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ANNOTAZIONI
LIBRO SECONDO
CAPO PRIMO.
Anassimandro.
I. Anassimandro. — Il nostro Diogene alla fine del libro primo chiama Anassimandro discepolo di Talete. Aristotele invece colloca presso Talete Anassimene. — Osserva Ritter che da principio usò la scuola ionica due maniere diverse per ispiegare la natura, una dinamica, ed un’altra meccanica, le quali senza confondersi tra loro durarono sino alla fine. Secondo i diversi principii, e perchè il discepolo non sia stretto, disconoscendo la dottrina del maestro, a confessarne la vanità, e per seguire l’ordine indicato da Aristotele al collegamonto delle varie dottrine, pare al Ritter doversi stabilire così la successione dei filosofi ionici: Dinamici — Talete — Anassimene — Diogene d’Apollonia — Eraclito. Meccanici — Anassimandro — Anassagora — Archelao — Questa scuola patisce eccezioni anche dal lato cronologico. L’opinione comune che ne fissa la durata a più che dugent’anni, tutta la riempie colla vita di quattro filosofi, Talete, Anassimandro, Anassimene, Anassagora, mentre, a dir poco, basterebbe a sei generazioni.
II. Diceva principio l’infinito. — ἀρχὴν τὸ ἄπειρον. — Si tiene che Anassimandro abbia il primo usato del vocabolo ἀρχὴ per indicare il principio delle cose. Che cosa intendesse per questo principio ch’e’ chiama infinito, è disparere tra gli antichi. Secondo il Ritter, la maggior parte delle tradizioni svariate che sussistono in proposito, forse sono in opposizione per mero equivoco, e quindi è miglior consiglio attenerci al più sicuro testimonio di Aristotele e di Teofrasto, i quali concordano nel dire che per infinito Anassimene intendeva la mescolanza delle differenti specie di parti costitutive, di cui le singole cose ebbero a formarsi per mezzo della separazione. Questa idea si ravvicina a quella dell’antico caos. Perchè poi Anassimandro considerasse l’ente primitivo come infinito, tiene naturalmente a spiegarsi pel numero infinito degli sviluppi del mondo che hanno la loro ragione in quest’ente primitivo. Quest’ente nell’idea del nostro filosofo è una unità immortale, non peritura; è il principio che eternamente crea, derivando quest’azione di creare le cose particolari dal movimento eterno dell’infinito. — Ecco attribuita da Anassimandro all’infinito una forza viva sua propria. — Ciò nol divide gran fatto, segue il Ritter, dalle idee filosofiche di Talete e di Anassimene. La differenza sta nel modo di derivare le cose particolari dall’ente primitivo. Anassimandro non fa nascere le qualità sensibili delle cose dal cangiamento che si opera nelle qualità dell’ente primitivo, ma bensì, per un movimento eterno, dalla separazione dei contrarj, quantunque contenuti e riuniti tutti in una unità nell’infinito. Il principio primitivo adunque è per vero una unità, ma nullameno già contenente la moltiplicilà degli elementi, di cui le cose si compongono, i quali non hanno bisogno che di essere separati per comparire come fenomeni isolati nella natura. Nella decomposizione dell’infinito gli elementi omogenei tendono adunque gli uni verso gli altri, e ciò che nel tutto, per esempio, era oro, appare come oro, quantunque non avesse quest’apparenza quand’era tramischiato a ciò che non era oro. Nulla quindi nasce di nuovo, o riveste qualità diverse dalle proprie; ma tutto è prima come si mostra di presente. — È questa visibilmente, conchiude il Ritter, l’idea fondamentale della fisica meccanica: che nulla cangia di qualità, ma che tutto resta sempre lo stesso e non si muove che col resto degli elementi, per mezzo dei quali un elemento medesimo, in questo cangiamento di combinazione, ora apparisce a un modo ed ora a un altro.
La terra starsi nel mezzo ecc. — Il seguente passo di Ritter serve a rettificazione di alcune cose dette da Laerzio. „Il punto centrale della formazione del mondo era la terra, poichè la terra, la cui forma è quella di un cilindro, la base del quale è all’altezza come 1:3, è ferma e tenuta ad egual distanza dagli altri corpi per l’aria; le stelle al contrario si muovono intorno ad essa, a distanze eguali le une dalle altre, e al disotto i pianeti e il cielo delle stelle fisse, poi la luna, in fine il sole. Ciascuno di questi corpi è sostenuto da un anello (la sua sfera) simile ad una ruota“.
III. Primo trovò il gnomone ecc. — Plinio ne attribuisce l’invenzione ad Anassimene; Erodoto con più ragione ai Babilonesi. Forse Anassimandro ne mostrò l’uso a’ Greci. — Fece anche il primo abbozzo di una carta geografica.
Fece un’esposizione della sue opinioni. — Si tiene per la prima opera filosofica scritta in prosa. Secondo Suida aveva per argomento la natura delle cose; secondo altri trattava della natura delle stelle fisse, della sfera, ecc.
CAPO II.
Anassimene.
I. Anassimene discepolo di Anassimandro. — Aristotele, come è detto, pone Anassimene a lato di Talete. Le dottrine e la cronologia confermano questa successione.
Disse principio l’aria e l’infinito. — Anassimene insegnava, principio di tutte cose essere l’aria infinita. Ciò si accordava coll’idea che l’aria circonda il mondo e che la terra, piatta come un foglio, è sorretta dall’aria. Questa sua idea cosmogonica è compresa nella dottrina che considera l’aria come principio di tutto, poichè tutto esce da quella ed in quella ritorna; e come l’anima umana, che pur altro non è che aria, ci domina, così il soffio e l’aria circondano e padroneggiano il mondo. — L’aria come principio od ente primitivo, era infinita, mentre finite erano le cose. — Pare ch’e’ non ponesse differenza tra Dio ed il mondo, e che per conseguenza ben potesse dire del pari, l’aria infinita essere Dio, e gli dei e tutto ciò che è divinò provenire dall’aria. — Il principio di ogni cangiamento facea consistere nel movimento eterno dell’aria, movimento che naturalmente conviene all’ente primitivo, qual principio della vita; chè il solo movimento rende possibile il cangiamento. Per la qual cosa sembra ch’e’ concepisse lo sviluppo del mondo come il procedimento eterno della vita ecc. — Per la scuola ionica si consulti particolarmente Ritter. Allo scopo nostro bastano questi cenni tolti da lui. L’idea di Anassimene pare che fosse in qualche modo riproposta da Franklin col far nascere tutto dall’aria.
Gli astri non muoversi sotto ecc. — Alcuni leggono [testo greco], altri [testo greco]. — Seguo Menagio e l’Huebnero.
II. Morì quando Sardi fu presa. — Qui è manifesto errore.
Anassimene si considera scopritore dell’obbliquità dell’ecclitica per mezzo del gnomone. — Nulla si conosce circa la vita di lui. — Ci fu conservata da Stobeo questa sua bella massima: La povertà è l’istitutrice della sapienza, perchè è la madre del travaglio.
CAPO III.
Anassagora.
Visconti scoprì l’immagine di Anassagora sur una medaglia di bronzo di Clazomene patria del filosofo. „Il tipo, così il sommo archeologo, presenta un filosofo mezzo ignudo che tiene un globo in mano. Anche Pitagora e Ipparco, sulle monete di Samo e di Nicea, sono rappresentati col medesimo simbolo e nell’istesso costume. — In un’altra medaglia, della medesima città, una simil figura siede sopra un globo, segno evidente di apoteosi.“ Iconogr. Gr.
I. Discepolo di Anassimene. — Le strade corse da Anassimene e da Anassagora nella filosofia sono sì diverse, che al tutto difficile riesce considerare questi filosofi come usciti da una medesima scuola.
Aggiunse una mente alla materia. — Aggiunta, secondo Cousin, di un’idea pitagorica alla fisica ionica. — La disposizione dei fenomeni del mondo suggerì ad Anassagora il pensiero di una forza motrice, cui diè il nome νους — mente, intelletto, spirito, ec. ec. — Senofane ed Eraclito già aveano cercato il principio di tutte le cose in un essere intelligente. — Anassagora non differenziava la mente dall’anima; chiamava la mente cagione del bello e del giusto; concedeva alla mente la vista del passato e dell’avvenire.
Tutta le cote erano insieme ecc. — Proclamalo il principio meccanico, che nulla proviene da ciò che non esiste; che niente nasce, niente perisce; che ciò che esiste si mescola e si separa; che, per decomporsi, il numero delle cose non aumenta o diminuisce; Anassagora suppose una mescoscolanza primitiva di ogni cosa; confusione di parti elementari infinitamente piccole, infinitamente numerose. Questa massa confusa è per lui una unità, senza suolo, anco nello spazio, tra cosa e cosa. La mente, l’intelligenza, lo spirito, è pel nostro filosofo la potenza motrice, l’[testo greco], il principio d’ogni vita, la [testo greco]. La massa degli elementi confusa, senza moto per sè; e la mente, lo spirito che li muove e li ordina, costituiscono la dualità ammessa da Anassagora, il quale considera la mente come opposta alla massa riempitrice dello spazio. — Se i corpi per lui sono suscettivi di movimento, la mente è immutabile, impassibile; se ogni elemento è differente da tutti gli altri, identica è la mente. La mente è infinita; domina tutto con mi potere suo proprio ([testo greco]); noo è mescolata ad alcuna cosa, ma per sè stessa è soltanto; in somma alcun che di non condizionato, e d’infinito. — Ma il libero poter della mente, per Anassagora, era limitato, non avendo in balìa le qualità immutabili degli elementi primitivi. Quindi l’attività delia mente si riduce all’ordinamento degli elementi ([testo greco]) per mezzo del movimento, a modo che la ragione di ogni esistenza non si rinviene nella mente. La mente, nel pensiero del nostro filosofo, non mise da prima in movimento che poche cose; poi di più, e più in processo. — Anassagora fa intervenire la mente anco nella spiegazione della vita animale, non differendo in sostanza dall’anima. Essa è, nel suo concetto, dipendente della massa corporea cui sta unita, perchè crede il sonno un effetto del corpo sull’anima, e perch’esso è comune sì agli animali e sì alle piante. Pare anzi ch’e’ faccia dipendere ogni sviluppo intellettuale dalla formazione degli organi corporei, osservando che gli animali irragionevoli hanno bensì, in alcune parti, qualche vantaggio sull’uomo, ma questi è ciò nulla meno il più ragionevole di tutti, perchè ha le mani e può per questo mezzo, aiutato dall’esperienza, dalla memoria, dalla scienza e dall’arte, far servire all’utile suo tutti gli altri animali. — Forse Anassagora venne nella sentenza di credere la mente una forza dipendente dalla composizione dei corpi, ad oggetto certo di spiegare la natura animata. — Elvezio rinverdì, fra moderni, l’ipotesi delle mani.
III. [testo greco]. — Leggi col Meursio [testo greco].
IV. I principii particelle similari, ecc. — [testo greco], veramente omogeneità di particelle similari. — „Il nome di omeomerie che d’ordinario si dà alle parti costituenti privimitive d’Anassagora, che che ne abbia detto Schaubach, non è altrimenti di questo filosofo. Se non l’usò il primo Aristotele, possono averlo inventato gli anassagorei. — Ritter. — A proposito di omeomerie non è fuor di luogo recare un sasso notissimo di Lucrezio. Eccolo nella versione del Marchetti:
Ma tempo è di pesar con giusta lance
D’Anassagora ancor l’Omeomeria
Mentovata da’ Greci, e che non puossi
Da noi ridir nella paterna lingua
Con un solo vocabolo; ma pure
Facil sarà ch’ella si spieghi in molti.
Pensa egli adunque, che ’l principio primo
Che da lui vien chiamato Omeomeria,
Altro non fosse che una confusione,
Una massa, un miscuglio d’ogni corpo
In guisa tal, che in generar le cose
Solamente consiste in separarle
Dal comari Caos, eri accozzarle insieme;
E così l’ossa di minute e picciole
Ossa si creino, e di minute e picciole
Viscere anco le viscere si formino:
Da più bricioli d’or l’oro si generi:
Cresca la terra di minute terre:
Di foco il foco, d’acqua l’acqua, e finge
Ch’ogni altra cosa in guisa tal si faccia;
Nè concede tra ’l pieno il vuoto spazio,
Nè termin pone allo spezzar de’ corpi.
Gli astri da prima aver girato a guisa di vôlta ecc. — Nel tardo sviluppo della vita animale, avvi altresì coincidenza tra le rivoluzioni generali del mondo e i fenomeni terrestri; poichè suppone Anassagora che la terra, la quale sta nel centro del mondo, ov’ella fu trascinata dal girare vorticoso dell’aria che la circonda e la sostiene in questo luogo dello spazio, occupasse da prima un posto tale, relativamente agli astri, che il polo del cielo passava per lo mezzo di lei, ma che poi, usciti dalla medesima gli animali, la terra stessa o il mondo s’inclinò verso levante e le stelle presero il posto che hanno di presente in riguardo ad essa, perchè fosse in parte abitabile, in parte no, secondo la temperatura dei climi.
Gli animali nati dall’acqua, dal calore e dalla terra ecc. — Gli enti animati, secondo il nostro filosofo, non escono dagli elementi che in modo lento, progressivo, e passando pe’ diversi gradi di formazione del mondo. Pare che alla formazione di questi enti sieno necessarie alcune condizioni che preesister devono all’organismo. Quindi il sole e la luna, che per Anassagora non sono animati, precedono la formazione delle piante di cui sono il padre e la madre; e l’umidità fangosa primitiva della terra produce, per l’azione del calore. gli animali. Formazione da principio imperfetta, non acquistando che più tardi la facoltà naturale di riprodursi.
Da man riita i maschi, le femmine da mancina. — Perchè, anche al dire di Ippocrate, la destra parte dell’utero era considerata come più calida e più solida. Empedocle ebbe pare la stessa opinione.
V. Predetta la caduta della pietra ecc. — Se non a predire, fu certo il primo che tentò spiegare la caduta degli aereoliti, che avuta per lunghi anni in conto di favola, non lo è più di presente. — [testo greco], o meglio [testo greco] cui Plinio traduce Ægos flumen, era una città dell’Ellesponto.
Se i monti di Lampsaco saranno mare quando che sia. — Anassagora ammetteva certi grandi periodi nella formazione del mondo, e fra questi alcuni che hanno relazione ad una preponderanza indeterminata fra le opposte forze del fuoco e dell’acqua. La prima epoca della formazione della terra lascia scorgere una preponderanza crescente del fuoco; poichè la terra limacciosa si secca per l’azione del sole, e si popola di enti vivi. Ciò non può sempre accadere: perchè, non potendo essere gli elementi ignei ed aquei infiniti di numero, dee pur sempre arrivare un momento, in cui sulla terra disseccata l’operazione inversa incominci, e l’acqua riprenda insensibilmente la sua preponderanza.
VII. I poemi di Omero si aggirano sulla virtù. — Anassagora scorgeva un senso morale ne’ miti omerici, e spiegava le allegorie contenute ne’ nomi dati agli dei. Quest’opinione, diversa dalle credenze volgari, lo fece, con altre, accusare d’empietà.
IX. Fu accusato anche di tradimento. — Scaduto Pericle dal potere, Anassagora non isfuggì le persecuzioni ch’ebbero a patire i suoi amici. Oltre l’interpretazione ch’ei dava ai poemi di Omero, affermava che il sole e la luna erano pietra e terra, e spiegava colle leggi della natura i fenomeni, creduti prodigiosi, che presentavano i visceri delle vittime. Ciò offendeva la popolar religione, e Cleone ne lo accusò. L’altra accusa datagli da Tucidide, nemico di Pericle, era di parteggiare pe’ Medi ([testo greco]). Morì a Lampsaco, ov’erasi rifuggito, e la sua memoria fu onorata di altari e di feste. — Intorno ad Anassagora veggasi il lungo articolo di Ritter, che in gran parte ci ha fornite queste considerazioni.
CAPO IV.
Archelao.
I. Ateniese o Milesio. — I più lo fanno ateniese.
Discepolo d’Anassagora, maestro di Socrate. — Probabile la prima, dubbia la seconda.
III. Diceva due essere le cagioni della generazione ecc. — Alla formazione della terra annetteva quella degli animali, per la mescolanza del calore colla terra fredda ed umida.
Il giusto ed il turpe non da natura. — Pare che Archelao solo, fra gli Ionici segnatamente, siasi occupato della scienza della morale e del diritto naturale. Tuttavolta il senso di ciò che ne sappiamo è assai dubbioso. L’opinione attribuitagli da Laerzio fu il germe delle dottrine di Hobbes.
Dice che l’acqua ecc. ecc. È uno di que’ passi in cui inciampano i traduttori. Ritter, mutato [testo greco] da [testo greco] liquefare, mollificare, in [testo greco], da [testo greco] condensare, coagulare, così espone la dottrina di Archelao sulla formazione del mondo: „Insegna egli che nel principio il fuoco e l’acqua si separarono, e che per l’azione del fuoco sull’acqua, la terra formò una massa da prima faogosa, ma che in seguito si fece sempre più consistente; che l’aria provenne dall’acqua per mezzo del movimento; e che di tal guisa la terra era sostenuta dall’aria, l’aria dai fuoco.“ Osservabile, dice lo stessa Ritter, è questo modo di operare la separazione degli elementi, collegandovi poi la nascita degli animali e degli uomini; e lascia intravedere una manifesta comunanza d’idee fra la costui dottrina e quella di Anassagora e di Anassimandro. — L’operosità della scuola di Anassagora venne meno quasi che tutta con Archelao; ma la filosofia ionica esercitò un’azione immediata sovra i sofisti.
CAPO V.
Socrate.
L’immagine di Socrate che diamo qui ci è offerta dal Visconti come la più verace. „Tutta, così il romano archeologo, vi appare l’anima sua; e l’acutezza dell’ingegno, l’imperturbabilità del carattere si manifestano dagli occhi e dalla fronte serena: nella mossa delle labbra si travede quell’ironia dilicata, che rendeva amena la sua conversazione. — Il bronzo di Lisippo fu probabilmente l’originale da cui questo busto e parecchi altri furono tolti.“ — Icon. Gr. — Gall fa osservare una protuberanza rotonda nella parte superiore dell’osso frontale di Socrate, comune alle teste dei visionarii da lui vedute. Tra l’organo per la facoltà poetica, e quello per la mimica, sta secondo Gall una circonvoluzione cerebrale, che probabilmente produce la disposizione alle visioni. Parleremo dell’effetto di quest’organo quando del dèmone di Socrate.
I. Figlio di Sofronisco tagliapietre. — [testo greco], o [testo greco] si dice il padre di Socrate, non mai [testo greco]. Forse così chiamavansi gli scultori di secondo ordine.
III. Udito Anassagora — fu discepolo di Archelao. — La prima asserzione, dice Ritter, è falsa, inverisimile la seconda, perchè non assentita da veruna antica testimonianza. Che e’ non ricevesse alcuna filosofica educazione ce lo assicura Senofonte ove appella il figlio di Sofronisco [testo greco].
IV. Essere sue le Grazie vestite ecc. — Due volte Pausania fa menzione di questo lavoro di Socrate. — Vestite, perchè tali si facevano allora.
V. Cioè posta una borsa ecc. [testo greco] — Lezione manchevole che fece supporre censi e usure. Coll’aggiunta di [testo greco], proposto da alcuni eruditi, il senso corre, e l’Huebnero vi assente.
VI. Conoscendo la contemplazione della natura nulla profittare per noi. — Socrate, come nel Fedone confessa, era vago di studii fisici; e tale ce lo dipinge Aristofane. Racconta ei stesso che lo studio dei fenomeni esterni considerati per se nol soddisfacessero affatto, e che cercasse un punto di vista più elevato e più intellettuale. Questo punto di vista, dice Cousin, fu il [testo greco] d’Anassagora che diventò per Socrate, e per suo mezzo la vera Provvidenza. Quindi lo studio delle leggi morali e delle cause finali sostituite a quelle dei fenomeni e delle leggi fisiche, è tutta la seconda epoca della vita di Socrate. Pensava, come dopo di lui Epicuro, che le speculazioni sulle cose celesti non conducono a nulla, e che non senza ragione gli dei avevano rese facili le cose necessarie agli uomini, difficili le inutili. Debbesi a Socrate l’idea di una filosofia della vita e del mondo, la cui utilità è manifesta, qualunque sia lo stato in cui l’uomo si trova, e alla quale ogni individuo può partecipare per poco che la sua intelligenza sia capace di perfezionamento. — L’uomo dabbene di Socrate — [testo greco] — non è l’immagine della virtù ideale; il saggio è il cittadino, l’agricoltore, il soldato, l’artigiano, esemplare nelle sue determinate condizioni.
VII. Non ebbe mestieri di assentarsi. — „Socrate non cercò altri mezzi d’istruzione fuori di quelli che si rinvenirano in Atene. Se eccettui la spedizione di Potidea, di Delio e di Amfipoli, in cui militò ed ebbe nome di guerriero intrepido e fedele a’ suoi doveri, egli non abbandonò mai Atene; la qual cosa mostra alletto al suo paese natio, ch’ebbe carissimo a cagione della libertà che vi si godeva, ch’era da Socrate apprezzata sopra tutto, nulla temendo più della dipendenza, e conducendo per quella una vita povera con pochi desiderii e senza bisogni.“ — Ritter.
Un palombaro di Delo. — [testo greco]. Dice Socrate che sprofondandosi in così oscure dottrine era mestieri di saper nuotare come i palombari di Delo, che s’immergevano sott’acqua senza affogare. Al libro di Eraclito si era apposto il soprannome [testo greco]. — Veggasi Erasmo negli Adagi.
Rimasto un intera notte in una positura. — È un fatto che appalesa con quanta forza Socrate si abbandonasse all’oggetto della sua contemplazione. Vera estasi o rapimento di spirito, che gli antichi ben compresero sotto l’idea di mania. Socrate sapea frenarne gli eccessi, ed anche farla scopo della sua ironia. Spesso a mezzo di un banchetto, per lungo tratto un pensiero lo rendea immobile — il rumore di un accampamento non valea a distorlo da lunghe meditazioni. Ecco ciò che a Potidea gli successe: „Caduto una volta in qualche meditazione, sin dal mattino si stette fermo nello stesso luogo pensando, nè potendo spiegare ciò che meditata, rimase colà senza muoversi. Ed essendo già mezzo giorno, avvedutesene i soldati si maravigliarono — e già soprastando la notte, ed essendo cenati, posero intorno a lui i letti per osservare se anche la notte durava. E Socrate si rimase fermo in piedi fino all’aurora seguente, ed al nascere del sole, salutando il quale, si partì.“— Plat. Convito. — Il sol nascente ricordò al buon Socrate l’ora della sua preghiera. Duolci che nel viaggio di Anacarsi si parli di questo fatto come di una bizzarria premeditata o di una prova di mentale stranezza. Alternativa non ammissibile coll’indole del filosofo.
Alcibiade il quale era da lui amato. — Molti tacciarono d’immorale l’amicizia di Socrate per Alcibiade. Forse a ciò diè motivo l’opera attribuita ad Aristippo [testo greco], delle antiche delizie e voluttà. Ma i suoi amici lo difesero pubblicamente anche dell’apparenza di una colpa ebe potea far nascere la sua famigliarità co’ bei giovinetti, e il costume ch’egli avea di confessarsene amante. — Vedi ciò che Platone nel Convito mette in bocca dello stesso Alcibiade. — Nessuno dei nemici di Socrate, osserva il Visconti, sia tra quelli che lo accusarono e lo fecero condannare, sia tra poeti che lo schernirono e lo posero sulla scena, si attentò mai lacerarne la integrità del costume, e questa calunnia non fu ripetuta che da scrittori assai posteriori.
VIII. Leonte da Salamina ecc. — „Quei trenta chiamando me in Tolo con altri quattro mi comandarono ch’io conducessi da Salamina Leonte, acciocchè egli morisse — Allora io dimostrai non con parole ma in effetto, ch’io non curava affatto la morte — Usciti di Tolo, gli altri quattro a Salamina andando, condussero preso Leonte, ed io me ne andai a casa. . . . .“ Plat. Apolog.
Solo, ai dieci generali, diedi il voto. — „Avvenne ch’io governava la mia tribù in quel tempo, nel quale vi consigliaste di condannare quei dieci capitani, perchè non avessero levati gli uccisi nella battaglia navale, ingiustamente, come poscia parve ad ognuno. Allora io solo di tutti i presidenti mi vi opposi, acciò non faceste cosa contro le leggi, e co’ miei voti feci resistenza.“ — Platone Apologia.
X. Aver egli menato due donne. — Platone neppur fa cenno della Mirto. Questo silenzio è una delle ragioni addotte da Luzac per dimostrare supposta la bigamia di Socrate. — Joan. Luzac de Bigamia Socratis diss. Leida, 1809 — L’opinione di Luzac, assentita da alcuni, è pur quella del Wyttembae nelle note al Fedone. Visconti all’opposto dà molto peso all’autorità di Demetrio Falereo e dialtri, e dice, questo fatto essere con poca critica posto in dubbio da Panezio, e il vocabolo [testo greco] significar mogli. — L’epiteto [testo greco] usato da Platone, riesce in questo caso per lo meno soperchio. A ogni modo, la legge ateniese basta di lunga mano a salvare il filosofo da ogni taccia, anche lievissima, di libidine.
Altri, che prima sposasse la Mirto. — Come prima, se i figli di questa erano giovanissimi, e maggiore di età quello della Santippe che sopravvisse al marito, il quale per conseguenza non poteva esser vedovo?
XII. Era abile del pari ad esortare e a dissuadere ecc. — I suoi stessi nemici convengono di questa forza irresistibile del suo ragionamento. La sua dialettica non appariva mai tanto pianto nel dialogo, col quale, per mezzo dell’induzione e dell’analogia, traeva dalla coscienza di ciascuno i prìncipii delle naturali credenze; specie di parto intellettuale [testo greco], cose da ostetrico o da mammana. Questo metodo aiutato dall’ironia e da una simulata ignoranza mettendo i sofisti in contraddizione con sè medesimi, finiva coi trionfare di essi.
Come fagiano o pavone. — Zoppica la lezione. La correzione del Menagio è approvata dall’Huebnero ad eccezione dell’[testo greco] disgiunto dal [testo greco] — „E Glaucone tenne lui stesso degno di onorare la città come un fagiano e un pavone.“ Borheck.
XV. Apparava a suonar la lira. — Socrate, già vecchio, si esercitò nella musica sotto la direzione di Conno, riconoscendola utile per l’educazione dell’uomo, come si credeva dagli antichi.
XVI. Diceva un dèmone predirgli le cose avvenire. — [testo greco], divino, che viene da Dio, aggettivo; [testo greco] ([testo greco]) qualche cosa che appartiene alla natura dei dèmoni, che la mitologia pagana colloca tra il cielo e la terra; non un dio affatto, ma una specie d’intermedio fra Dio e l’uomo. — Quanto non si è scritto sul dèmone di Socrate! Altri vide in esso un diavolo: altri un angelo, un ente soprannaturale; chi lo tenne un artifizio per condurre una riforma; chi un fatto naturale, squisito, educato da lunga esperienza! Voltaire che, al solito, ride di Socrate, come di ogni cosa, dice che un uomo che spaccia di avere un genio famigliare è senza dubbio un po’ pazzo, o un po’ briccone. — Chi crederebbe che Barthelemy ponesse in dubbio la rettitudine delle intenzioni del filosofo? Ma il candore di Socrate, il prezzo che gli costò la sua credenza; la persuasione de’ suoi discepoli non permettono questi dubbii. „Questo segno, questa rivelazione demoniaca, che Socrate riconobbe sin dall’infanzia, e ch’ebbe con più frequenza negli ultimi tempi della sua vita, lo distoglieva da una quantità di azioni che avrebbe voluto intraprendere; e da ciò traeva consiglio per le cose ch’e’ dovea fare. Questo sogno si riferiva anche alle azioni altrui, e si considerava da esso come un dono degli dei, comune anche agli altri uomini; come una voce interna, che è il migliore avviso che si possa ricevere. Se per questo adunque s’intende una irritabilità particolare del sentimento, che apparirà come una specie di presentimento, non si andrà molto lungi dal vero; e solo non bisogna credere di poter con ciò liberar Socrate dall’accusa di superstizione; poichè la sua credenza in un segno demoniaco intimamente si collega al suo rispetto, non solamente per Dio, ma anche per gli dei. È impossibile dubitarne, quando lo si rode raccomandare la divinazione come rimedio alla nostra ignoranza sulle cose incerte e future; consigliare a Senofonte di consultare l’oracolo, mostrarsi inclinato a credere a’ sogni, sagrificare assiduamente e raccomandare di sagrificare agli dei domestici e pubblici.“ Ritter — Tennemann pensa che Socrate, abitualmente mosso da un sentimento religioso, ammettendo un’azione diretta della divinità sui fenomeni della natura, e massime su quei della natura morale, poteva benissimo riferire immediatamente ad una ispirazione benefica quella specie di presentimento confuso, indefinito, di cui non ispiegava la formazione logica nel suo spirito. — La tendenza alle ispirazioni, ai presentimenti, ai fantasmi è prodotta secondo Gall da un organo particolare, che, come si accennò, parlando del ritratto di Socrate, è formato da una circonvoluzione cerebrale posta fra gli organi della mimica e della poesia, e dai quali, se non n’è parte, trae al certo aiuto, si fa ad essi compagna negli effetti, e dà materia di esaltamento o di esercizio. Un eccitamento nervoso abituale, una contenzione di spirito a lungo protratta sopra uno stesso oggetto; i digiuni, le veglie, la pletora provocano quello stato del cerebro che produce le visioni, per l’azione di organi eccessivamente sviluppati od esaltati. Quello della mimica può giugnere al punto di personificare semplici idee, e di trasportarle, così tramutate, fuori di noi. La facoltà d’imitare è fra le comuni dell’uomo. Chi non la prova in sè stesso? chi non la vede negli altri; o ignora i prodigi di Garrick? Or bene. Questa facoltà esaltala, soperchiante può operare in noi stessi ciò che per lo più opera negli altri, e non avendo spettatori di ciò che produce, far sentire al nostro IO ciò che con altri mezzi fa sentire agli altri. Ecco aperta in noi stessi, seguita Gall, una scena di rappresentazioni senza aiuto di attori e di spettatori. Però l’estrema attività dei sensi interni è passeggiera. Quando uno ha il tempo di riconoscere sè stesso; quando nuovi sentimenti e nuove idee vengono a indebolire le prime; quando certi movimenti automatici danno un altro corso alla circolazione del sangue e ci richiamano a noi stessi, la visione o l’apparizione scompare, cessa il sogno che noi dicevamo svegliati. E un’alienazione passeggiera, la cui impressione nonostante è difficile scancellare dall’animo di chi prova siffatte visioni; le quali in alcuni sono periodiche e d’ordinario hanno luogo alla ricorrenza di eccitamenti, di emorroidi, di menstrui. — L’organo che produce le visioni, sia pur congiunto co’ suoi vicini, o da quelli separato, secondo i frenologi posteriori, o, secondo l’illustre Vimont, vi si colleghi l’azione molto energica di certe facoltà percettive e spesso la lesione dei cinque sensi, produce dei pari la credenza alle cose maravigliose, agli spiriti, ai sortilegii, ai miracoli. A quest’organo dobbiamo la demonomania che infettò i secoli trascorsi o che, piuttosto che leggi severe e rogo, meritata la compassione e le cure dei medici. Quest’organo è patentissimo nelle teste di Platone, di Cromwoll, di Swedembourg, di S. Ignazio, di Tasso.
XVIII. Socrate de’ mortali il più sapiente. — „Quest’oracolo non poteva, da Socrate, spiegarsi altrimenti che dicendo avere il Dio voluto far intendere por questo mezzo che la saggezza umana era in generale cosa di poco momento, e che il più sapiente di tutti era colui che ne riconosceva il poco pregio.“ — Ritter. — Questo responso per altro si riporta in modo diverso. Lo scoliaste di Aristofane fa dire alla Pizia: Sofocle è saggio; Euripide più saggio di Sofocle; ma Socrate è più saggio di tutti gli uomini. Senofonte, Che non vi era alcun uomo più libero, più giusto, più sensato di lui. — Se gli oracoli, come acutamente osserva il Clavier, erano una istituzione politica e religiosa senza prestigi o finzioni, alcuni responsi doveano aversi in conto di voto pubblico. Demostene quando udiva predizioni favorevoli a Filippo era solito dire che la Pizia filippizzava. — Anche gli oracoli non ressero alla luce della filosofia.
Anito eccitò contro di lui prima Aristofane. — Anito era un ricco e possente artigiano, un democratico che con Trasibulo avea contribuito all’espulsione dei trenta e al ristabilimento della libertà. Socrate lo aveva punto sul viso rimproverandogli di aver negletta l’educazione di un suo figlio. — Le Nubi di Aristofane furono scritte ventitrè anni prima dell’accusa di Socrate, nè il poeta pensava a prepararla. Non è difficile, osserva Cousin, che si abbiano contribuito. Le Nubi furono composte per dimostrare che le frivole ricerche della filosofia distoglievano i Greci dagli esercizj guerreschi, e non servivano ad altro che a corrompere la religione e la morale. Il coro composto di nuvole parlanti è un’immagine dei pensieri metafisici che non posano più sul terreno dell’esperienza, ma spaziano tra’ possibili. Socrate, seduto in un corbello, si libra per l’aria, e sembra discendere dal cielo. Forse, dice Schlegel, la sua filosofia era più diretta all’idealismo, che non ci fa’ supporre Senofonte. — Si racconta che Socrate non abbia sdegnato di assistere alla rappresentazione delle Nubi, e di mostrarsi agli stranieri che lo cercavano cogli occhi. — Anacarsi. — Del resto, osserva Cousin, non potersi difendere Socrate di essere stalo poco ortodosso; perocchè fu veramente il primo banditore della rivoluzione di cui fu martire. Muover guerra al paganesimo, sul quale riposava lo stato, era lo stesso che crollare lo stato, e Socrate fu colpevole in faccia allo stato. Aristofane, buon cittadino, doveva alzare in grido contro novatori oziosi, che si occupavano più del cielo che della patria, e quindi, in nome della patria, tutti li colpi nella persona di Socrate. Religione, stato, arte, si prestavano, nell’antichità, una forza reciproca. La commedia antica (prima) avea uno scopo serio assai, e le buffonerie di Aristofane coprivano un pensiero profondo. Nè Aristofane ebbe forse intenzione d’intentare un’accusa a Socrate: nè Socrate di fare una rivoluzione. Ma la storia registra gli atti non le intenzioni! La commedia non bastò, e la religione ricorse allo stato. In quel framezzo il comico e il filosofo cenarono in compagnia a casa di Agatone. — Aristofane fece la sua parte; quella parte che portavano i tempi.
Melito e Licone. — Melito freddo poeta di pessime tragedie, durò nella memoria degli uomini per gli scherzi di Aristofane. Fu strumento di Anito e di Licone, il quale diresse lo procedura; ed era uno di quegli oratori che aggirano il popolo nelle assemblee, e formavano in Atene una magistratura politica istituita da Solone per proporre le cose vantaggiose alla repubblica.
XIX. Il giuramento per l’accusa era di tal fatta. — In Atene le due parti prestavano, il giuramento. L’accusatore giurava il primo di dire la verità; l’accusato protestava della sua innocenza. Questo doppio giuramento chiamatasi [testo greco], del pari che la formola dell’accusa con giuramento.
XXI. Fu condannato con dugent’ottant’un voto ecc. — Platone non è d’accordo don Diogene nel numero dei voti. Tychsen per conciliarli,stabilisce il numero degli Eliasti presenti a 559, dei quali vivrebbero dato il volo di assoluzione.
Disse che avrebbe pagate venticinque dramme. — Circa ventitrè delle nostre lire italiane. — Anche Platone afferma aver egli assentito di pagare una leggiera ammenda. Secondo Senofonte non volle udirne parola, per non riconoscersi colpevole.
XXI. Data la spesa nel Pritaneo. — In questo luogo, oltre i Pritani, ch’erano cinquanta senatori, i quali a vicenda tra i cinquecento presiedevano agli affari, si mantenevano del pubblico coloro che avevano resi importanti servigi allo stato, i vincitori olimpici ed altri.
Coll’aggiunta di ottanta voti — La pena, se non era determinata, potea per legge scegliersi dal reo. Quindi sarebbe stato facile a Socrate causarsi dalla morte, imitandola col carcere, coll’esilio o coll’ammenda. Ma la scelta della pena parvegli una tacita confessione di colpa. L’elogio ch’e’ fece di sè, la sua fermezza, si stimò da’ giudici, per la maggior parte volgo, una nuova arroganza, e gli valse la indignazione di molti, e però se tre soli voti in favor suo mancarono alla parità dei suffragi per mandarlo assolto la prima volta, molti giudici che gli erano stati favorevoli aderirono alle conchiusioni di Melito, e la sentenza di morte fu pronunciata coll’aggiunta di altri voti ottant’uno. — „Non credè Socrate di dover porgere suppliche per non morire: anzi stimò essergli or mai opportuna la morte. — E volendo i di lui famigliari portarlo via di nascosto; non volle seguitarli, anzi pareva - che li beffasse interrogandogli se sapessero luogo alcuno fuori dall’Attica inaccesso alla morte. — Il morire, diceva, non è per me vergognoso, ma per quelli che lui hanno condannato“ — Senofonte.
Dopo molti giorni bebbe la cicuta. — „Accadde che il giorno innanzi il giudizio fosse ornata la poppa della nave, la quale gli Ateniesi mandano ogni anno a Delo. — Quando si dà principio allo spettacolo, hanno essi legge che si purifichi la città, nè in quel tempo si uccida alcuno pubblicamente, finchè la nave pervenga a Delo, e di nuovo da Delo se ne ritorni ad Atene — sì che fu Socrate lungo tempo in prigione fra il giudizio e la morte.“ — Platone.
— Cicuta e Socrate sono nomi che da secoli vanno congiunti. Eppure nè le memorie dei contemporanei, nè il potere venefico della cicuta ci persuadono a riguardarla come strumento di morte presso gli Ateniesi.. Senofonte e Platone non parlano che di veleno, [testo greco], e le autorità di Cicerone, Val. Massimo. Plutarco, Ovidio, che di cicuta non fanno cenno; e quelle di Plinio, Eliano. Diogene, Giovenale ecc., che la nominano in proposito, sono posteriori tutte più o meno. — Ho letto in qualche luogo che la tazza in cui si mesceva il veleno custodivasi a chiave da un magistrato ateniese, il quale non senza formalità apprestava il liquore. Il dott. Mead dice, essere probabile che quella bevanda fosse una mistura di parecchie droghe, fra le quali entrava la cicuta, forse non dissimile da altra bevanda che, al dire di Val. Massimo, serbavano i magistrati di Marsilia per concederla a chiunque avesse allegata una ragione plausibile di bramar di morire placidamente. Costume, secondo lo stesso Valerio, derivato dall’Asia. — E la morte di Socrate fu placidissima.
Molte belle ed utili cose ragionando ecc. — Nel Fedone con quel magistero che tutti sanno si pingono gli ultimi istanti di Socrate, i quali degnamente conchiudono una tanta vita. Eppure quanto di malizioso e di stolto non si disse in proposito da Lattanzio, da Tertulliano e da altri, particolarmente sulle ultime parole pronunciate dal filosofo: o Critone, dobbiamo il gallo a Esculapio. Ma datelo, e non siate trascurati! Perchè non osservare, com’altri fece, che la vita, essendo per Socrate una malattia, il suo voto ne esprimeva la riconoscenza per la brama la guarigione? — Così accenna Cousin l’intenzione di lui: „Socrate troppo illuminato per accettare senza eccezione le allegorie popolari, cui racconta a suoi amici, è troppo indulgente altresì per rigettarle con severità; e noi vediamo tutt’al più errare sulle labbra del buono e spiritoso veglio quel mezzo sorriso che tradisce lo scetticismo senza mostrare il disprezzo.“
XXIII. Gli Ateniesi si pentirono ecc., e Socrate onorarono di una statua ecc. — Tutto ciò affermasi anche da altri, e Plutarco ci narra che ai calunniatori di Socrate, in esecrazione di tutti, si negava di dar fuoco, di esser compagno ne’ bagni, e perfino di rispondere. Ma l’autore del viaggio d’Anacarsi queste cose non crede conciliabili col silenzio dei discepoli di Socrate. „Basta, dice Visconti, il nome dell’artefice — che fece la statua — a provare che il pentimento degli Ateniesi fu più tardo di quanto molti hanno creduto.“
Nato nel quarto anno della settantesima settima olimpiade ecc. — A mezzo maggio circa dell’anno 470 innanzi l’e. v., secondo il calcolo di Meiners. — Altri avanza o ritarda quest’epoca. — Osserva Barthelemy che assegnandosi la nascita di Socrate al detto anno, quarant’anni cioè dopo la morte di Pericle, quand’e’ si dedicò alla filosofia, Aspasia doveva essere pressochè ottuagenaria, i Supposti amori di questa donna col giovine filosofo farebbero parere meno strani que’ dell’Abbatino Gérodin colla Ninon, ottuagenaria al pari della Greca. — Platone, nel Menesseno, dice soltanto, che Socrate apprese da Aspasia l’arte oratoria. — La morte di Socrate è stabilita dai marmi d’Arundel. Però la si fa ondeggiare dai cronologi tra il quarto anno della 94.ª (400) e il i.º dalla 95.ª olimpiade (399 avanti l’era volgare).
XXIV. Un mago venuto di Siria. — Il fisionomista Zopiro disse che l’arte gli facea vedere in Socrate un donnajolo, un balordo, superbo e invidioso. Alcibiade ne rise, ma il buon Socrate confessò le inclinazioui che avea saputo vincere.
XXV. Quelli che gli successero detti Soctatici. — „Non bisogna intendere per essi un cerchio determinato di aderenti, che professano, col nome di scuola, le dottrine del maestro. Socrate non ebbe dottrine e non volle esser chiamato maestro. Scuole di filosofia, propriamente dette, non si formarono che dopo di lui, e puossi asseverare, che prima non ne fu costituita alcuna, nella quale il maestro insegnasse una dottrina cui il discepolo ricevesse, propagasse ed estendesse, se era possibile. — Scolari di Socrate erano persone, differentissime di opinioni, che per istruirsi stimavano il conversare con lui vantaggioso.“ — Ritter.
Socrate, oggetto di stima a’ più illustri contemporanei e di ammirazione a’ secoli posteriori, non è, al dire di Cousin, conosciuto quanto potrebbe parere. L’odio di Aristosseno, ereditato dal padre, secondato dall’antica setta peripatetica, dagli epicurei, e persino da alcuni Padri, produsse le molte imputazioni, che in parte furono dissipate da Luzac, e fomentò i dubbi derivati dai giudizii contraddittorii di alcuni riputati scrittori sulla sua vita e sulle sue dottrine. La riforma di Socrate ha un’indole piuttosto negativa, e il commovimento ch’ei pose nelle menti non fu effetto di principii certi ed irremovibili. Platone ce lo dipinge, nell’Apologia, indifferente ai pubblici affari, trascurato ne’ proprii, non d’altro occupantesi che di proporre quistioni a tutti. Ciò rivela quella missione superiore, da cui si teneva incaricato, e chiamavalo a rendere migliori gli uomini, a smascherare la falsa saggezza, ad umiliare l’orgoglio dell’ingegno dinanzi il buon senso e la virtù; a ricondurre la ragione umana dalla ricerca ambiziosa di un sapere chimerico e vano al sentimento della sua debolezza, allo studio ed alla pratica delle virtù morali. — Tale, conchiude Cousin, è la missione di Socrate! essa domina, a’ suoi occhi, tutti i doveri e gli interessi ordinarj. Egli è pronto a suggellarla col proprio sangue.
CAPO VI.
Senofonte.
I. Del popolo erchieo. — [testo greco] demo o distretto, di cui dieci formavano una tribù, e in dieci tribù Clistene avea divisa l’Attica. Erchia apparteneva alia tribù Egeida, e ogni cittadino doveva essere ascritto a un popolo, a una tribù.
V. Socrate il quale lo mandò a Delfo. — Questo consiglio gli diede Socrate, il quale temeva che l’aulico, suo non si rendesse sospetto agli Ateniesi legandosi con Ciro, che si era mostrato sollecito di aiutare gli Spartani nella guerra contro gli Ateniesi.
VII. Mise agli stipendii di Agesilao i soldati di Ciro ecc. — Diogene confonde Agesilao e Timbrone. I soldati che Senofonte avea condotti a Timbrone, passarono a Dercillida suo successore, indi si trovarono naturalmente sotto il comando del re di Sparta. Forse diede motivo al bando una visita ch’ei fece ad Agesilao di cui fu sempre amico; e per la quale fu accusato di laconismo dagli Ateniesi, che già di mal occhio lo aveano veduto militare nell’esercito di Ciro.
Ne diede la metà a Megabise. — Megabise, Megabiso, o Megabaso, era nome comune ai sacerdoti di Diana in Efeso, oppure di un solo e proprio? Se proprio non fosse stato, anche Senofonte non avrebbe ommesso l’articolo.
Soccorso ospitale. — [testo greco] era anche la carica d’ospite pubblico.
VIII. Una donnicciuola — [testo greco] — muliercula, diminutivo atto piuttosto ad indicare una concubina che una moglie.
Dioscuri. — Castore e Polluce. — I due figli di Senofonte ebbero quest’appellativo o perchè gemelli, o perchè abili nell’equitazione, o perchè legati di vicendevole affetto.
X. Educati in Isparta. — „Volle poi (Agesilao) che il saggio Senofonte, cui tenca egli presso di sè, e per cui aveva somma premura, mandasse a chiamare i di lui figliuoli per farli allevare in Lacedemonia, acciocchè vi prendessero la più bella di tutte le discipline, l’obbedire ed il comandare.“ — Plutarco.
XI. Cessò di vivere ecc. — L’autorità di Stesiclide perde ogni peso in faccia a quella dello stesso Senofonte, il quale fa esenzione dell’assassinio di Alessandro, tiranno di Fera, accaduto l’anno quarto della 105.ª Olimp. (357, avanti l’e. v.). — Secondo gli eruditi pare doversi stabilire la nascita di Senofonte nell’anno 445, la sua morte nell’anno 355 avanti l’era volgare.
Morì in Corinto. — Pausania, osserva il Barthelemy, dice che a Scillunte si conservava il suo sepolcro. Forse dopo aver soggiornato qualche tempo a Corinto ritornò a Scillunte. Fors’anco quella tomba era supposta, e autorevole il passo del nostro biografo.
XIII. Scrisse sino a quaranta libri. — Un dotto francese dubita, se veramente Laerzio intenda per libri — βιβλια — opere intere, o semplici divisioni di libri. Nel primo caso, circa due terzi delle opere di Senofonte si sarebbero perdute, e questo è il parere di alcuni eruditi; nel secondo, non saremmo lontani dal numero di quelle che ci rimangono, e secondo quel dotto, delle composte e pubblicate da lui.
I libri di Tucidide ecc. — „Questo fatto si è posto generalmente in dubbio, in forza di un’opinione di Dodwell, circa all’epoca della morte di Tucidide ch’ei fissa nell’anno 391, epoca realmente inconciliabile coll’aneddoto. — Ma nessun autore antico ha accennato l’epoca della morte di Tucidide. — Non resta realmente nessuna prova che abbia vissuto oltre l’anno 400 — e quindi non v’è ragione di rifiutare il racconto di Diogene. — Nulla ci vieta di credere che l’opera di Tucidide, non compiuta, gli fosse adulata dall’autore medesimo, morendo, o da’ suoi eredi. Laonde il dire di Laerzio, lungi d’essere inverisimile, combina invece colle circostanze della vita d’entrambi gli storici — nè v’ha ragione di rapire a Senofonte l’onore di essere stato il primo editore di Tucidide.“— Letronne.
XIV. Era chiamato la Musa attica. — Gli antichi lodano unanimi la grazia e la dolcezza del suo stile. Cicerone lo chiama melle dulcior; dice, le Muse aver favellato per bocca sua. Secondo Quintiliano, sembra che le Grazie abbiano impastato la sua favella, e che la persuasione siasi assisa sulle sue labbra. — Fu soprannomato l’Ape attica, [testo greco]; e Menagio vorrebbe sostituita [testo greco] a [testo greco]. — Dionigi Alicarnasseo accorda a Senofonte ogni possibile dolcezza, ma afferma che non ha tutto il bello che si può desiderare. — La semplicità, la grazia, la chiarezza non gli sono contese da alcuno.
Lui e Piatone erano gelosi. — I fatti citati in prova di questa pretesa gelosia da alcuni antichi autori, secondo il Boeckh, sono poco concludenti. Però, osserva Letronne, uno ne rimane, impossibile a negarsi, ed è che Platone non mai, in alcuna delle sue opere, ricorda Senofonte, e questi, tranne una sola volta, e per cosa da nulla, non fa menzione del primo. Silenzio, che, se non gelosia, dimostra certo poca bevolenza.
XV. Per sentenza d’Eubido. — Osserva Letronne aver Laerzio inavvertitamente di due fatto un Eubulo solo. Senofonte, secondo il dotto francese, fu esiliato per decreto dell’arconte Eubulo, e per decreto dell’oratore dello stesso nome richiamato in patria.
CAPO VII.
Eschine.
III. Assioco. — Questo dialogo, probabilmente suo, fu pubblicalo più volle, e meglio corretto dal Fiscer, Lipsia, 1786, in 8.º
IV. Narrasi avergli detto Socrate ecc. — [testo greco], ut a se ipso usuras exigeret sibi subducendo cibaria. — Fr. Ambrog.
CAPO VIII.
Aristippo.
III. Per pigliare uno sciocco. — [testo greco]. Secondo Menagio è una maniera di pesce. Altri voltò balena. Il motto corre del pari. — La maggior parie delle facezie che il nostro Laerzio attribuisce ad Aristippo sono dal Machiavelli poste in bocca al suo Castruccio!
IV. Areta. — Areta o Aretea è chiamata da Eliano sorella di Aristippo. I piu la credono figlia.
Pietra sopra pietra. — [testo greco]. I teatri erano di pietra, e pietra sono gli uomini ineducati.
VI. Le opere di lui sono queste. — Non essendo qui registrato il libro [testo greco], che il nostro Diogene va spesso citando, convien credere, come afferma il Luzac, che e’ appartenesse ad un altro Aristippo.
Il fine definì un movimento soave. — I cirenaici non ammettevano l’inerzia perfetta dell’anima, ma il più piccolo impercettibile movimento. La temperanza socratica, secondo Ritter, si appalesa nel chiamar essi il piacere un dolce movimento, il dolore un movimento violento, e paragonando il primo al mare mosso da vento favorevole, il secondo al mare tempestoso, le condizioni di mezzo alla calma. Anche Socrate, segue Ritter, suppose la felicità essere fine di tutti gli uomini, e se fece vedere che il vero piacere non consiste ne’ godimenti animali, ma nella vita saggia e misurata dell’anima, lasciò alla vita stessa lo scopo del piacere, e a questo scopo potè mirare Aristippo, quando insegnò che il bene è il piacere, il male il dolore.
VII. Cirenaici. — I discepoli di Aristippo furono per la maggior parte di Cirene, o di paesi poco discosti; quindi non ebbero che un’importanza locale, una successione incerta e tradizioni confuse. Si tengano per discepoli di Aristippo, sua figlia Arete e Antipatro da Cirene. Arete fu maestra del proprio figlio Aristippo il Metrodidatte, al quale si attribuisce l’ordinamento dell’antica dottrina cirenaica. Gli altri col farla progredire la condussero, degenerata, da Socrate, sino ad Epicuro. Teodoro, che secondo Laerzio sarebbe vissuto più tardi, pare che fosse uditore dello stesso Aristippo, e Antipatro invece capo di un’altra serie di Cirenaici, dei quali non si conoscono che i due ultimi, Egesia e Aniceride.
IX. Egesiaci. — Da Egesia posteriore a Teodoro. Fu appellato persuasore di morte ([testo greco]), perchè affermava la morte non toglierci ai fieni ina ai mali, e il suo dire in proposito era sì copioso, che da Tolomeo gli fu vietato di usarne in iscuola, perchè i discepoli udendolo si determinavano a uccidersi. La sua dottrina era contenuta in un libro intitolato [testo greco] (di uno che si lascia morire di fame). Costui richiamato a vita dagli amici, risponde ivi ad essi enumerando gli incomodi della vita. Pare che gli Egesiaci sapessero in coscienza, che l’orgogliosa presunzione de’ Teodorei, di bastare a sè stessi, era una vanità. „La dottrina di Aristippo, dice Ritter, essendo l’espressione di mio spirito inclinato al piacere, e vivente in circostanze propizie, ben potè avere un effetto al tutto opposto in circostanze meno felici, e la temperamenti meno inclinati all’allegria.“
X. Annicerii. — Anniceride, che si ha per condiscepolo di Egesia, ben altrimenti di lui comprese le dottrine cirenaiche. Suida afferma che e’ divenisse epicureo; ma solo in qualche punto s’accostò alla dottrina di Epicuro, essendone in altri lontano, e massime non riconoscendo un fine generale di lotta la vita, e non ammettendo che un fine particolare per ciascuna azione, cioè il piacere che ne può derivare. Più; ei non rinveniva il piacere nella cessazione del male, che tale è lo stato di morte, ma cercava qualche cosa di positivo nel piacere. — Clem. Ales. Strom.
[testo greco] Altra prova, osserva il Ritter, delle modificazioni portate alla dottrina cirenaica. Anniceride non credeva che la ragione bastasse a rendere l’uomo fermo e superiore alla opinione del volgo; ma voleva si distruggessero le prave disposizioni dello spirito. Inclinazione evidente a prendere più in grande dei Cirenaici la vita dell’uomo. Anniceride, sembra avere opposto i godimenti intellettuali alle idee egoistiche di Teodoro e di Egesia.
XI. Teodorei. — „Se nell’amore de’ Cirenaici per l’indipendenza già si scorge una inclinazione a staccare l’uomo dall’uomo, a farne un individuo, ben più si manifesta nella dottrina di Teodoro. Sembra avere egli vissuto in Egitto e a Cirene al tempo dei primi successori di Alessandro Magno, ma nessuna circostanza di sua vita è certa. Altri lo dice scolaro di Aristippo il giovine, altri di Anniceride. Alla setta ch’ei fondò appartenne anche Evemero l’ateo.“ Ritter.
XIII. Il sapiente potere commetter furto ecc. — Teodoro lagnavasi, al dire di Plutarco, che la sua dottrina fosse male intesa; e forze è questa una di quelle false interpretazioni di cui si duole; dacchè tiensi ch’e’ pure riguardasse la giustizia come un bene. Non è inverisimile, osserva Ritter, che si credesse avere esso voluto condurre ad azioni ingiuste, mentre in vece non affermava puramente e semplicemente che l’indifferenza di tutte le azioni.
CAPO IX.
Fedone.
I. Ma egli chiusa la porticina ecc. — [testo greco]. Menagio avrebbe voluto [testo greco], ma la volgata approva il Kuchnio; Adducto ustiolo cellulae suae ibat ad Socratem.
III. Successore di lui fu ecc. — „Fedone di Elea, discepolo di Socrate, e che diede il suo nome al Fedone di Platone, fondò la scuola eliaca, della quale non possiamo apprezzare le dottrine che pel solo fatto di avere la scuola eretrica tratto origine da essa. Menedemo, fondatore di questa, tintisi aver' ricevuto la sua dottrina dagli seolari di Fedone.“ — Ritter.
CAPO X.
Euclide.
„Lo Sponio pubblicò il ritratto di Euclide cavato da una medaglia greca — che non mi venne fatto di rinvenire in verun Museo — ne ho scoperta in quel di Parigi un’altra — Euclide che nella medaglia dello Sponio ha la testa laureata, in questa è coperto dalla rica, specie di velo di cui uomini e donne si servivano per ripararsi dal sole. Aulo Gellio ci dice che la si usava da Euclide, allorchè, in onta alle leggi, recavasi travestito. quasi ogni giorno da Megera ad Atene per udire Socrate.“ — Visconti.
I. Si esercitò nelle dottrine parmenidee ecc. — Socrate, come si è veduto, biasima in lui alcune opinioni, attinte alla filosofia eleatica, che lo conducevano ad investigazioni sottili, e contenziose.
II. Uno essere il buono. — „Il carattere della dottrina megarica, per quanto si può dedurre da tradizioni manchevoli, si riepiloga in questo, che alle opinioni eleatiche si aggiugne la coscienza socratica del bene morale e delle leggi del pensiero scientifico. Gli antichi unanimi riferivano la dottrina de’ megarici agli eleali; il perchè sono tenuti, non ammettere che un ente solo, immutabile, che non può essere conosciuto dai sensi, ma soltanto dalla ragione. Euclide, fedele alla direzione morale di Socrate, chiamava questo ente unico il buono ecc., nessun’altra cosa esiste che lui; di modo che pare aver fatto consistere il segno della vera morale, come quello della vera esistenza, nella sua unità e nella sua identità costante. Ciò che presenta al primo aspetto un riflesso di questa massima di Socrate, che la vera virtù non può essere un perfezionamento parziale dello spirito umano, ma ch’ella costituisce l’essenza reale dell’uomo ragionevole, ed anche di tutto l’universo. Pel solo fatto però, ch’Euclide riconosceva, che l’uno porta ciò nulla meno diversi nomi, pare ch’egli abbia tentato di spiegare come il vero, tuttavia restando uno, può presentare l’apparenza del molteplice. — Faceva come i suoi discepoli, servire le dottrine logiche alla negazione — combatteva le prove non per le premesse ma per le conclusioni, quindi in una maniera indiretta — e rigettò anche i paragoni. Si potrebbe presumere che questa maniera negatìva e indiretta avesse generalmente per iscopo di far riguardare ogni cognizione mediata come nulla in sè stessa.
IV. Eubulide milesio del quale ecc. — La maggior parte dei sofismi della scuola megarica sono attribuiti a costui. Tra i ragionamenti capziosi di cui furono inventori i sofisti, sono certamente anche questi di Eubulide, che neppure fu primo a porli in uso. Avvene alcuno, come l’Ingannatore e il Cornuto, la cui applicazione non sembra evidente.
V. Alessino — soprannomato Elessino. — Ἐλέγξινος da ἔλεγξις, confutazione — Combattè lo stoico Zenone per afforzare le dottrine megariche dell’urto immutabile, contro le stoiche circa lo sviluppo vivente del mondo.
VII. Diodoro soprannomato Cronos. — Discepolo di Apollonio Cronos, discepolo d’Eubulide. — Osserva Ritter, che i Megarici, i quali successero ad Eubulide, si diedero più alla contemplazione dell’esistenza che a quella del pensiero. Celebri sono le ragioni colle quali Diodoro cercava di provare che non avvi di possibile che ciò che è necessario. — Veggasi tutto il cap. V, del lib. VII, di Ritter.
Cronos ma senza l’R e senza il K. — Se da Κρόνος togli Κ e Ρ rimane ὄνος, asino!!!
CAPO XI.
Stilpone.
I. Udì alcuni successori di Euclide. — Ciò che si racconta di Stilpone mostra che la stessa tendenza morale di Euclide non avea cessato di animare la scuola di Megara, anche in un’epoca molto avanzata. Le sue qualità personali, più di altro, ne resero frequentata la scuola. Era tenuto in gran venerazione presso gli antichi pel suo carattere mοrale; le sue dottrine si riferivano particolarmente alla virtù. — „Il negativo, così Ritter, era il carattere dominante della morale di Stilpone, come della cinica: poichè insegnava consistere il supremo bene nel non patire: il sapiente bastare a sè stessο, ed essere superiore ad ogni evento spiacevole a segno di superare non solamente il dolore, ma anche di esservi insensibile. — Pare che in qnesta dottrina di Stilpone non si tratti dell’uomo, ma del supremo bene, o del bene, che è, secondo Euclide, il solo bene; bene che Stilpone poterà chiamare lo spirito esente da ogni dolore, in quel modo ch’Euclide lo chiamava Dio. Che se Stilpone considerata questo sommo bene come fine dell’uomo, e fors’anche fingevasi l’uomo saggio esente da ogni dolore, si può dire che allora egli era trascinato da questa dottrina della sua scuoia, che il sensibile, in generale, e per conseguenza anche il dolore, realmente non esiste; donde si può conchiudere che più l’uomo è buono e saggio, più ancora è inaccessibile al dolore. Espressione di una morale severa ch’esce egualmente bene dall’opinione di Stilpone, che il fatto altrui, pur di chi ci è più prossimo, non può alterare la nostra felicità.
III. La cortigiana Nicarete. — Era, al dire di Ateneo, nata di famiglia illustre, per coltura, amabilissima e discepola di Stilpone.
V. Non un dio, ma una dea. — [testo greco], come Deus, è d’ambo i sessi; e [testo greco], ortus, orto, tanto in greco, che in latino, e in italiano, usurpatur, dice Menagio [testo greco].
VI. Ciò che era mente e mantello. — Giuoco di parole od equivoco che nasce dal pronunciarsi in vece di [testo greco], mantello nuovo, [testo greco], mantello e mente.
VII. Toglieva di mezzo le specie. — [testo greco]. — „Pare che La dottrina logica di Stilpone fosse in armonia colla sua morale. A lui si attribuisce l’opinione sofistica, che da una cosa non si saprebbe affermarne un’altra, perchè una cosa non è simile ad un’altra. Diceva Euclide, non esservi che ciò che è simile a sè stesso che sia buono e vero, e che il paragone dell’uno coll’altro non è possibile. Ciò che, per conseguenza, rendeva impossibile la spiegazione delle idee, del pari che la riduzione di un’idea inferiore a un’idea superiore. — Quindi combatterà le idee di Platone, allegando, come pare, contro di esse due cose: primo, che le idee, come le intende Platone, non significano nulla, perchè non indicano niente di particolare, nè una cosa, nè un’altra, poichè non erano suscettive di alcuna applicazione al mondo sensibile, perchè doveano significare qualche cosa di eterno.“ Illustrato così il passo di Laerzio, osserra Ritter, non essere strano che l’attacco provenga da un Megarico e sia evidentemente diretto contro le dottrine in generale che ammettono una moltiplicità. — Nel negare la realtà delle idee generali ecc. pose Stilpone la base di una disputa che regnò sino a nostri giorni, e fece sorgere nel medio evo le due sette dei Nominalisti e dei Realisti.
IX. Zenone suo uditore. — Costui, se pure fu discepolo di Stilpone, travaso nel portico le speculazioni logiche e la severità delle dottrine morali de’ Megarici. — „La scuola di Megara, dice Ritter, si spense dunque, allorchè il suo carattere negativo fu fecondato dalle ricche idee della scuola stoica.“
X. Si partì bevendo. — Hunc, Stilpone, scrivono i suoi famigliari, et ebriosum et mulierosum fuisse, ma soltanto per la sua prava natura, ch’ei seppe domar tanto, da non aver mai dato un segno nè di vinolenza nè di libidine. Or come si raffrontano e questa ciceroniana affermazione e il convivere colla Nicarete e il partire beendo del nostro Diogene?
CAPO XIII.
Simone.
I. Quoiaio. — [testo greco], propriamente taglia-quojo; ma anche calzolajo, ciabattino ecc. — S. Giovanni Crisostomo chiama [testo greco] S. Paolo, il quale fabbricava tende, che erano di quoio, per lo più.
CAPO XVI.
Cebete.
[testo greco] — È questa la famosa Tavola, di cui pochi libri ebbero maggior mimerò di edizioni e di traduzioni. Oltre Laerzio, l’hanno attribuita a Cebete, Luciano, Tertulliano, Suida, Calcidio. Wolfio, Servin ed altri, ne pongono in dubbio l’autenticità; Caylus dice che in pittura riuscirebbe una cattiva composizione!
CAPO XVII.
Menedemo.
I. Fabbricatore di tende. — [testo greco], che cuce le tende. Alcuni codici leggono [testo greco], pittor di scene, e vi assente il Menagio, anche perchè [testo greco] si può dire di una scena e di un decreto, e il senso corre senza l’aggiunta del [testo greco] proposta dallo Stefano.
II. Seguaci di Fedone. — Da costoro è voce aver Menedemo ricevuta la sua dottrina; anzi le dottrine stesse della scuola Eliaca fondata da Fedone, appena si possono conghietturare dal fatto di aver data origine all’Eretrica, e di essere le opinioni di entrambi indistinte dalle megariche, secondo affermavano gli antichi.
III. Ma anche il rafano. — L’introduzione di un grosso rafano, nelle parti diretane era la pena ignominiosa che s’infliggeva agli adulteri.
A chi diceva che i beni erano molti ecc. — Il dogma fondamentale della dottrina eretrica, era, come quello della scuola megarica l’unità del bene.
IV. Ogni occasione essere concernente per ascoltare i filosofi. — O il [testo greco] si tramuti col Kuehnio in [testo greco], libertate loquendi; o vi s’aggiunga con Is. Casaubono l’[testo greco], e [testo greco], significhi, secondo M. Casaubono, promiscuamente sagrificio e convito, come tra noi solennità e mangiata, chiarissimo parendo il senso, sarebbe soverchio aggiugnere altre parole a quelle dei citati eruditi.
X. Dava frequenti banchetti ecc. — Spiace ad un erudito questo banchettare a rimedio dell’aere malsano; ad un altro non pare cattiva ricetta. Tra le varie lezioni, e le proposte correzioni ho creduto di seguire la volgata.
XII. Dunque il bene non è l’utile. — Menedemo non permetteva che si confondesse il bene coll’utile, e volle stabilire l’unità del primo, affermando non esservi nè moltiplicità, nè diversità di virtù, ma soltanto diversità di denominazione. „Cercava, dice Ritter, al modo de’ socratici l’unità della virtù e del bene nel convincimento razionale che dà la conoseenza del vero; volendo con questo far intendere soltanto, che basta avere una giusta e profonda conoscenza del bene per agire convenevolmente, e che non v’ha differenza di sorta tra il buono e il vero. Secondo quest’opinione, egli avrebbe cercato, come i megarici, tutto il vero nel bene unico e assoluto.“
Toglieva di mezzo le proposizioni negative ecc. — „Anche la sua dialettica negativa rassomiglia a quella de’ megarici. Rigettava per conseguenza le proposizioni negative e le proposizioni composte, non ammettendo che quelle che sono affermative e semplici. — Per la ragione forse che non tì ha di vero possibile che ciò che può essere affermato, e che ogni possibile, secondo anche la dottrina di Diodoro, è necessario — e non voleva poi nè meno, concedere che una cosa possa essere affermata da un’altra, sostenendo che il solo medesimo può affermarsi dal medesimo; al tutto come Stilpone. —“ Ritter.
È opinione di Eraclide che nelle sue dottrine fosse platonico. — È il contrario afferma il nostro Diogene nel paragrafo antecedente. Forse a cagione di altro Menedemo si disse platonico questo, e per errore le sue dottrine si riferirono da Eraclide a Platone.
XV. I conviti faceva in questa maniera. — La parsimonia presiedeva ai simposii filosofici di Menedemo. Sono raccontati anche da Ateneo quasi colle stesse parole di Laerzio, sull’autorità di Antigono Caristio, dal quale attinsero entrambi. Rechiamo, voltato, il passo di Ateneo, a commento del laerziano che, al solito, pecca di oscurità. „Antigono Caristio, nella vita di Menedemo, narrando l’ordine del simposio presso il filosofo, dice: e’ desinava, privatamente, con uno o due; e bisognava che anche gli altri v’intervenissero, dopo di essere stati a cena; poichè tale (cioè in luogo di cena) era il pranzo di Menedemo. Dopo si chiamavano dentro quelli che sopraggiugnevano, dei quali, se taluno, come accade, veniva prima dell’ora, tornando alla porta dimandava ai donzelli che uscivano che cosa si fosse apparecchiato ed a che punto era la mensa. Che se avesse udito camangiare e salumi, si ritirava; se pezzi di carne, entrava, nella sala a ciò preparata. Era poi sovra ciascun letto disposta, nella state una stuoia, d’inverno una pelle di pecora; e doveva ognuno portare il proprio cuscino; il bicchiere che si mandava in giro non era più grande di una colila; il posposto, continuamente, lupini o fave, e talvolta anche si recava qualche cosa di stagione, nella state pere o granati, in primavera, cicerchie, nel tempo vernale, fichi secchi.“ — In somma i simposii di Menedemo erano tanto sottili, che bisognava accostarvisi già pasciuti, e come ad un semplice dessert, o imbandigione di poco vino e scarse frutte, tra cui facea bella comparsa il fico secco, salutato dal buon Diogene con un per Dio di ammirazione.
XVI. Si dice che lo accusasse ecc. — Al [testo greco] delle vecchie edizioni, il Casaubono propose di sostituire [testo greco], il Rossi [testo greco]. L’Huebnero sta col primo.
XVIII. Eretric’opra. — [testo greco]. Che è mai quest’azione eretrica? Forse Laerzio la chiamò eretrica per dirla filosofica, perchè scuola di filosofi era Eretria? — Menagio.