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Questo testo fa parte della raccolta Poesie di Vincenzo Monti


AL PRINCIPE DON SIGISMONDO CHIGI

Contenuto: Fatal legge, che dalla medesima fonte derivino il bene e il male! Un dì, scorrendo pe’ campi di natura, rabbelliva le cose tutte nel mio pensiero: oggi quello stesso pensiero è divenuto il carnefice che le mie forze logora e strugge: perfino il ricordo del passato m’è doloroso (1-30). Nella mattina, all’alba, io sorgeva a salutare il sole nascente, poi o m’adagiava in mezzo alle folte erbe che tutto mi coprivano, o mi giaceva supino a mirare questo o quello spettacolo naturale (31-60), ovvero a contemplare, fra l’erbe, la varia vita degl’insetti, migliori in molte cose dell’uomo (67-94). Oggi non piú. Dunque una donna poté trasformare agli occhi miei ciò che mi parve già così bello? Tutto, tranne il dolore, è spento per me (95-143). Meglio sarebbe stato non averti veduta mai, fatale beltà: ma, riamato amante, non essere felice, non isperare di donarti mai il dolce nome di sposa, abbandonarti.... obliarti.... (144-164). Lungi, feroce idea, che la mia tenerezza cangi tutta in furore e me spingi forsennato pe’ campi su l’orlo d’un abisso, dentro cui vorrei gittarmi, per porre un termine a’ miei mali (164-193). Ma non oso. E perché prolungare questo lampo di luce, se m’è tolto l’oggetto che unico mi poteva lusingare e ho in odio me stesso e la vita? (194-214). Tu, dolce e sapiente amico, vivi in mia vece: e allora che su la sera t’avvenga di salire il monte, siedi sul sasso inciso del mio nome, poi volgi il guardo a valle e ti ferma a vedere l’ultimo pietoso saluto del sole alla mia tomba (215-2-29). — Questi sciolti, composti nel 1783 e pubblicati la prima volta nell’edizione de’ Versi fatta dal Pazzini quello stesso anno in Siena, furono scritti per «una modesta e bionda giovinetta di nome Carlotta», che il M. conobbe nell’Aprile dell’82 a Firenze in casa della improvvisatrice livornese Fortunata Sulgher Fantastici, in Arcadia Temira Parasside. «E probabile che la Carlotta, allora educata in un convento a Firenze, fosse figlia di una Rosa Stewart romana e dama di compagnia della Duchessa di Corbara, la principessa Giustiniani». Confidente del focoso amore del giovine poeta fu la Sulgher, come si rileva dalle lettere ch’egli le diresse in quel tempo da Siena e poi da Roma, pubblicate la prima volta da L. A. Ferrai (del quale sono le parole chiuse tra virgole) nel Giornale storico d. lett. it. vol. V, fasc. 3, p. 383 e segg. La ragazza, se non molto istruita, sembra fosse ricca, e che però il padre mandasse per le lunghe il matrimonio col poeta, il quale, com’è noto, viveva allora in Roma assai poveramente. Ciò serve a spiegare i vv. 150-163. Certo è che il M. in séguito, o per ripicco od altro, pose egli stesso degli inciampi alle non auspicate nozze. Per Carlotta furono anche composti «Il ritratto» e i «Pensieri d’amore». Cade dunque l’ipotesi che questi tre componimenti fossero dedicati a Teresa, ultima delle tre famose sorelle Petracchi. Cfr. Vicchi VI,p. 198 e segg. — Il personaggio al quale furono indirizzati questi versi è il principe don Sigismondo Chigi, intimo amico del p., nato in Roma da Agostino e da Giulia Augusta Albani nel 1736 e morto in Padova nel 1793. Quantunque, dal ’70 in poi, Maresciallo perpetuo di S. Chiesa e Custode del conclave, fu in fama di liberale e di propenso alle idee nuove. A 31 anni sposò donna Flaminia Odescalchi, della quale fu amorosissimo, che morì, dopo soli quattro anni di matrimonio, nel 1771. Buon letterato, coltivò la poesia con profitto specie nel suo poema L’economia naturale e politica (Parigi, Valade, 1781), dedicato a Pietro Leopoldo Granduca di Toscana, pel quale s’ebbe lodi sincere dal Visconti, che in quel tempo era suo bibliotecario. Cfr. E. Q. V.: Due discorsi inediti con alcune lettere ecc.: Milano, Resnati, 1841. Nel 1776 sposò a Napoli Maria Giovanna Medici d’Ottaiano, colla quale andò poco, anzi niente, d’accordo. Fu accusato falsamente di avere, per gelosia, avvelenato il card. Carandini. Cfr., per maggiori e piú particolari notizie, Vicchi VI, p. 215 e segg. e, specialmente, A. Ademollo Un processo celebre di veneficio a Roma nel 1790: Nuova Antologia, fasc. 15 giugno e 1 luglio 1881. — Il metro è il verso sciolto, nel quale il M. fu, come tutti sanno, maestro.

Dunque fu di natura ordine e fato1,
     Che di là donde il bene ne deriva
     Del mal pur anco scaturir dovesse
     La torbida sorgente? Oh saggio, oh solo
     5A me rimasto negli avversi casi
     Consolator2, che non torcesti mai
     Dalle pene d’altrui lungi lo sguardo,
     E scarso di parole e largo d’opre
     Co’ benefizi al mio dolor soccorri,
     10Gismondo3; e qual di gioie e di martiri
     Portentosa mistura è il cuor dell’uomo!
     Questa parte di me che sente e vede,
     Questo di vita fuggitivo spirto
     Che mi scalda le membra e le penètra,
     15Con quale ardor, con qual diletto un tempo
     Scorrea pe’ campi di natura, e tutte
     A me dintorno rabbellìa le cose!
     Or s’è cangiato in mio tiranno, in crudo
     Carnefice, che il frale onde son cinto
     20Romper minaccia, e le corporee forze,
     Qual tarlo roditor, logora e strugge.
Giorni beati che in solingo asilo
     Senza nube passai, chi vi disperse?
     Ratti qual lampo, che la buia notte
     25Segna talor di momentaneo solco,
     E su gli occhi le tenebre raddoppia
     Al pellegrin che si sgomenta e guata4,
     Qual rio fallo v’estinse? e tanto amara
     Or mi rende di voi la rimembranza,
     30Che pria sì dolce mi scendea sul core?
Allorché il sole (io lo rammento spesso)
     D’orïente sul balzo compariva
     A risvegliar dal suo silenzio il mondo,

     E agli oggetti rendea piú vivi e freschi
     35I color che rapiti avea la sera;
     Dall’umile mio letto anch’io sorgendo,
     A salutarlo m’affrettava, e fiso
     Tenea l’occhio a mirar come nascoso
     Di là dal colle ancora ei fea da lunge
     40Degli alti gioghi biondeggiar le cime;
     Poi, come lenta in giú scorrea la luce
     Il dosso imporporando e i fianchi alpestri,
     E dilatata a me venia d’incontro
     Che a’ piedi l’attendea della montagna.
     45Dall’umido suo sen la terra allora
     Su le penne dell’aure mattutine
     Grata innalzava di profumi un nembo;
     E altero di sé stesso5 e sorridente
     Su i benefizi suoi l’aureo pianeta
     50Nel vapor che odoroso ergeasi in alto
     Gia rinfrescando le divine chiome,
     E fra il concento degli augelli e il plauso
     Delle create cose egli sublime
     Per l’azzurro del ciel spingea le rote6.
55Allor sul fresco margine d’un rivo
     M’adagiava tranquillo in su l’erbetta,
     Che lunga e folta mi sorgea dintorno
     E tutto quasi mi copriva: ed ora
     Supino mi giacea, fosche mirando
     60Pender le selve dall’opposta balza,
     E fumar le colline, e tutta in faccia
     Di sparsi armenti biancheggiar la rupe;
     Or rivolto col fianco al ruscelletto,
     To mi fermava a riguardar le nubi
     65Che tremolando si vedean riflesse7
     Nel puro trapassar specchio dell’onda:
     Poi, del gentil spettacolo già sazio,
     Tra i cespi, che mi fean corona e letto,
     Si fissava il mio sguardo, e attento e cheto
     70Il picciol mondo a contemplar poneami
     Che tra gli steli brulica dell’erbe,
     E il vago e vario degli insetti ammanto
     E l’indole diversa e la natura.
     Altri a torma e fuggenti in lunga fila
     75Vengono e van per via carchi di preda;

     Altri sta solitario, altri l’amico
     In suo cammino arresta, e con lui sembra
     Gran cose conferir; questi d’un fiore
     L’ambrosia sugge e la rugiada, e quello
     80Al suo rival ne disputa l’impero;
     E venir tosto a lite, ed azzuffarsi,
     E avviticchiati insieme ambo repente
     Giú dalla foglia sdrucciolar li vedi.
     Né valor manca in quegli angusti petti,
     85Previdenza, consiglio, odio ed amore.
     Quindi alcuni tra lor miti e pietosi
     Prestansi aita ne’ bisogni; assai
     Migliori in ciò dell’uom, che al suo fratello
     Fin nella stessa povertà fa guerra:
     90Ed altri poscia, da vorace istinto
     Alla strage chiamati ed agl’inganni,
     Della morte d’altrui vivono; e sempre
     Del piú gagliardo, come avvien tra noi,
     O del piú scaltro la ragion prevale8.
95Questi gli oggetti e questi erano un tempo
     Gli eloquenti maestri che di pura
     Filosofia9 m’empían la mente e il petto;
     Mentre soave mi sentía sul volto
     Spirar del nume onnipossente il soffio10,
     100Quel soffio che le viscere serpendo
     Dell’ampia terra, e ventilando il chiuso
     Elementar foco di vita11, e tutta
     La materia agitando e le seguaci
     Forme12 che inerti le giaceano in grembo,
     105L’une contro dell’altre in bel conflitto
     Arma le forze di natura, e tragge
     Da tanta guerra l’armonia del mondo.
     Scorreami quindi per le calde vene
     Un torrente di gioia; e discendea
     110Questo vasto universo entro mia mente,
     Or come grave sasso che nel mezzo
     Piomba d’un lago, e l’agita e sconvolge

     E lo fa tutto ribollir dal fondo;
     Or come immago di leggiadra amante,
     115Che di grato tumulto i sensi ingombra
     E serena sul cor brilla e riposa.
Ma piú quell’io non son13. Cangiaro i tempi,
     Cangiàr le cose. Della gioia estremo14
     Regnò sull’alma il sentimento: estremi
     120Or vi regnano ancora i miei martiri.
     E come stenderò su le ferite
     L’ardita mano, e toglieronne il velo?
     Una fulgida chioma al vento sparsa15,
     Un dolce sguardo ed un piú dolce accento,
     125Un sorriso, un sospir dunque potero
     Non preveduto suscitarmi in seno
     Tanto incendio d’affetti e tanta guerra16?
     E non son questi i fior, queste le valli,
     Che già parver si belle agli occhi miei?
     130Chi di fosco le tinse? e chi sul ciglio
     Mi calò questa benda? Oimè! l’orrore
     Che sgorga di mia mente e il cor m’allaga,
     Di natura si sparse anche sul volto
     E l’abbuiò. Me misero! non veggo
     135Che lugubri deserti; altro non odo
     Che urlar torrenti e mugolar tempeste17.
     Dovunque il passo e la pupilla movo,
     Escono d’ogni parte ombre e paure,
     E muta stammi e scolorita innanzi
     140Qual deforme cadavere la terra.
     Tutto è spento per me. Sol vive eterno
     Il mio dolor, né mi riman conforto
     Che alzar le luci al cielo e sciormi in pianto.
     Ah che mai vagheggiarti io non dovea,
     145Fatal beltade! Senza te venuto
     Questo non fòra orribil cangiamento.
     Girar tranquilli18 sul mio capo avrei
     Visto i pianeti e piú tranquilla ancora

     La mia polve tornar donde fu tolta19.
     150Ma in que’ vergini labbri, in que’ begli occhi
     Aver quest’occhi inebriati, e dolce
     Sentirmi ancor nell’anima rapita
     Scorrere il suono delle tue parole;
     Amar te sola, e rïamato amante20
     155Non essere felice; e veder quindi
     Contra me, contra te, contra le voci
     Di natura e del ciel sorger crudeli
     Gli uomini, i pregiudizi e la fortuna21;
     Perder la speme di donarti un giorno
     160Nome piú sacro che d’amante, e caro
     Peso vederti dal mio collo pendere,
     E d’un bacio pregarmi e d’un sorriso
     Con angelico vezzo; abbandonarti....
     Obblïarti, e per sempre... Ah lungi, lungi,
     165Feroce idea; tu mi spaventi, e cangi
     Tutta in furor la tenerezza mia.
     Allor requie non trovo. Io m’alzo, e corro
     Forsennato pe’ campi, e di lamenti
     Le caverne rïempio, che dintorno
     170Risponder sento con pietade. Allora
     Per dirupi m’è dolce inerpicarmi,
     E a traverso di folte irte boscaglie
     Aprir la via col petto, e del mio sangue
     Lasciarmi dietro rosseggianti i dumi.
     175La rabbia, che per entro mi divora,
     Di fuor trabocca. Infiammansi le membra,
     L’anelito s’addoppia, e piove a rivi
     Il sudor dalla fronte rabbuffata.
     Piú scabrezza al sentier, piú forza al piede22,
     180Piú ristoro al mio cor; finché smarrito
     Di balza in balza valicando, all’orlo
     D’un abisso mi spingo. A riguardarlo
     Si rizzano le chiome, e il piè s’arretra.
     A poco a poco quel terror poi cede,
     185E un pensiero sottentra ed un desío,

     Disperato desío. Ritto su i piedi
     Stommi, ed allargo le tremanti braccia
     Inclinandomi verso la vorago.
     L’occhio guarda laggiuso, e il cor respira;
     190E immaginando nel piacer mi perdo
     Di gittarmi là dentro, onde a’ miei mali
     Por termine, e nei vortici travolto
     Romoreggiar del profondo torrente23.
     Codardo! ancora non osai dall’alto
     195Staccar l’incerto piede, e coraggioso
     In giú col capo rovesciarmi. Ancora
     Al suo fin non è giunta la mia polve,
     E un altro istante mi condanna il fato
     Di questo sole a contemplar l’aspetto.
     200Oh! perché non poss’io la mia deporre
     D’uom tutta dignitade24, e andar confuso
     Col turbine che passa, e su le penne
     Correr del vento a lacerar le nubi,
     O su i campi a destar dell’ampio mare
     205Gli addormentati nembi e le procelle25!
     Prigioniero mortal! dunque non fia
     Questo diletto un dì, questo destino
     Parte di nostra eredità? Qualunque
     Mi serbi il ciel condizïon di spirto,
     210Perché, Gismondo, prolungar cotanto
     Questo lampo di luce26? Un sol potea,
     Un sol oggetto lusingarmi; il cielo
     Al mio desire invidïollo27, e l’odio
     Mi lasciò della vita e di me stesso.
     215Tu di Sofia cultor felice, e speglio
     Di candor28, d’amistade e cortesia,
     Tu per me vivi, e su l’acerbo caso
     Una stilla talor spargi di pianto,
     O generoso degli afflitti amico.
     220Allorché d’un bel giorno in su la sera

     L’erta del monte ascenderai soletto,
     Di me ti risovvenga, e su quel sasso,
     Che lagrimando del mio nome incisi.
     Su quel sasso fedel siedi e sospira.
     225Volgi il guardo di là verso la valle,
     E ti ferma a veder come da lunga
     Su la mia tomba invia l’ultimo raggio
     Il sol pietoso, e dolcemente il vento
     Fa l’erba tremolar che la ricopre.29

  1. 1. fato: legge immutabile.
  2. 4. oh solo ecc.: È segno di sincera amicizia il rimanere amico «negli avversi casi», perché ben dice, con sentenza notissima, Ovidio (Trist. I, ix, 6): Tempora si fuerint nubila, solus eris.
  3. 10. Gismondo: il Chigi.
  4. 27. guata: guarda; ma nel guatare è qualche volta, come qui, l’idea di terrore o di stupore. Dante Inf. 1, 28: «Si volge all’acqua perigliosa e guata». E XVI, 77: «i tre.... Guatâr l’un l’altro, come al ver si guata».
  5. 48. altero di sé stesso, perché egli «è padre d’ogni mortal vita». Dante Par. xxii, 116.
  6. 54. le rote: le ruote del suo carro.
  7. 65. si vedean ecc.: si vedevano trapassare riflesse ecc.
  8. 94. Inutile avvertire la spontaneità e insieme finezza di questi versi: un senso cosí vivo della natura si trova di rado anche in grandi poeti.
  9. 96. di pura filosofia: di sani ammaestramenti per ben vivere.
  10. 99. il soffio: il soffio divino della vita.
  11. 101. e ventilando ecc.: e sventolando tutti i germi produttivi e vitali che la terra chinde in sé. Ventilando, in senso attivo, si trova anche nel Boccaccio, Filoc. lib. II: «Ventilando due grandissime ale d’oro, le quali dietro allo spalle aveva».
  12. 103. le seguaci forme: le varie cose che da lei derivano. —
  13. 117. Ma piú ecc.: Massimiano: Non sum qui fueram: periit pars maxima nostri, che anche il Foscolo imitò o, meglio, tradusse nel sonetto «Non son chi fui ecc.». E il Petrarca P. I, son. 194: «i’ non son piú quel che già fui».
  14. 118. estremo: nel massimo grado.
  15. 123. Una fulgida ecc.: Petrarca P. I, son. 61: «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi». Tasso III, 21: «E, le chiome dorate al vento sparse, Giovane donna in mezzo ’l campo apparse n.
  16. 127. guerra: Quante volte il Petrarca chiama guerra il suo stato amoroso? Cfr. P. I, canz. vii, 22; canz. xii, 33; canz. xvii, 111 ecc. ecc.
  17. 136. Gli stessi sentimenti ridestava il tornar della primavera nel Petrarca (P. II, son. 42): «E cantare augelletti, e fiorir piagge, E ’n belle donne oneste atti soavi, Sono un deserto, e fere aspre e selvagge».
  18. 147. Girar tranquilli ecc.: trascorrer gli anni, poiché il girare de’ pianeti segna il passare del tempo.
  19. 149. donde fu tolta: alla terra.
  20. 154. riamato amante: Dalle lettere del M. alla Sulgher si rileva che Carlotta lo amava. La ragione dell’infelicità degli amanti e di lui specialmente è detta nella nota d’int. e nella nota seg.
  21. 158. Gli uomini, perché il padre non volle che Carlotta sposasse il poeta; i pregiudizi, perché ella aveva avuto un’educazione signorile, ed egli no; la fortuna, perché ella era ricca, ed egli povero.
  22. 179. Piú scabrezza ecc. cosí procaccio (verbo che bisogna sottintendere e ch’è taciuto per dar maggior rapidità alla narrazione) piú scabrezza al sentiero ecc.
  23. 193. Romoreggiar ecc.: Verso imitativo, per l’acconto su la settima.
  24. 200. la mia deporre ecc.: abbandonato il corpo, divenir puro Spirito.
  25. 203. a lacerar le nubi: cfr. Bassv. c. IV, v. 101 e segg.
  26. 211. Questo lampo di luce: questa vita, detta lampo per la sua brevità. Petrarca Trionf. Tem. 61: «Che piú d’un giorno è la vita mortale, Nubilo, breve, freddo e pien di noia?»
  27. 213. invidiollo: lo tolse. Latinismo (cfr., p. e., Orazio Od. IV, 1, 24), ch’è d’uso nella poesia italiana antica e moderna. Dante Inf. xxvi, 23: «se stella buona o miglior cosa M’ha dato il ben, ch’io stesso nol m’invidi». Tasso VII, 15: «Se non t’invidii il ciel sì dolce stato, De le miserie mie pietà ti mova». E XVI, 61: «Chiudesti i lumi, Armida: il cielo avaro Invidiò il conforto a i tuoi martiri.». Cfr. anche Foscolo Sepol., 24 ecc.
  28. 215. di Sofia: della filosofia. — speglio: specchio, esempio.
  29. 229. Mestissima chiusa e conveniente a questo canto, che manifesta i primi effetti d’amore su l’animo giovanile: «Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto, Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si sente». Leopardi Amore e Morte, 27 e segg.

Varianti

N. B. Queste varianti sono state ricavate da ambedue le cit. ediz. de’ Versi dell’83 e dell’87. Cfr. il N. B. a p. 2.

5. A me rimasto nell’avverso caso
97. Filosofia m’empiean la mente (’83 sola)

176. . . . . . . . . Infiammansi le membra
qual che bollente esce dal foco
(Questo verso di Dante Par. i, 60, fu poi tolto nell’ediz. dei classici it. 1826)


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