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Diogene Laerzio - Vite dei filosofi (III secolo)
Traduzione dal greco di Luigi Lechi (1842)
Libro Nono - Annotazioni
Libro Nono - Vita di Timone Libro Decimo

ANNOTAZIONI




LIBRO NONO




CAPO PRIMO.


Eraclito.


„Gli Efesii hanno fatto battere, sotto gli imperatori romani, alcune monete aventi per tipo l’effigie di Eraclito. Quantunque ragionevolmente si possa dubitare se queste immagini di piccolissima dimensione, e di mediocre lavoro ci rechino i veri lineamenti del filosofo d’Efeso, non di meno essendo probabile che nell’età nella quale il ritratto d’Eraclito era notissimo non doveasi gran fatto alterare, imitandolo, produco il disegno di tal moneta. — L’augusto di cui nel diritto si ha il volto è Filippo seniore: nel rovescio leggesi in giro ΗΡΑΚΛΕΙΤΟΣ ΕΦΕΣΙΩΝ. Eraclito (moneta) degli Ffesii: vi si vede la figura intera d’Eraclito stante; la parte superiore del corpo è ignuda, l’inferiore involta nel pallio. La mano destra del filosofo è innalzata in atto di uomo che parli, nella sinistra ha una clava. Questo simbolo allude insieme al suo nome, ch’è un derivativo di quello d’Ercole, ed alla forra della sua anima e del suo carattere.“ — E. Q. Visconti.

II. Omero degno di essere scacciato a bastonate. — Ciò perchè aveva desiderato il fine di tutte le querele degli dei e degli uomini; lo che se fosse avvenuto, ogni cosa sarebbe perita, non essendovi armonia senz’alto e senza basso, senza acuto e senza grave, e nulla di vivo senza maschio e senza femmina. — Aristot. Eti.

III. Finalmente preso d’odio per gli uomini. - L’umor misantropico e mesto che il rese amaro biasimatore degli uomini più distinti della sua nazione; e delle azioni degli uomini in generale, ha fatto luogo alla favola comunemente diffusa, che raffigura Eraclito piangente in opposizione a Democrito che sempre ride. Aristotele lo annovera fra coloro i quali sono convinti che la propria opinione è la vera scienza, tanto e’ fu persuaso della sua. — Si trovò somiglianza tra lui e il filosofo di Ginevra.

V. L’opera che di lui ci rimane ec. — Molti frammenti di essa ci furono serbati, ma tutti assai brevi, i quali vengono a conferma di ciò che dissero gli antichi dell’oscurità di quel libro; non però che tale, oscurità fosse, secondo il Ritter, a disegno per rendersi inaccessibile al volgare. Secondo il dotto alemanno, tutto era enimmatico in sì fatta composizione, forse per causa della confusione delle parti essenzialmente differenti, versando insieme sulla politica, sulla fisica, sulla morale ed anche sulla mitologia, o teologia ec. ec.

E la depose nel sacrato di Diana. — Dalla tradizione che fa deporre da Eraclito la sua opera nel tempio di Diana in Efeso, vorrebbe il Creuzer trarre una prova della verisimiglianza del rapporto della dottrina di Eraclito co’ miti orientali, di cui senza dubbio eravi qualche cosa nel culto di Diana. Ma questa tradizione, osserva il Ritter, non ha più fondamento di tant’altre, nè la tendenza panteistica del sistema eracliteo si rannoda storicamente con alcun legame alle idee orientali, sebbene non si possa negare che molte idee orientali non siensi frammiste alle sue da’ nuovi eraclitei, pel commercio dei Greci dell’Asia cogli orientali.

VI. Ogni cosa consistere pel fuoco ec. ec. — „Eraclito ha in comune co’ filosofi ionici la ricerca del principio fisico di tutti i fenomeni, di un principio che penetra tutti i fenomeni del mondo, come loro unità eternalmente vita. Fece consistere il fine della sapienza a conoscere questo principio, risultalo difficile al pari che indispensabile: Non v’ha che una cosa sola obbietto della sapienza, che vuole, e tuttavia non vuole essere nomata, è il nome di Giove; e: La sapienza non è altro che l’interpretazione del modo con cui l’universo è governato. Ora siccome Eraclito chiama fuoco questo primo principio di tutte le cose, non v’ha del pari sin qui gran diversità fra questa dottrina e le precedenti, consistendo la differenza piuttosto nell’espressione che nel fondo di quella; non avendo i precedenti filosofi conosciuto che una forza viva che tutti i fenomeni produce del mondo, e che è in tutto, la qual cosa trovasi anche in Eraclito, il quale insegna che l’universalità delle cose non è nè l’opera d’un dio, nè quella di un uomo, ma ch’ella è stata, ch’ella è e ch’ella sarà in eterno il fuoco vivente, accendentesi e spegnentesi con misura, e che tutto si converte in fuoco, e che il fuoco si trasforma in tutto ec. Anzi notisi che ei non pone differenza tra il fuoco e la forza della vita, o l’anima; che per conseguenza non prende la fiamma pel fuoco, poich’essa è l’eccedente del fuoco; ma che e’ crede quella un vapore secco e caldo, per conseguenza un fluido puro e caldo, comparabile ad una sorte d’aria, e che in fine il principio di tutte le cose è per lui l’oggetto di ogni saggezza, il pensiero razionale che presiede allo sviluppo universale delle cose. Un altro punto invece della sua dottrina distingue Eraclito dai precedenti filosofi ionici. Questi tendevano a trovare il principio dei fenomeni e delle forze particolari della natura, di cui supponevano l’esistenza reale, assoluta; quello, per converso, senza brigarsi di questa supposizione, non cercava che di cogliere l’idea della forza vitale la più elevata, e la più perfetta che si riveli in tutti i fenomeni. Ei facciasi dunque l’idea di un ente illuminato, vivente di una vita completa, assoluta, dotato di una forza invincibile, d’una forza che sovra tutto si manifesta sormontando ogni ostacolo, ogni idea che può ad essa opporsi. Nulla naturalmente non può resistere alla forza vitale assoluta; essa è dunque il solo vero, il solo permanente per sempre; ma, come forza vitale assoluta, essa non può essere impastoiata nella sua attività, sebbene nulla di ciò ch’essa forma non resti, e tutto sia in uno stato di nascimento costante. Di modo che la vita eternale del fuoco assorbe, nel pensiero di Eraclito, tutto ciò che dura ne’ fenomeni particolari e in ogni cosa individua. Per lui, come dicevano gli antichi, tutto è, e non è, poichè difatti ogni cosa apparisce, ma disparisce ben tosto; tutto per lui è in movimento; non riposo, non istato di tranquillità. — La ragione perchè Eraclito, rappresentandosi il principio primitivo di ogni fenomeno sotto una forma sensibile, credette trovarlo nel fuoco, si spiega assai di leggieri per la mobilità del fuoco; mobilità ch’è per lui la vita pura istessa, la vita e il movimento assoluto in sè. Ora egli è da considerarsi che noi non troviamo in Eraclito alcuna ragione tendente a provare che il fuoco è il vero principio delle cose; mentre gli altri Ionici cercavano accuratamente di stabilire la loro dottrina toccante l’elemento primo. Lo che puossi spiegare dicendo, che l’elemento particolare l’occupa meno che l’idea fondamentale che tutto riposa su di un ente vivo, perfetto. Non è del pari inverisimile ch’ei concepisse il fuoco ente primitivo, in quanto principio di tutti i fenomeni, differente al tutto dall’elemento che noi appelliamo fuoco, poichè il fuoco, quale il conosciam noi, non è già più che un fenomeno. E qui è da osservarsi che la maniera con cui Eraclito parla dell’ente primitivo non è che simbolica, e che egli avea, più degli altri Ionici, conoscenza di questo linguaggio figurato. Il quale del resto s’accorda assai coll’altre qualità del suo stile pieno di immagini. — Nell’idea della vita è l’idea del cangiamento, concepito in generale, dagli antichi, sotto la formo del molo. La vita generale è adunque un movimento eterno, e tende per conseguenza, come ogni movimento, verso uno scopo; questo scopo doveva esso stesso del pari presentarsi a noi nel corso dello sviluppo della vita come un punto di transizione ad un altro scopo più lontano. Eraclito dunque supponeva nel fuoco vivente un desiderio, in virtù del quale esso prende una forma determinata di esistenza, senza per altro vederla serbare costantemente, cioè a dire un desiderio semplice di vivere o di passare da una forma ad un’altra; poichè non si concepisce un verace fine di sviluppamento pel fuoco eternamente vivo; la qual cosa Eraclito faceva intendere allorchè, rigettando ogni fine dell’esistenza cosmica, e’ diceva, con un’espressione ardita: Giove si diverte quando forma il mondo ec.“ — Ritter.

Ogni cosa piena d’anime e di dèmoni. — Secondo il suo punto di vista generale, tutto nella natura parvegli vivo o animato e divino. Quindi il motto: Entra, chè gli dei sono del pari qui.

Non si rinverrebbero i confini dell’anima ec. — Pel nostro filosofo la vita generale si riflette nell’anima sintanto che l’anima non se ne separa, ma si penetra al contrario della ragione universale, la ripete e la figura, per così dire, al di dentro di sè, quando i sensi sono aperti. Quindi, secondo il Ritter, aveva dritto di affermare che l’anima ben potrebbe sfuggire a chiunque la cercherebbe, prendendo anche tutte le vie, tant’è difficile da penetrarsi, e ch’egli erasi dato per fine della sua vita di cercare sè stesso in sè, come si esprime al paragrafo IV.

Il fuoco, dice, essere un elemento ec. — [testo greco]. Vedi i soliti traduttori e commentatori, e lo Schleiermacher nella nota dell’Huebnero a questo passo.

Il mondo. . . dopo certe rivoluzioni. . . abbruciarsi. — „Secondo Eraclito il fuoco significava il moto il più rapido, e la vita la più perfetta, ma l’azione di discendere verso la terra, era un movimento più lento e una vita meno perfetta; quindi è naturale ch’ei non concepisse la trasformazione del fuoco in elemento d’altra sorta, cioè in grado differente di esistenza, che come un’operazione transitoria, che non serve in qualche modo che a tenere la vita in uno stato di scorrimento progressivo; e dovesse opporre alla povertà della vita, sotto le forme materiali e terrestri, uno sviluppo elevatissimo, che fosse come il termine detto sviluppo cosmico, al quale tutto aspira. E questo scopo non poteva essere, secondo le lue idee sull’eccellenza del fuoco, che la conversione di tutte le cose in fuoco; il che non era che un ritorno al principio della loro esistenza, della loro forza, della loro vita. — Pure l’accendimento ([testo greco]) universale non dee essere considerato come l’ultimo termine di ogni nascimenlo, perciocchè sarebbevi, pel fatto, un termine al flusso eterno delle cose, ma solo come un punto di transizione alla formazione di un nuovo mondo. Eraclito lo indica apertamente, e sembra circoscriverne i periodi ec.“ — Ritter.

La mutazione una via di su e giù ec. — „Pare, dice Ritter, che Eraclito nulla abbia deciso sul modo con cui il cangiamento della vita si opera nel mondo. — Il passaggio di una forma ad un’altra ora ci fa consistere semplicemente nella combustione o nell’estinzione, cangiamento ch'egli riferisce ad oggetti che non ci paiono suscettivi di convertirsi in fuoco, o in materia infiammata, ora ei li contrassegna come il passaggio della morte alla vita e della vita alla morte. L’evaporazione trasparente od opaca occupa una gran parte nelle sue fisiche spiegazioni, come trasformazione in fuoco e in umidità; egli presenta in fine ogni specie di trasformazione come una via ascendente o discendente, che devono percorrere i fenomeni. Questa spiegazione sembra la preferita da lui. — Osservisi, conchiude il Ritter, che in senso suo non hassi ad intendere per via ascendente o discendente un semplice movimento nello spazio, ma un cangiamento nella natura dei fenomeni; poichè la via ascendente è per lui la trasformazione in fuoco, mentre la via discendente è la trasformazione del fuoco in elemento d’altra specie.“


CAPO II.


Senofane.


II. Senofane non fu discepolo di nessuno. — „La forma e il fondo della filosofia di Senofane sono semplici e degni al tutto dei primordj della scienza. Il perchè Aristotele ci presenta l’origine della sua filosofia come dovizia al pio movimento della sua anima. Egli innalzava gli occhi verso il cielo, o diceva che l’uno è dio. Testimonio della sua pietà è la forza colla quale combatte il politeismo. — Il suo sistema appoggiavasi all’idea di dio, ente onnipossente, e alla negazione di qualunque contingenza. — Senofane trovava tutto fondato su di un’unica forza, per cui tutto convergesse verso l’unità, da esso appellata dio; unità del resto che comprendeva il cielo, o il mondo. Siccome ei non poteva ammettere due iddii, così non poteva ammettere un altro ente fuori di dio, dio essendo la totale esistenza. — Secondo un suo domma, dio non è nè in movimento, nè in riposo; perchè ciò ch’è in riposo è il nulla, il quale a niente appartiene, e non ha cosa che gli appartenga; ma ciò che si muove è più che unità; è pluralità, poichè qui una cosa appartiene ad un’altra. — Egli insegna che dio non è nè infinito, nè finito, poichè l’infinito non è che la non esistenza; non avendo nè principio, nè mezzo, nè fine; e il finito è l’uno per rapporto all’altro; carattere della moltiplicità delle cose. Lo che s’accorda anche colla sua dottrina, che dio non ha parti; ma è assolutamente simile a sè stesso, da che se avesse parti, vicendevolmente si dominerebbero; la qual cosa è impossibile, perchè dio, secondo il concetto necessarlo che ne facciamo, domina assolutamente. Questo ragionamento suppone l’accordo universale di tutto ciò che è. — Dal non aver parli conchiudeva essere dio assolutamente eguale a sè stesso; e riferendo questo attributo all’esistenza intellettuale di dio, insegnava che dio, o il tutto, è assolutamente ragione e conoscenza; e collegando la potenza divina alla ragione, diceva dell’onnipotente, che senza conoscere la fatica dirigeva tutto con una profonda sapienza, Ma l’attività razionale di dio non differisce dall’impressione sensibile; poichè l’essenza universale di dio penetra tanto per la vista e l’udito, quanto pel pensiero razionale puro. — L’unità perfetta di dio e’ non applicava soltanto all’esistenza intellettuale, ma sì ancora al mondo corporeo, al cielo. Egli trovava un’immagine di questa perfetta eguaglianza nella sfera, e per questa ragione diceva che dio è una sfera impassibile; la qual cosa s’accorda coll’idea dell’unità, del non limitato e del limitalo; limitando sè stessa la sfera ec. — La fisica di Senofane, ancora assai grossolana, offre poco interesse al filosofo. Conseguenza del suo principio è l’opinione che tutto ciò che nasce è passeggiero, che la terra e l’umanità il sono dei pari ec. — Come dunque in un mondo variabile può essere conosciuta l’immutabile verità? Senofane sembra che si facesse della ricerca del vero senso dell’esistenza divina un problema cui l’uomo dovea disperar di risolvere in questa apparente varietà di fenomeni cangianti, ove non iscorgonsi mai che le parti dell’indivisibile. Però non è meraviglia udirlo ripetere: L’uomo non sa nulla di certo, non v’ha alcuno che nulla sappia nè degli dei, nè di ciò ch’io dica di ogni cosa. Poichè colui che s’abbatte nel meglio e parla con maggior concenvenza, non sa nulla del pari, facendo velo a tutto l’opinione.“ — Ritter.

Visse a’ tempi di Anassimandro. — Non si può indicare con precisione l’epoca della nascita del fondatore della scuola di Elea. Secondo Ritter sembra che Senofane fiorisse verso la 61.ma Olimpiade, non potendosi, eziandio colla grande età del filosofo, conciliare le due opinioni, una di Àpollodoro, che lo fa nascere nella 40.ª Olimpiade, e l’altra di Timeo, che lo dice contemporaneo di Ierone e di Epicarmo. Cousin, non senza erudizione, sostiene l’opinione di Apollodoro, e crede che già avesse oltrepassati gli ottant’anni quando si stabilì in Elea.

III. Scrisse jambi contro Esiodo ed Omero. — Nessun autore antico fa menzione di questi jambi. Forse apponevasi il Rossi credendo interpolato il [testo greco]. Secondo Cousin starebbe la frase, quantunque corrotta; poichè Timone e Sesto tengono Senofane per avversario d’Omero, e a quest’opinione fa puntello un aneddoto di Plutarco. Del resto nella guerra che Senofane fece al politeismo, in quanto attribuiva agli dei ogni sorta di vizj e idee umane, e forme e voce e vesti, ben potè, come il prete Epimenide, combattere Omero ed Esiodo.

Verseggiò le proprie cose. — [testo greco]. Hueb. ipse quoque sua canebat poemata. Ambr. resarciebat. Ross. versibus tradidit. E frase tuttor controversa, ma che persuade ai Fülleborn ed al Cousin aver Senofane, come Omero ed Esiodo, campato la vita col mestiere di rapsodo, e null’altro significare il motto non doversi trattare co’ tiranni ec., se non ch’egli andò a cantare i suoi versi alle corti di Sicilia.

Quattro essere gli elementi delle cose. — La fisica di Senofane non è conosciuta che per testimoni assai posteriori, cui poco o nulla erano non gli scritti del filosofo. Quindi da due suoi versi si dedusse ch’ei considerava l’acqua e la terra come i principi della natura; da un altro verso che la terra come principio unico dei fenomeni; in fine (con Diogene) ai disse ancora ch’egli ammetteva quattro elementi, e certo i quattro ordinariamente conosciuti. E Ritter ha per verisimile che Senofane ammettesse quattro principj, primitivi di tutti i fenomeni della natura; massime paragonando le costui dottrine a quelle degli altri Eleati, nessuno dei quali, in fisica, partì da un unico principio primitivo, ma tutti riconobbero o quattro o due elementi, tra cui trovarono una certa opposizione ec.

Essere in molte cose inferiore alla mente.[testo greco]. Frase assai controversa. Cousin rifiuta l’interpretazione tutta, pitagorica di Rossi e di Brandis, e senza cangiare con Menagio [testo greco] in [testo greco], vi scorge con Casaubono l’intervento di Senofane nella quistione della pluralità e dell’unità, o dell’intelligenza. Però traduce: ogni pluralità essere inferiore all’intelligenza. — Secondo Ritter non altro significale non che: La pluralità delle cose è sommessa alla ragione. — Item animam spiritum: vero etiam multo inferiorem mente esse. — Huebn.

IV. Aver egli sepolto colle proprie mani i suoi figli. — Bruckero crede che lo facesse per povertà, ma Casaubono per prova d’animo forte e come pratica pitagorica; e parmi a ragione.

CAPO III.



I. Udì Anassimandro. — Questa tradizione secondo Ritter è incerta.

II. La terra sferica ec. Due gli elementi ec. — „Costretto di conformarsi ai fenomeni, e ammettendo che l’uno solo esiste agli occhi della ragione, mentre v’ha moltiplicità seguendo i sensi, Parmenide riconosceva due cagioni e due principi primitivi, il caldo e il freddo, ch’egli chiama fuoco e terra, riducendo il primo all’ente, e il secondo al non ente. — Due maniere di essere opposte vi sono nella natura. L’una è il fuoco etereo della fiamma, il fluido, il caldo, il luminóso, il molle e il leggiero; l’altro, la notte, li solido, il freddo, l’oscuro, il duro, il pesante. Questi due ordini di qualità o maniere di essere sono sì opposti fra loro, che essi null’hanno di comune, quantunque in massa eguali entrambi fra loro, ed ogni cosa partecipi dell’uno e dell’altro. Idee naturalmente derivate dall’opposizione fra il vero e l’apparente nella natura. Il fuoco è per lui il vero; ei l’appella come appella l’ente, cioè quella ch’è in tutto simile a sè stesso; la notte al contrario è per lui la semplice apparenza; lo che fa ch’ei l’appelli anche non riconoscibile ([testo greco]), al modo stesso ch’ei chiama inconcepibile il non ente. — Volendo spiegare i fenomeni della natura colla mescolanza di due elementi immutabili, inchinava, come Senofane, alla fisica meccanica. — Egli attribuisce al mondo fenomenale una forma sferica, come all’ente, e stanzia nel centro del mondo un demone che tutto riduce all’unità e tutto regge. Ma l’andamento dei mondo consiste nella mescolanza degli elementi opposti, e nella separazione di ciò ch’è stato mescolato. Quando dunque rappresenta l’opera del dèmone regolatore del mondo come una mescolanza di maschio e femmina, ivi non si tratta che di elementi opposti. Ma siccome quest’opera deve essere di due maniere, cioè mescolanza e separazione, la forza motrice si divide, inconseguenza della massa degli elementi posti in moto, in forze opposte, in amore, e in discordia. Perchè di tutti gli dei, l’amore fu il primo creato dalla forza; la guerra, la discordia e l’invidia gli furono aggiunti, e ben certamente come forze resistenti alla mescolanza degli elementi. Dalla mescolanza del fuoco e della terra nasce l’acqua, ec.“ — Ritter.

La generazione degli uomini ebbe origine prima dal fango ec. — Parmenide faceva nascere ciascun membro dalla terra, la quale per così dire n’era gravida. Queste membra si riunivano più tardi, e formavano il corpo intiero dell’uomo. Gran caso egli faceva della differenza dei sessi, esprimendo con quelli la principal sua dottrina della nascita delle cose per elementi opposti. L’opera della creazione era per lui una lotta tra il principio maschie e il principio femmina. — Nell’uomo avvi pure mescolanza, di luce e di tenebre, e quindi e’ partecipa eziandio alla conoscenza di queste due cose. E siccome questa mescolanza può variare nelle proporzioni, secondo gli individui, là purezza della conoscenza può anche presentare dei gradi diversi, e divenire più perfetta e più pura predominandovi il fuoco. Siccome per altro nulla di ciò ch’è mortale può essere formato di puro fuoco, bisogna sempre, perchè siavi percezione, una certa mescolanza di fuoco e d’elemento opposto. — Il grado di perfezione è in ragione del grado di calore. — Ciò dunque non dà all’uomo che delle opinioni, necessarie, perchè privo della conoscenza della verità. — L’uomo è sommesso ad una necessità ec., ec.“ — Ritter.

III. Parmenide filosofeggia col mezzo di poemi. — Compose un’opera (una sola, secondo il nostro Diogene, I, 16), che d’ordinario si cita con questo titolo: Della natura. — Ce ne rimangono frammenti considerabili. — In essa, dice Ritter, spiegava Parmenide la sua dottrina sulla verità, poi quella sulle opinioni degli uomini. L’opinione consiste a prestar fede agli occhi, che non vedono, agli orecchi, che non odono punto, e a rapportarsene alla lingua. Consiste la via della verità, e converso, a sommettere il testimonio dell’esperienza al giudizio della ragione. Questa distinzione della rappresentazione sensibile e della conoscenza razionale è uno dei maggiori sviluppi, che Parmenide sembri aver dati alla dottrina di Senofane. Del resto le sue dottrine differiscono poco nel fondo da quelle di Senofane: se non che e’ le prova altrimenti. — Parmenide non parte, come Senofane, dal cuore del sistema, dall’idea di dio, ma dall’idea dell’ente. — Tutto è, e il non ente è impossibile. — Quindi le conseguenze: che ciò che esiste non ebbe nascimento, e non cangia, e non è che per sè, immutabile, senza limiti; non è mai stato, non sarà di nuovo, perchè è già presentemente; che l’uno è costante ec. — Ora nel modo con che Parmenide inchiude il successivo nell’idea una dell’eterno, del pari egli sopprime l’esteriorità moltiplice, o la diversità dei fenomeni nello spazio, per concepire l’unità dell’esistenza. — Scomparendo con ciò i rapporti di spazio e di tempo, chiaro consegue che il moto ed ogni cangiamento di modificazione non sono che illusioni. Il tutto avendo il suo principio in sè stesso, è sempre in riposo, poichè l’onnipotente necessità lo contiene fra’ legami del limite, e lo circoscrive da tutte parti; l’esistenza non può essere imperfetta, perchè non manca di nulla; il non esistente solo ha bisogno di tutto. — Parmenide, come Senofane, conchiude dall’uniformilà universale e dalla perfezione del tutto alla sua sfericità. Ma poichè il limite dell’ente il più esteriore è perfetto, desso rassomiglia alla sfera, arrotondata da tutte parti, e nella quale il centro è egualmente lontano da tutti i punti della superficie. Aggiugnendo di suo, non esservi non ente che possa impedire l’ente di costituirsi in unità; nè ente che possa fare che siavi qui e colà più o manco ente. — Parmenide colla dialettica, come Senofane col partire dall’idea di dio, giunse al risultato che, cioè, tutto è pensiero e conoscenza razionale. Il pensiero e ciò che cagiona il pensiero sono una stessa cosa.“

Fiorì nella sessagesima nona Olimpiade. — Secondo nella serie dei filosofi eleati, non si è d’accordo sul tempo in cui fiorì Parmenide. Al dire di Platone e’ sarebbe venuto in Atene nel suo sessagesimo quinto anno, è vi avrebbe veduto Socrate ancor giovine. Collocandosi quindi il suo nascimento, con Cousin, tra la 61.ª e 62.ª Olimpiade, con Ritter nella 65.ª, potrebbe giovanissimo aver udito Senofane già vecchio.


CAPO IV.


Melisso.


I. Melisso era samio ec. — Fiorì circa l’ottantesima quarta Olimpiade. Platone e Aristotele non dicono che udisse Parmenide; secondo Ritter conobbe forse soltanto le dottrine degli eleati, dei quali professò le idee. — Egli espose la propria dottrina in un libro scritto in prosa (unico suo libro secondo Diogene, I, 16) che intitolò Dell’arte e della natura.

III. Infinito essere l’universo ec. — Poco si sa intorno la fisica di Melisso. Sarebbe ad esso particolare l’aver considerato il tutto come infinito, ma il mondo che nasce e perisce come finito. — Quattro elementi ec. La necessità governatrice del mondo, manifestantesi per le forze motrici dell’amore e dell’odio ec.

Nulla doversi affermare circa gli dei. — „Melisso ha in comune con Parmenide di non trarre le sue prove dall’idea di dio, ma da quella dell’ente. Nel che tanto s’allontana da Senofane da dire apertamente che non si dee parlare degli dei, perchè non ne abbiamo conoscenza. Il punto centrale del sistema, l’idea del perfetto, s’allontanata dunque assai più che in Parmenide. — Altra deviazione, per rispetto agli eleati, era l’insegnare che l’ente è infinito. — Da questo principio traeva l’unità, l’immutabilità e l’indivisibilità dell’ente. — Suo scopo principale era il combattere gli errori dei fisici. — I suoi argomenti dirigevansi principalmente contro la possibilità del moto e del cangiamento delle cose. — Dalla mancanza di moto conchiudeva alla non divisibilità dell’ente; dalla non divisibilità alla mancanza di parti; quindi il suo non essere corporeo ec. Non s’hanno indizj che Melisso nel determinare l’ente ne abbia considerata la spiritualità; anzi Aristotele sembra rimproverargli di aver considerato l’uno come materiale ec.“ — Ritter.


CAPO V.


Zenone eleate.


„La fermezza, dirò più, la purezza di carattere che gli antichi autori notarono nel filosofo di Elea si scopre nei tratti non dubbj di questa fisonomia. Quella bozza alle radici del naso; le ciglia aggrottate, il mento sporgente, sono indizj d’un carattere severo, e lontano dalla debolezza e dall’amabile cortesia. — Platone e Diogene accennarono la bella presenza e non so che di gradevole che aveva Zenone nella fisonomia, segnatamente nella sua gioventù.“ — Visconti. Nell’Icon. Gr. del celebre antiquario sono a rodersi le ragioni sull’autenticità di questo ritratto.

III. Eleatico Palamede. — Così era appellato per la forma della sua dialettica audace e sottile, che gli serviva a dimostrare il contrario in tutte le cose.

IV. Inventore della dialettica. — Considerata come sistema, come arte, colle sue regole, colle sue forme; poichè senz’essa non avrebbesi ragionato. Tale fu tenuto anche da Aristotele, perchè forse partiva, nelle sue argomentazioni, da ciò che generalmente era reputato vero.

Suoi libri pieni di molla sapienza. — Tra molti ve n’era uno celebre contro chi asseriva resistenza della moltiplicità. Avea per iscopo difendere la dottrina di Parmenide. Era distribuito in dimande e risposte, e credevasi che primo Zenone avesse usato il dialogo nella trattazione di materie filosofiche. — „Da questa forma, dice Ritter, uscì un ramo della posteriore sofistica, alla cui sottigliezza tende apertamente in alcune sue prove Zenone. Potendosi per altro credere che, nella gravità del suo disegno, egli non considerasse questi artifizj capziosi che come accessorj piacevoli de’ suoi dialoghi, o come uno scherzo per ridersi della goffaggine de’ suoi avversarj. — Dicesi per altro che Zenone negasse non solamente il moltiplice, ma anche l’uno; la qual cosa non sarebbe verisimile che trattandosi dell’unità delle cose particolari.“

VII. L’argomento detto l’Achille e di molti altri. — „Tra gli argomenti che Zenone adduceva contro la realtà del moto, taluno avea qualche cosa di specioso e di difficile a risolvere; taluno dovea riguardarsi come uno scherzo. Sì fatto era l’Achille. In quest’argomento, Achille, il piè-veloce, sfida al corso la lenta tartaruga; trattasi mostrare che Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Poichè, quando sarà giunto al sito donde la tartaruga era partita, essa avrà in quel mentre preso qualche vantaggio, e così di seguito in infinito. Non si comprende come questo, filosofo, che, in tutti i suoi discorsi, sosteneva la divisibilità infinita dello spazio, non abbia posto mente alla divisibilità infinita del tempo; ed è, per altro, sull’ommissione di questa divisibilità infinita che posa l’artificio di questo ragionamento, ec. ec.“ — Ritter. — Quest’argomento di nessun valore non fu diretto che contro i partigiani esclusivi dell’empirismo. Esso non meritava altra risposta che quella del cinico Diogene.

VIII. Credette che vi fossero mondi ec. — „Diogene trasforma Zenone in un fisico! Fisico il nemico del moto, del tempo, dello spazio, dell’esistenza visibile ec. — Ecco l’enigma: Parmenide, nella sua opera sulla natura, che dicono avesse due parti, l’una tutta metafisica e idealistica, l’altra in cui trattava del mondo dell’opinione, dei sensi, usò persino il linguaggio mitologico de’ tempi suoi. Quivi forse colle favole, prese come illusioni dell’immaginazione, si serbavano gli avanzi della fisica ionica di Senofane ec. — Vi si trattava del mondo come di un’opinione, di un fenomeno senza realtà e per sì fatta condiscendenza anche Zenone occupavasi di fisica. Così è da intendere il passo di Laerzio, fuor del quale nessun autore parla della fisica, che Parmenide avea relegata fra’ pregi udizj volgari. — Zenone trovò la scuola di Elea fondata e compita; non gli restò che diffonderla e combattere per lei. Può dirsi che Senofane ne fosse il fondatore; Parmenide il legislatore; Zenone il soldato, l’eroe, il martire. — Parmenide aveva detto, continuando Senofane, che tutto è uno, che l’unità sola esiste. Zenone invece di difendere il maestro assalì gli avversarj, e stabilì la dottrina dell’unità assoluta. Il suo scetticismo, la sua pretesa nichilità, e massime la sua polemica contro il moto, furono mal compresi, e il suo carattere semplice e grande sfuggì a tutti i critici. — Bayle, secondo il solito, si compiace nel suo bell’articolo di fare di Zenone uno scettico. Brucker poco intese, e fe’ di Zenone uno scettico ed un sofista. Kant è forse il primo che, nella Critica della ragione pura, abbia sospettato che le contraddizioni alle quali questo filosofo riduce man mano tutti i fenomeni, non sieno così sofistiche come si pretese. — Zenone è tutto intero nella polemica da lui istituita contro la pluralità e l’empirismo. Ciò solo è certo. Ei fu, nella sua carriera filosofica, come nella sua vita, l’[testo greco] della scuola d’Elea. Si mesce negli avvenimenti politici del suo tempo; intraprende la difesa delle patrie leggi, e soccombe in quest’impresa. Il suo genio si esaurisce nella lotta contro la pluralità, il relativo, il fenomeno. Il suo genio è puramente dialettico; ecco in che consiste l’originalità della parte di Zenone, e il suo carattere istorico; per questo egli ha il suo posto nella scuola di Elea, nella filosofia greca, nella storia dello spirito umano.“ — Cousin.

Che la natura di tutte le cose ec. ec. — Ritter crede assolutamente un errore l’addizione delle parole millantisi a vicenda. Che l’anima fosse una mescolanza ec. — Ritter qui pure scorge un errore, e invece di senza, legge con prevalenza di alcuno. „Zenone, dice Ritter, pensava, come Parmenide, essere l’anima una mescolanza dei quattro elementi, in modo per altro da esservi preponderanza di questo o di quello sugli altri tre, ma non privazione dell’uno o dell’altro. Sembra ch’ei cercasse la purezza o la divinità dell’anima nella preponderanza dell’elemento puro sugli clementi impuri.“


CAPO VI.


Leucippo.


I. Leucippo era eleate ec. — Pari incertezza regna anche sull’età di questo filosofo, taluno facendolo maestro di Democrito, taluno discepolo di Parmenide, taluno di Zenone, di Melisso ed anche di Protagora. Quest’incertezza, osserva Ritter, e l’oscurità circa le sue dottrine, fanno presumere ch’ei vivesse in un’epoca in cui i sapienti poco comunicassero fra loro, Gli scritti che si citano come suoi sono giustamente sospetti.

II. La terra sostenuta girare. — [testo greco] significa anche essere portato su di un carro ec., lo che fece credere al Montucla che Leucippo avesse indovinato il moto della terra intorno al suo asse.

Primo pose principi atomi. — Leucippo è tenuto unanimemente per l’inventore del sistema atomistico greco, ma nella sua forma più antica. Molte dottrine che a lui si attribuiscono sono certo di Democrito o furono da questo perfezionate ed estese. Possidonio dice autore di questo sistema un Mosco, filosofo fenicio, anteriore alla guerra di Troja.


CAPO VII.


Democrito.


„Il solo vero, l’esistente, è per Democrito l’estensione nello spazio, ch’è di figura immutabile: n’è ragione il non venir, nulla dal nulla. Ma avvi anche una moltiplicità, un numero primitivo di cose; e siccome questo numero è nello spazio, così vi deve essere nello spazio qualche cosa che divide, e che non può essere uno spazio pieno, perchè altrimenti non vi sarebbe che un continuo, il quale riempirebbe lo spazio. Questa qualunque cosa che divide è dunque il vuoto, il non ente. — Più, se non vi fosse vuoto, impossibile sarebbe il movimento, e l’esperienza non ci farebbe scorgere, in uno spazio eguale, or più or meno corpi. Mercè il predominio del punto di vista matematico, Democrito stabilisce il principio dell’impossibilità che una cosa si formi di due, o due di una sola, ed ancora che i corpi, cioè tutto quanto veramente è, non si distinguano gli uni dagli altri che per la loro forma matematica, e che e’ non abbiano altra proprietà che la figura. In conseguenza tutto ciò ch’è non differisce che quanto alla figura, quanto al rapporto della composizione e del posto degli elementi fra loro. — Serve di base alla sua dottrina anche la ragione ch’esso produce della divisibilità non infinita dello spazio. — Tiensi che gli atomisti ammettessero eziandio, oltre che l’uno non può diventar due, che, se tutto fosse divisibile, non vi sarebbe unità, per conseguenza non moltiplicità; per conseguenza che tutto sarebbe vuoto. — Ciò ch’è uno dunque è ciò ch’è indivisibile, e chiamasi atomo ec. — Gli atomi si suppongono infiniti, per la ragione che le figure dei corpi sono d’infinite sorti. Impercettibili, e’ non hanno che una sola fisica proprietà, il peso; perchè insegnavano ogni corpo indivisibile essere assolutamente pesante ec. — Ogni vero primitivo consiste perciò negli atomi elementari, e tutto che accade nel mondo non è se non un cangiamento di rapporto tra gli atomi. Il reciproco rapporto degli atomi cangia pel loro movimento. La nascita al pari che la morte di ogni cosa composta dipende dall’unione o dalla separazione degli atomi, e il mutamento delle cose non è che il risultato di un cangiamento della posizione relativa di questi medesimi atomi. Democrito dunque soppresse il patire e l’agire degli atomi fra loro, e non ammise che il patire e l’agire reciproco dei corpi composti. La tradizione non dice ben chiaro qual fosse per lui l’origine del molo in generale ec. Forse, senza nulla affermare di positivo, egli concepì il moto in generale come eterno, e ciascun moto in particolare come risultato di un molo esterno, da cui meccanicamente deriva. Questo sistema fa scomparire ogni vita interiore; non è in facoltà delle cose mutare i loro esterni rapporti. Egli è perciò che gli atomisti derivavano pure il moto dalla necessità. E perchè questa necessità non differisce per nulla dal caso, si affermò che Democrito tutto attribuiva al caso. Noi dunque dobbiamo credere che Democrito non volesse, colla sua dottrina del moto, altro spiegare che i fenomeni particolari del mondo già bell’e formato. Ma nondimeno ei potè, conformandosi alla natura delle cose, non derivare dall’urto solo il movimento degli atomi. Poichè vi ha da essere una forza d’attrazione opposta alla forza di distrazione o di ripulsione. L’idea di questa seconda specie di forza pare aver servito di base a ciò che egli insegnava di un movimento circolare degli atomi; poichè verisimilmente e’ faceva unire gli atomi, per modo da comporne un tutto, col mezzo del moto circolare. Ciò che s’accorda del pari colla sua dottrina, che il simile s’associa al simile. — I corpi si compongono per la riunione degli atomi, e possono di nuovo risolversi nei loro elementi. Questi corpi possono essere riuniti e formare un più grande sistema di molti corpi. Sì fatti sistemi chiamava mondi. — Dedotta dalla possibilità di un infinito numero di figure la necessità di un numero infinito di atomi, Democrito pensa naturalmente che può, anzi che deve esservi un’infinità di mondi — altri simili fra loro, altri differenti; taluni senza sole, taluni con più; questi crescenti, questi al massimo di loro grandezza, questi eziandio in sul diminuire o perire in conseguenza di uno scontro con altri mondi. Pare solo ch’e’ considerasse come cosa, essenziale a ciascun mondo l’essere avviluppato di una specie di scorza o di pelle per modo da essere ritenuto in una unità, tutta esterna e meccanica senza dubbio. La vera unità non conviene che agli atomi. Democrito insegnava dunque la possibilità che un atomo formasse un mondo. Gli aggregati corporei che si formano nei mondi infiniti, ricevono anche forme composte differenti; gli atomi rotondi, angolosi, uncinati si mescolano, s’intrecciano e formano differenti superficie. Queste superficie, facendo impressione sui nostri sensi, operano la rappresentazione di ciò che noi appelliamo la qualità sensibile delle cose, che non è in realtà che una composizione di figure. — Non riconoscendo gli atomisti che unità corporee, o composti da esse formati, non ebbero a considerare l’anima, presente nel nostro corpo, che come un’altra specie di corpo nel corpo visibile. Tale è il primo materialismo pensato o scientifico. Tenevano l’anima come un corpo composto d’una materia più dilicata, simile a quegli atomi luminosi e polverulenti che si scorgono qualche volta nell’aria, e che abitasse nel corpo grossolano degli enti animati, lo mettesse in movimento e lo strascinasse, per così dire, con sè. Democrito, in conseguenza della forza motrice e della mobilità dell’anima, credeva ch’ella fosse composta, come il fuoco, di atomi sferici. La qual cosa fa che l’anima sviluppi calore nel corpo animato. — Questo filosofo accordava un’anima agli uomini, agli animali, alle piante ed eziandio a tutto ciò ch’è composto, essendovi per ogni dove calore. — Lo spirito diceva crescere ed invecchiare col corpo. — Democrito non ammetteva nessuna unità di un oggetto scientifico; non riconosceva nè mondo, nè dio, e la sua dottrina sulla scienza umana sembra non fosse stabilita che a dimostrare non potertene essere alcuna. Ammetteva due scienze, una pura e legittima, l’altra oscura. La prima è la conoscenza che ha l’intendimento della verità, l’altra è la conoscenza sensibile della qualità delle cose. In quanto al modo con che si opera la conoscenza sensibile stabiliva: che l’anima, la quale è una cosa sola colla facoltà di conoscere ([testo greco]), è mossa dal di fuori, e che i suoi movimenti formano delle percezioni. Riduce dunque tutte le conoscenze sensibili al contatto: la vista e l’udito sono per lui il risultato dell’impressione di un corpo estraneo sull’anima; e suppone in generale che, allorquando una cosa è percetta sensibilmente da noi, certe emanazioni piene di sensazione e di energia vitale, che appella immagini ([testo greco]), si stacchino da ciò che è sentito, e penetrando pei pori degli organi dei sensi si diffondano nell’anima. Queste effusioni, emanazioni o effluvj sono certe figure simili al corpo, dal quale traggono la loro origine, e che s’imprimono nell’anima. Tuttavolta la sola superficie esterna della composizione di questi corpi si può per esse conoscere, ed anche oscuramente, attesa la imperfezione delle immagini, le quali non fanno conoscere il vero, che non consiste se non nell’atomo e nel vuoto ec. Democrito, per altro, non toglieva ogni fede alla conoscenza sensibile, e considerava il fenomeno come mezzo di conoscere l’invisibile, deducendo, per esempio, dalla percezione dei color nero la superficie scabra dell’oggetto. In ciò consiste quello ch’ei chiama conoscenza pura e legittima, vale a dire la ricerca dei principj non sensibili, sorgente dei fenomeni, per conseguenza la ricerca degli atomi e del vuoto, dei quali si compongono i corpi. E perciò dice che ove la conoscenza sensibile non può aver luogo, ove è necessario salire a qualche cosa di più sottile, là comincia la conoscenza legittima. Da questo si scorge che ciò che può essere conosciuto dall’intendimento è il solo vero, poichè gli atomi e il vuoto non sono conosciuti per mezzo dei sensi. Pare tuttavolta che la verità degli atomi non sia in qualche maniera stabilita che per mostrarci che nulla possiamo trovare di vero, od assai poco; perchè noi sappiamo bensì che gli atomi esistono, ma non sappiamo ciò che sono ec. La dottrina di Democrito sulla conoscenza dovea finir dunque col confessare che l’uomo è privo della vera conoscenza ec. — Tutta la morale di Democrito posa sur un egoismo gretto, e sull’amore dei godimenti. Egli era savio abbastanza per vedere che il godimento verace non consiste ne’ godimenti corporei, ma in quelli dell’anima. Pare ei non cercava la misura del bene e del male che in ciò che diletta ed attrista l’anima. Accortosi poi che i piaceri dell’anima possono anch’essi alterare la felicità, pose fine della saggezza la moderazione; lo che esprimeva coll’idea dell’eguaglianza dell’animo o dell’indifferenza. — L’uomo vivrà tanto più convenevolmente quanto meno farà consistere il suo godimento nelle cose caduche. — La scienza è per sè sola una sorgente di godimenti. — Le immagini, che emanano dalle cose, al modo istesso che riempiono l’anima nostra di rappresentazioni, imprimono in essa i desiderj, l’invidia ed il male; per lo che l’uomo acquista meno per la sua educazione morale, che per ciò che gli viene dalle immagini delle cose.“ — Ritter.


CAPO VIII.


Protagora.


II. Fu uditore di Democrito. — Ciò non istà colla cronologia; e pare al Ritter che sia favola la tradizione che lo dice allevato dai Magi di Serse.

III. Esservi per tutte le cose due ragionamenti opposti. — Cioè che in tutte le cose contrarj possono essere affermati, sino a contrastare la possibilità di disputare pro e contro. — Con Protagora nacque la sofistica.

L’uomo misura di tutte le cose ec. — „La dottrina di Protagora ha per iscopo di negare che qualche cosa di obbiettivo possa essere rappresentato nel nostro pensiero, e per conseguenza di convertire ogni pensiero in una semplice apparenza, onde d’arte di produrre l’apparenza col discorso acquisti la più gran latitudine. — Ammetteva che tutto era in un flusso o stato di scorrimento costante, senza supporre nè unità, nè moltiplicità come principio di ciò che accade, anzi dicendo tutto risolversi in una diversità indeterminata; poichè per esso nulla è in sè, ma sempre solamente in rapporto ad un’altra cosa. Questa dottrina esprimeva colla formula: Che l’uomo è misura di tutte le cose; di quelle che sono, per la maniera con cui sono; di quelle che non sono, pel modo con cui esse non sono; volendo soltanto dire con ciò, che le cose sono per ciascuno come gli appaiono, o che non avvi di vero per ciascuno che ciò ch’egli si rappresenta. Quindi non valore universale in qualsiasi proposizione, ec., ec. Consegue di necessità dalle sue dottrine: che a nessuna cosa conviene una natura determinata; che sono egualmente valevoli i contrarj di una stessa cosa nelle medesime circostanze; ch’ogni pensiero essendo vero per colui che lo pensa, non v’ha proposizione che possa essere contraddetta; che ogni pensiero non è che l’espressione del rapporto del soggetto pensante coll’oggetto pensato; ma che il soggetto pensante, l’anima, non è altra cosa che la collezione, la somma dei diversi momenti del pensiero. — Ecco tendenza a ridurre ogni pensiero all’impressione sensibile e a tor di mezzo ogni concetto puramente razionale. In questo senso gli antichi intendevano la proposizione che tutto è, in uno stato di nascita e di flusso costante. Tutto, secondo Protagora, vive in una instabilità sensibile, e non è altro che questa medesima instabilità. Ma se il sensibile è vero, non lo è tuttavia se non perchè egli è percetto sensibilmente; nulla in sè non è freddo o caldo, o in generale dotato di una qualità sensibile qualunque; nessuna cosa è tale o tale se non perchè è sentita così.“ — Ritter.

VIII. Ma se vincerò io ec. — Perchè avendo Protagora pattuito col discepolo d’insegnargli a vincere nelle dispute, in entrambi i modi egli avrebbe dovuto ricevere il premio, o della vittoria propria, o di quella dello scolaro, a cui aveva insegnato vincere.


CAPO XI.


Pirrone.


II. Ebbe a conversare co’ ginnosofisti. — Secondo Strabono e Megastene una setta braminica avrebbe professato lo scetticismo.

III. Non abbadando a nulla ec. — Farebbe mal giudizio dello scetticismo di Pirrone chi, fondato su questi aneddoti puerili, se lo rappresentasse ridotto per le proprie opinioni all’impotenza di agire.

IV. Portalampadi. — [testo greco]. Erano così chiamati coloro che portavano i lumi nelle cerimonie religiose, e particolarmente que’ giovani, che, nella festa di Prometeo, collocati a distanze eguali l’uno dall’altro, dal tempio sino alla città d’Atene, si trasmettevano correndo una lampada accesa all’altare del nume, rimanendo perdente quello nelle cui mani spegnetesi. Non unico avanzo di antichi riti dura tuttavia in Roma la festa così chiamata dei moccoli.

V. Gli Ateniesi onorarono Pirrone della cittadinanza. — Bayle nega il fatto pel motivo che se ne adduce; ma ben altrimenti Pirrone potea aver meritato la cittadinanza d’Atene che coll’uccisione di quel tiranno.

VI. Facendo osservare un porcelletto che mangiava ec. — A proposito di questo porcelletto, che presso a naufragare tranquillamente mangiava, uno spiritoso francese chiamò la filosofia pirronica l’epicureismo della ragione.

VII. Separato dagli uomini ec. — Menagio osserva che questi versi s’hanno ad applicare piuttosto che a Filone a Pirrone.

VIII. Tutti costoro Pirronisti, Dubitatici ed Esaminatori ec. ec. — „La scuola cirenaica favoriva l’inclinazione al piacere e all’egoismo; i Cinici insegnavano il disprezzo dei costumi e della vita sociale; i Megarici si abbandonavano a dispute vane, al pari di altri filosofi, citati qua e colà sotto nome di dialettici, i quali intrattenevano il gusto dei Greci per le quistioni sottili e le soluzioni ingegnose. Così veggiamo che Democrito aveva i suoi aderenti, che propagarono la dottrina degli atomi, l’ateismo, l’amore dei piaceri e il dubbio universale. Da tutti questi elementi diversi si formarono le dottrine antifilosofiche di quest’epoca. — La prima setta di tale specie fu quella de’ primi scettici, di cui era capo Pirrone, che poco conosciamo. — L’antichità riguarda Timone come l’interprete delle dottrine di questo filosofo, delle cui opinioni è il testimonio più fedele e più esteso.“ — Ritter.

I dubbj.... erano di dirci maniere. — In questi dieci tropi o maniere di dubbj, era compresa la maggior parte delle obbiezioni che gli Eleatici ed i Sofisti aveano accampate contro la testimonianza dei sensi. Questa specie di codice scettico, come ci fu conservato da Sesto Empirico, offre parecchie ingegnose osservazioni sui fenomeni sensibili. — „È quistione spesso promossa, nè per ancora risoluta chiaramente, il sapere se i dieci tropi del discorso ([testo greco]), o luoghi comuni ([testo greco]), che si attribuiscono agli Scettici, sieno di Pirrone e di Timone, o d’Enesidemo, scettico più recente. Pure se si osserva che i primi Scettici ne facevano ordinariamente uso, dobbiamo presumere che, quand’anche e’ non avessero composta un’esatta tavola di questi tropi, ciò almeno che v’è di essenziale spetti ad essi. Parimente non sono sviluppati con tropp’arte: ma sono al tutto conformi alla direzione che si deve attribuire allo scetticismo di quest’epoca, essendo quasi esclusivamente diretti contro la veracità della rappresentazione sensibile.“ — Ritter.

Queste dieci maniere stabiliscono spartitamente così ec. — [testo greco]. Emendazione, dice l’Hermanno, facile da vedersi, chi consideri la diversità della scrittura.

Seconda, quello che dalla differenza ec. — Il Rossi difende la lezione [testo greco], che l’Aldobrandino traduce: ex nationibus ac corporum constitutionibus.

Il sole apparisce piccolo per la distanza. — L’Hermanno, rifiutata la correzione dell’Huebnero, legge [testo greco].

X. Il modo che per mezzo di reciprocazione. — [testo greco], ovvero [testo greco], è ciò che noi diciamo circolo vizioso.

XI. Appellan fine la sospensione del giudizio ([testo greco]) cui tien dietro ec. — La direzione della filosofia scettica si manifesta nello scopo da essa assegnato a tutte le ricerche filosofìche; esso è uno scopo pratico. La filosofia ci deve condurre alla felicità. Egli è perciò che Pirrone è posto nella medesima categoria di altri Socratici che non avevano in mira se non la vita morale, e non ammettevano come scopo della ragione che la virtù; poichè la virtù e la felicità sono precisamente una stessa cosa. Egli è chiaro che lo scopo era essenzialmente unito alla dottrina degli Scettici, essendo che Timone ne fa la base della sua divisione della filosofia. Dice in effetto, che chi vuol vivere felicemente dee far attenzione: da prima alla natura delle cose, in seguito al loro rapporto con noi, in terzo luogo alle conseguenze sensibili di questi rapporti. Lo scetticismo è costituito dalla risposta alla prima quistione; poichè gli Scettici tentarono mostrare che tutte le cose sono indifferenti rispetto al vero ed al falso, che sono incerte e non sommesse al nostro giudizio. Insegnarono di più, che noi non impariamo nulla di vero, sul conto delle cose, nè per mezzo dei sensi, nè per mezzo dell’opinione. — Anche nelle dottrine morali, di cui particolarmente si occupavano, in conformità alla loro tendenza pratica, non giunsero per tal mezzo che a questo risultamento sofistico, che nessuna cosa non è nè bella, nè brutta, nè giusta, nè ingiusta, ma che tutto non si giudica dagli uomini che a seconda della loro situazione e delle loro abitudini. — Nè solo alle idee, ma la loro incertezza estendevasi a tutta la scienza. — Assai incerto è il modo col quale Pirrone e Timone procedettero contro i Dommatici. Per certo la loro arma migliore trovarono nell’opposizione esistente tra il fenomeno sensibile e l’essenza reale delle cose, oggetto della conoscenza razionale; poichè quest’opposizione sortiva dalla confessione di Timone, che per verità una cosa parevagli dolce, ma ch’e’ non diceva tuttavia per questo che fosse dolce in effetto. Questa opposizione si appalesa anche più chiaro in ciò che diceva Timone, che avvi una natura eterna del divino e del buono, per la quale la vita dell’uomo riceve la sua regolarità, e che è uno dei fenomeni a cui deve attenersi. Pare che gli Scettici sentissero adunque la forza che ci fa tendere alla conoscenza di una verità al di sopra dei fenomeni, ma che non potessero tracciare alcun punto d’appoggio, sicuro per la ricerca del soprassensibile. — Gli Scettici non vedono nell’idea del soprassensibile che qualche cosa di sconosciuto; ella è per essi un segno dei limiti del nulla stesso del nostro pensiero. — Alla seconda quistione (rapporto delle cose con noi) la risposta deriva quasi per sè dalla risposta alla prima; poichè se nulla sappiamo delle cose, dobbiamo al tutto astenerci da qualunque asserzione. Or come praticare un sì fatto precetto ec.? Dichiaravano gli Scettici di non voler altro esprimere con ciò, salvo lo stato della loro anima ([testo greco]), al quale doveano conformarsi come uomini, non come filosofo. Essi non potevano testimoniare che del solo fatto ch’e’ trovavamo dentro di loro, e che dovevano stabilire come un fenomeno; poichè i fenomeni avevano per essi una forza irresistibile. — Rimane la terza questione (conseguenze sensibili di questi rapporti), cioè di sapere qual sia lo stato di colui che si astiene da ogni giudizio sulle cose; lo che concerne allo scopo morale della loro dottrina. Egli è astenendoci da ogni giudizio che possiamo procacciare la felicità; poichè la sospensione di ogni giudizio è naturalmente seguita dalla fermezza costante dell’anima, che l’accompagna come un’ombra. Quegli che una volta ha abbracciato lo scetticismo vive ognora tranquillo, senza inquietudini, di una disposizione di spirito sempre eguale, non curando i terrori della saggezza col suo linguaggio seducente. La folla degli uomini è soggiogata dalla disposizione passiva ([testo greco]) dell’anima, da opinioni, da vane leggi; ma il sapiente non pronuncia su nulla, e, nel suo stato di calma non considera nulla nè come un male, nè come un bene; ei si sente libero da tutti i movimenti passionali, che non fanno che turbare la felicità ec. — A Pirrone si ascrive la dottrina che stabilisce non essere differenza tra salute e malattia, tra vita e morte; egli erasi posto alla difficile impresa di spogliare sè stesso, per quanto si potea, della natura umana. Gli Scettici avevano dunque per iscopo nella loro morale di opporsi ai movimenti dell’anima, mentre nella scienza vi s’abbandonavano intieramente. Increscevole contraddizione! che però doveano costoro modificare in pratica, non potendo dissimularsi l’impossibilità di essere affatto indifferenti in ogni cosa ec. Quindi si abbandonavano, nella vita pratica, all’abitudine del modo di agire, alla necessità d’una scelta e ad una decisione per riguardo al bene ed al male, tuttavia dichiarando che lo scettico si comporta a quel modo non come filosofo, ma seguendo l’opinione non filosofica. — La costoro dottrina avrebbe distrutto la vita se non fossero venuti a giusti patti tra la filosofia e la vita ec.“ — Ritter.

La dolcezza chiamano fine. — Moderare se non vincere le passioni pareva agli Scettici dover essere come un fine della loro filosofia, il quale esprimevano colle idee di dolcezza e di mansuetudine.


CAPO XII.


Timone.


II. Compose poemi ec. — Celebrati fra le sue poesie sono i Silli, specie di satire, che gli procacciarono il soprannome di Sillografo. In essi assale e confuta gli antichi ed i nuovi filosofi.

V. Il filosofo ec. — [testo greco]; si riferisce, secondo il Rossi, a Timone il Misantropo, che fu filosofo di gran nome e [testo greco].

VI. Delle tragedie faceva parte ad Omero. — Ad un Omero figlio di Miro, fra i sette tragici, che componevano la così della Plejade. Vedi Menagio.

Arato lo interrogò ec. — Arato, l’autore dei Fenomeni, aveva riseduta e corretta una edizione dell’Odissea. Zenone era allora capo degli editori di Omero, a nessuno dei quali la risparmia Timone.

I suoi versi negletti, rosicchiati ec. — Ho seguita l’intera prelazione dell’Hermanno, approvala dall’Huebnero. Vedine la nota.

VII. Nessuno fu successore di costui. La scuola pirronica non ebbe gran numero di seguaci, nè molti che godessero celebrità. La storia del Pirronismo si chiude con Sesto Empirico, medico che fioriva verso la metà del secondo secolo dell’era volgare. Anche Timone esercitò la medicina; e notisi che tra gli antichi Scettici la maggior parte erano medici. — Tutti gli scritti di questo filosofo sono perduti, meno alcuni versi riportati da Sesto nella sua opera che intera ci rimane. — Allo scorcio del dugento ogni filosofia avea finito nello scetticismo. Dopo tante agitazioni, lo spirito umano condannato, dice Cousin, alla sospensione assoluta di ogni giudizio!

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