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PARTE TERZA.
L’EDITORE AL LETTORE.
Avrei desiderato che degli ultimi giorni memorabili dell’amico nostro fosse rimasto quel tanto di testimonianze scritte, che m’avesse liberato dalla necessità d’interrompere il seguito delle sue lettere superstiti, colla narrazione che or qui intercede, fattasi così inevitabile.
Ho procacciato di raccogliere dalla bocca di coloro, che potessero aver notizie esatte della sua miseranda storia. La è semplicissima; ed io la riproduco tal quale m’è venuta da varie parti, con ogni suo incidente, in cui tutti concordano, da pochi particolari in fuori, di minimo rilievo. Solo nel modo di pensare de’ personaggi, che recitano nel dramma, le opinioni diversano, e sono divisi i giudizii.
Non ci restava, adunque, che adunare le sparse membra, narrare religiosamente quanto avevamo penosamente razzolato, e intercalare le lettere abbandonate dal defunto. E l’abbiamo fatto. Non ci è parso di dover trascurare una riga di quel che s’è rinvenuto dell’infelice; perchè abbiamo pensato come sia malagevole sempre lo scoprire i veri motivi che inducono anche la più futile delle nostre azioni, tanto più, allorquando si tratta d’uomini, che, in qualunque modo, si sottraggono all’ordinaria tessitura.
Lo sconforto e il tedio s’erano andati sempre più addensando nell’anima di Werther, fin che, da ultimo, tutto l’esser suo ne fu padroneggiato con ferrea disciplina. L’armonia delle sue facoltà era intieramente distrutta: una morale arsura, un’interna tempesta di cose rabbuffarono le forze della sua natura, e partorirono effetti e conseguenze disastrosissime.
Affranto dalla lotta, tese convulso ogni nervo per non soggiacere. Ma gli angosciosi conati spensero le ultime fiamme della mente, consumarono a grado a grado la sua vivacità, il suo vigore, la potenza del suo vedere: ed egli andò facendosi ognor più mesto, incerscioso, infelice — e quanto più infelice, tanto più ingiusto con chi l’appressava. Così, almeno, affermarono gli amici d’Alberto, i quali vorrebbero che Werther non sapesse apprezzare la condotta d’un uomo quieto e dabbene, che essendo venuto in possesso d’una fortuna, a cui da lungo tempo agognava, intendea di serbarla illibata anche per l’avvenire; laddove egli, sperperando di giorno in giorno il suo patrimonio, non facea che apparecchiarsi una volontaria inopia, un tramonto oscurato da patimenti. Alberto — proseguono essi — non s’era potuto mutare in sì breve tempo verso l’amico: egli era sempre quel desso, che Werther avea conosciuto in sulle prime, ch’egli avea stimato ed onorato tanto! Egli amava Carlotta sovra ogni cosa, era orgoglioso d’esserle marito, e insisteva a volerla riverita da tutti, siccome creatura purissima quant’altra mai. Poteasi dunque biasimarlo, o solo apporgli a torto, se s’industriava a sviare da lei anche la mera apparenza di lontano sospetto, s’ei risentivasi all’idea di spartire con altri, anche in modo innocentissimo, il possesso di cotanto tesoro? Convengono, codesti fautori d’Alberto, com’egli assai volte abbandonasse la stanza della consorte, allorchè Werther sedeva presso di lei, ma non sollecitato da odio, o da repugnanza alcuna, bensì per l’unico motivo ch’egli sentiva riuscir molesta la propria presenza all’amico.
Il padre di Carlotta era subitamente infermato, e non abbandonava la stanza. Faceva un bel giorno d’inverno: la prima neve era caduta in gran copia, e copriva del suo folto velo tutte le terre dintorno. Ei mandò a sua figlia la propria carrozza, ed ella uscì.
Werther le fu incontro, la mattina, nel pensiero di ricondurla a casa, ove Alberto non fosse ei medesimo a pigliarla.
Il tempo sereno non avea podestà sul suo animo intorbidito; una scura tristezza aggravava i suoi sensi: era perseguitato da continue immagini di dolore, vagava di pensiero in pensiero — ed ogni pensiero era una spina.
Oscillando in perpetua guerra con sè medesimo, pareagli difficile, arruffata sempre più la condizione degli altri: ei figuravasi d’aver guasti i termini, in cui vivevano tra essi i due sposi, e ne rampognava amaramente sè stesso, non senza mescere alle rampogne un segreto sdegno verso il marito.
Le sue idee caddero, per via, su questo:
«Sì, sì — diceva egli tra sè con un moto di rabbia — ecco il dolce, tenero, amorevole consorzio! la pacata, durevole fedeltà! Stanchezza e indifferenza, non altro. Forse che il più meschino, il più gretto degli affarucci non gli sta a cuore più della sua diletta, della sua amabile consorte? Sa egli pesare la sua fortuna? sa egli onorare quella donna quant’ella merita? Egli l’ha... lasciamo stare. Io lo so, come so altre cose, e credo oggimai d’essermi avvezzato a questo pensiero — che pur finirà a rendermi frenetico, ad ammazzarmi. E la sua amicizia verso di me, ch’è ella mai stata? Non vede egli, nella mia devozione a Carlotta, un’invasione de’ suoi diritti? Nelle mie attenzioni per lei un silenzioso rimprovero? Oh! io mel so: io so lo sento: egli mi guardo con occhio bieco — egli desidera ch’io m’allontani — la mia presenza gli è grave.»
Sovente egli studiava il passo, e si soffermava anche sovente, come s’ei meditasse di retrocedere, ma pur proseguiva sempre, tanto che, tra questi pensieri e questi soliloqui, s’era trovato all’impensata, e quasi a malincuore, al casino da caccia.
Entrò, chiese del vecchio e di Carlotta, e trovò la casa in certo rimescolìo. Il maggiore de’ ragazzi gli narrò come in Wahlheim era accaduta una grave disgrazia: un paesano era stato ucciso. — Non mostrò di commuoversi della novella. — Si fece innanzi, e trovò Carlotta affaccendata a dissuadere suo padre dal trasferirsi in persona sul luogo della scena, com’egli dava intenzione di voler fare, a malgrado della sua malattia, onde investigare i particolari dell’avvenuto. Il malfattore era sconosciuto ancora: si era rinvenuto il cadavere dell’ucciso, il mattino, davanti la porta della casa. Correa qualche congettura, a ogni modo: la vittima era il famiglio d’una vedova, che avea tenuto un altro servo, in passato, e s’era guastata con lui, e l’avea rimandato dal servizio.
A queste parole, Werther balzò d’un salto in piedi. «Possibile? — gridò egli: — bisogna ch’io vada a vedere all’istante: non posso più starmene in pace.» — Corse a Wahlheim: ogni reminiscenza gli tornò viva al pensiero: non dubitò più oltre che l’uccisore non fosse quell’uomo stesso con cui avea più volte parlato, e che s’era cattivato l’animo suo.
Passando pei tigli, onde arrivare alla taverna, dove avevano deposto il cadavere, fu quasi atterrito di trovarsi in quel luogo, che pur gli era stato un giorno sì caro! La soglia dell’osteria, sulla quale i ragazzi del vicinato s’erano sì spesso baloccati, era bruttata di sangue. L’amore e la fedeltà, i più gentili affetti dell’umana natura, s’erano convertiti nella facinorosa prepotenza dell’assassinio. I robusti alberi si giacevano sfrondati e carichi di brine; le belle siepi, che piegavansi in arco al di sopra della bassa cinta del camposanto, erano prive di foglie, e le pietre sepolcrali sporgevano fuori dei vani, incanutite di nevi.
Mentr’egli veniva accostandosi alla taverna, sul dinanzi della quale s’era accolto l’intiero villaggio, surse ad un tratto un gridìo universale. Scorgevasi in lontananza uno stormo d’uomini armati, e ciascuno gridava che si era arrestato il malfattore. Werther drizzò lo sguardo a quella volta, e non si rimase lungamente in dubbio. Era infatti il famiglio, ch’egli aveva scontrato, qualche tempo addietro, pieno di cupa disperazione.
«Che cosa hai tu fatto, sciagurato?» — esclamò Werther, appressandosi al prigioniero. Questi lo contemplò qualche minuto in silenzio, indi rispose riposatamente: «Nessuno l’avrà; nè ella avrà più altri.» — Fu condotto nella taverna, e Werther si tolse a passi precipitati da quella scena.
Il terribile fatto, la vista di quell’uomo insanguinato dal delitto, le memorie del passato, tutto congiurò a rabbuiare di nuove tenebre l’anima di Werther. Ei ne fu tutto sconvolto: la sua malinconia, il suo malumore, la sua inerte indifferenza lo abbandonarono in un subito: si sentì trascinato irresistibilmente verso il destino di quel furibondo, e fermò in cuore di adoperarsi quanto potea a salvarlo. Parevagli ch’ei fosse più sventurato che colpevole: e tanto fu il calore ch’ei prese alla condizione di lui, che certo confidava di poter convertire anche gli altri alla sua persuasione. Però, ravviandosi verso il casino da caccia, quella sua generosa frenesia l’avea siffattamente soggiogato, che nel divisare per via le ragioni ch’egli avrebbe esposte al sindaco, andava gesticolando e parlando ad alta voce quasi impazzato.
Messo il piede nella stanza del vecchio, s’addiede d’Alberto, che era ivi, ed ebbe un momento di malumore; ma si ricompose tosto, e incominciò la sua perorazione in favore del colpevole, rinfocando mano mano il discorso. Il sindaco scosse alcune volte il capo; e benchè Werther mettesse mano a quanti argomenti gli veniva fatto di rinvergare, nel caldo d’una passionata eloquenza, per attenuare il misfatto, e scolpare, almeno in parte, l’uccisore, — l’uomo della legge non s’appagò agevolmente di quelle monche ragioni; chè anzi combattè con vigore, interrompendolo; e biasimò altamente il Werther d’aver assunte le difese d’un assassino, e di pigliarlo, a così dire, sotto la sua protezione. Che sarebbero le leggi, a questo patto? che cosa la sicurezza dello Stato? E aggiunse, in fine, ch’egli, a ogni modo, avea le mani legate, nè potea far nulla, in sì grande contingenza, senza mancare al debito del suo difficile ministero; dover l’affare avere il suo corso, e ogni cosa procedere nell’ordine statuito.
Non si diede ancor vinto il nostro amico; ma insistette, pregando il sindaco che almeno dissimulasse dove altri avesse tentato di favorire la fuga del reo. Ma nè a questo pure accondiscese il sindaco. Infine, Alberto, insinuatosi nel loro colloquio, prese le parti del suocero. Werther fu sopraffatto, e dopo che il vecchio gli ebbe più volte replicato: «No, quell’uomo non può andarne salvo,» uscì di là costernatissimo.
E come quest’ultime parole lo avessero percosso, è attestato dalle due righe, che trovaronsi tra le sue carte, e furono, senz’altro, scritte in quel medesimo giorno. E sono queste:
«No, infelice, tu non puoi esser salvo! Noi non possiamo esser salvi: ora lo veggo, lo intendo.»
Ciò che Alberto aveva detto, nella faccenda del famiglio, in presenza del sindaco, era riuscito sommamente spiacevole a Werther. Credette di scorgere qualche risentimento verso la propria persona; e quantunque, ponderando, non isfuggisse al suo buon senso come entrambi avessero perfettamente ragione, gli repugnava ciò nullameno di convenirne; preoccupato, com’era il suo spirito, da strazianti riflessioni.
Ecco un’altra memoria, che si riferisce a questi giorni, e spiega per avventura i termini; in cui egli era con Alberto allora.
«Che giova ridire a me stesso che egli è un uomo onesto e dabbene? È una confessione che mi dilania le viscere: no, m’è impossibile esser giusto.»
Come la sera era mite, e il tempo inclinava al molle, Carlotta se ne tornò a piedi con Alberto. Per via, ell’andava guatandosi dattorno, quasi sentisse la mancanza di Werther. Alberto prese a discorrere di lui: lo censurò, ma senza far torto alle sue buone qualità. Poi toccò della sua malaugurata passione, e fe’ sentire il desiderio ch’ei si allontanasse. «Lo bramo anche per noi — soggiunse egli — ed io ti prego di piegare il suo contegno verso di te, o vestire altre forme, e far sì ch’ei diradi le sue visite, divenute oggimai troppo frequenti. La gente comincia a sbarrar gli occhi, ed io so che qua e là se n’è tenuto proposito.» — Tacque Carlotta, e Alberto parve aver degnamente interpretato quel suo silenzio: perocchè, da quel tempo in poi, egli non fe’ più menzione di Werther in sua presenza, e quand’ella s’imbatteva a parlarne, ei lasciava cadere il discorso, o lo stornava, deviandolo su altri oggetti.
Intanto l’infruttuoso tentativo di scampare dalla morte quel disgraziato contadino fu per Werther l’ultimo bagliore d’una fiamma, che sta per estinguersi per sempre. Ei cadde più profondamente nell’inerzia e nel dolore; e allorchè udì, sopra tutto, come ei sarebbe probabilmente chiamato a rendere testimonianza contro all’omicida, che s’era posto assolutamente sul niego, fu quasi per perderne la ragione.
Veniva riandando colla mente tutto quanto gli era seguito di spiacevole nella vita, i disgusti provati all’ambasciata, e mill’altre cose in cui era capitato male, e che l’avevano, in qualunque modo, afflitto o mortificato: e, in quest’amaro rimastico, la sua sdegnosa indolenza trovava un incitamento, e pressochè una giustificazione al non fare. Senza prospettive di sorta; inetto ad imbrancarsi negli affari della vita quotidiana, col vigore e l’accorgimento necessarii a prosperare, o a non soccombere almeno; sollecito soltanto della mesta compagnia di quell’amabile creatura, a cui egli improvvidamente distruggeva la tranquillità e la pace, logorando ad un tempo le proprie forze, senza speranza e senza intento alcuno; irremovibile nella sua passione, ne’ suoi giudizii, nel suo modo di sentire, Werther si accostava a gran passi verso una fine sciagurata.
Qual fosse lo stato di quel misero, quali i suoi vaneggiamenti, le sue agitazioni, il suo crescente cruccio dell’esistenza, è chiarito dalle lettere che qui inframmettiamo.
12 dicembre.
Mio buon Guglielmo! io sono oggimai in quella condizione d’animo, in cui s’agitavano certamente coloro, che il mondo credeva posseduti da un malefico genio. E’ pare che talvolta il maligno mi segga alla strozza — e non è amarezza nè ansietà, ma sì un interno infuriare di elementi che minacciano di squarciarmi il petto. E allora mi caccio in mezzo alle macchie e ai dirupi, e vo ramingando tra le notturne scene spaventose di questa misantropica stagione.
Iersera m’è toccato uscire. S’era messo all’improvviso a dighiacciare, e m’aveano detto il fiume esalveato, gonfi i ruscelli, e da Wahlheim in giù tutta la mia diletta valle allagata! Erano le undici, quand’io corsi fuori. Quale orribile spettacolo, amico! Dai balzi della rupe precipitavansi, nel dubbio, alterno chiarore della luna, i romorosi fiotti, scavalcando le siepi, distendendosi per i campi e le praterie, tanto che l’intiero vallone più non era che un ampio mare, sommosso a tempesta dai venti. E allorchè la luna ricomparve fuor dalle negre nuvole, e in quel riverbero, formidabilmente maestoso, continuavano a mareggiare sotto a’ miei occhi le onde con minaccioso fremito, un brivido mi corse per l’anima — e poi un desiderio feroce. Io mi stava sul ciglio dell’abisso; e anelava di capovolgermi nella voragine — e mi parea voluttà il poter rovesciarvi tutti i miei guai, tutte le mie torture — e rotolare, nel muggito di quelle acque, ad altro porto! Oh, amico! e avere il piede confitto nel suolo, e non poter terminare, una volta, quest’insoffribile martirio! — Ah! l’ora non è piena tutta — lo sento. Quanto volentieri avrei dato, o Guglielmo, il beneficio e l’orgoglio d’esser uomo, per la podestà di squarciare come un buffo di vento le nuvole, e scombuiare i flutti! — Che! e non sorriderà, un dì, questa gioia all’inceppato Prometeo?
E com’io guatava malinconicamente dall’alto il caro luogo, dove m’era giaciuto vicino a Carlotta, sotto un tiglio ospitale, riposandomi dagli ardori del sole, dopo una geniale passeggiata — e lo vidi inondato — e appena appena riconobbi il salice, chi può dirti il mio cuore, o Guglielmo? Ah! e i suoi prati — pensai — e i siti intorno al suo casino da caccia! e la nostra pergola familiare, chi sa come arruffata, malconcia dall’imperversare del torrente! E un blando raggio del passato venne a posarmisi sull’anima, come il sogno che mènte al prigioniero le gregge e i verdi pascoli e i pomposi onori del mondo. — Ero ammutolito, impietrato. Nè mi vergogno, o Guglielmo, perocchè sento in me il coraggio di morire. E forse avrei... che giova? — Ora mi sto qui come una vecchiarella, che va raccattando le stipe lungo la siepe dei campi, e il pane alle porte del ricco, per prolungare di qualche minuto la sua derelitta esistenza.
14 dicembre.
Perchè m’atterrisco io di me stesso, o Guglielmo? E non è forse il mio amore per lei un affetto sacro, purissimo, fraterno? Ho io mai covato nel mio cuore un solo desiderio, che potesse dirsi colpevole? — Ah! non giuriamo — non m’attenterei d’insistere. — E ora, codesti sogni! — Come s’avean ragione coloro, che ascrissero ad incognite potenze tutto questo flusso e riflusso di perpetue contraddizioni, che signoreggiano l’umana natura e la sommuovono a loro senno! — O notte per me celeste! io tremo in dirtelo, amico: io la serrava tra le mie braccia, e premendola al petto, copriva d’infiniti baci quelle sue labbra roride d’amore — e l’occhio mio nuotava nell’ebbrezza delle sue pupille. — Dio! Dio! e non son io colpevole di sentire, pur or che ti scrivo, una ineffabile dolcezza nel rievocare quelle focose gioie, e ridipingerle sì vivaci e sì vere al mio pensiero? — Oh, Carlotta! Carlotta! — La mia giornata è compiuta. I miei sensi si confondono: fanno otto giorni che ogni coscienza di me stesso è spenta: i miei occhi sono pieni di lagrime, nè dove mi volga ho più bene: o forse io sto bene, a un modo, dovunque. Non desidero, non cerco nulla: non sarebbe meglio andarsene?
La risoluzione d’abbandonare la vita s’abbarbicava ogni dì più all’anima di Werther. Da che egli era tornato a Carlotta, quella risoluzione era sempre stata la sua estrema speranza; se non che egli avea detto a sè stesso che non sarebbe opera precipitata, bensì un passo meditato con sedata volontà, rinfrancato da convinzione pienissima.
I suoi dubbii, il conflitto, ch’egli ebbe a durare con sè medesimo, trapelano da un viglietto — forse il principio d’una lettera, intesa a Guglielmo — che fu trovato tra le sue carte, e non ha data.
La sua presenza, la sua sorte, l’interesse pietosissimo ch’ella piglia alla mia, mi spremono le ultime lagrime dal combusto cervello.
Alzar la tela — e collocarsi dietro: ecco il gran motto! Perchè tutto questo indugiare e tentennare? — Forse perchè non sappiamo ancora quel che si faccia là dietro? perchè nessuno ne ritorna? Ma è condizione del nostro spirito il presentir confusione e tenebre, là dove non sappiamo alcuna cosa di determinato e di certo.
Finalmente questo pensiero della morte gli entrò tanto nell’animo che il crudele proponimento gli si fece saldo e irrevocabile, siccome può raccogliersi dalla seguente lettera, sparsa d’ambigui modi, ch’egli indirizzava all’amico.
20 dicembre.
Ti ringrazio, Guglielmo, d’aver rilevato quella parola: hai ragione, è meglio ch’io me ne vada. Se non che la proposta di tornarmene tra voi non mi quadra totalmente: vorrei far prima un giro, tanto più che, continuando il gelo, c’è speranza che le strade si mantengano belle per qualche tempo. M’è caro altresì che tu venga, siccome prometti, a pigliarmi: solo converrà che tu differisca ancora una quindicina di giorni la tua gita, e attenda una mia lettera per gli ulteriori concerti. È bene che non si colga il frutto, se non quando è maturo; e penso che, quindici giorni più o meno, fanno un gran divario nel conto. Dirai a mia madre che preghi per suo figliuolo, e ch’io la supplico di perdonarmi tutti i dispiaceri che le ho cagionati. È sempre stato mio destino di contristare coloro, ai quali avevo debito di non procacciare che ore liete e felici. Addio, mio carissimo: la benedizione del cielo sia sopra di te. Addio.
Ciò che a quest’epoca s’agitasse nell’animo di Carlotta, quali fossero i suoi sentimenti verso il marito e verso l’infortunato amico, appena ci assicuriamo di esprimerlo con parole, sebbene la conoscenza che noi abbiamo del suo carattere, basti a fornircene un’idea. E certo, una donna, dotata d’anima leggiadra, può agevolmente trasfondersi in lei e interpretare gli affanni di quella sua delicatissima situazione.
Questo è fuor di dubbio, a ogni modo, ch’ella era fermamente deliberata ad allontanare il Werther; e s’ella temporeggiava tuttavia, era da attribuirsi ad un gentile riguardo, da che non ignorava il duro sacrificio, a cui ella obbligava l’amico, il quale non avea forse tanto cuore da sostenerlo. Nondimeno, in quei giorni, ell’era pressata a stringere; il marito taceva, siccome ella avea fatto sinora, e però questo la confortava maggiormente a mostrargli coll’opera l’onestà e la sincerità delle proprie intenzioni.
La sera di quel giorno, in cui Werther aveva scritto l’ultima lettera citata all’amico suo — era la domenica innanzi al Natale — egli capitò da Carlotta, e la trovò sola. Ell’era occupata a mettere in assetto alcuni balocchi, destinati in regalo alle sue sorelline. Werther parlò del piacere, che i bimbi ne avrebbero, e ricordò i tempi, in cui l’aprirsi inaspettato dell’uscio, e la comparsa d’un bell’albero carico di lumi e di dolci e di mele1, solevano cagionargli così vivi trasporti di gioia!
«Anche voi avrete la vostra strenna — disse Carlotta, celando il proprio imbarazzo sotto amabile sorriso. — Se sarete discreto, vi serberò un cero e qualche altro ninnolo dell’albero.» — «Discreto? rispose Werther: che cosa volete dire? che mai debbo fare per essere discreto? e posso io essere diversamente da quel che sono, mia buona Carlotta?» — «Giovedì — riprese ella — è la vigilia di Natale; verrano i fanciulli a trovarmi, e verrà anche mio padre, e ciascuno s’avrà la sua parte: venite voi pure, quella sera, ma non prima.» — Werther impietrì. — «Per pietà — continuò ella — non v’incresca il divieto: è affare prestabilito, e non può essere altrimenti: la mia quiete lo esige, le cose non hanno più a proseguire su questo piede.»
Ei volse gli occhi altrove, e si diè a passeggiare per la stanza, ripetendo a mezza voce: Le cose non hanno a proseguire su questo piede. Carlotta, vedendo lo stato terribile, in cui quelle parole l’avevano gittato, si studiò di frastornare con mille domande i suoi pensieri; ma fu indarno.
«No, Carlotta — esclamò egli finalmente — io non vi vedrò più.» — «E perchè mai? — replicava l’amica: — voi potete, voi dovete venirci a vedere, soltanto è necessario che non lo facciate così frequentemente come per lo passato. Ah! perchè la natura vi ha dato quest’impetuoso istinto, questo bisogno d’aggrapparvi con disperata passione a tutto ciò che afferrate?» E, pigliatolo soavemente per la mano, lo pregò che temperasse i suoi modi, e venne encomiando il suo ingegno, le sue cognizioni, l’animo suo, che certo potevano offrirgli divagazioni e trastulli d’ogni maniera: e confortavalo ad esser uomo e a divertire quel suo infelice attaccamento da una creatura, a cui non era lecito far altro per lui che commiserarlo. — Egli ascoltò taciturno, serrando i denti, e guatandola con tetro sguardo. — Carlotta non rimosse la mano, ma proseguì: «Werther, un solo istante di calma, ve ne scongiuro! Non vi accorgete che voi ingannate voi stesso, che vi scavate da voi stesso il precipizio? Perchè appigliarvi a me, propriamente a me, che sono la donna d’un altro? Io temo, o Werther, temo davvero non sia se non l’impossibilità di possedermi, che vi faccia parere sì seducente il vostro desiderio.» — Werther ritrasse allora la sua mano, e fissò in volto Carlotta sdegnosamente. — «Oh le sagge parole! — disse egli — sagge assai! Che sì che le vengono da Alberto codeste fine osservazioni! E non è a negarsi che le non siano un gran colpo di politica!» — «Sono osservazioni — insistè Carlotta — che ciascuno può fare di leggeri. Possibile che non vi sia al mondo una fanciulla, degna di contentare i voti del vostro cuore? Rifatevi padrone di voi stesso, e cercate: sono certa che riuscirete. Già da un pezzo questo angusto circolo, che vi siete volontariamente segnato d’intorno, mi dà pensiero e per voi e per noi pure. Fatevi cuore: non vi pare che un viaggio vi distrarrebbe? Trovatevi una donna che vi comprenda e vi ami, indi tornate, e viviamo insieme nelle dolcezze d’una sincera amicizia.»
«Un bel sermone — disse Werther, con freddissimo sorriso; — un sermone che si potrebbe stampare e lasciar raccomandato a tutti i precettori di casa! Mia cara Carlotta, un momento ancora di riposo — e tutto andrà bene.» — «Sì, ma una cosa sola, o Werther: non rivenite innanzi la vigilia di Natale.»
Egli stava già per rispondere, allorchè Alberto entrò nella stanza. Si salutarono gelidamente, e si diedero a passeggiare, l’uno accanto all’altro, con manifesto imbarazzo. Werther principiò un discorso indifferente, che fu presto finito. Alberto fece lo stesso; indi chiese a sua moglie di non so quali commissioni, e udito che le non erano state sbrigate ancora, mormorò qualche parola, che a Werther parve fredda, o dirò meglio, dura. Questi voleva andarsene, ma sentendo crescere il malumore e la bile, si trattenne fino alle otto; quando essendosi dato in tavola, egli prese il cappello e la mazza, e uscì, dopo avere seccamente disdetto l’invito d’Alberto di rimanere a cena, ch’egli interpretò siccome un complimento usuale.
Rincasato, levò il candelliere di mano al ragazzo, che s’apprestava a fargli lume, entrò solo nella sua camera, e il servo lo sentì piangere dirottamente, e parlar forte, tra sè, in modo irritato, e camminare su e giù a passi concitati, finchè si gittò vestito sul letto, dov’ei lo trovò, allorchè, verso le undici ore, si provò ad entrare per domandargli s’ei non volesse sbarazzarsi degli stivali: cosa, alla quale accondiscese, nel mentre gl’imponea di starsene, il dì vegnente, finchè non fosse chiamato.
Il lunedì mattina, ventun decembre, scrisse la lettera seguente a Carlotta, che si rinvenne suggellata, dopo la sua morte, sullo scrittoio, e fu ricapitata all’indirizzo. Sgorgò dalla sua penna, a frammenti, per quanto si può desumere dalle circostanze, e noi la inseriamo tal quale.
Ormai è deciso, o Carlotta: morrò. Te lo scrivo senza romanzesche esagerazioni: scrivo con tutta calma, la mattina di quel giorno medesimo, in cui ti rivedrò l’ultima volta! Allorquando, o mia dilettissima, tu leggerai queste linee, la fredda bara coprirà le membra irrigidite dell’irrequieto infelice, il quale, negli ultimi istanti della sua vita, non sa dolcezza maggiore che d’intrattenersi con te. Ho passato una notte orribile — ma notte benefica, ad un tempo, da che m’ha riconfortato nel mio proposito e l’ha assodato. Sì, morrò. — Iersera, quand’io mi sono staccato da te, in quel terribile tumulto di tutti i miei sensi; e il mio cuore sanguinava; e un gelo mortale m’invase le fibre, al pensiero d’una esistenza, ch’io trascinerei, deserta di speranza e di gioia, vicino a te, ebbi appena toccata la mia stanza che m’atterrai davanti a Dio — e Dio mi concesse un ultimo refrigerio d’amarissime lagrime. Mille disegni, mille concetti mi corsero tenzonando per l’anima; finchè quest’ultimo pensiero si rimase fermo, irrevocabile, solo: Io morirò! — E mi sono coricato; e ora, dopo la quiete del sonno, esso è qui tuttavia nel mio cuore — e mi par che mi chiami.
No, non è disperazione: è certezza che il mio tempo è compiuto, e che io debbo offrirti l’olocausto della mia vita. Povera Carlotta, perchè tacerti questa verità? uno di noi tre deve sparire dal circolo — e quell’uno sarò io. O donna! in questo cuore, sbranato dai furori della passione, sai tu quai truci divisamenti hanno insanito spesso d’uccidere il marito tuo?... d’uccider te?... d’uccidere me stesso? E sia. — Allorchè i tuoi passi ti condurranno, in una bella sera d’estate, sul monte, sovvengati di me; com’io veniva sovente a te, salendo dalla valle, — e cerca cogli occhi il cimitero — e la mia sepoltura, mentre la brezza andrà agitando l’erbe salutate dal morente sole...
Incominciai pacato: ora piango come un fanciullo, ora che mi si ravvivano nella fantasia tutti quei quadri, tutti quei sogni di rose!
Intorno alle dieci, Werther chiamò il servo, e com’ei l’aiutava a vestirsi, gli disse che tra pochi dì partirebbe; però gli spazzolasse gli abiti, e gli tenesse in punto ogni cosa, per fare i bauli in tempo. Gli commise altresì che chiedesse le polizze di quel che per avventura doveva, ritirasse alcuni libri prestati ad altri, e pagasse ai poveri quel poco, ch’ei soleva dar loro ogni settimana, per due mesi intieri anticipati.
Si fe’ recare da colazione nella stanza, e poscia, insellato il cavallo, uscì per recarsi dal sindaco, ch’ei non trovò in casa. E allora prese a passeggiare impensierito nel giardino, e parve accumulare in sè stesso tutta la fosca malinconia delle andate memorie.
I ragazzi non lo lasciarono lungamente in pace: cominciarono a corrergli dietro, gli furono intorno, gli dissero che quando fosse passato domani, e poi un altro domani, e un altro giorno ancora, essi avrebbero ricevuto le strenne dalla Carlotta, e intanto diceano mirabilia di ciò che la loro immaginazione s’aspettava. — «Domani — ripetè Werther, quasi macchinalmente, — poi un altro domani e un altro giorno ancora!» — e li baciò affettuosamente tutti, e già s’accingeva ad andarsene, allorchè il minore d’essi mostrò volergli dire alcuna cosa all’orecchio. E gli palesò, in fatti, come gli altri fratelli più grandi avessero già apparecchiate le loro lettere d’augurio pel capo d’anno, una pel babbo, un’altra per Alberto e Carlotta, e una pel signor Werther: e come le fossero tanto belle, e le avrebbero consegnate la mattina del primo dì dell’anno. Non potè reggere più a lungo il nostro amico, si gittò a cavallo, lasciò i saluti al vecchio, e dileguò in un attimo, cogli occhi gravi di lagrime.
Giunse a casa verso le cinque, e comandò alla fante che rattizzasse il fuoco e lo mantenesse fino a notte avanzata, e il servo allestisse intanto il forziere. Fu probabilmente allora che gli vennero scritte queste parole dell’ultima sua lettera a Carlotta.
Tu non m’aspetti: tu ti figuri ch’io ti obbedirò, e non verrò a rivederti prima della vigilia del Natale. Oh, Carlotta! oggi — e più mai! La sera di quella vigilia tu avrai questa lettera tra le mani, e tremerai, e la innaffierai delle tue care lagrime. — Io lo voglio: lo debbo. — Com’io mi sento ristorato dal mio proponimento!
Carlotta era caduta, in quel mezzo, in uno stato singolare. Dopo l’ultimo suo colloquio con Werther ella aveva sentito come aspra cosa le riuscirebbe il separarsi da lui, e quanto egli ne soffrirebbe, ove fosse necessitato ad allontanarsi.
Era stato detto per incidente, in presenza d’Alberto, che Werther non sarebbe ritornato innanzi la vigilia del Natale; e però Alberto s’era infrattanto condotto da un impiegato di quelle vicinanze, dov’erano alcuni affari da ventilarsi, e dovette starsene fuori la notte.
Ella sedeva a casa, tutta sola, senza che pur uno de’ suoi fratellini o delle sorelline le fosse accanto, e andava tacitamente fantasticando intorno alle proprie condizioni. Vedevasi, da un lato, legata in perpetuo ad un uomo, di cui sapea l’amore e la fedeltà, a cui era di tutto cuore affezionata; sentiva tutto ciò ch’ei sarebbe sempre a lei e a’ suoi figliuoli; parevagli, infine, che Alberto fosse tale, nella somma de’ computi, da meritarsi dal cielo una sposa amorevole e casta, che riponesse tutta la sua felicità nel renderlo lieto e confidente. D’altra parte, Werther le si era fatto sì caro, l’armonia delle loro anime s’era rivelata così potente, fin dal primo momento che s’erano veduti, e i loro colloquii, la lunga abitudine di convivere quasi l’una a fianco dell’altro, e tanti casi comuni, tante commozioni vissute insieme, tutto insomma aveva contribuito a stampare nel cuore di lei una incancellabile impressione. Qual era il pensiero, quale il sentimento ch’ella non avesse diviso, ch’ella non dividesse con lui? E ora, la sua lontananza rompeva bruscamente quelle dolci consuetudini, e minacciava d’aprire un tale squarcio nell’anima di lei, che presentiva non poter più in alcun modo rimarginare. Oh, perchè non le era dato convertire quel Werther in un fratello! com’ella sarebbe stata beata! Avesse almeno potuto sposarlo ad una delle sue compagne! riamicarlo ad Alberto, e ripristinare le antiche relazioni!
Passò in rassegna le sue amiche: non una, che, a parer suo, si affacesse al caso; non una, cui ella avrebbe voluto consentire un tanto amico: tutte aveano una qualche menda, trovava a ridire su tutte.
E, in mezzo a queste riflessioni, cominciava a sentire profondamente, senza attentarsi di fermarvisi sopra, come il suo segreto, il suo più intimo desiderio, era di serbarlo per sè stessa: solo aggiungeva che non potea, nè dovea farlo. E intanto, quell’anima candida e leggiadra, a cui la vita era stata fino allora un lieve sogno, a cui nulla avea mai dato sì gran pensiero ch’ella non avesse saputo estricarsene, provava un sentimento affatto nuovo, l’oppressiva tristezza di chi si vede precluso ogni adito alla felicità: il suo cuore era gonfio, un’oscura nebbia le annuvolava lo sguardo.
Eran forse le sei e mezzo, quand’ella udì i passi di Werther, che saliva le scale, e intese la sua voce domandare di lei. Il suo cuore palpitava fortemente a quella venuta, e quasi possiamo avventurarci a dire ch’era la prima volta. Suo istantaneo pensiero era stato di non riceverlo, facendogli annunziare ch’ella era uscita: però egli non ebbe sì tosto messo il piede nella stanza, che lo rimbrottò, tutta confusa, dell’aver egli mancato alla parola; e avendo esso risposto come non avesse, dal canto suo, promesso cosa alcuna, gli disse che almeno egli avrebbe dovuto far caso della preghiera di lei, da che pur l’avea mossa per la tranquillità d’entrambi.
La poveretta non sapea quel che si dicesse o facesse. In siffatta perplessità mandò a cercare d’alcune amiche per non trovarsi sola sola con Werther. Questi posò alcuni libri che avea seco, e la richiese d’altri, intanto ch’ella, ondeggiante in mille proponimenti, ora desiderava che le amiche di lei s’affrettassero a venire, ora che le non venissero affatto. In quella tornò la cameriera, dicendo come le due amiche mandassero le loro scuse, dolenti di non poterla compiacere.
Pensò allora di trattenere la cameriera nella stanza attigua, in qualche lavoro d’ago; ma poi mutò subito pensiero. Werther passeggiava il silenzio: Carlotta si adagiò al cembalo, e pose mano ad un minuetto; ma era svagata, e scontinuò: indi, presumendosi abbastanza forte, s’alzò e andò a porsi, con animo pacato, vicino a Werther, che s’era in quel mezzo seduto al suo solito posto sul sofà.
«Non avete nulla da leggere?» — domandò ella. — Non avea nulla. — «Qui, nel cassetto — soggiunse — c’è la vostra traduzione d’alcuni canti dell’Ossian; io non li ho letti ancora, sperando sempre di sentirmeli recitare da voi; ma non so perchè, non s’è mai trovato il destro.» — Egli sorrise, andò a pigliare, con una specie di brivido, quei frammenti e avutili in mano, e guardatili, non potè frenare il pianto. Si riassise e principiò la lettura.
«Astro della scendente notte! Bello è il tuo lume nell’occidente. Il tuo capo s’innalza intonso fuor delle nuvole: i tuoi passi sono maestosi sulla collina. Che vai tu guatando nella pianura? Il vento della procella è sedato: il murmure del torrente vien da lontano. Le onde rimugghianti s’arrampicano su per la discosta roccia. Gl’insetti della sera sono sulle loro debili ale: il loro ronzìo è sui campi. Chi vai tu guatando, o leggiadro lume? Ma tu sorridi, e t’allontani. Gioiosi ti vengono intorno i flutti: essi irrorano la tua vezzosa chioma. Addio, o taciturno raggio! E tu, o lume dell’anima di Ossian, or sorgi!
Ed eccolo ch’ei sorge in tutta la sua potenza! Io contemplo i miei defunti amici: ei si raccolgono tutti sul poggio di Lora, come nei giorni d’altri anni. Fingal ne viene pari ad acquea colonna di nebbie: i suoi eroi gli sono intorno. E vedi i bardi del canto: il canuto Ullino, e il maestoso Rino, e Alpino dalla voce armoniosa, e la soavemente querula Minona. Come tramutati, o amici miei, dai giorni della festa di Selma; allorquando tra noi si facea gara, come aure di primavera che aleggiano sul colle, e piegano a vicenda l’erba, sommessamente bisbigliante!
Minona apparve nella sua bellezza, chino lo sguardo, l’occhio nelle lagrime. Le sue trecce ondeggiavano lentamente al vento, che con alterno buffo soffiava dal colle. Meste erano le anime degli eroi, quand’ella mosse la sua voce soave: sovente aveano essi veduto il sepolcro di Salgar, l’oscura dimora di Colma dal candido seno. Colma, abbandonata sul colle con la sua voce del canto. Salgar le avea promesso di venire; ma la notte calò tutto intorno. Udite la voce di Colma, quand’ella sedea solitaria sulla collina.»
colma.
«È notte, ed io son sola, smarrita sul colle delle tempeste. Il vento rugge sulla montagna; il torrente si precipita dalla balza. Non una capanna che protegga dalla pioggia la derelitta, raminga per la collina dei venti!
Esci, o luna, esci dal velame delle nuvole! mostratevi, o stelle della notte! un raggio solo, che mi guidi al luogo dove riposa l’amor mio, affaticato dai travagli della caccia, coll’arco steso allato, coi suoi cani anelanti intorno a lui. Ma io debbo starmi qui sola, seduta sulla roccia, biancheggiante degli sprazzi del gonfiato torrente. Muggono il torrente e la procella, ed io non odo la voce del mio diletto.
Perchè tarda il mio Salgar? perchè tarda il duce della collina la sua promessa? Ecco la roccia e l’albero — e lo strepitoso torrente. Tu m’hai promesso di venire al primo far della notte. Oh! dove è andato il mio Salgar? Io volea fuggirmi con te; fuggire dal padre; fuggir con te dal mio superbo fratello! Da lungo tempo le nostre schiatte sono nemiche l’una all’altra; ma noi non siamo nemici, o Salgar!
Taci un istante, o vento! un solo istante, o torrente! lasciate che la mia voce risuoni attraverso la valle, e quel mio errante m’intenda! Salgar! è Colma che ti chiama: ecco qui l’albero e la roccia. Salgar, amato mio, io sono qui; perchè t’indugi tanto?
Mira! la luna appare, l’onda risplende nel mezzo della valle; tutte le balze son grigie su per l’erta del colle. Ma l’occhio mio non lo discerne in sull’altura; i suoi bracchi non lo precedono, annunziando coi latrati la sua venuta. Io debbo starmi qui tutta sola.
Chi sono coloro che giacciono prostesi accanto a me sulla spiaggia? Sono essi l’amor mio e il mio fratello? Parlate a me, o amici miei! — Ei non danno risposta a Colma — Parlate a me: io son qui sola! L’anima mia è tormentata di paure. Oh, ei sono morti! Le loro spade sono rosse dalla pugna. O fratello mio, fratello mio! perchè hai tu trafitto il mio Salgar! perchè, o Salgar, hai tu trafitto il fratello mio? Cari voi m’eravate entrambi. Che dirò io in lode vostra? Tu eri bello sul colle frammezzo a mille: egli era terribile nella battaglia. Parlate a me: ascoltate la mia voce: ascoltatemi, o figli dell’amor mio! — Ei sono taciturni: taciturni per sempre. Freddi, freddi sono i loro petti di creta!
Parlate, o spiriti dei morti! mandate la vostra voce giù dai greppi della roccia, giù dalla cime del burrascoso monte! Parlate, io non ne sarò spaventata. — Dov’è il luogo del vostro riposo? in quale antro della montagna verrò io a cercarvi? — Ma non è debole voce sui venti: nessuna risposta, soffocata a mezzo dal nembo.
Ed io mi seggo qui sola, nel mio cordoglio; e aspetto in lagrime il mattino. Scavate la fossa, o amici degli estinti; ma non copritela, finchè Colma non venga. La mia vita si dilegua come un sogno: a che mi rimarrei più oltre? Io poserò qui cogli amici miei; qui, lungo il torrente che vien dalla sonante rupe. — Scenderà sul colle la notte, mugolerà per l’ampia landa il vento, e allora il mio spirito starà in mezzo alla bufera e piangerà la morte dei prostrati amici. Il cacciatore m’udirà dal suo frascato. Egli temerà la mia voce, ma l’avrà cara; perocchè dolce sarà la mia voce intorno agli amici miei: diletti erano a Colma gli amici.
Quest’era la tua canzone, o Minona, vereconda figlia di Torman. E le nostre lagrime scorrevano sulla sorte di Colma, e le anime nostre erano meste.
Venne Ullino coll’arpa e cantò il canto d’Alpino. — La voce d’Alpino era soave: l’anima di Rino una vampa di fuoco. Ma già ambedue dormivano nella loro angusta dimora: la loro voce s’era spenta in Selma. Tornava Ullino un dì dalle cacce, prima che perissero gli eroi. Egli aveva udito la gara dei loro canti sulla collina. La loro canzone era dolce, ma triste. Piangevano la caduta di Morar, il primo degli uomini mortali. L’anima sua era come l’anima di Fingal, la sua spada come la spada d’Oscar. — Ma egli cadde, e suo padre gemeva, e gli occhi della sorella nuotavano nella lagrime: gli occhi di Minona, la sorella dell’inclito Morar. Ella si ritrasse dinanzi al canto di Ullino, come la luna si ritrae nell’occidente, tuffando il capo nelle nubi, allorchè presente l’accostarsi della procella. — Io presi l’arpa, e con Ullino intuonammo la canzone del dolore.»
rino.
«Passato è il vento e la piova: il meriggio è sereno, le nuvole si diradano. Attraverso i verdi clivi fugge il sole incostante. Le acque della montagna calano vermiglie nella petrosa valle. Dolce è il tuo murmure, o torrente; ma più dolce è la voce ch’io odo: la voce d’Alpino, il figlio del canto, che spande il suo gemito sugli estinti. Il suo capo è piegato dalla vecchiaia, l’occhio suo è tutto rosso di lagrime. O Alpino, o figlio del canto, perchè sei solo sul taciturno colle? Perchè ti quereli tu, siccome buffo di vento nella foresta, siccome fiotto sulla romita spiaggia?»
alpino.
«Le mie lagrime, o Rino, sono pei morti; la mia voce è per gli abitatori della tomba. Alto sei tu sul colle; bello tra i figli della valle. Ma tu cadrai come Morar; il compianto sarà sulla tua tomba. I colli ti oblieranno, l’arco della tua gagliardìa si giacerà inerte nelle tue sale.
Tu eri veloce, o Morar, come un capriolo nel deserto, terribile come una meteora di fuoco. L’ira tua era procella, la tua spada, nei conflitti, un guizzo di lampo sovra la landa; la tua voce parea torrente dopo la pioggia, parea rombo di tuono su lontane colline. Molti soggiacquero per la tua mano, la fiamma del tuo corruccio li divorò. Ma quando tu tornavi dalle pugne, com’era queta la tua fronte! Il tuo sembiante era sole dopo il furiare del turbine, era la luna d’una tacita notte: sedato era come la faccia del lago, allorchè il sibilo del vento ha sosta.
Angusta è ora la tua stanza, oscuro il tuo giaciglio. Tre passi misurano il tuo sepolcro; tu, sì grande un tempo! Unica memoria di te sono quattro pietre verdeggianti di musco. Un albero sfrondato, e la lunga erba, tra cui fischia il vento, accennano allo sguardo del cacciatore la tomba del potente Morar. Morar! tu sei caduto davvero in basso. Tu non hai madre che ti pianga, non hai fanciulla che versi la lagrima dell’amore. Morta è colei che ti diè il lume del giorno, prostrata è la figlia di Morglan.
Chi è costui, che sen viene appoggiato al suo bastone? Il suo capo è bianco dagli anni; i suoi occhi sono rossi di lagrime; egli trema ad ogni passo. Egli è tuo padre, o Morar; il padre che non ebbe in terra altro figliuolo. Egli udì la tua fama nelle battaglie; udì di nemici dispersi; udì la gloria di Morar. Oh! perchè nulla della tua ferita? Piangi, o padre di Morar, piangi. Ma tuo figlio non t’ode. Profondo è il sonno de’ morti, basso il loro guanciale di polve. Ei non ascolterà più la tua voce, non si desterà più dal sonno alla tua chiamata. Oh! quando spunterà l’aurora sui sepolcri, a risuscitare il dormiente?
Addio, o fortissimo tra gli uomini, addio, vincitore sul campo! Ma il campo della tua gloria non ti rivedrà più mai; l’opaca selva non si rischiarerà più del lampo del tuo ferro. Tu non hai figli quaggiù, ma il tuo canto farà perenne il tuo nome; i tempi udranno di te, udranno del caduto Morar.
Alto era il lutto degli eroi; altissimo il singulto d’Arminio. Gli sovvenne la morte del figlio suo, spento ne’ giorni della giovinezza. Carmor sedea presso l’eroe, il principe del risuonante Galmal. Perchè scoppia il singulto d’Arminio? diss’egli: v’ha egli cagione di pianto? Forse non echeggiano i canti per alleviare il rammarico e versare la gioia nei cuori? È come nebbia leggera, che s’alza dal grembo del lago e cade a sprazzi sulla tacita valle, riempiendo di rugiada i calici dei fiori: torna il sole in tutta la sua potenza, e la nebbia dilegua. Perchè sì afflitto, o Arminio, dominatore di Gorma, tutta ricinta dal mare?
Afflitta è l’anima mia, e non è lieve il motivo del mio cordoglio. O Carmor, tu non perdesti un figlio, tu non perdesti una figlia, dolce fior di bellezza. Colgar, il prode, vive; e vive Annira, avvenentissima tra le fanciulle. I rami della tua casa s’innalzano, o Carmor; ma Arminio è l’ultimo della sua stirpe. Scuro è il tuo letto, o Daura! cupo il tuo sonno nella tomba. — Quando udiremo le tue canzoni, l’armoniosa tua voce? Levatevi, o brezze dell’autunno; levatevi, e soffiate attraverso la landa! Ruggite, o torrenti alpestri; ululate, o procelle, intorno ai boschi delle mie quercie! E tu, o luna, passeggia per mezzo ai rotti nugoli, e mostra a intervalli la tua pallida faccia! Tornami in mente la notte, allorchè tutti i miei figli perirono; allorchè Arindal, il gagliardo, cadeva; allorchè Daura, la vezzosa, s’estinse.
O Daura, figlia mia, com’era bello il tuo volto! bello come la luna sui colli di Fura, candido come vergine fiocco di neve; dolce come segreto spiro d’auretta. Ed era forte l’arco tuo, o Arindal; la tua lancia correva celere sui campi, il tuo sguardo era nebbia aleggiante sull’onda, il tuo scudo una nuvola di fuoco in mezzo alla bufera. Armar, inclito in guerra, venne e ricercò l’amore di Daura; la fanciulla non titubò lungamente. Belle erano le speranze degli amici.
Erath, prole d’Odgallo, rodeasi d’ira, però che suo fratello periva per la mano d’Armar. Ei venne nelle spoglie d’un figlio del mare. La sua navicella era leggiadra sull’onde, canuti per l’età i suoi capelli, austero e calmo l’aspetto. «O la più bella tra le fanciulle — diss’egli — figlia vezzosa d’Arminio, una roccia, non discosta, sulla marina, porta un albero nel suo fianco; par vermiglio da lungi il suo frutto: quivi Armar sta attendendo la sua Daura. Ecco, io vengo a condurre l’amor suo attraverso i flutti.»
Ed ella s’avviò e andò chiamando Armar; ma nessuno rispose, se non la voce delle rupi. Armar! Armar, mio diletto! perchè mi dài quest’angoscia? Odi, o figlio d’Arnath, odi la tua Daura che ti chiama!
Erath, il traditore, fuggì, ghignando, a terra. Ella alzò la sua voce, chiamò il padre e il fratello: «Arindal! Arminio! Nessuno che venga a salvare la vostra Daura?»
La voce di Daura traversò il mare. Arindal, il figlio mio, calava dal poggio, feroce nella preda della cacce: i suoi dardi mandavano un cupo tintinno a’ suoi fianchi, l’arco avea tra le mani, cinque segugi dal pelo bigio erano intorno a lui. Egli scòrse l’audace Erath sul lido; l’afferrò e lo attorcigliò ad una quercia, e gli strinse forte le reni: il prigioniero sentì acuta la fascia, e mandò urli di dolore in mezzo ai venti.
Arindal fendea le onde nel navicello per ricondurre in salvo Daura, la sorella sua. Apparve Armar, nel suo furore, e liberò la sua freccia dalle grigie piume: rombò la freccia e s’infisse nel tuo cuore, o Arindal, figlio mio! Tu peristi in causa d’Erath, il traditore. Il remo sosta ad un tratto: egli agonizzò sulla roccia, e s’estinse. Qual fu il tuo dolore, o Daura, alloruqando ai tuoi piedi corse il sangue del tuo fratello!
Il navicello si ruppe: Armar gittossi in mare a salvar la sua Daura, o morire. Venne l’onda, spumando, dalla collina, e lo coprì — e non sorse.
Solitario, sulla roccia flagellata dai marosi, volò il lamento della figlia mia. Alte e frequenti erano le sue strida; ma il padre non potè redimere la figlia sua. Passai la notte sulla spiaggia: io la vedeva al fioco raggio della luna: udii il suo lamento tutta la notte: fischiava il vento, la pioggia battea furiosa contro la montagna. La voce di Daura s’infievolì, prima che l’alba apparisse: andò mano mano spegnendosi come la brezza vespertina in mezzo all’erbe della rupe. Ella morì nell’angoscia, e ti lasciò deserto, o Arminio. La mia vigoria in guerra è spenta, caduto è il mio orgoglio tra le fanciulle.
Allor che le procelle vengono dal monte, allor che borea solleva l’onde, io seggo lungo la spiaggia sonante, e guardo alla terribile roccia. Sovente, al lume moribondo della luna, io veggo gli spiriti dei miei figliuoli passeggiare insieme, con guardo semispento, in malinconici colloquii.»2
Uno scoppio di lagrime, che inondò gli occhi di Carlotta, aprendo uno sfogo al suo cuore oppresso interruppe Werther nella sua lettura. Egli gittò lo scritto, afferrò la mano di lei, e proruppe in amarissimo pianto. Carlotta reclinò la faccia nell’altra mano, e la nascose nella pezzuola. Quel moto d’entrambi fu terribile. Sentivano tutta la loro sciagura nella sciagura di quei magnanimi, e le loro lagrime sgorgavano insieme, confuse insieme in un solo pensiero. Le labbra e gli occhi di Werther posavano ardenti sul braccio di Carlotta: un brivido le guizzò per le vene: voleva allontanarsi — e non poteva. Il dolore e la simpatia la tenevano affascinata, immobile a quel posto, come se un peso di piombo le gravasse le membra tutte quante e le ottundesse la mente. Cercò di riaversi, e lo pregò, singhiozzando, con una voce che le veniva dalle più intime viscere, a voler proseguire la lettura. Werther tremava tutto: pareva che il cuore gli si fendesse: ripigliò i fogli, e lesse con accento commosso:
«Perchè mi ridesti, o dolce auretta di primavera? Tu mi vezzeggi e mi dici: — Io verso su di te le rugiade del cielo. — Ma il tempo del mio avvizzire è vicino, vicina la tempesta che scompiglierà le mie foglie. Verrà domani il viandante che mi vide nella mia bellezza, mi cercherà ne’ campi l’occhio suo, e non mi troverà.»3
La profonda mestizia di queste parole piombò dolorosamente sull’anima dell’infelice Werther. Disperato, trafelante, ei si gittò ai piedi di Carlotta, afferrò le sue mani e se le accostò con veemenza agli occhi e alla fronte, come cercasse un ristoro all’interna arsura. In quel momento balenò a Carlotta l’idea del suo funesto disegno. Le si confusero i sensi; strinse le mani di Werther, le premè al suo seno, e chinandosi su di lui in malinconico abbandono, le loro guancie di fiamma vennero inconsciamente a sfiorarsi. Il mondo scomparve innanzi ad essi. Egli intrecciò le sue braccia intorno alla gentile persona, la strinse al petto, e in voluttuoso delirio colmò quelle pudiche labbra tremanti, su cui parea fermarsi incerta la parola, di mille focosissimi baci. — «Werther! — mormorò ella con soffocante voce, mentre industriavasi a districarsi — Werther!» — e la sua debole mano andava respingendolo da sè, finchè con accento più fermo e dignitoso, ricuperato il senso della propria situazione, proferì un’altra volta il suo nome, chiamandolo in atto tra la preghiera e il rimprovero. — Egli obbedì, ritrasse le sue braccia, e cadde in ginocchio dinanzi a lei, siccome privo di sensi. Ella allora rizzavasi, e in quell’affannoso smarrimento, oscillando tra l’amore e lo sdegno, potè ancor tanto sopra sè stessa da dirgli: — «È l’ultima volta, o Werther: noi non ci rivedremo più mai.» — Volse allo sventurato uno sguardo pieno d’amore, e andò a chiudersi in fretta nel vicino gabinetto. Werther avea steso le braccia verso di lei, ma non s’era attentato di trattenerla: stette prosteso sul suolo, col capo appoggiato al sofà, e si rimase in quell’attitudine più di mezz’ora, allorchè venne a scuoterlo un rumore ch’egli udì intorno a sè. Era la fantesca, che voleva apparecchiare la tavola. Balzò in piedi, e si mise a passeggiare nella stanza; indi, vistosi un’altra volta solo, mosse verso l’uscio del gabinetto, e mormorò sommessamente: «Carlotta! Carlotta! una parola ancora, una sola parola! un addio!» — E poichè ella si taceva, dopo aver più volte ripetuta la sua preghiera, ed aspettato con ansia mortale invano una risposta, si tolse precipitoso di là, gridando: «Addio, Carlotta! addio per sempre!»
Arrivato alle porte della città, le guardie, che già erano avvezze a vederlo, apersero in silenzio, e lo lasciarono passare. Faceva un tempo tra la pioggia e la neve: verso le undici tornò a bussare. Ridottosi a casa, il servo notò che gli mancava il cappello, ma non ardì muovere parola: lo svestì: aveva i panni inzuppati d’acqua. Alcuni giorni dopo si rinvenne il cappello sovra un dirupo che domina la valle lungo il pendio del colle, e pare impossibile che, in una notte umida e buia, egli riuscisse a pervenire fin lassù senza pericolare.
Si pose a letto e dormì lungamente. Il servo, entrato la mattina dopo a recargli, sulla sua chiamata, il caffè, lo trovò al tavolino intento a scrivere. Era la lettera seguente, indirizzata a Carlotta.
È l’ultima volta — l’ultima — ch’io apro questi occhi alla luce del giorno. Essi non vedranno più il sole: un’eterna nebbia li avvolgerà nel suo velo. Piangi, o Natura, piangi il figliuol tuo, il tuo amico, il tuo innamorato, che sta per abbandonarti. O Carlotta! questo sentimento che ora mi si agita nel petto, è il più terribile che mai possa concepirsi da creatura mortale; e pure nulla rassomiglia più ad un sogno che il dire a sè stesso: Ecco l’ultimo tuo mattino! — L’ultimo! Parola incomprensibile. Oggi io son qui, in tutta la pienezza delle mie forze — e domani sarò disteso a terra, svigorito, senza accento, nè moto: — Morire! Che cosa è la morte? — Vedi, Carlotta, noi non facciamo che sognare, allorquando parliamo della morte. Ho veduto morire più d’un uomo; ma l’umanità nostra è così circoscritta, che essa non ha senso per ciò che noi chiamiamo il principio e la fine della nostra esistenza. — Ora io appartengo a me stesso: che? io sono tuo, tutto tuo, o amata donna: e domani? — di qui a un momento? Separati, divisi un dall’altro! — e forse eternamente! — No, Carlotta, no. Io non mi dissolverò nel nulla — nè tu pure, o Carlotta. Come si sciorrebbe nel nulla ciò che esiste? — il nulla! ecco un’altra parola, scarna di senso — vacua — indicifrabile — muta al mio cuore. — Morto, o Carlotta! là, rincantucciato tra poche zolle oscure e fredde. — Ho avuto in altri tempi una amica, ch’era stata ogni cosa alla mia tenera giovinezza: ella moriva, ed io venni dietro al suo cadavere, e stetti intorno alla sua tomba: vidi calare il feretro, udii lo strascico delle corde che rimontavano dall’abisso — ed echeggiar sordamente sul percosso legno la prima palata di terra — e un’altra — e un’altra ancora — e farsi via via più cupo il tetro suono, finchè la buca fu colma! E allora, coll’anima lacerata, sanguinente, oppressa da un amaro accoramento, mi precipitai su quell’amato sepolcro — e cercai — cercai indarno il significato di questa parola, dolorosamente arcana: Morire!
Deh, perdona, o mia gentile, perdona all’amico tuo i suoi trasporti d’ieri! Era il momento di morire — e non l’ho fatto. O angelo mio! era la prima volta, la prima che mi sorrise alla mente il divino pensiero: Ella m’ama! Sì, ella ti ama! — mi divampa ancora sulle labbra il sacro fuoco, che si effondea come lava dalla tua bocca celeste: una voluttà tutta nuova mi serpeggia nelle vene, mi si raccoglie intorno al cuore. Deh, mi perdona, o soave!
Ben io sapeva che tu m’amavi, io lo sapea fin da’ tuoi primi sguardi amorosissimi, fin dalla tua prima stretta di mano! E nondimeno, quand’io era lontano da te, quand’io mirava Alberto al tuo fianco, la febbre del dubbio tornava a battere a’ miei polsi.
Ti rammenti, o Carlotta, quei fiori che tu m’inviavi il dì, che attorniata da quella fatale compagnia, non sapesti indirizzarmi una parola, non allungare ad un saluto la mano? Quella notte io mi sono inginocchiato davanti ad essi: mi parve che in essi fosse tutto l’amor tuo. Ma ohimè! quella cara impressione svaniva, come svanisce, a poco a poco, nell’anima del credente, il sentimento della grazia divina, che pur gli era amministrata con tanta pienezza, in mezzo ai simboli d’un sacro rito!
Ogni cosa passa quaggiù; ma tutta un’eternità non potrebbe estinguere la fiamma di quella vita ch’io ho succhiata ieri sulle tue labbra, e or che ti scrivo, m’allaga deliziosamente ogni fibra. — Ella mi ama! Queste mie braccia l’hanno serrata sull’ansante petto: queste labbra hanno palpitato sulle sue: questa bocca è ancor dolce di quell’etereo tremito! Ella è mia: sì, o Carlotta, tu sei eternamente mia.
E che importa che Alberto sia tuo sposo? — Sposo! — Sì, per questo mondo, che ci accerchia; per un mondo, in cui è colpa l’amarti, mentre pure vorrei svellerti dalle sue braccia. — Colpa? or bene, l’espierò. Colpa soave, ch’io ho assaporata in tutta la sua celeste voluttà: che m’ha trasfuso nel cuore un balsamo perenne, la gagliardia d’un’altra vita. Da quell’istante tu m’appartieni, o Carlotta, io sono tuo. E or soffri ch’io ti preceda. Io vo dal Padre mio, dal tuo: narrerò a Lui la mia angoscia, ed Egli mi consolerà finchè tu venga, e volerò allora incontro a te, e ti stringerò al mio cuore, e abiteremo insieme al cospetto dell’Essere infinito, in perpetuo abbracciamento.
No, io non sogno: io non vaneggio. Vicino alla tomba lo spirito mio mi si fa più chiaro. Noi ci rivedremo, o Carlotta: tu rivedrai tua madre — e la vedrò io pure — e verserò dinanzi a lei tutta la piena del cuore. La madre tua, l’immagine della mia Carlotta!
Verso le undici Werther chiese al servo, se Alberto non fosse ritornato. Risposto che sì, e come egli avesse veduto condurre il cavallo di lui a casa, gli diede questo biglietto aperto da consegnargli:
Sono in procinto di partire: vorreste prestarmi le vostre pistole? Addio.
Carlotta aveva dormito poco l’ultima notte: ciò ch’ella aveva temuto s’era deciso — deciso in un modo, che non avrebbe mai nè presentito nè dubitato pure. Quell’anima, tutta purezza, era in una febbrile esaltazione: mille sensazioni le martoriavano il cuore. Era la vampa degli amplessi di Werther, che le incendiava il sangue, fluente, un giorno, con onda sì leggiera e sì blanda? Era segreto cruccio della temerità di lui? Era un tormentoso scontento di sè stessa, che sorgea dal raffronto del suo presente stato coi dì della sua vergine innocenza, dell’obliosa fede nel suo cuore incolpato? Come s’affaccerebbe ora al consorte? come gli paleserebbe la scena avvenuta, ch’era, dal canto suo, innocentissima, ma che pur non ardiva ridire? Aveano taciuto entrambi sì lungo tempo su quel delicato argomento, e ora sarebbe ella prima a rompere il silenzio, facendo al marito una confessione sì inaspettata, in momento tutto inopportuno? Già temeva, in segreto, non la semplice nuova della visita di Werther destasse nell’animo suo una spiacevole impressione: or come avventurarsi a narrare tutta intiera la storia? Poteva ella confidare che il marito la vedrebbe nel suo vero lume? che l’ascolterebbe senza pregiudizio veruno? E s’egli avesse letto nell’anima di lei? D’altra parte, ella non sapea dissimulare con un uomo, al cospetto del quale era stata sempre candida e trasparente come cristallo; un uomo, a cui nulla avea mai celato, nè sapeva celare, delle proprie sensazioni. In quel contrasto di riflessioni e d’affetti il suo imbarazzo cresceva; e intanto i suoi pensieri tornavano pur sempre a Werther, ch’ella avrebbe voluto vicino a sè, come un tempo, ma che, pur troppo, era costretta ad abbandonare ora al suo destino, mentre non ignorava, del resto, che, lei perduta, nulla più rimaneva allo sciagurato su questa terra.
Come la rammaricava ora il pensiero dei rancori che correvano tra suo marito e Werther! Uomini così buoni entrambi, così sensati, aveano cominciato, per dissensi occulti, a tacere un coll’altro; ciascuno s’era messo a ripensare sulle proprie ragioni, disconoscendo quelle dell’amico, per non considerarne che i torti. E intanto le loro mutue relazioni s’erano intiepidite, rabbruscate: gli animi s’erano andati concitando, tanto che oggimai tornava assolutamente impossibile lo sgruppare quel nodo, nel momento appunto in cui tutto l’avvenire ne dipendeva. — Oh! se la confidenza fosse risorta tra loro, un po’ prima di quella sera, e l’antica indulgenza e l’affetto avessero tornato a rivivere, e disserrare i loro cuori, forse il nostro misero amico avrebbe potuto ancor esser salvo.
Un altro singolare accidente veniva ad aggiungersi. Werther, siccome è manifesto dalle sue lettere, non aveva mai fatto un mistero del suo desiderio d’abbandonare la vita. Alberto l’avea sovente combattuto, e n’aveva anche parlato talvolta con Carlotta. E com’egli abborriva da quella azione e la biasimava altamente, s’era più volte indotto a dichiararle — con una cotal sorta di suscettibilità, nel suo carattere — com’egli avesse motivo di porre fortemente in dubbio la serietà di un tal disegno: e s’era financo permesso di motteggiarne, comunicando a Carlotta la propria incredulità. Ora, Carlotta reputavasi bensì assicurata, allorchè i suoi pensieri le traevano dinanzi quella funesta immagine; ma vedeasi per questo appunto impedita a partecipare al marito le apprensioni, che, in que’ momenti, la torturavano.
Tornò infrattanto Alberto, e Carlotta gli mosse incontro con una premura impacciata. Ei non era lieto in viso; l’affar suo s’era giaciuto a mezzo, avendo trovato, nel vicino sindaco, un uomo rigido e gretto: le pessime strade avevano anch’esse congiurato a infoscargli l’umore.
Domandò se nulla fosse occorso nell’assenza sua: ella s’affrettò a dirgli, un po’ a precipizio, che Werther era stato, la sera innanzi, da lei. Chiese poscia delle sue lettere, e gli fu risposto che erano sulla scrivania. Andò a vedere, e Carlotta si rimase sola. La presenza dell’uomo, ch’ella amava e venerava sovra ogni altro, avea fatto nel cuore di lei un’impressione novella. La memoria della sua generosità, del suo amore, della bontà sua, le avevano racchetato l’animo: sentì un segreto impulso d’andargli dietro, e, preso il suo lavoro, lo seguì nello studio, siccome spesso solea fare. Lo trovò che stava dissuggellando e leggendo i pieghi arrivati. Alcuni tra essi non sembravano racchiudere cose gran fatto piacevoli. Ella avventurò qualche domanda; ma s’ebbe risposte brevissime, dopo di che ei si pose subito a scrivere.
Era trascorsa così un’ora in silenzio, e l’animo di Carlotta si era fatto sempre più oscuro. Sentì come le riuscirebbe malagevole lo aprirsi a suo marito, quando pur fosse stato nella migliore disposizione di spirito, per confidargli ciò che le pesava sì mestamente sul cuore. Cadde, adunque, senza avvedersi, in una tristezza tanto più desolante, ch’ella studiavasi a tutto potere di tenerla nascosta, divorando dentro di sè le sue lagrime.
L’apparire del ragazzo di Werther la pose nella massima confusione. Questi rimise il viglietto ad Alberto, che, compostissimo, si rivolse a sua moglie, pregandola gli consegnasse le pistole. «Gli dirai — soggiunse poscia al ragazzo — che io gli auguro un felice viaggio.» Quelle parole piombarono sul cuore di Carlotta come un fulmine: s’alzo, vacillando: non sapea che si facesse. Mosse lentamente verso la parete, staccò tremando le armi, le forbì dalla polve, e ristette pensosa — e avrebbe indugiato ancor più, se Alberto non l’avesse sollecitata con uno sguardo indagatore. Diede il funesto stromento al servo, senza poter battere sillaba, e com’egli si fu partito, raccolse il suo lavoro, e s’avviò nella stanza contigua in uno stato d’indicibile perplessità. Il suo cuore le prediceva ogni orrore. Era sul punto di gittarsi ai piedi del marito, e rivelargli ogni cosa, la scena della sera antecedente, e la propria colpa e i suoi neri presentimenti; ma poi capì che a nulla avrebbe riuscito quella confessione, nè poteva illudersi a sperare ch’ei si lascerebbe indurre a recarsi dall’amico. In quel mezzo fu apparecchiata la tavola, e un’amica ch’era venuta per qualche sua faccenduola, protestando di volersene subito andare, essendo pur rimasta a cena, la conversazione divenne insoffribilmente noiosa. Era un parlare forzato, un novellìo sbiadito, un discorrere scucitamente, alla rinfusa.
Il ragazzo tornò intanto a Werther colle pistole: ei se le recò nelle mani, e allorquando udì che Carlotta gliel’avea consegnate ella stessa, sfolgorò d’un’estasi di gioia. Si fe’ portare qualche poco di pane e del vino, disse al ragazzo che andasse a cena, si assise e cominciò a scrivere.
Sono passate per le tue mani, tu n’hai scossa la polve: io le bacio mille volte, poichè tu le hai toccate. E tu, o Spirito dei Cieli, tu favorisci adunque il mio disegno. Oh, Carlotta, e quest’arme mi viene da te! da quelle mani, da cui l’anima mia anelava accogliere la morte — e ora l’accoglie. Ho interrogato minutamente il servo: tu eri tutta in un tremito, allorchè le porgevi: ma non un addio! — Ohimè! ohimè! non un addio! — Avresti tu chiuso il tuo cuore all’amico, per quell’istante d’oblio che pur lo legava eternamente a te? — No, Carlotta, non basterebbe una schiera di secoli a distruggere quel divino momento! Io lo sento profondamente: sento che tu non puoi odiare colui che arde per te di questa inestinguibile fiamma!
Cenato ch’egli ebbe, ingiunse al ragazzo che désse l’ultimo mano a invaligiare: lacerò parecchie carte, uscì, e saldò ancora qualche debituccio. Tornò a casa, uscì un’altra volta, malgrado della pioggia, e prima passeggiò alcun tempo nel giardino del conte, indi si diè a scorrazzare più lungi, e, sul far della notte, sen venne alle sue stanze e scrisse:
Guglielmo, ho contemplato per l’ultima volta i campi e la selva e il cielo. Abbiti anche un addio! E tu, madre mia, ch’io amo tanto, perdona! Confortala, amico: Dio conceda ad entrambi la sua benedizione! Le cose mie sono tutte in punto. Addio. Noi ci rivedremo — e in più sereni giorni.
Io t’ho ripagato d’ingratitudine, Alberto; ma tu mi perdoni. Ho contristata la pace della tua casa, ho insinuata la discordia tra voi. Addio! Sto per finirla. Potesse almeno la mia morte farvi felici! Alberto! Alberto! rendi felice quell’angelo! E Dio mani su di te le sue gioie!
Rovistò a lungo tra le sue carte: molte ne fece ancora in brani e le buttò nella stufa: e suggellò alcuni involti che portavano l’indirizzo d’Alberto. Erano brevi scritti e pensieri staccati, ch’io vidi in parte. Dato ordine di ravviare il fuoco — erano le dieci della sera — e fattosi portare una bottiglia, mandò il servo — che dormiva in luogo rimoto della casa, dov’erano anche le camere degli altri famigli — a letto. Il ragazzo s’andò a coricare vestito, per essere di buon’ora in piedi; da che il padrone aveagli detto come i cavalli sarebbero alla porta prima delle sei del mattino. Werther si ripose a scrivere.
Dopo le undici.
Tutto è silenzio intorno a me, e la mia anima è tranquilla. Io ti ringrazio, o mio Dio, che ti degni conferire tanto calore e tanta forza a questi supremi istanti.
Io m’affaccio alla finestra, o mia migliore amica! e scerno ancora alcune rade stelle, per mezzo alle nuvole tempestose, che si accavallano e fuggono pei cieli. No, voi non cadrete, o stelle! L’Eterno vigila su di voi — e su me. Veggo la costellazione dell’Orsa, che mi è la più cara tra gli astri. Quand’io mi partiva, la notte, da te, io la vedeva sempre accennarmi dall’alto. Con quale ebbrezza non l’ho io salutata sovente! Ed ho alzato più volte le mani verso di lei, come a testimonio sacro ed eterno della mia felicità.
E veggo anche... O Carlotta, che cosa non mi fa risovvenire di te? Non sei tu in tutto ciò che mi circonda? E non t’ho io carpito, come un fanciullo insaziabile, una quantità di oggetti indifferentissimi, solo perchè la tua mano li avea toccati?
Cara effigie, che mi stai dinanzi! Io te la rimando, o Carlotta, e ti supplico d’averla cara. Mille e mille baci io v’ho impressi sopra: mille saluti io le ho inviati collo sguardo, quand’io usciva da te, o ne tornava.
Ho pregato tuo padre, in un viglietto, perchè protegga il mio cadavere. Nel cimitero sorgono due tigli, là dietro, lungo la siepe che guarda verso i campi: ivi io desidero di riposarmi. Ei può esaudirmi la preghiera — e lo farà per l’amico suo. Pregalo anche tu, Carlotta. Io non posso volere che le anime pie depongano la loro spoglia mortale vicino ad un povero infelice. Oh! vorrei che mi sotterraste sulla via, o in una valle solinga, affinchè il sacerdote, passando innanzi alla mia pietra, si facesse il segno della croce, e il Samaritano versasse una lagrima.
Eccomi, o Carlotta! Io non tremo nell’afferrare il gelico calice, da cui berrò il delirio inebbriante della morte. Tu lo porgesti — ed io non esito. E così s’adempiono i desiderii e le speranze tutte della mia vita! Se tu mi vedessi battere sì freddo e sì rigido alle porte ferree dell’altra vita!
Deh! perchè non m’era data la gioia di morire per te? di sacrificarmi per te, o Carlotta? Sento ch’io morrei animoso e beato, se potessi ridonarti e tranquillità e contentezza di vita! Ma, pur troppo! solo a poche anime generose è concesso di spargere il proprio sangue per la salute de’ loro cari, e suscitare colla morte una nuova esistenza a cento doppi più bella!
Carlotta, io desiderio d’essere sepolto in queste vesti: tu le hai toccate, tu le hai fatte sacre: n’ho pregato anche tuo padre. L’anima mia s’agita al di sopra della bara. Nessuno mi frughi negli abiti. Quel tuo nastro color di rosa, che portavi sul seno allor che ti vidi la prima volta, in mezzo a’ tuoi bamboli... oh! baciali le mille volte, o Carlotta, e narra loro la sorte del tuo mal fortunato amico. Quei cari fanciulli! ei mi folleggiano intorno. — Oh, com’io m’avvinsi a te, da quel momento in poi, senza poter staccarmene più! — Questo nastro discenda con me nel sepolcro. Tu me ne festi dono il giorno del mio natale. — Tutto è consumato. — Chi avria pensato, allora, che il cammino dovesse guidarmi tant’oltre! — fin qui? — Fa cuore, o Carlotta, te ne scongiuro: fatti cuore!
Le ho caricate: — batte mezzanotte — dunque andiamo! Addio, Carlotta, addio!
Uno de’ vicini scòrse il baleno della polvere e udì il colpo; ma come tutto era tornato in silenzio, non pose mente al fatto.
Alle sei del mattino il servo entrò col lume. Vide il padrone disteso sul terreno, e la pistola e il sangue. Lo chiama a nome, lo scuote: — nessuna risposta. Lo sventurato gemea nel rantolo della morte. — Corse dai medici e da Alberto. Carlotta udì il rumore del campanello, e si strinse tutta in un brivido. Svegliò il marito, e s’alzarono entrambi: il ragazzo comunicò, singhiozzando e balbettando, la nuova, e Carlotta cadde in deliquio ai piedi d’Alberto.
Allorchè il medico fu presso all’infelice, lo trovò sul suolo, senza speranza di vita. Il polso gli battea tuttavia, ma le membra erano già tutte irrigidite. Ei s’era sparato il colpo al di sopra dell’occhio destro: il cervello versavasi dalla piaga. Si provò ad aprirgli la vena — il sangue scorreva — egli respirava ancora.
Dal sangue, che scorgevasi sulla seggiola, era agevole argomentare com’egli avesse scaricato l’arme, stando seduto alla scrivania; ch’era poscia stramazzato, e s’era agitato convulsamente intorno alla seggiola. Giacea sul dorso, contro alla finestra; era vestito intieramente, cogli stivali, coll’abito turchino, col panciotto giallo.
Tutta la casa e il vicinato e la città furono sossopra. Alberto pose il piede nella stanza. Aveano trasportato Werther sul suo letto, e fasciatane la fronte: la sua faccia parea d’un cadavere: non una fibra che si movesse. Il polmone continuava il suo rantolo terribile, ora debole, ora più gagliardo: s’aspettava, di minuto in minuto, la sua morte.
Del vino non aveva assaggiato che un bicchiere. L’Emilia Gallotti4 vedevasi aperta sulla scrivania.
Della costernazione d’Alberto, dello strazio di Carlotta non diremo.
Il vecchio sindaco venne correndo alla lugubre notizia: egli baciò il morente con uno scoppio di lagrime caldissime. Lo seguirono i più grandicelli tra i suoi figli, che, giunti al letto, caddero in ginocchio coll’espressione del più sentito dolore, e baciarongli le mani e la bocca: il maggiore, cui Werther aveva amato sovra ogni altro, stette immobile, attaccato alle sue labbra, finchè l’amico esalò lo spirito, ed ei fu svelto a forza da quella scena di desolazione. Werther spirò a mezzodì. La presenza del sindaco, e i provvedimenti ch’ei prese, riuscirono ad impedire che la gente s’affollasse intorno alla casa. La notte circa alle undici ore, ei lo fe’ seppellire nel sito che lo sfortunato aveva indicato nella sua lettera. Il vecchio si strascinò dietro al cadavere, e lo seguirono i figli. Alberto non potè: si temea per la vita di Carlotta. Alcuni artigiani si caricarono la bara sulle spalle: nessun sacerdote l’accompagnò.
- ↑ Pio costume casalingo de’ popoli settentrionali, imitante per avventura i verdi ramoscelli, che diedero origine alle strenne del capo d’anno romano, e i doni di idoletti e figurine emblematiche (sigilla), e fors’anco di candelabri intarsiati d’esse, soliti a distribursi ne’ Saturnali, i quali cominciavano il 17 decembre d’ogni anno, e duravano, a principio, un giorno, poi tre, indi, ai tempi di Caligola, cinque, e finalmente sette, sotto il dominio degli altri Cesari: dunque dal 17 al 23 decembre. Celebravansi queste feste al tempio di Saturno, in mezzo ad una quantità di ceri, ardenti intorno al simulacro del nume; e gli uomini in que’ giorni, scontrandosi per via, s’auguravano, l’un l’altro, i bona Saturnalia. Se non che i Saturnali ricordavano l’abolizione degli olocausti umani, e avevano quest’altro pregio sui nostri regali natalizii, che moltissimi prigionieri erano lasciati allora in libertà, e votavano le loro catene al Dio che le infrangeva. Gli schiavi, anch’essi, erano liberi; durante le feste, indossavano la toga bianca, e venivano serviti a mensa dai loro medesimi padroni. Difficile trovare nell’Europa moderna un uso, un rito, una istituzione di qualche significato od utilità, che non rimonti all’Italia antica, o a quella de’ mezzi tempi. (Nota del traduttore.)
- ↑ Tutto questo lungo passo è tratto da quella, tra le poesie d’Ossian, che s’intitola I canti di Selma (The songs of Selma). Io l’aveva già tradotto per intiero dalla traduzione tedesca, inserta in questa parte del libro che ci sta innanzi, allorquando m’avvisai che qui il mio lavoro, poichè riusciva di seconda mano, avrebbe necessariamente scapitato nella fedeltà al poeta scozzese. Alcune omissioni ed inesattezze, che riscontrai ne’ raffronti, e la tinta generale dello stile, falsato nella mia prima traduzione dal tedesco, in modo da non lasciare intendere al lettore tutta la originalità del fare ossianesco, mi confermarono nella mia opinione, e m’indussero a rifare la versione sul testo inglese. Di qui le differenze per chi legga questo squarcio d’Ossian nel Werther tedesco. (Il traduttore italiano.)
- ↑ Vedi la nota a pag. 288.
- ↑ Nota tragedia di Lessing. (Il trad.)