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Africano Spir.1
I. — Africano Spir non conobbe, vivente, la gloria dovuta all’opera sua immortale: a nessuno meglio che a lui possono applicarsi le amare considerazioni che Schopenhauer opponeva nella prefazione alla seconda edizione del suo Mondo come volontà e rappresentazione, come uno sdegnoso conforto, all’oscurità sua ed all’ingiusta indifferenza dei contemporanei. Tutto assorto nella elaborazione della sua dottrina e profondamente convinto del suo altissimo valore, egli ebbe in disdegno le piccole arti con le quali anche le opere più nobili dell’ingegno umano debbono conquistare il successo esteriore; meno avventurato di Schopenhauer non vide nemmeno l’aurora del nuovo giorno e fece scrivere sulla sua tomba le desolate parole della Scrittura: «La luce volle penetrare le tenebre, ma le tenebre non raccolsero ».
Questo doloroso destino che amareggiò gli ultimi anni del nobilissimo pensatore è dovuto in parte alle circostanze esteriori della sua vita — Spir non appartenne all’insegnamento universitario e visse modestamente fuori del mondo filosofico ufficiale — in parte all’indole sua fiera e ritrosa che non ammetteva compromessi, che disprezzava ogni forma di vanità personale, ma sovratutto al carattere della dottrina, la quale, precorrendo i tempi, mirava con semplicità e con ferma sicurezza, sotto una forma profondamente personale, ad un rinnovamento speculativo-religioso di tutta la filosofia. La sua dottrina non era, come è stata sovente presentata, una semplice eco di dottrine herbartiane, nè un richiamo al dualismo kantiano dell’intelligibile e del sensibile: pur riconnettendosi strettamente ad Herbart, pel tramite sopratutto del Drobisch, che professava a Lipsia verso il 1861, quando lo Spir era venuto, ventiquattrenne, a frequentare la università, non meno che a Kant, che Spir aveva imparato giovanissimo a conoscere, e ad Hume, il filosofo più spesso citato da Spir, quello al quale egli stesso dichiarava di essere debitore più che ad ogni altro, anzi per alcuni aspetti anche a Schopenhauer ed a Spinoza, essa non continuava direttamente nessuna tradizione, non si appoggiava a nessuna scuola: essa era un tentativo originale, ma isolato, di assurgere ad una nuova sintesi filosofica, tentativo che per di più contrastava troppo recisamente con le tendenze naturalistiche, empiristiche ed agnostiche del tempo per poter sperare di trovare qualche favore presso i contemporanei.
Soltanto l’età nostra ha cominciato a rendergli, in parte, giustizia. Certo egli è ancor lungi dall’occupare nella storia della filosofia della seconda metà del XIX secolo il postò al quale egli ha diritto, accanto a Lotze, Fechner ed Hartmann, tra i solitarii continuatori dell’indirizzo speculativo in un’età infeconda, infatuata di scienza e di naturalismo; ed anche l’opera sua potrà, a giudizio definitivo, venir forse apprezzata da un punto di vista diverso da quello ond’egli, al pari di tanti altri grandi filosofi, considerò l’opera propria come un rinnovamento apocalittico. Ciò non toglie tuttavia che noi possiamo con viva soddisfazione salutare come una riparazione tardiva questo iniziale riconoscimento dell’opera d’un uomo che fu senza dubbio una delle più elette, delle più vigorose, delle più significative personalità filosofiche del secolo passato; e dal contatto della sua speculazione condotta con la più implacabile coerenza e nel tempo stesso ispirata alle idealità più elevate riprometterci una salutare influenza sul pensiero contemporaneo. Quest’azione si è fatta viva negli ultimi anni sopratutto in rapporto alle sue dottrine morali e religiose, nelle quali lo spirito dell’età nuova, con le sue ravvivate tendenze idealistiche e religiose, ha ritrovato in gran parte se stesso; anche in Italia è specialmente sotto questo aspetto che il suo pensiero è stato messo in luce nei saggi che ne hanno dato Aida Schenardi ed Odoardo Campa2. Ma più importante delle teorie morali e religiose è nello Spir la parte più propriamente speculativa, quella che potremmo dire la sua metafisica; le sue teorie sul principio d’identità, come sorgente di tutte le forme a priori, sul valore obbiettivo del principio d’identità, sulla costituzione deceptiva del mondo empirico contengono una soluzione originale e geniale dei massimi problemi speculativi che merita, da parte di ogni spirito meditativo, la più seria attenzione. Come altamente opportuna e commendevole è perciò da considerarsi la ripubblicazione in veste italiana (con le aggiunte predisposte dall’autore per una seconda edizione che poi non venne) dei «Saggi di filosofia critica» edita a Parigi nell’anno 1887, una delle ultime opere del nostro autore, la più atta a servire d’introduzione alla conoscenza del suo sistema; alla quale ho ben volentieri accettato di premettere queste parole d’introduzione come segno della mia alta reverenza per la personalità nobilissima dell’autore.
La maggior difficoltà che si oppone alla diffusione della concezione speculativa dello Spir sta nel difetto della sua esposizione; la quale se è sempre, nei particolari, chiara, abbondante anzi talvolta prolissa, è generalmente disposta nel suo complesso in modo che non lascia afferrare facilmente con uno sguardo unico l’ordine e la concatenazione generale delle idee e .dei problemi. Questa imperfezione formale, più grave nelle prime opere, è ancora accentuata abbastanza nell’opera capitale «Pensiero e realtà» per rendere al lettore faticoso e difficile il compito di formarsi, dopo la lettura, una visione sintetica ordinata e chiara della sua concezione complessiva; nè a questa deficienza pongono rimedio, a mio avviso, le esposizioni recenti del Lessing (1900) e dello Zacharoff (1910). Perciò io ho creduto opportuno, lasciando da parte ogni indicazione biografica (per i dati biografici non posso che rinviare alla bella biografia premessa ai Nouvelles Esquisses (1899) dalla pietà filiale di Elena Claparède Spir) o bibliografica (il lettore troverà un’accurata bibliografa dello Spir, fino al 1900, nella dissertazione di U. Lessing, A Spir’s Erkenntnisslehre, 1900, p. 19-29), di premettere a questa traduzione un riassunto breve e chiaro della concezione metafisica dello Spir, nella speranza che altri ne tragga stimolo a darcene un giorno una esposizione meno imperfetta e più completa.
II. — Ogni filosofia, osserva lo Spir in principio della Erörterung del 1869, dagli Indiani, da Platone a Kant ed Herbart, comincia più o meno esplicitamente con questo presupposto: che la costituzione della realtà empiricamente conosciuta non è la vera, propria, originaria costituzione della stessa. Ma per sapere che la costituzione empirica della realtà non è la vera, bisogna bene che noi possediamo un concetto, sia pure implicito e formale, della vera costituzione della realtà: e che questo concetto ci sia dato a priori. Bisogna di più ammettere che la costituzione empirica della realtà, se è falsa, contiene qualche cosa che alla realtà è straniero, qualche cosa quindi che dalla medesima non può venir derivato nè esplicato. Queste tre proposizioni disegnano già nettamente il punto di partenza dello Spir, che è la constatazione di una duplice certezza immediata. La prima è quella che ha avuto la sua classica espressione nella famosa formula di Descartes: e dice che il contenuto della coscienza è, come fatto, una certezza assoluta. Può essere infatti che quanto la rappresentazione mi afferma dei suoi oggetti sia falso, ma resistenza della rappresentazione come fatto cosciente è superiore ad ogni dubbio. Io posso perciò enunciare come dato irrecusabile di fatto resistenza del mio mondo cosciente col dire: Vi è in me un mondo di rappresentazioni. (W., I, 13). Questo contenuto rappresentativo è costituito da una molteplicità di elementi e distinto in quei due grandi gruppi che sono il mondo degli oggetti esterni e il mondo delle individualità coscienti (empiriche). La seconda certezza è la constatazione che in noi, a lato del mondo della rappresentazione e compenetrato con esso, vi è una norma egualmente immediata ed irrecusabile, sebben di altra natura: la legge fondamentale del nostro pensiero, il principio d’identità. Questo principio non può venir confuso col contenuto rappresentativo, perchè degli oggetti che costituiscono detto contenuto e sembrano obbedire a detto principio, nessuno (come vedremo) è realmente con esso in accordo. Esso non è quindi un dato, ma un’esigenza, un criterio: ciò che non è altrimenti esplicabile se non col vedere in esso il presentimento d’una realtà superiore, anzi meglio la presenza iniziale in noi di questa reàltà. Il punto di partenza della filosofia è nella constatazione di questa dualità: il riconoscimento dell’essere nostro più vero nella realtà divina presente a priori al nostro spirito, la riduzione dei valori più alti, la verità, la moralità, la bellezza, la santità, a questa iniziale coscienza del divino, ne costituiscono il compito principale e supremo.
La coscienza naturale (che comprende anche la scienza) non avverte ancora l’intimo dissidio della realtà con se stessa, che nasce da questa irreconciliabile dualità; considera la realtà empirica come accordantesi perfettamente con la sua norma suprema a priori e perciò la ritiene per una realtà assoluta. Ciò ha la sua ragione nel fatto che l’esperienza della coscienza naturale, pur essendo in se straniera alla legge dell’identità, è organizzata in modo che realizza in sè un’illusoria apparenza d’un mondo coerente con se stesso, simula l’aspetto d’un mondo assoluto di sostanze immutabili accordantisi perfettamente con la legge suprema dell’identità. Ma in realtà questa sua identità è soltanto apparente e la natura sua contraddice alla legge del nostro pensiero: questa sua falsità intrinseca, per la quale ci rinvia sempre a qualche cosa d’altro da sè, costituisce appunto il fondamento della sua relatività ed è l’origine dei molteplici tenfativi della stessa coscienza naturale (nella scienza e nella filosofia naturalistica) di costituire un’altra realtà con elementi empirici (gli atomi, le energie, ecc.); i quali tuttavia, quando vengano scrutati a fondo ci presentano necessariamente di nuovo quella medesima contraddizione interiore, per la quale la realtà immediata è stata degradata a semplice apparenza. La vera filosofia sorge quando comincia la prima coscienza chiara ed esplicita della contraddizione essenziale della realtà. Essa riconosce che l’accordo della realtà empirica con la norma assoluta del pensiero non è che apparente, dissolve l’illusione naturale, mette in luce in tutto il suo valore la norma assoluta e scruta a questa luce la natura della realtà empirica e di noi stessi.
III. — Cominciamo con l’esame del dato rappresentativo. Che cosa è la rappresentazione? Quale è la realtà che si rivela a noi nel dato rappresentativo? È questo la immagine, la parvenza soggettiva d’un’altra realtà, oppure la rappresentazione è essa stessa la realtà e trae il suo valore obbiettivo da distinzioni interne? Lo Spir si pronuncia in modo che da principio sembra, egli idealista risoluto e coerente, adottare la soluzione realistica; il complesso delle rappresentazioni nostre è un complesso di atti subbiettivi che ci rinviano al di là di essi, ad un mondo di oggetti che non sono le rappresentazioni stesse. E che la rappresentazione non sia l’oggetto medesimo, risulta, secondo l’A., dal fatto che la rappresentazione può essere falsa. L’essere e la verità si confondono: non vi è essere falso; la possibilità dell’errore nella rappresentazione ci rivela che essa non è la realtà medesima, ma è la costruzione subbiettiva d’una realtà, che essa si sforza di esprimere (W., I, 20 ss.). Certo la rappresentazione si sforza di confondersi con l’oggetto suo, si dissimula, si annulla quasi in ciò che ha di proprio per rendere presente solo il suo oggetto, ma ciò non toglie la distinzione fra rappresentazione ed oggetto: la rappresentazione p. es. d’un evento passato non è questo medesimo evento perchè esso, come fatto rappresentativo, è nel presente. Certo non si deve intendere la rappresentazione come un’immagine dell’oggetto rappresentato (W., I, 26 ss.); la rappresentazione non ha una materialità sua propria, non è che una reduplicazione formale dell’oggetto; è l’affermazione dell’esistenza reale del suo oggetto, il quale costituisce la vera materia della rappresentazione. Ma ciò basta allo Spir per affermare nel modo più reciso la distinzione della rappresentazione dall’oggetto: e ciò vale non soltanto degli oggetti della realtà esteriore, ma anche degli oggetti dell’esperienza interna, i sentimenti, le volontà; la possibilità dell’errore e dell’illusione nell’esperienza interna ci prova che anche i nostri fatti interni sono noti a noi per mezzo di rappresentazioni (W., I, 35 ss.).
Con il contenuto rappresentativo è data immediatamente, secondo lo Spir, anche una distinzione originaria, la distinzione che si traduce nella coscienza dell’io e del non io. Noi crediamo di conoscere noi ed altre cose fuori di noi: noi distinguiamo nel contenuto a noi dato una parte costituente propriamente ciò che diciamo «noi» ed una parte straniera: questa distinzione è un fatto primordiale e non è suscettibile di derivazione o di esplicazione (W., I, 45, Esq . 11, 96).
Non bisogna però confondere questa obbiettività originaria d’una parte dell’esperienza con la sua esteriorità. L’esteriorità non è che una forma speciale dell’obbiettività: un oggetto non può esistere spazialmente fuori di noi senza essere un elemento obbiettivo della esperienza, ma l’obbiettività non è ancora esteriorità nel senso spaziale della parola. Nel seno della coscienza stessa, del contenuto rappresentativo — che costituisce materialmente la totalità dell’io nel più largo senso di questa parola — si disegna così originariamente per intuizione inderivabile una distinzione fra rappresentazioni subbiettive (costituenti l’io in stretto senso) e rappresentazioni obbiettive (costituenti il non io, il mondo): queste ultime fanno parte pur esse del soggetto, dell’io in largo senso, ma hanno dei caratteri particolari per i quali si distinguono radicalmente dalle prime: tutti i tentativi di esplicare il sorgere d’un io da una corrente di rappresentazioni obbiettive come quelli di derivare da una complicazione di fatti subbiettivi il concetto d’un non io, d’un oggetto, sono puri sofismi che già presuppongono quella distinzione che essi tentano di dedurre o d’esplicare. Certo l’io ed il non io fanno parte entrambi della coscienza, si richiamano a vicenda e quindi debbono costituire una unità profonda — che però è sottratta alla nostra esperienza — ; ma ciò non toglie che per l’esperienza essi costituiscano nel seno stesso dell’io una dualità irreducibile (W., I, 329 ss.).
Consideriamo ora separatamente i due elementi del dato rappresentativo in ordine alla questione che sorge naturalmente dal concetto che lo Spir si è fatto della rappresentazione e cominciamo ad esaminare, in questo capitolo, la rappresentazione obbiettiva. Se la rappresentazione è la rappresentazione d’un oggetto, qual’è questo oggetto per la rappresentazione obbiettiva? La risposta dello Spir è informata al più radicale idealismo: gli oggetti delle nostre rappresentazioni obbiettive sono le nostre sensazioni (W., I, 78 ss. 346 ss., Vier Grundfragen, 33 ss.; Empir. u. Phil. 29 ss.). La dualità parallela della rappresentazione e dell’oggetto non è perciò punto costituita da un mondo di oggetti materiali, esteriori alla coscienza, e dalla riproduzione cosciente dello stesso, ma da due serie di fatti coscienti; da una parte il mondo delle nostre sensazioni, dall’altra la loro rappresentazione ossia l’affermazione soggettiva del loro contenuto, la quale per di più ne ordina la molteplicità confusa secondo certe esigenze formali in modo da costituire non un caos di elementi, ma un mondo. La posizione dello Spir non differisce da quella del Berkeley se non per la sua distinzione delle rappresentazioni dalle sensazioni: queste sono il vero oggetto delle rappresentazioni, ma non hanno altra realtà da quella che esse hanno nella coscienza. Una sensazione di colore o di suono non differisce essenzialmente per nulla da uno stato di piacere o di dolore se non in quanto essa è uno stato obbiettivo, uno stato che il nostro io per un’immediata intuizione apprende come non facente parte della propria individualità empirica. È inutile avvertire che, poiché gli oggetti esterni non sono in fondo che le sensazioni esterne, sarebbe un controsenso cercare le cause esterne della sensazione; la molteplicità delle sensazioni è un dato primitivo ed originario ed in sè, come del resto la realtà empirica intiera, del tutto inesplicabile.
Il mondo esteriore non si presenta tuttavia a me come una semplice successione di sensazioni; esso mi appare come un mondo di oggetti, di cose, di sostanze. Questa trasformazione del complesso delle sensazioni, degli stati obbiettivi dell’io in un mondo di esseri corporei è un’opera dell’attività rappresentativa, che con una specie di spontaneità istintiva tende a concepire ogni contenuto sensibile secondo la norma suprema dell’identità e cioè come una cosa immutabilmente identica con se stessa, come una sostanza. Certo anche da parte delle sensazioni vi è una disposizione ad apparire come un mondo di sostanze. La connessione regolare che si rivela tra le sensazioni stesse e per la quale esse si associano e si succedono secondo regole fisse, mettono già nella sensazione un principio di costanza, senza del quale l’applicazione della norma a priori e la trasformazione loro in sostanza non sarebbero possibili (W., I, 370 ss.). L’intelligenza nostra sanziona questa costanza nella successione e nella coesistenza delle successioni, facendo di ogni gruppo costante di coesistenti e di successivi una sostanza. Però questa predisposizione delle sensazioni-oggetti e questa applicazione della norma a priori da parte dello spirito non creano che un accordo apparente, illusorio, non sopprimono il disaccordo logico fra il mondo delle sensazioni e la norma stessa: onde, se si analizza fino ai suoi ultimi elementi il mondo dei corpi così come è percepito, si arriva dappertutto, a volerlo considerare come una vera realtà sostanziale, a contraddizioni logiche. Ma questa inconsistenza logica non si rivela che alla riflessione filosofica, mentre l’accordò illusorio trova ad ogni passo la sua conferma apparente nell’esperienza quotidiana: onde la credenza incrollabile della moltitudine nella realtà sostanziale del mondo esteriore dei corpi.
La costituzione del mondo delle nòstre sensazioni in un mondò di corpi avviene in primo luogo per mezzo della forma dello spazio: lo spazio è, potremo dire, lo schema empirico del concetto puro dell’identità con se stesso, della sostanza. L’esistenza spaziale d’un corpo non esprime altro in fondo che l’indipendenza del suo contenuto da ogni altro contenuto, la posizione sua come qualche cosa di assoluto che può ammettere tutti i rapporti esteriori possibili, ma non una compenetrazione intima, una comunione del proprio essere con altro (W., I, 321 ss., 364 ss.). La radice prima della forma dello spazio è quindi la disposizione del soggetto a rappresentarsi le sue sensazioni come sostanze: questa disposizione si concreta poi in forma particolare determinata dalla natura del soggetto percipiente: questa forma è lo spazio, anzi il nostro spazio. La particolare costituzione e le particolari proprietà geometriche del nostro spazio possono quindi benissimo venir fondate per mezzo della sua genesi psicologica, per la quale lo Spir si richiama alle analisi del Bain e dello Stuart Mill: ciò non contraddice punto, alla sua apriorità. Notiamo di passaggio che il tempo è invece secondo lo Spir un dato empirico, non una forma del senso: le successioni del contenuto ci sono date così immediatamente come il contenuto stesso. È vero che noi non apprendiamo direttamente il tempo come un elemento, allo stesso modo che i suoni, ecc.; ma esso è sempre il risultato d’una semplicissima induzione spontanea, fondata sull’ esperienza e non d’una costruzione formale a priori (W., I, 135 ss., 341 ss.) 3.
La forma dello spazio è una specie di compromesso fra la norma suprema che ci sospinge a vedere in ogni dato un incondizionato e la molteplicità contingente e mutevole del dato: l’unione simultanea del diverso in un oggetto sostanziale dotato di proprietà diverse è certo ancora sempre qualche cosa di contradditorio, ma la contraddizione sfugge alla coscienza volgare. Più intuitiva si presenta invece alla coscienza la contraddizione inerente all’unione successiva del diverso: se nell’ oggetto Y lo stato B succede allo stato A, anche la coscienza volgare non può non avvertire che si produce una differenza nell’oggetto, ciò che non potrebbe aver luogo, data la natura identica ed immutabile della sostanza. Onde essa è forzata, per rimanere in accordo con la norma suprema, a vedere nel mutamento non una differenziazione interiore della sostanza, ma un mutamento esteriore risalente a qualche cosa d’altro, a vedere cioè in esso l’effetto d’una causa. «Appunto perchè secondo la legge del nostro pensiero ogni distinzione interna è straniera all’essenza d’una cosa in sè, solo una sostanza semplice è per noi un oggetto normale e la permanenza d’una tale sostanza il solo modo normale di esistere: tutte le distinzioni e i mutamenti invece che avvengono in una cosa, sono il sintomo di influenze esteriori e straniere, la conseguenza di cause e condizioni esteriori» ( W I, 198). Sebbene quindi raramente lo Spir metta la causa accanto allo spazio come una forma a priori parallela, noi possiamo esplicitamente riconoscere che in fatto lo spazio e la causa sono secondo lo Spir le due forme a priori, per mezzo delle quali l’intelletto nostro ordina, per uniformarsi alla sua legge ma, il materiale delle impressioni sensibili in un mondo esteriore sostanziale.
Lo spazio e la causa sono le due forme suprea priori che organizzano il complesso delle sensazioni: ma che cosa sono in ultimo, donde vengono questi elementi della nostra realtà empirica? Escono forse dal nulla per ricadere quindi nuovamente nel nulla? la regolarità e la concatenazione mutua delle sensazioni ci vietano di accogliere quest’ipotesi. Il contenuto delle sensazioni esiste sempre, anche quando non entra nel campo delle sensazioni attuali; pur non costituendo nè un mondo di corpi, nè una realtà in sè, che sia causa delle sensazioni, esiste realmente in una forma altra da quella che ci è nota per le sensazioni. «Il medesimo contenuto dato, che ci presenta nella percezione diviso in una molteplicità di fenomeni isolati, esiste indipendentemente dalla percezione come un molteplice fra sè collegato e rimane, anche quando non è percepito, dal lato opposto alla percezione, nel suo collegamento originario. Tale collegamento non può manifestarsi nella percezione che indirettamente e cioè come uniformità e regolarità nelle successioni e nelle coesistenze degli elementi reali percepiti. Questa esistenza occulta dal contenuto percettivo è la sua «possibilità», la sua «potenza», donde esso passa nella sua realtà a noi data nella percezione per ritornarvi di nuovo, sempre secondo leggi invariabili» (W., I, 421). Questo principio attivo ed unificatore della realtà sensibile è la «Madre Natura», è il principio dell’esistenza empirica; che non è però nè la materia, nè un principio fisico nel vero e proprio senso della parola. Noi non possiamo chiamarlo una coscienza, perchè ad esso è originariamente straniera la distinzione fra io e non io, essenziale alla coscienza (W., I, 440); ma è come il substrato, la matrice universale delle coscienze empiriche, che collega queste fra loro ed inizia quell’unificazione apparente del suo contenuto, che ha poi nel soggetto empirico la sua esplicazione più perfetta. Esso è, come vedremo, il principio della imperfezione e del male, la radice della molteplicità e della dipendenza. E tuttavia non è il male assoluto nè la molteplicità assoluta: perchè contiene in se stesso una certa verità, per la quale può adattarsi, in apparenza, alla norma suprema del pensiero: sotto questo aspetto Spir lo chiama anzi talora «la manifestazione di Dio», ma in forme che sono a questo straniere. Esso rassomiglia all’illusione dei filosofi vedantici, nella quale l’unità divina si rivela in forme che ci rinviano bensì all’unità assoluta, ma non ne sono in alcun modo derivabili, nè si possono con essa esplicare: ond’essa rimane di fronte all’unità assoluta, finché la vita empirica dura, come un impenetrabile mistero.
IV. — Veniamo al secondo campò dell’esperienza, l’io. Del complesso degli elementi che compongono il dato, una parte, le sensazioni o stati obbiettivi, costituisce il mondo corpòreo, l’altra, ossia i sentimenti di piacere o dolore e gli atti di volontà, costituisce l’io, il soggetto (empirico). Questa è come si è veduto, una distinzione originaria: che tuttavia non bisogna confondere con una distinzione di sostanze reali, come sarebbero per es. lo spirito e la materia secondò la concezione ordinaria. La connessione necessaria dell’io e del non io ci dimostra che essi non procedono da due mondi differenti, ma costituiscono un’unità per un lato dell’essere loro che è sottratto alla mia esperienza (W., I, 38)); ma nel dato, al principio di ogni esperienza noi troviamo gli elementi distinti in due campi e l’uno di essi è riconosciuto come costituente la nostra individualità empirica, l’altro ci si presenta come straniero ed esterno a questa — non certo come esterno in senso spaziale, perchè in questo senso nessuna sensazione è veramente esterna.
Anche qui l’esperienza ci dà una molteplicità di elementi che sembra fondata su d’una sostanza, l’anima; il nostro io è un processo che conosce sè medesimo come sostanza in virtù della stessa illusione naturale che ci fa apprendere il mondo delle sensazioni come un mondo di sostanze corporee. Questo non vuol dire che l’unità dell’io sia del tutto illusoria: come non è una pura illusione quell’unità che pervade il mondo delle sensazioni e rende possibile la sua trasformazione in un mondo di oggetti. Tale unità è la manifestazione d’un principio che non è unità perfetta ed immutabile, ma è organizzata come se fosse tale; di quel principio dell’esistenza empirica che è detto dallo Spir «Natura». «L’unità del nostro io, ciò che in noi collega l’io senziente e l’io conoscente come i singoli sentimenti e le singole rappresentazioni e contiene la ragione del loro ordine e della loro regolarità è una parte del principio universale attivo della Natura e al pari di questa non afferrabile dalla percezione. Noi siamo per così dire il principio universale della Natura condensato in un individuo» (W., I, 462). Nel gruppo di elementi che costituiscono l’io la Natura è presente col senso della sua unità; perciò questo è nella individualità cosciente qualche cosa di interiore e di proprio e si svolge in una continuità concatenata di mutamenti, che ha in se stessa la legge dei suo svolgimento organico (W.,I, 448 ss.). Ma nemmeno questa verità interiore fa dell’io una sostanza; una sostanza vera, cioè rigorosamente conforme alla legge del pensiero, non potrebbe contenere in sè la dualità del soggetto e dell’oggetto, dell’esperienza subbiettiva e dell’obbiettiva: di più ciascuna di queste non è ancora un’unità, ma un fluire perpetuo di elementi raccolti in unità da una concatenazione interiore che sfugge in se stessa alla nostra osservazione diretta (W., I, 462-3).
Il nostro io è appreso, in virtù della tendenza illusoria della nostra intelligenza, come una sostanza, non come un ordine di più sostanze coesistenti: perciò alla nostra esperienza interiore non sono applicabili nè la determinazione spaziale, nè le leggi della realtà spaziale. Ma con la realtà spaziale (cioè con l’esperienza obbiettiva) esso è in rapporto per mezzo di un complesso d’elementi obbiettivi che sembrano servire da intermediarii fra il nostro io e tutti gli altri elementi obbiettivi: questo è il nostro corpo. L’unità nascosta che collega nel seno stesso della natura l’io e le cose ci appare pertanto come rapporto fra un corpo (il nostro) e gli altri corpi; sebbene e il nostro corpo e gli altri non siano che il risultato d’un’organizzazione illusoria dell’esperienza obbiettiva. La dipendenza del nostro spirito dal corpo e in particolare del cervello non è altro quindi che la visibilità della dipendenza del nostro io empirico dalla Natura, dal principio universale dell’esistenza empirica. Essa in fondo vuol dire: ogni soggetto empirico procede dal principio della Natura per una posizione originaria particolare ad ogni soggetto: questa posizione è espressa dal corpo che è una parte della realtà fisica, un momento obbiettivo della Natura e ad un tempo il fondamento d’un’esperienza soggettiva, di un oggetto empirico. Ed a questo riguardo nota acutamente lo Spir come la dipendenza della nostra vita psichica dalla fisiologia si renda manifesta solo nelle sue perturbazioni e nelle sue anomalie: mentre nelle condizioni normali la nostra vita interiore ha un’organizzazione ed una concatenazione propria che si svolge come se non dipendesse dalle condizioni della vita corporea. Sembra quindi che la vita inferiore abbia per compito di rendere possibile la vita superiore per quindi annullarsi e scomparire di fronte a questa: la vita del corpo è come la matrice della vita spirituale ed ogni alterazione sua influisce sullo spirito; ma questo è un nuovo organismo che svolge in se stesso attività e finalità appartenenti ad una sfera assolutamente superiore.
Nella totalità della coscienza lo Spir distingue quattro specie di elementi: le sensazioni, le rappresentazioni, i sentimenti e le volizioni (W., I, 476). Le sensazioni costituiscono l’esperienza obbiettiva, in opposizione all’io; quindi, siccome anche lo Spir riconosce una certa dipendenza della volontà dal sentimento, si può dire che l’io empirico (in stretto senso) è costituito secondo lo Spir da due ordini di fatti; i fatti del sentimento e della volontà ed i fatti della conoscenza. Il sentimento è, secondo lo Spir, il fatto fondamentale dell’esperienza soggettiva: non solo esso è irriducibile alla conoscenza, ma è l’energia che sostiene e mette in moto l’attività conoscitiva. La Natura pur non essendo subordinata nè riducibile mai al divino vi aspira perennemente: onde la necessità continua di mutamento e l’attività incessante. Il sentimento, ciò che è nel fondamento suo ultimo l’individualità umana empirica è un’incarnazione ed un potenziamento di questa attività elementare della Natura: per esso la natura si sdoppia nel soggetto e nell’oggetto a fine di potere poi, nella rappresentazione oggettiva, apprendere come normale (come sostanza) ciò che è in se stesso anormale. Il soggetto è costituito dalla molteplicità dei soggetti empirici, che, pur essendo apparentemente isolati, stanno fra di loro in una comunione originaria, sottratta alla nostra percezione; questa loro comunione nel seno della Natura universale ci spiega non soltanto la loro mutua azione, indipendente dai corpi, ma anche la concordanza loro nell’esperienza obbiettiva. L’oggetto è costituito dalle sensazioni, dall’esperienza obbiettiva, che è correlativa all’esistenza dei soggetti empirici; essa è indipendente da ogni soggetto percipiente, non dalla totalità dei soggetti percipienti (Esquiss., 107). La tendenza dell’unità identica ed immutabile che muove la Natura è il movente primo anche del sen- diziontimento individuale; per esso la Natura acquista coscienza, nell’individuo, della sua unità e concatenazione interiore ed aspira alla conservazione di questa unità. Il complesso delle tendenze e dei sentimenti che scaturiscono da questo bisogno dell’autoconservazione individuale costituisce il nostro essere naturale; la sua legge fondamentale è l’egoismo.
Poiché lo sdoppiamento della Natura, nel sentimento individuale, in soggetto ed oggetto ha per fine propriamente di rappresentarsi a se stessa come unità, come sostanza, sul sentimento s’innesta la conoscenza che trasforma, come abbiamo veduto, le sensazioni in corpi e la corrente mutevole dei fenomeni nel divenire d’una sostanza. Il primo grado della conoscenza è costituito dalla rappresentazione particolare, ossia dalla rappresentazione di oggetti individuali. Essa si compone di due elementi: d’una materia, che è la riproduzione ideale delle sensazioni e d’un elemento formale a priori che consiste nell’affermazione della esistenza del contenuto così riprodotto. Lo Spir respinge nel modo più radicale Topinione che fa della rappresentazione una combinazione dei dati della sensazione: anzitutto perchè la rappresentazione è anche l’affermazione della realtà del contenuto della sensazione (W., I, 43 nota). Nel seno del suo radicale idealismo lo Spir fa quindi una notevole concessione al realismo: il contenuto dell’esperienza sensibile è presentato in noi due volte, anzitutto come esperienza obbiettiva, come sensazione, poi come riproduzione ideale della sensazione, come contenuto materiale della rappresentazione. L’elemento formale della rappresentazione costituisce un giudizio sintetico a priori, esso afferma la realtà del contenuto, pone il contenuto come sostanza; il risultato suo è, come si è veduto, la posizione della esperienza obbiettiva come un mondo di corpi nello spazio, dell’esperienza subiettiva come un io-sostanza, collegati l’uno e l’altro nel loro divenire dalla concatenazione causale. Il grado superiore della conoscenza è costituito dalle rappresentazioni generali, ossia dalle rappresentazioni di rapporti generali tra gli oggetti. Esso si riduce alla posizione di simultaneità invariabili e di consecuzioni (causali) invariabili e si può ricondurre sia nell’uno, sia nell’altro caso a quell’affermazione dell’identità della sostanza, che è il vero ed unico principio a priori. La distinzione delle simultaneità invariabili è iniziata già dalla semplice osservazione empirica: ma il fondamento sul quale affermiamo l’assoluta costanza della simultaneità non è dato empiricamente: esso è il principio aprioristico della immutabile identità della sostanza. A questo principio si potrebbe ricondurre direttamente anche quello della costanza assoluta delle successioni causali; il quale del resto può anche venir considerato come un corollario dello stesso principio di causa, in quanto se ad una causa potesse succedere indifferentemente prima l’effetto A, poi l’effetto B } noi avremmo un mutamento senza causa vale a dire una contraddizione allo stesso principio di causa. «Da che è certo a priori che nessun mutamento può avvenir senza causa, è anche certo che ogni mutamento avviene secondo una legge immutabile e senza eccezione, che lo collega con la sua causa immediata». (W., I, 540). Da questa attività superiore del conoscere procede la scienza ed infine anche la filosofia.
Sotto entrambi gli aspetti dell’essere nostro noi abbiamo quindi già dalla Natura stessa una specie di desiderio e di imitazione di quella verità soprasensibile che ha nella forma dell’identità la prima sua rivelazione immediata: e sotto entrambi gli aspetti il processo naturale trascende infine la Natura ed eleva l’uomo fino alla realtà normale. Nel dominio del sentimento e della volontà l’essere empirico comincia con l’amore della propria individualità, nella quale esso vede una realtà sostanziale. Ma poiché il soggetto umano è, come sostanza, una creazione illusoria, il sentimento non può trovare nel sè empirico uno stabile soddisfacimento: perciò sopra la vita brutale dell’appetito egoistico si leva una vita più perfetta, che si impone come ciò che deve essere, come una legge superiore della volontà, per la quale l’uomo riconquista nella coscienza del suo essere normale un più saldo fondamento alla sua personalità. Questo è il principio della vita morale e religiosa. La rappresentazione sensibile procede già da un’applicazione del principio d’identità al dato, per la quale possiamo rappresentarci un mondo di sostanze corporee ed attribuire una fittizia realtà alla nostra anima. Ma questo principio medesimo, che nella rappresentazione costituisce un mondo sostanziale, che nella scienza si sforza di sostituire all’immediata realtà un mondo di elementi assoluti, ci conduce col progresso del tempo a vedere che nulla corrisponde ad esso nell’esperienza, che la realtà ad esso corrispondente è al di là di ogni esperienza. Onde al disopra del mondo della rappresentazione sensibile e del mondo della scienza (che non è se non una continuazione del primo) si discopre alla conoscenza un’altra realtà del tutto differente, che è una condanna logica della prima, che s’impone come la sola verità: essa è l’oggetto della filosofia. Senza dubbio noi non possiamo intuire in modo immediato e perfetto questa realtà: ciò che noi opponiamo alla esperienza ordinaria è ancora sempre un’esperienza illuminata dal principio della ragione: ma ciò non impedisce che all’esperienza ordinaria la conoscenza superiore si opponga almeno come un complesso di principii logici che debbono condurre alla conoscenza vera. Nell’io umano, in questo punto della realtà empirica, nel quale la Natura compie il suo più alto sforzo, comincia così a disvelarsi una realtà superiore alla Natura, che anzi si contrappone ad essa e la condanna come un’illusione ed un male. Veniamo ora a trattare di questa realtà più alta.
V. — Quando noi analizziamo il contenuto della nostra coscienza ci troviamo dinanzi ad una duplice constatazione immediata: il contenuto empirico da una parte, il principio d’identità dall’altra; il quale non è, come si è veduto, una legge del contenuto empirico, ma anzi si rivela, in opposizione alla natura empirica, come una norma suprema, sorgente di tutti i valori, verso la quale la natura empirica gradatamente si orienta senza tuttavia pervenirvi mai. Ora lo Spir anzitutto si chiede; qual carattere, quale criterio ci costringe a ricevere questa norma come un principio a priori? Questo criterio secondo lo Spir è duplice: da una parte è costituito (come in generale si assume) dalla necessità sua assoluta, dalla impensabilità logica del contrario; dall’altro, dal non essere contenuto in nessuna esperienza e dal non accordarsi in alcun modo coi dati empirici. Il principio di identità significa che ogni oggetto è solamente ed assolutamente ciò che esso è, che ogni oggetto deve possedere un’essenza propria immutabilmente identica con se stessa: in altre parole che un oggetto non può essere in se stesso qualche cosa di molteplice e di diverso. È la stessa cosa in fondo che esprime negativamente il principio di contraddizione: «i principii d’identità e di contraddizione non sono che l’espressione positiva e negativa della medesima verità, circa l’essenza propria, incondizionata delle cose» (W.,I, 144). Tale principio è per sè evidente e necessario, anzi costituisce l’essenza medesima del nostro pensiero, sì che noi non possiamo concepire un oggetto che ad esso non obbedisca: negarlo sarebbe negare il pensiero stesso. Ma questa necessità e certezza sono lungi dall’essere semplicemente il frutto d’un’abitudine subbiettiva: perchè anzi tutta l’esperienza è in disaccordo con questo principio. Certo essa è dall’intelletto organizzata in modo da rispondervi apparentemente: ma tutti gli oggetti dell’esperienza ci si rivelano — quando li analizziamo — come combinazioni mutevoli e dipendenti da condizioni esteriori; ed anche se noi li dissolviamo per non considerare che le qualità o le energie semplici, noi troviamo sempre qualche cosa che ci costringe a conoscerle come stati di altri oggetti e così come qualche cosa che non è mai assolutamente e semplicemente se stesso. Di più il mutamento — l’unione successiva del diverso — ci mostra ben chiaramente che nessun oggetto reale, nessun elemento della realtà soddisfa alle esigenze poste dal principio della ragione. La conseguenza evidente è che questo principio non può essere che una legge a priori della ragione.
Qual’è il senso, la portata di questo principio? Esso può, dice lo Spir, venir inteso in tre estensioni diverse: come negazione della contraddizione (la coesistenza di A e di non A) o della opposizione (la coesistenza in A di due qualità diverse, dal medesimo punto di vista, p. es. del bianco e del rosso) o della molteplicità e diversità (la coesistenza in A di due qualità diverse, da due punti di vista diversi, p. es. di una certa forma e d’un certo colore). I logici in generale hanno inteso il principio di contraddizione solo nel primo senso: sebbene non vi sia tra i primi due casi altra essenziale differenza se non che nell’uno l’affermazione e la negazione dividono tutta la sfera delle possibilità in due parti che non ammettono terzo termine, mentre nell’altro tale sfera è divisa in due parti, ciascuna delle quali però esclude le altre così irremissibilmente come nel primo caso, per quanto la coscienza della loro incompatibilità non sia del pari viva e presente. Lo Spir invece vuole esteso il principio d’identità e contraddizione anche al terzo caso e cioè all’unione immediata di qualità differenti. Il pensiero volgare non vede in questo caso alcuna contraddizione in quanto l’unione condizionata del diverso costituisce il fondamento stesso di quella organizzazione illusoria che costruisce il mondo dei corpi: un oggetto può essere sotto un rispetto, bianco, sotto un altro, rotondo. La contraddizione sussiste nondimeno sempre: il bianco come tale non può essere il rotondo come tale: se l’oggetto bianco e rotondo fosse realmente un oggetto, esso chiuderebbe nel suo seno una contraddizione così recisa come tra il bianco e il non bianco. È facile vedere l’importanza di questa estensione del principio d’identità dal punto di vista ontologico: negata la possibilità di un’unione incondizionata del diverso, è negata la realtà di quelle unità fittizie che si dicono oggetti: un abisso insuperabile si apre tra la costituzione della realtà sensibile e le esigenze del principio della ragione.
Ma il principio d’identità non è solo un criterio formale negativo, in base al quale possiamo giudicare della realtà degli oggetti dell’esperienza: esso contiene sotto un certo rispetto una posizione iniziale, un’affermazione ontologica. Il fatto che detto principio esprime una norma la quale non viene dall’esperienza, anzi è da questa contraddetta e che tuttavia rappresenta per il conoscere nostro un’assoluta necessità, un valore, la cui negazione è la negazione della conoscenza stessa, prova abbastanza evidente, secondo lo Spir,, che esso è la rivelazione formale d’una realtà superiore, anzi della realtà assoluta, della realtà veramente identica a se stessa, epperò incondizionata, immutabile, pura, perfetta. Questa realtà metafìsica, di cui la legge che condiziona la conoscenza stessa del mondo empirico è la coscienza iniziale, è la sola realtà vera, perchè è la sola, nella quale il nostro pensiero possa arrestarsi definitivamente: il carattere enigmatico di ogni realtà empirica procede per contro da ciò appunto che in fondo essa contraddice sempre alla norma suprema. Ma il principio a priori ha un carattere puramente formale ed ogni contenuto del sapere vien ad esso dall’esperienza: noi non possiamo quindi altro affermare della realtà assoluta, che il carattere espresso dal principio formale — l’identità pura — e quelli che sono in questo concetto implicati.
L’identità pura della realtà assoluta vuol dire che essa non contiene alcuna diversità nella sua essenza, non contiene differenze o relazioni di sorta. «Affermare che il diverso sia originariamente in sé e, così come tale, uno e che l’uno possa del pari essere diverso è la negazione diretta del principio di contraddizione. Ed una volta negato questo principio, è finita con ogni pensiero reale e qualsiasi sforzo per andare in qualche punto alla certezza diventa inutile», (W., I, 243). Una delle prime specificazioni del concetto «identico» è quella di «incondizionato»: perchè il fatto d’essere condizionato non significa altro che la presenza d’un elemento straniero in ciò che è condizionato ( W., I, 140). «Il concetto dell’incondizionato è una pura specificazione del concetto dell’identico con se stesso, vale a dire è in esso immediatamente contenuto. Noi non abbiamo bisogno di uscire dal concetto dell’identico per vedere che esso è incondizionato, per se esistente, cioè che non può dipendere quanto all’esistenza ed essenza sua da cosa alcuna. Infatti la dipendenza da altro implica la presenza d’un elemento straniero e quindi una differenza interna in ciò che dipende, mentre l’identità d’una cosa con se stessa significa appunto l’assenza d’ogni differenza interna... L’identità con sé sopprime evidentemente, anzi meglio esclude ogni rapportò con altro» ( W., I, 183-4). Dal carattere dell’identità discende egualmente l’unità. Infatti solo ciò che è identico a se stesso è uno e l’essenza dell’unità risiede propriamente in questa identità interiore. Una molteplicità di esseri veramente identici è contraddittoria perchè una molteplicità non è senza un rapporto e l’identità perfetta esclude ogni rapporto. Coloro che, come Herbart, derivano il mondo da una pluralità di monadi incondizionate sono necessariamente condannati a porre come assoluta ed originaria una molteplicità di enti reciprocamente connessi e perciò relativi od a considerare come puramente illusorio ógni rapporto reciproco, sopprimendo così l’unica ragione che vi potrebbe essere di porre all’origine delle cose una realtà molteplice. Infine l’identità implica l’immutabilità: il mutamento non può essere che straniero all’essenza delle cose, se questa è identità perfetta. Un divenire assoluto, un fluire continuo dal nulla e nel nulla ridurrebbero il contenuto mutevole a non essere che un puro accidente e l’identità originaria dell’essenza delle cose ricomparirebbe nell’identità astratta del puro divenire. Un divenire eternamente concatenato è invece in realtà presente tutto simultaneamente: le sue apparizioni e disparizioni sono relative allo spirito che le apprende e non toccano l’essere in sè delle cose (W., I, 159 ss.). A questo complesso di proposizioni formali di carattere quasi esclusivamente negativo si riduce, secondo lo Spir, tutto quello che la conoscenza può affermare della realtà assoluta: non è possibile quindi intorno a questa un vero sapere, non è possibile (nel senso antico della parola) una metafisica (W., I, 2). Anche solo questa conoscenza negativa è tuttavia sufficiente alla ragione per giudicare alla luce di essa la realtà empirica e dirigere in accordo con questo giudizio il sentimento e l’azione.
VI. — Rivolgiamo pertanto di nuovo i nostri sguardi al mondo deiresperienza per considerarne i rapporti con l’essere incondizionato. La legge fondamentale del nostro pensiero ci ha condotti a formulare il principio: la realtà assoluta deve essere identica con se stessa, incondizionata, unica, immutabile. Ora lo sguardo più superficiale sul mondo empirico ci mostra che questo, pur non contraddicendo a tal principio direttamente, in nessun punto vi corrisponde: e che quando noi crediamo di trovare in esso un’unità qualsiasi, essa è il frutto di quella naturale illusione che abbiamo sopra analizzato. Tanto il mondo corporeo quanto l’io conoscente si riconducono a qualità od attività che risultano da rapporti e da condizioni: inoltre e l’uno e l’altro sono una successione di stati passeggeri nella quale l’unico elemento costante è dato da una concatenazione interiore che non è se non il riflesso, nella natura, della unità della norma assoluta. Se quindi la sola realtà normale per lo spirito è la realtà incondizionata, la realtà empirica è una realtà che non risponde alle esigenze della norma, è una realtà anormale, e perciò dolorosa. Il dolore è uno stato che non può stare simile a sé, che implica la tendenza a passare ad un altro stato, e negare se stesso. Quindi nel dolore la natura delle cose pronuncia essa stessa il giudizio sopra il suo stato, nega e condanna sé come anormale: il dolore esprime nella sfera del sentimento la verità di ciò che proclama nella sfera del pensiero la legge dell’intelligenza: vale a dire che la verità vera è la realtà identica, pura, che non può contenere la tendenza a divenir altra, a contraddire se stessa e che la realtà empirica, la quale contiene in sé lo stimolo ad annullare il suo stato presente implica in sé qualche cosa d’anormale, la contraddizione e l’errore per l’intelligenza, il male e il dolore pel sentimento. Il dolore prova quindi anch’esso per la sua stessa natura che la realtà empirica non è ciò che dovrebbe essere, è un qualche cosa di falso, di decaduto: e prova ad un tempo l’esistenza d’una realtà più alta, che sola ha il diritto di esistere; come verità per l’intelligenza, come bene per il sentimento ( W., I, 165 ss.).
D’altro iato però la realtà empirica non contraddice direttamente alla norma, non ci presenta cioè unità reali e tuttavia mutevoli, condizionate, diverse da se stesse. Anzi: l’esperienza pur contenendo degli elementi che non soddisfano alla norma dell’esser vero, ci rinvia nondimeno essa stessa a questo essere in quanto è organizzata in modo da corrispondere apparentemente alle esigenze della norma. Il contenuto della nostra esperienza è organizzato in modo che noi riconosciamo nei nostri stati interiori un io unico in apparenza semplice e permanente e nelle sensazioni un mondo di sostanze corporee. Ora ciò non risulta solo, come sappiamo, da una subordinazione del materiale empirico all’a priori per mezzo delle forme della conoscenza, ma presuppone anche un principio d’orientamento della stessa Natura secondo le esigenze dell’a priori: infatti «noi non potremmo conoscere il contenuto delle nostre sensazioni come corpi fuori di noi, se esso non fosse già stato organizzato dalla Natura in modo da corrispondere in fatto a questo modo di apprenderlo» ( W I, 351). Ciò costituisce quella organizzazione deceptiva della realtà empirica, della quale lo Spir parla così sovente: in essa egli rinnova un pensiero famigliare ai teosofi ed ai mistici. «Era necessario, dice p. es. St. Martin parlando della caduta dell’uomo nella regione dell’illusione e del non essere, che questa regione ancora, per la molteplicità delle sue leggi e delle sue azioni, gli mostrasse in apparenza un’unità altra da quella dell’Essere semplice e verità altre dalla sua. Infine era necessario che il nuovo fondamento sul quale egli si era appoggiato gli presentasse un quadro fittizio di tutte le facoltà, di tutte le proprietà di questo essere semplice e tuttavia non ne avesse alcuna» ( Tableau naturel, I, 80).
Questa oscura tendenza della stessa Natura verso l’essere perfetto si rivela ancora a noi come finalità dell’ordine naturale Von d. Endzweck d. Natur in Vier Grundfragen, 1880, 1-22; W. y II, 274 ss.). Non può essere naturalmente nell’ordine delle idee dello Spir il vedere nel corso naturale delle cose un reale orientamento del mondo sensibile del tempo verso i fini dello spirito: perchè il mondo sensibile non è in fondo che la coscienza naturale e d’altronde nessuna connessione interiore sarebbe possibile nei corpi come sostanze. Ma l’apparente finalità naturale è per noi un’altra manifestazione della tendenza del principio della coscienza naturale, del logos naturale: anche qui questo principio dell’esistenza inferiore ci si rivela non come qualche cosa di ostile e di opposto alla norma, ma come una specie di potenza inferiore che già tende oscuramente verso la perfezione. Lo Spir vede una traccia di questo ordine finale nella stessa natura inorganica: le leggi fisiche e chimiche rivelano dappertutto un’armonia così mirabile, che sembrano l’opera d’una ragione governante le cose. Ma è nel dominio della vita organica che risaltano nel modo più evidente i segni di questa azione; la forma organica, quell’unità che presiede allo scambio continuo degli elementi è qualche cosa di assolutamente inderivabile dalle leggi fisiche e chimiche. Questa finalità naturale è pensata comunemente come l’opera d’una ragione, perchè noi non possiamo concepire altra forma di combinazione d’una molteplicità di elementi in una direzione determinata se non quella che ci è nota per la nostra attività cosciente. Ma la finalità della natura non può essere evidentemente come quella d’un essere intelligente che ha esteriormente a sè la materia che esso plasma secondo i suoi fini: il servizio reso dai tentativi d’esplicazione meccanica e dal darvinismo sta appunto secondo Spir nell’aver definitivamente escluso ogni intenzionalità dal principio agente nella natura. Vi è un principio universale che agisce in tutte le cose sensibili: la finalità apparente di queste non è che l’espressione di tale unità. La realtà naturale ha due lati: quello dell’unità e quello della diversità. Il primo è il lato sottratto alla nostra percezione, che noi induciamo solo dalla considerazione dei molteplici e diversi effetti nei quali si rivela; esso contiene la ragione dell’unità naturale delle cose ed è il fondamento di quella disposizione armonica che noi apprendiamo nella finalità. Nè deve meravigliarci che sussista un’analogia profonda tra l’azione sua e quella dell’intelletto umano: poiché esso è l’universale concreto, reale, l’intelletto è l’universalità ideale, microcosmica; l’intelletto (naturale) riproducente idealmente per mezzo della conoscenza quell’unità delle cose che il principio della natura è direttamente in se stesso. Così, sebbene il principio della natura sia lungi dall’essere identico con l’unità assoluta, esso rivela già una tendenza verso l’unità, verso la norma. Il che però differisce profondamente, si comprende, dall’asserire che la natura abbia il termine del suo divenire nell’unità assoluta. Ciò che diviene rivela pel divenire stesso la sua imperfezione: il mutamento non può procedere dal perfetto. Da ciò segue che non vi può essere una causa prima del divenire: ma altresì che non vi può essere un termine ultimo, perchè l’essere perfetto e normale non può essere il prodotto finale d’una serie di mutamenti. La natura è anormale e per questo tende verso la norma come verso la sua vera e propria essenza: ma questa è fuori di essa e non può essere il termine del suo divenire.
Il rapporto della realtà empirica con la realtà normale assoluta viene dallo Spir riassunto nell’affermazione che la prima sta alla seconda come una rappresentazione falsa all’oggetto. Questo è il principio che era già stato espresso con grande energia da alcuni tra gli antichi filosofi: per es. in Grecia dagli Eleati, nell’India dai metafisici del Vedanta e del Buddismo. Ed è in fondo anche quanto si esprime quando si dice che la realtà empirica è fenomeno, è parvenza: «quando si dice che qualche cosa è parvenza, non realtà, si dice sempre con ciò, anche se non se ne ha chiara coscienza, che la stessa contiene in sè un elemento di falsità ( W., I, 224)». Però è necessario distinguere accuratamente il senso che ha in Spir la parola «fenomeno» da quello che le si dà ordinariamente. In generale l’elemento di falsità nel fenomeno viene attribuito al fatto della conoscenza. L’oggetto vero della coscienza fenomenica è la realtà assoluta, la cosa in sè; ma questa, passando attraverso le forme della conoscenza, si rispecchia, per così dire, deformandosi, dà origine ad un’immagine inadeguata, ad una parvenza che è un travestimento. Secondo lo Spir invece il carattere fenomenico inerisce già all’oggetto della conoscenza, cioè alle sensazioni; queste sono già per sè qualche cosa di falso perchè simulano una realtà che effettivamente non hanno. Gli elementi sensibili che sono oggetto della rappresentazione non hanno in sè realtà alcuna, perchè non hanno una natura propria; per effetto della loro mobilità ed inconsistenza essi non potrebbero apparire come sussistenti, se non attingessero un’apparenza di realtà dalla sola e vera realtà. Poiché anche gli elementi sensibili, pur acquistando consistenza di oggetti sostanziali solo per virtù della rappresentazione, sono anteriormente alla sintesi rappresentativa qualche cosa di reale solo in quanto già nel seno della natura vive una tendenza verso la norma, per la quale essa si predispone alle forme deirunità e della realtà. L’illusione creatrice del mondo empirico procede dunque già dal principio della natura: dal punto di vista assoluto è già un riflesso illusorio della vera unità e realtà l’unità medesima di questo principio, in virtù della quale le sensazioni sonò disposte in modo da poter poi essere apprese come un mondo di sostanze. La rappresentazione non fa che continuare e compiere quest’opera della natura: essa falsa alla sua volta l’oggetto in quanto invece di costruire un mondo di sensazioni passeggere ne costruisce un mondo di oggetti sostanziali per mezzo di un modo subbiettivo di apprendere le cose, il quale non corrisponde affatto al loro essere. Mentre quindi secondo la concezione ordinaria il mondo fenomenico è la stessa realtà in sé, ma travestita in forme straniere, secondo lo Spir esso è anzi il non essere medesimo, una specie di materia platonica, che dalla realtà assoluta attinge le forme, sotto le quali può acquistare una parvenza di realtà. Epperciò noi possiamo benissimo chiamar il mondo empirico una rappresentazione falsa, una parvenza della realtà assoluta; una parvenza che imita la natura della realtà assoluta, ma non vi partecipa, non ne è un effetto, nè una manifestazione, non avendo con essa nessun reale ed essenziale rapporto.
Noi arriviamo quindi naturalmente a questa importantissima conseguenza: che il mondo empirico non può venir derivato dalla realtà assoluta. Abbiam veduto come esso, pur non contraddicendo in modo assoluto alla norma a priori, anzi simulandone in certo modo i caratteri, non corrisponda veramente ad essa sotto nessuno dei suoi aspetti: esso è un divenire continuo, condizionato, che rivela da ogni parte il suo carattere anormale. Ora sarebbe contradditorio ammettere che questo cambiamento, quest’imperfezione, questa falsità appartengano all’essere in se delle cose: la verità non produrrà mai da sé l’apparenza, il divenire non può dedursi dall’essere: l’ condizionato non può contenere quindi in sè la ragione del mondo empirico (W., I, 228-9). Essendo inderivabile, il mondo empirico è per conseguenza filosoficamente inesplicabile. Anche quando noi conoscessimo perfettamente gli oggetti empirici e le loro leggi, noi non comprenderemmo ancora perchè esistano: perchè la loro natura è anormale, perchè secondo la legge del nostro intelletto, essi non dovrebbero esistere. Bisogna ben distinguere tra «conoscibile» e «comprensibile». L’incondizionato, che è in sè inconoscibile, è invece la sola cosa comprensibile, perchè è la sola cosa che non ha bisogno di ragione, che anzi deve essere considerata come il principio di ogni esplicazione (reale od apparente). La realtà empirica invece è conoscibile, constatabile, ma non esplicabile: il suo carattere problematico procede appunto da ciò che vi è in essa qualche cosa che non può assolutamente ricevere esplicazione alcuna.
L’inesplicabilità del mondo condanna a priori tutte quelle dottrine, che, pur ponendo l’assoluto come una unità, hanno tentato di derivare da quest’unità incondizionata il condizionato. Esse si distinguono in due gruppi, secondochè pongono l’unità incondizionata come immanente (panteismo) o come trascendente (teismo). Il panteismo può ancora venir inteso in due sensi, secondo che identifica l’uno incondizionato con gli oggetti diversi e molteplici (panteismo naturalistico) o intende per l’uno assoluto l’unità interiore degli oggetti, il vincolo reale che sta a fondamento delle loro molteplicità (panteismo metafisico). La prima tesi annulla realmente il concetto dell’uno incondizionato: se l’incondizionato fosse il mondo stesso nella sua molteplicità, che cosa potrebbe significare ancora questo concetto di «incondizionato»? L’esperienza immediata sarebbe la metafisica definitiva ed ogni ricerca d’un assoluto sarebbe destituita di senso. La seconda tesi invece identifica l’assoluto con quel principio della connessione interiore dei fenomeni, che abbiamo veduto essere come uno sforzo della natura verso il divino. Ora nessuna confusione è più falsa ed assurda di questa: perchè anche questo vincolo interiore è un oggetto empirico («interiore» vuol dire soltanto «reale, ma non dato direttamente alla percezione»): esso non è, secondo lo Spir, in fondo altro che l’unità fittizia data del substrato naturale della coscienza, la quale rende possibili le unificazioni egualmente fittizie della rappresentazione. Quindi è ben lungi dall’essere una realtà trascendente ed incondizionata. Comunque si voglia del resto pensare questa unità, dalla quale sarebbe sorto per una specie di divisione o di irradiazione il mondo degli oggetti, è ovvio vedere che il pensiero della dispersione d’un’unità originaria non ha senso alcuno. L’unità reale non può essere divisa: e ciò che può essere diviso non può antecedere il molteplice, perchè è già nella sua essenza vera ed originaria un essere molteplice. Con questa sua osservazione si può connettere poi ancora il problema del male, che è per il panteismo una difficoltà insormontabile. Eguali considerazioni oppone lo Spir alla dottrina teistica, che vorrebbe esplicare il mondo per mezzo d’una causa esteriore, trascendente. Il teismo ordinario, che per «mondo» intende un complesso di sostanze, va incontro ad un doppio assurdo: perchè ammessa la realtà obbiettiva della materia, essa costituisce un vero essere spaziale incondizionato ossia un vero assoluto, del quale è assurdo cercare o porre una causa. Ma anche intendendo per «mondo» l’esperienza, è vano volere in virtù d’un principio costitutivo dell’esperienza, trascendere l’esperienza stessa, assegnandole una causa prima incondizionata; è vano pensare ad una creazione ex nihilo di questa causa, introducendo così un rapporto del quale il concetto ordinario di causa non ci dà la minima idea; è vano infine, per la stessa ragione sopra opposta genericamente al panteismo, cercare in questa causa incondizionata l’origine del condizionato con tutte le sue imperfezioni. Lo Spir rileva sotto questo rapporto sopratutto la difficoltà morale: Dio ci è dato come la bontà e verità perfetta e quindi come una potenza fìsica. «Credere in Dio è credere all’esistenza d’una norma suprema, ossia d’una natura normale delle cose, superiore ed opposta alla loro natura fisica. Dio dev’essere cercato nella nostra coscienza morale, non nella natura fisica che è opposta alla nostra natura morale. La natura fisica è immorale e quindi anormale. Ora ciò che è anormale non potrà mai venire da noi esplicato o compreso: perchè rendere una cosa comprensibile è mostrare precisamente che essa è conforme alle norme delle quali abbiamo intima coscienza e l’anormale si oppone a queste norme. Si sa d’altronde quanto siano stati vani tutti gli sforzi per esplicare e giustificare l’esistenza del male e dell’errore. Il mondo fisico,
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che è pieno di male e riposa su di un’illusione, resterà dunque
per sempre inesplicabile (Esquiss., 43-44)».
VII. — La metafisica dello Spir si riassume e conclude così nella constatazione rassegnata dell’inesplicabile dualità della realtà normale e perfetta e della realtà empirica. Da un lato il principio a priori dell’identità, il concetto dell’incondizionato e della sostanza, che è per noi la norma logica, il criterio indeclinabile, in base al quale decidiamo della verità e della realtà, ci rinvia ad una realtà normale perfetta, della quale conosciamo soltanto i caratteri formali espressi nella norma suprema della ragione. Dall’altro, l’analisi della realtà empirica — l’io ed il mondo — ci rivela che in essa nulla corrisponde alla legge del nostro pensiero e che essa non può considerarsi come un’altra realtà sussistente accanto alla realtà normale, perchè tutto quanto essa ha di realtà è attinto alla stessa realtà normale: il mondo empirico è una specie di illusione organizzata, che può apparire come un mondo reale di esseri, solo perchè simula il suo accordo con la norma suprema. Quindi in esso si rivela una natura anormale, straniera all’essere vero, che si nega e si condanna da sè medesima: una natura che non può venir dedotta dalla realtà normale, perchè ciò che a questa contraddice non può venirne derivato. Ogni esplicazione metafisica, la quale cerchi nell’assoluto, nella realtà normale la ragione ed il principio della realtà empirica si risolve per conseguenza in una contraddizione inevitabile: la dualità dell’assoluto e dell’empirico, dell’essere normale, intelligibile e dell’essere anormale, sensibile, è inconciliabile; l’esistenza del mondo, è un incomprensibile mistero, che non ammette soluzione.
Ma l’incondizionato se non è la causa, è bene la norma della realtà empirica: il problema, teoreticamente insolubile, si risolve in un compito pratico: il medesimo atto della religione, per cui l’uomo si eleva alla coscienza chiara di questa dualità, ha il fine suo non nella posizione d’un problema insolubile, ma nella elevazione pratica dell’essere umano verso la perfezione della realtà anormale. Anche l’uomo infatti è uno degli esseri della realtà anormale: e di questo suo essere intrinseco ha coscienza nel sentimento. Ora noi abbiamo veduto che l’anomalia si traduce nel sentimento come dolore: così il dolore, che è l’espressione d’uno stato anormale, diventa per l’uomo la rivelazione graduale ed indiretta d’una realtà normale, suscita e coltiva nello spirito umano il presentimento d’una natura delle cose più alta e della possibile nostra unione con essa. Questo fatto di apprendere l’incondizionato pel sentimento è ciò che costituisce secondo lo Spir la religiosità. Il primo grado di questa vita superiore secondo la norma è la moralità: che presuppone un primo presentimento della verità suprema, dei fini superiori che scaturiscono all’uomo dalla coscienza del suo vero essere, dalla sua natura normale: soltanto, questo presentimento della realtà normale non è ancora una affermazione esplicita. Il secondo grado è costituito dalla religione propriamente detta: che, considerata nella sua purezza da ogni elemento egoistico inferiore, è elevazione cosciente dello spirito alla realtà incondizionata.
Essa è da principio opera del puro sentimento: ma nella sua forma più perfetta accoglie in sè la luce della ragione e diventa religione filosofica. In questa, come nella forma più alta della vita, culminano l’attività teoretica e la pratica: la prima, come filosofìa, fonda, illumina e guida il sentimento; la seconda, come sentimento ed attività religiosa, sorregge e vivifica il pensiero e ne incarna nella vita le conclusioni supreme.
- ↑ Introduzione all'opera di Spir «Saggi di Filosofia Critica» edita nella Biblioteca di Filosofia Contemporanea diretta da Odoardo Campa. Milano, 1913. Sebbene abbia scritto in tedesco, e parte anche in francese, Spir è di nazionalità russa. Nacque in un dominio paterno presso Elisabetgrad, nel governatorato di Cherson, il 15 Novembre 1837. Entrò fanciullo alla Scuola Navale di Nicolaief. Ufficiale di marina giovanissimo, combattè a Sebastopoli (1855), abbandonando in seguito il servizio per dedicarsi alla filosofia, verso la quale si sentiva portato da tutte le forze del suo carattere e del suo ingegno. Dopo un lungo viaggio all’estero, nel 1865, essendogli morte una dietro l’altra una sorella e la madre adorata (il padre gli era già morto da un pezzo), lasciò definitivameute la Russia, trasferendosi prima a Lipsia e successivamente a Stoccarda, dove s’ammogliò, a Losanna e a Ginevra. Morì d’influenza in quest’ultima città il 26 marzo 1890.
- ↑ Si veda specialmente di quest’ultimo la traduzione della seconda parte dell’opera Morale e religione (W. 1899,11,86-146) nella collezione «Cultura dell’anima».
- ↑ Cfr. Zacharoff, Spir’s Theoret Phìlos 1910, 33-38:.