atonia della coscienza, quell’orribile stato, in cui si è perduta la misura del possibile e dell’impossibile, la misura del giusto, l’atonia della coscienza in cui ogni concetto della realtà è finito, in cui si può far tutto, capite, far tutto! È la catastrofe ignobile, indegna di uomini, indegna di cristiani, la catastrofe che non finisce mai, che non ammazza, che fa agonizzare, e che non uccide, che fa ribrezzo, e non fa pietà. Non vi è lume, per vedermi, perchè io sono un disgraziato accattone, senza pudore e senza coscienza; ma voi sentite la mia voce, intendete la mia parola, voi, giovanotto! Non vi è catastrofe bella, nobile, decisiva! Io non ho neppure il coraggio di morire! Io sono un vile! Io mi fo ribrezzo!”

“Calmatevi, calmatevi,” fece Antonio Amati.

“Promettetemi che non farete il giornalista.”

Antonio Amati non rispose.

“Promettetemelo. Per ottenere questo, vi ho portato meco, dappertutto, oggi: vi ho fatto assaggiare l’amarezza, tutta l’amarezza di questa vita. Promettetemelo.”

Antonio Amati non rispose.

“Ve ne prego, figliuol mio, non smarrite la vostra via, non vi mettete in questo ingranaggio laceratore. Ve ne scongiuro, pel vostro talento, pel vostro decoro, per queste dolorose confessioni che vi ho fatte, e che non farei mai a nessuno! Salvatevi, salvatevi.”

Antonio Amati non rispose.

“Avete una madre, voi? Non la disubbidite. È fatale. Io mi sono perduto, perchè ho disubbidito a mio padre.”

“Non posso,” disse il giovanotto, con voce grave. “Farò il giornalista.”

Un silenzio profondo seguì quelle parole dette con una convinzione irremovibile.

“Siete credente, voi?” gli domandò il vecchio Riccardo Joanna.

“No.”

“Io, sì. Che Iddio vi assista, dunque.”

Fine.

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