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Atto quinto - Scena IV Atto quinto - Scena VI

SCENA V.


CARLO, DESIDERIO.


                        carlo.
A che vieni, infelice? E che parola
Correr puote tra noi? Decisa il cielo
Ha la nostra contesa; e più non resta
Di che garrir. Tristi querele e pianto
Sparger dinanzi al vincitor, disdice

A chi fu re; né a me con detti acerbi
L’odio antico appagar lice, nè questo
Gaudio superbo che in mio cor s’eleva,
Ostentarti sul volto; onde sdegnato
Dio non si penta, e alla vittoria in mezzo
Non m’abbandoni ancor. Nè, certo, un vano
Da me conforto di parole attendi.
Che ti direi? ciò che t’accora, è gioia
Per me; nè lamentar posso un destino,
Ch’io non voglio mutar. Tal del mortale
È la sorte quaggiù: quando alle prese
Son due di lor, forza è che l’un piangendo
Esca dal campo. Tu vivrai; null’altro
Dono ha Carlo per te.

                      desiderio.
                             Re del mio regno,
Persecutor del sangue mio, qual dono
Ai re caduti sia la vita, il sai?
E pensi tu, ch’io vinto, io nella polve,
Di gioia anco una volta inebbriarmi
Non potrei? del velen che il cor m’affoga,
Il tuo trionfo amareggiar? parole
Dirti di cui ti sovverresti, e in parte
Vendicato morir? Ma in te del cielo
Io la vendetta adoro, e innanzi a cui
Dio m’inchinò, m’inchino: a supplicarti
Vengo; e m’udrai; chè degli afflitti il prego
È giudizio di sangue a chi lo sdegna.

                        carlo.
Parla.

                      desiderio.
            In difesa d’Adrian, tu il brando
Contro di me traesti?

                        carlo.
                           A che domandi
Quello che sai?

                      desiderio.
                      Sappi tu ancor che solo
Io nemico gli fui, che Adelchi - e m’ode
Quel Dio che è presso ai travagliati - Adelchi
Al mio furor preghi, consigli, ed anche,
Quanto è concesso a pio figliuol, rampogne
Mai sempre oppose: indarno!

                        carlo.
                                       Ebben?

                     desiderio.
                                          Compiuta
È la tua impresa: non ha più nemici
Il tuo Romano: intera, e tal che basti
Al cor più fiacco ed iracondo, ei gode
La sicurezza e la vendetta. A questo
Tu scendevi, e l’hai detto: allor tu stesso
Segnasti il termin dell’offesa. Ell’era
Causa di Dio, dicevi. È vinta; e nulla
Più ti domanda Iddio.

                        carlo.
                            Tu legge imponi
Al vincitor?

                      desiderio.
                   Legge? Oh! ne’ detti miei
Non ti fingere orgoglio, onde sdegnarli.
O Carlo, il ciel molto ti diè: ti vedi
Il nemico ai ginocchi, e dal suo labbro
Odi il prego sommesso e la lusinga;
Nel suolo ov’ei ti combattea, tu regni.
Ah! non voler di più: pensa che abborre
Gli smisurati desideri il cielo.

                        carlo.
Cessa.

                      desiderio.
             Ah! m’ascolta: un dì tu ancor potresti
Assaggiar la sventura, e d’un amico
Pensier che ti conforti, aver bisogno;
E allor gioconda ti verrebbe in mente
Di questo giorno la pietà. Rammenta
Che innanzi al trono dell’Eterno un giorno
Aspetterai tremando una risposta,
O di mercede o di rigor, com’io
Dal tuo labbro or l’aspetto. Ahi! già venduto
Il mio figlio t’è forse! Oh! se quell’alto
Spirto indomito, ardente, consumarsi
Deve in catene!.... Ah no! pensa che reo
Di nulla egli è; difese il padre: or questo
Gli è tolto ancor. Che puoi temer? Per noi
Non c’è brando che fera: a te vassalli
Son quei che il furo a noi: da lor tradito
Tu non sarai: tutto è leale al forte.
Italia è tua; reggila in pace; un rege
Prigion ti basti; a stranio suol consenti
Che il figliuol mio....

                        carlo.
                           Non più; cosa mi chiedi
Tu! che da me non otterria Bertrada.

                      desiderio.
- Io ti pregava! io, che per certo a prova
Conoscerti dovea! Nega; sul tuo
Capo il tesor della vendetta addensa.
Ti fe’ l’inganno vincitor; superbo
La vittoria ti faccia e dispietato.
Calca i prostrati, e sali; a Dio rincresci....

                        carlo.
Taci, tu che sei vinto. E che? pur ieri
La mia morte sognavi, e grazie or chiedi,
Qual converria, se, nella facil ora
Di colloquio ospital, lieto io sorgessi
Dalla tua mensa! E perchè amica e pari
Non sonò la risposta al tuo desio,
Anco mi vieni a imperversar d’intorno,
Come il mendico che un rifiuto ascolta!
Ma quel che a me tu preparavi - Adelchi
Era allor teco - non ne parli: or io
Ne parlerò. Da me fuggia Gerberga,
Da me cognato, e seco i figli, i figli
Del mio fratel traea, di strida empiendo
Il suo passaggio, come augel che i nati
Trafuga all’ugna di sparvier. Mentito
Era il terror: vero soltanto il cruccio
Di non regnar; ma obbrobriosa intanto
Me una fama pingea quasi un immane
Vorator di fanciulli, un parricida.
Io soffriva, e tacea. Voi premurosi
La sconsigliata raccettaste, ed eco
Feste a quel suo garrito. Ospiti voi
De’ nipoti di Carlo! Difensori
Voi, del mio sangue, contro me! Tornata
Or finalmente è, se nol sai, Gerberga
A cui fuggir mai non doveva; a questo
Tutor tremendo i figli adduce, e fida
Le care vite a questa man. Ma voi,
Altro che vita, un più superbo dono
Destinavate a’ miei nipoti. Al santo
Pastor chiedeste, e non fu inerme il prego,
Che sulle chiome de’ fanciulli, al peso
Non pur dell’elmo avvezze, ei, da spergiuro,
L’olio versasse del Signor. Sceglieste
Un pugnal, l’affilaste, e al più diletto
Amico mio por lo voleste in pugno,
Perch’egli in cor me lo piantasse. E quando

Io, tra ’l Vèsero infido o la selvaggia
Elba, i nemici a debellar del cielo
Mi sarei travagliato, in Francia voi
Correre, insegna contro insegna, e crisma
Contro crisma levar, perfidi! e pormi
In un letto di spine, il più giocondo
De’ vostri sogni era codesto. Al cielo
Parve altrimenti. Voi tempraste al mio
Labbro un calice amaro; ei v’è rimasto:
Votatelo. Di Dio tu mi favelli;
S’io nol temessi, il rio che tanto ardia
Pensi che in Francia il condurrei captivo?
Cogli ora il fior che hai coltivato, e taci.
Inesausta di ciance è la sventura;
Ma del par sofferente e infaticato
Non è d’offeso vincitor l’orecchio.

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