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Eschilo - Agamennone (458 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1921)
Prefazione
Agamennone (Eschilo) Personaggi




L’Agamènnone, Le Coèfore, Le Eumènidi, furono rappresentati il 458, nove anni dopo I Sette a Tebe. E sono le tre parti d’un lavoro unico, d’una trilogia, l’unica trilogia sopravvissuta del teatro greco.

Quanto alla forma, vediamo qui che trilogia non è successione di tre drammi costruiti in forma identica. Bensí, la generale struttura architettonica del dramma tragico, quale ci appare ne I Persiani, è distribuita, come su tre piloni, sui tre drammi del piû ampio edificio. Semplice distribuzione, e che si limitava a togliere la gran pàrodos iniziale nel secondo e nel terzo dramma, e il gran finale, l’èxodos, nel primo e nel secondo.

Infatti, nella Orestèa c’è una sola vera pàrodos, quella dell’Agamènnone, un solo vero gran finale, quello de Le Eumènidi1. Quanto alle parti centrali, la composizione tradizionale della tragedia, quale abbiamo potuto caratterizzarla 2, era tale, che rendeva possibile qualsiasi distribuzione.

Del resto, la tecnica scenica non è molto diversa da quella degli altri drammi eschilei. E già, di solito, questi problemi tecnici, che tanto danno da fare ai mediocri, non attraggono eccessivamente l’interesse dei sommi. E neppure mi sembra che esista vera superiorità, di fronte ai drammi più antichi, delle parti corali. Non mancano brani lirici di grande efficacia; ma l’ala d’Eschilo era già poderosa ne I Sette a Tebe, ne I Persiani, ne Le Supplici.

Immenso progresso si ravvisa invece nella scultura dei caratteri. Su questo punto, evidentemente, s’erano concentrati l’interesse e lo studio del poeta maturo. Mentre nei drammi trascorsi le figure, anche principali, rassomigliavano un po’ tutte l’una all’altra, qui è palese la cura di caratterizzare tutti i personaggi. Ecco Agamènnone, triste, parco di parole, schivo di pompe, la cui fronte sembra avviluppata da una duplice nube funesta: lo scempio d’Ifigenia, il presentimento della prossima morte. Oreste è un abulico, spinto da Apollo, esitante, incitato dalla sorella, incitato da Pilade, e, compiuto il delitto, assalito dai rimorsi che lo spingono errabondo di luogo in luogo. Elettra deriva dalla madre la implacabile volontà, non ha un momento d’esitazione e di debolezza femminile.

E vediamo, anche, le figure secondarie. Ecco, nella prima scena dell’Agamènnone, il servo che vigila sui tetti, sospettoso, chiaroveggente, prudente. L’araldo è un entusiasta, pieno di sentimento e di fuoco. E, secondaria per l’economia dell’azione, diventa più che principale per potenza d’arte, l’ancella de Le Coefore, che rimane impressa nelle nostre menti con rilievo shakespeariano.

Perfino il Coro esce dal suo carattere, di solito un po’ incolore, un po’ convenzionale, per l’obbligato ufficio gnomico, e partecipa ardentemente alle vicende dell’azione, esprimendo con vigore i suoi sentimenti e le sue passioni, partecipando all’azione stessa, sin dove glie lo permette la sua stabilità nell’orchestra. Nel breve episodio che segue l’urlo di morte di Agamènnone, Eschilo, con genialità somma, frange la arcaica unità, per cui ventiquattro persone si fondevano, all’unisono, a formare un solo uomo; e fa parlare vari coreuti, abbozzando in ciascun d’essi un carattere.

E non insisto in minute analisi, che, precedendo la tragedia, acquisterebbero sapore di doppioni. Ma non reputo superflua qualche osservazione sul carattere di Clitennestra; non tanto per rilevarne la prodigiosa bellezza, troppo evidente alla semplice lettura, quanto per eliminare, intorno alla interpretazione, qualche malinteso, d’altronde derivante dalla sua straordinaria complessità.

Clitennestra è altera. Quando, al principio dell’Agamènnone, annunzia ai vecchi la caduta di Troia, e quelli esitano a credere, le sue risposte sono aspre ed ironiche. L’araldo che giunge a recar notizie dello sposo, non vuole neanche udirlo. I vecchi ateniesi che vogliono vendicare il re ucciso, sono per lei cani. A Cassandra rivolge un discorso mellifluo da principio; ma, poiché la fanciulla tace, conclude con superbissime parole.

È altera con gli umili; ma, a tempo e luogo, la troviamo servile. Quando giunge Agamennone, si prostra al suolo, con tanta servilità, da provocare le proteste dello sposo. E quando il figlio l’ha ghermita per ucciderla, in lei non appare più veruna traccia di alterezza. Pur di salvare la vita, si abbassa ad ogni preghiera, ad ogni umiliazione.

Questi due atteggiamenti opposti hanno origine in una delle qualità fondamentali e dominanti del suo carattere: la finzione. Essa ha tradito lo sposo, lo odia, lo attende per ucciderlo. E tuttavia, come l’araldo ne annuncia l’arrivo, le fioriscono sulle labbra espressioni e proteste di caldissimo affetto. E tenere, melliflue, sono tutte le sue parole, e prima dell’arrivo, e poi allo sposo arrivato. Ne Le Coefore, le giunge il finto annunzio della morte di Oreste, ed ella gioisce nel profondo cuore, perché vede così allontanato l’incubo che la dominava giorno e notte. Ma le sue parole, assai diverse dal sentimento, sono tutte un rimpianto e un lamento.

Ma l’infingimento ipocrita non è sempre perfetto. È incrinato da certa smania sarcastica, che lascia talvolta, con velate allusioni, trasparire il fondo dell’anima. Così quando fa stendere i tappeti su cui deve muovere Agamènnone:


Presto, velata sia la via di porpora,
sí che Giustizia lo conduca ai tetti,
com’egli non credea. E quando Agamennone è già entrato nella reggia, dove troverà la morte:
Oh Giove, Giove
che i voti adempì, esaudirci il mio!

Né queste allusioni sfuggono sempre ai vecchi del coro. E giusto dopo questa ultima, più esplicita e trasparente, esprimono in un lugubre canto i loro presentimenti angosciosi.

In realtà, Clitennestra ha la feroce voluttà di scherzare col pericolo — tratto assai comune nei delinquenti, osservato e reso da Eschilo con grande finezza.

Ottenuto lo scopo, compiuto il delitto, la ipocrisia venata di sarcasmi tramuta in brutale cinismo. Ella appare sulla soglia della reggia stringendo in pugno la scure omicida. Le sue prime parole suonano:

Dire l’opposto a quanto prima io dissi
per opportunità, non m’è vergogna;


e tutto il discorso è un racconto minuzioso ed una sfrontata esaltazione del proprio delitto. Ma, pur nel cinismo, riappare la ipocrisia e la finzione. Ella adduce due fatti a discolpa del proprio assassinio. Primo, il sacrificio d’Ifigenia — e tutto il complesso del dramma ci grida che il suo amore per la figlia è menzognero; o, meglio, esagerato e sfruttato. Poi la gelosia, infinta, per Cassandra. Cassandra, come si sa, era stata presa fra il bottino di guerra; e Clitennestra dice con indignazione che fu amante di Agamènnone. Ma essa è l’amante di Egisto da anni ed anni: il nuovo amore di Agamènnone per Cassandra, seppure è amore, data da poco tempo, dalla presa di Troia. Il pretesto della gelosia riesce quasi ridicolo; e a dargli questo carattere contribuisce il ricordo di Crisèide: acqua piú che passata. Ma il carattere di Clitennestra ne riceve ancora una luce.

Altre due note dominanti sono la lussuria e la ferocia. Dell’una e dell’altra appaiono le tracce quasi in ogni sua parola. E occorre osservare come questi due tratti si fondano in lei, con mescolanza assai comune, e nota nei quadri della criminologia.

Descrive l’assassinio di Agamènnone, punto per punto, con orribile compiacenza. Sembra una iena che si avvoltoli tra i visceri della vittima sbranata. Ma le frasi con cui descrive lo spruzzo di sangue piombatole sopra, sembrano, nei vocaboli e nelle immagini, la evocazione d’una voluttà erotica:

Cosí piombando, l’alma esala: fuori
soffia una furia di sanguigna strage,
e me colpisce con un negro scroscio
di vermiglia rugiada, ond’io m’allegro,
non men che per la pioggia alma di Giove,
nei parti della spiga, il campo in fiore.

Ed esplicitamente esprime questa sua predilezione, che ora si direbbe sadica, a proposito dello scempio, compiuto anche da lei, di Cassandra, nei versi or ora letti:

E quella, come un cigno,
cantato l’ultimo ululo di morte,
giace anch’essa, la putta; e aggiunge al letto
dei miei piaceri un condimento nuovo.

E, con intuizione davvero meravigliosa, Eschilo ha innestati questi due rami affini, della ferocia e della lussuria, in un tronco dove infatti sogliono attecchire: nella immaginazione fantastica.

Clitennestra è una immaginativa per eccellenza. Il suo linguaggio la dimostra tale, súbito, recisamente, anche in mezzo al linguaggio dionisiaco, e quindi immaginoso, di tutti gli altri personaggi. Questi fioriscono le loro parole di immagini. Ma Clitennestra ne rovescia torrenti, valanghe. E qui non occorre citare, basta leggere, a caso, qualsiasi dei suoi discorsi.

Tutti questi elementi, alcuni dei quali sembrano a prima vista eterogenei e discordi, sono poi radicati su un solido fondo, come fusti molteplici sopra un unico ceppo. E questo è la volontà inflessibile, indomabile.

Da gran tempo, come ella cinicamente dice al coro, ha pensato e tramato questa insidia: dal sacrificio d’Ifigenia, dunque da dieci anni. Da quando, rettifichiamo noi, divenne l’amante di Egisto. E da allora in poi, giorno per giorno, ora per ora, meditò il delitto. Giunge il marito; ed essa non esita un istante, ma freddamente, sicuramente, lo compie. Essa, e non Egisto.

I vecchi cittadini d’Argo la rampognano, ma il suo cuore non trema un solo istante.

Mi mettete alla prova come femmina
sciocca! Io con cuore che non trema, parlo
a chi m’intende.

Infine gli Argivi si ribellano, scoppia la sommossa, e tutta la città piomba su Egisto e i suoi seguaci. Ma riappare Clitennestra, e tutta la città è nuovamente domata. Da questa donna si sprigiona una forza magnetica, la forza delle volontà incrollabili. E durante tutta la tragedia è visibile questo temibile fàscino che ella esercita su tutti. Quando ella compare, sembra che sulle fronti e sugli occhi costernati si levi la testa di Medusa.

Siamo all’ultimo episodio della sua vita, e un nuncio le reca la notizia della uccisione di Egisto, compiuta da Oreste. Le prime parole che pronuncia la femmina implacabile son per chiedere una scure: per uccidere il figlio come uccise il padre.

E neppure la morte riesce a domarla. Dopo che il figlio l’ha trafitta, il suo spirito vigila le Furie vendicatrici; e appena queste si assopiscono, le scuote e le incita con amara rampogna ad incalzare il matricida.

In mezzo a questa orrida miscela di sentimenti perversi, un affetto sincero, immutabile: Egisto. Pochi tratti, ma rivelatori.

Quando i vecchi la minacciano che dovrà scontare il suo delitto, proclama sicura:

Sospetto e paura
in casa mia non entrerà, finché
sul focolare mio la fiamma accenda
Egisto, e m’ami, come adesso m’ama!

E quando il figlio le annuncia che ha ucciso il drudo, il vero dolore che essa prova, paralizza la sua ipocrisia, e le strappa un grido di vera angoscia:

Ahimè! Sei morto, Egisto dilettissimo!

Ma, innanzi tutto, è colto e reso con arte di psicologo grande il reciproco rapporto dei due amanti. Di fronte alla volontà di Clitennestra, Egisto rimane in ombra. In verità, quella è l’uomo, esso è la femmina, la femminetta, come con rovente ironia lo chiamano i vecchi Argivi. Il delitto non lo ha compiuto lui, bensí la donna; e agli Argivi che gli rimproverano questa sua codardia, non sa neppure che cosa rispondere. Nella connivenza con Clitennestra egli s’è plasmato su lei, ha prese le stimmate dei suoi difetti, si è macchiato delle sue macchie, ha assunti i suoi gesti: in una parola, è un suo imitatore. Come quella s’è voluta giustificare ricordando il sacrificio d’Ifigenia, cosí egli rievoca lo scempio di Atreo contro il suo genitore Tieste. Non meno cinico di lei si mostra nel proclamare la propria soddisfazione pel delitto. Non meno ipocrita nell’infinto dolore per la morte di Oreste:

So che son giunti forestieri, e recano
una novella punto grata. Oreste
è morto. E deve questo nuovo cruccio
patir la casa, oltre l’antica strage
che ci piaga e ci morde. Or come apprendere
se credibile e vera è la novella?

Egisto è il protetto, e la donna la protettrice. E quando egli è accinto ad una lotta mortale coi vecchi d’Argo, essa lo distoglie e lo salva con parole soavi:

Altro male non si provochi, o diletto a me su tutti.

Insomma, Clitennestra è l’incubo, Egisto il succubo. Rapporto non raro nella coppia delinquente, e che da Eschilo è osservato e reso con mirabile intuizione.

Tale è questa prodigiosa figura di donna. E chi, ad onta di essa, nega che Eschilo abbia scolpiti veri caratteri, ha certo la mente ingombra del pregiudizio moderno, per cui fare psicologia significa far parlare e discutere i personaggi stessi del loro stato d’animo.

Qui l’anima di Clitennestra appare a sprazzi. Ogni sua frase, ogni parola, è uno spiracolo, attraverso il quale irraggia un bagliore della gran fiamma sinistra che brucia perenne il suo animo torbido. Agli spettatori rimane il cómpito di immaginar la fiamma nel suo pieno divampare, di indovinare gli elementi varî che la nutrono. Cosí l’arte serba il velato mistero della vita.

A proposito di Cassandra, non si può parlare propriamente di carattere. Questa figura è troppo invasa di afflato sovrumano, perché in essa possano rimanere ancora distinti i lineamenti umani. È creatura umana, ma in funzione della divinità profetica. Esempio per noi vivo e presente, tanta è la magia dell’arte, delle creature veggenti, profeti, sibille, pitonesse, che sono ora scomparse, ma che i popoli videro realmente nell’alba della loro civiltà. Non ciurmatori, almeno non tutti ciurmatori. La Natura, in quei primi più fieri impeti di creazione, affievoliti via via coi secoli, sembra affidasse realmente ad alcuni petti, alcuni dei suoi più riposti arcani.

La scena di Cassandra non ha davvero bisogno di commenti estetici. La sua potenza è cosí sfolgorante, che, anche ieri, pubblici di variissima composizione, di variissima sensibilità, l’hanno seguita avvinti, affascinati, esterrefatti Ma una breve analisi, mettendo in luce alcuni particolari costruttivi, ed alcuni riferimenti non palesi a prima vista, gioverà forse a meglio intenderne la sublimità, veramente senza confini.

Tutta la scena si divide in due parti. La prima, dal verso 1072 al 1177, è in metri lirici, e propriamente in docmî intercalati da trimetri giambici del coro, interpunti anch’essi da docmî: è un kommós3. La seconda, dal verso 1178 sino al fine (1330), è in trimetri giambici.

Ma a questa divisione formale, non corrisponde la divisione della materia. Questa è tutta dominata da un altro principio, che investe e si sovrappone, tanto a questa divisione generica, quanto alle più minute divisioni del contenuto.

Eschilo, che, come tutti i grandi drammaturghi, ha profonda intuizione, non solo della psicologia, ma anche degli innesti della psicologia con la fisiologia, concepí il delirio profetico di Cassandra come una crisi epilettica, nella quale si alternano accessi e stasi. E da stasi e da accessi, come da due colori opposti, è segnata tutta la scena.

Negli accessi, Cassandra è perfettamente isolata dal mondo circostante, e, assorta nella intima visione, la descrive con rapidi accenni. E, un po’ perché tale visione è mista di figurazioni simboliche, un po’ per questo accennare e non narrare, le sue espressioni riescono poco intelligibili. Eschilo stesso le chiama enigmi4, le paragona a figure avvolte in velo.5 Nelle stasi, invece, ode, risponde, chiarifica, con espressioni e vocaboli proprî.

Tre sono gli accessi, e tre le stasi. Il primo accesso comprende tutto il kommós e, a sua volta, si divide in tre parti: lamento contro Apollo che l’ha condotta alle case insanguinate degli Atridi; visione della morte di Agamènnone; visione della propria morte. E forma come un tutto a sé. Comincia con un lunghissimo silenzio di Cassandra, sorda a tutte le reiterate domande di Clitennestra e del coro. Questi silenzî erano dilettissimi ad Eschilo. Euripide, nelle Rane, glie ne muove rimprovero, e glie ne dà taccia di ciarlatano6. Qui, certo, il motivo prediletto al poeta trova la sua migliore applicazione, la sua messa in opera perfetta.7 Questo silenzio di Cassandra è di virtú suggestiva profonda, e tiene veramente sospesi tutti i cuori su un baratro d’orrore. E da questo buio scoppia un grido, e cresce un uragano di parole misteriose, che, a grado a grado, attraverso guizzi misteriosi d’immagini,8 culmina nella visione più precisa, della giovenca che a tradimento trafigge un toro.

Ahimè, ahi! Vedi, vedi!
Tieni, tieni lontana
dal toro la giovenca!
L’afferra al peplo con le negre corna,
a tradimento lo colpisce: piomba
nel bagno molle....

È, come si vede, una immagine theriomorfica. E theriomorfiche anche altre delle immagini che investono la profetessa durante i due accessi seguenti. Nel primo, vede Egisto sotto forma di leone imbelle, Clitennestra di cagna; nel secondo, Clitennestra è una lionessa, Agamènnone un leone, Egisto un lupo. Questo carattere theriomorfico, evoca, attraverso le parole della profetessa, tutto il substrato della religione primitiva, con divinità animalesche e mostruose, che aveva dominato anche la terra d’Ellade, e che, soffocata dalla religione olimpica, mandava però attraverso i numerosi spiragli la tua tetra luce.9

Dopo questa immagine, v’è come un riascendere, dai gorghi della perfetta incoscienza, ad una subcoscienza. E le parole


      .....di feral lavacro
insidïoso a te la storia narro,


sono come l’accordo intermedio onde s’effettua la modulazione dall’orrore tragico a sentimenti, prima più patetici,



e poi quasi idillici. Incomincia la risoluzione della crisi. Non piú grida d’orrore, bensí il compianto per la propria sorte. Il Coro propone il tèma dell’usignoletta canora, e Cassandra lo accoglie e lo sviluppa; e tutto il brano si risolve in una conclusione anche piú patetica, nella quale Cassandra rievoca i giorni felici della sua prima giovinezza, quando ella, pur anche improvvida del suo tragico avvenire, errava felice sulle rive dello Scamandro. Sembra quasi un preannuncio delle divine armonie della morte di Ermengarda.

Cosí si conchiude il kommós. E non è forse inopportuno osservare come, anche in questo brano, che in certo modo, per la forma, sta a sé, Eschilo segua il principio, cònsono alla sua arte, e in genere alla drammaturgia, e a tutta l’arte greca, di non finire mai in un momento d’intensità piena, di ἀκμή, bensì di sfumare i finali.10 In piena opposizione con l’arte moderna, appassionata, invece, delle soluzioni subitanee violente.

Col verso 1178 incomincia la prima stasi. Cassandra espone al coro, in conferma della propria scienza, gli antichi misfatti della casa d’Atreo, e narra la sua avventura con Apollo.



Ed ecco il secondo accesso. Cassandra lo sente giungere, ne sente i sintomi, i preludî lugubri, dei quali, dunque, ha piena coscienza: sinché l’accesso la domina, e allora perde ogni coscienza. Anche qui la sua visione è tutta piena d’immagini theriomorfe. Alcune ne abbiamo già rilevate. Quando poi cerca un soggetto a cui si possa paragonare Clitennestra, non pensa se non ad una fiera;11 e tre figure di mostri le si presentano alla fantasia: Anfesibena, Scilla, un altro il cui nome è andato perduto.

Nella seconda stasi (1246-1256) dice chiaro il nome della vittima, Agamènnone. Ma presto giunge il terzo accesso; e questa volta Cassandra ne descrive il carattere: è un fuoco che la investe. Ed anche qui perde quasi súbito ogni coscienza, riprendono le visioni theriomorfiche, poi l'apparizione terribile di Apollo che la spoglia delle vesti sacerdotali.

E succede la terza stasi. Cassandra ode le parole del coro, e risponde, cosciente come ancora non fu mai, e tanto serena, che chiama amici i vecchioni d’Argo. E in tutta questa ultima parte, esprime una serie di elevatissime considerazioni etiche, conclusa con la sconsolata riflessione sulla labilità delle sorti umane. Cosí anche la scena di Cassandra, terribile come un turbine, e che tocca altezze né prima né più mai raggiunte dalla ispirazione poetica sibilliaca, si chiude anch’essa, in conformità al principio generale dell’arte greca, con armonie soavi, purificatrici.

Eschilo, II ― 2
***

Una speciale considerazione merita il kommós, la lamentazione funebre dell’Agamènnone. Il kommós era, come sappiamo, una parte integrale e tradizionale della tragedia: e precisamente, gli antichi teorici lo definiscono: una lamentazione fra il coro e i personaggi della scena12. E s’intende che la lamentazione deve essere concorde. Ma qui non è cosí. Qui il popolo e la regina sono in contrasto. Quello si abbandona all’impeto della passione, rompe in esclamazioni appassionate: questa lo interrompe ad ogni frase, con rimbecchi logici che si innestano sulle esclamazioni liriche come estri maligni ai fianchi d’un generoso corsiere. E tale è la linea di questa meravigliosa lamentazione: un fiume d’armonia gonfio torbido amaro, spezzato ogni po’ dalle aspre note, logiche insistenti pettegole, di Clitennestra.

***

Mi sembra di avere offerti al lettore non ellenista i principali elementi che occorrono alla piena intelligenza di Eschilo. Il resto è questione di gusto, e non esige preparazione specifica. Voglio solo osservare come nella trilogia, e massime nelle parti corali, si possa osservare un procedimento che ricorda il tematismo musicale. Certe idee sono ripetute piú e piú volte, in forma sempre nuova, e spesso con gradazione di sviluppo. Sono veri e proprî tèmi. Per esempio, la coscienza che hanno gli Argivi del tradimento di Clitennestra, la implacabilità delle Erinni, il sacrificio d’Ifigenia, il sarcasmo di Clitennestra, il potere della giustizia divina, ed altri ed altri che ogni lettore potrà facilmente trovare. E seguendo il loro sviluppo, intenderà a fondo uno degli elementi che piú contribuiscono alla perfetta unità della formidabile Orestea.

Un’ultima osservazione. Nell’Agaménnone, come forse in nessun altro dei drammi eschilei, è necessario rappresentarsi, con un continuo sforzo di fantasia, l’attuazione scenica, che Eschilo, vero uomo di teatro, oltre che sommo poeta, vagheggiò sempre, evidentemente, sino ai particolari. Noi non abbiamo piú didascalie, tranne i pochi cenni degli scolî, quasi sempre anodini; ma possiamo rievocarla seguendo attentamente gli indizî, volontari o involontari, impliciti nel testo. Un esempio. Quando Agamènnone scende dal carro e muove alla reggia, sui tappeti di porpora (pg. 71, v. 18), impiega nel passaggio il tempo che basta a Clitennestra per pronunciare quindici versi (del testo greco), sino agli ultimi due, pronunciati certo quando lo sposo era già entrato. Ora, date le dimensioni della scena, la distanza non poteva essere grande. Cassandra la percorre in un tempo molto più breve (v. 1294-1303), sebbene durante il percorso dia tre repliche al coro, le quali implicano brevi fermate, o, in ogni modo, consumo di tempo. Dunque Agamènnone procede a passi eccessivamente lenti. Sceso dal carro, cade anche egli nella maligna sfera del fascino esercitato da Clitennestra, muove, come in sogno, per quella zona magnetica, sparisce, come in un gorgo oscuro, nella reggia ove lo attende la morte.

  1. Ne Le Coefore manca la parte anapestica, caratteristica della pàrodos. Nelle Eumènidi manca assolutamente il canto d’ingresso, perché già al principio dell’azione appaiono le Eumènidi, accovacciate intorno all’altare di Apollo. L’Agamènnone finisce poi bruscamente, con una battuta di Clitennestra, e Le Coefore con un brevissimo canto corale.
  2. Vedi Vol. I, Introduzione, e Il Teatro Greco, pag. 25.
  3. Solo a questa prima parte conviene il nome di Κομμός: almeno se ci atteniamo alla definizione aristotelica: Κομμός... ϑρῆνος κoινὸς χοροῦ καὶ ἀπὸ σκηνῆς.
  4. Verso 1183: φρενώσω δ’ οὐκέτ’ ἐξ αἰνιγμάτων. — V. 1109: ἐξ αἰνιγμάτων ἐπαργέμοισι ϑεσφάτοις ἀμηχανῶ.
  5. Verso 1177: ὁ χρησμὸς οὐκέτ’ ἐκ καλυμμάτων ἔσται δεδορκὼς νεογάμου νύμφης δίκην.
  6. Prima, piantava un tòmo imbacuccato e assiso — un Achille, una Niobe, un fantoccio, che il viso — celava e non diceva nulla.
  7. Vedi introduzione.
  8. Ἀνδροσφαγεῖον (1077); δίκτυον Ἅιδου (1103); ϑύματος λευσίμου (1107); προτείνει δέ χεῖρ ἐκ χερὸς ὀρεγομένα. Qui vede e fa vedere le sole mani, staccate dal corpo, vibranti colpi. Nella sfera stetica l’immagine è simile a quella del Macbeth, atto II, scena I. Macb. Is this a dagger which I see before me, — The handle toward my hand?
  9. Ricordo gli studî del nostro Milani, oscuri, faticosi, ma che pure nella loro oscurità e nel loro disordine suscitano una immagine assai avvincente di quella religione primitiva.
  10. Il principio è anche implicitamente affermato nelle parole dello scoliaste alle Eumenidi (56), il quale dice che Eschilo pone l’inseguimento d’Oreste non al principio, bensí a metà del dramma τομιευόπενος τὰ ἀκμαιότατα ἐν μέσῳ. Vedi anche l’ottimo libro del Westphal: Prolegomena zu Aeschylus Tragödien, pag. 69. S’intende però che questo come ogni altro principio va inteso con discrezione, e non bisogna presumere di trovarlo applicato in ogni e qualsiasi caso.
  11. Τί νιν καλοῦσα δυσφιλὲς δάκος τύχοιμ’ ἄν; — L’Ἅιδου μητέρ dei codici sarà certo corrotto. E al suo posto sarà stato un altro mostro, certo non l’Ἅιδου λῄτορ di Wecklein.
  12. Aristotele, Poetica XII: κομμὸς δὲ θρῆνος κοινὸς χοροῦ καὶ ἀπὸ σκηνῆς.

Note

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