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XVI
GLI ABUSI MODERNI
A Federico Meninni, fisico e poeta
Al terminar degli anni eccomi giunto;
e del mio albergo alla prigion rinchiuso,
vivo nel mondo e son dal mondo escluso,
ché ’l piè tremante al camminar fe’ punto.
Se non vaglio a formar debile un passo,
m’aggiro immoto, e fra i veduti oggetti,
ch’a riveder mi sono ora interdetti,
pellegrinando col pensier mi spasso.
Piani erbosi solcar mugghianti bighe,
che la lunghezza lor stanca la vista,
col pensier veggio, e separar l’arista
dai biondi grani in flaggellar le spighe.
Or godo meditar vago ricinto,
che di piante fruttifere ripieno
Pomona alletta a riposarvi in seno,
e ’l suo tesor dal varïare è vinto.
Collinette frondose e selve chete,
oscurissime valli, orridi monti,
laghi, fiumi, ruscelli e chiari fonti
rendono al mio pensier l’ore piú liete.
Borghi, ville, cittá chiuse ed aperte,
che dan ricovro ai passaggieri erranti,
torno a veder co’ miei pensier vaganti,
calco senza partir strade deserte.
Irato il dio del procelloso regno
vedo (lungi il timor) come giá vidi,
e poi placato passeggiando i lidi
di bella calma in sen depor lo sdegno.
Ritornan quindi alla memoria viva
della mia fresca etade i tempi e gli anni;
m’addolora il veder del tempo i danni,
che veloce si parte allor ch’arriva.
O dolce tempo andato, ove fuggisti,
teco fuggendo ogni modestia umile
e ’l portamento nobile e gentile,
che con lussi superbi il mondo attristi?
Semplici addobbi la natia bellezza
rendean pomposa sí, ma non altera,
ed imitando la maniera ibera
non mai s’impoverí l’altrui ricchezza.
Or le gemme eritree, gli ori del Tago
tessuti a siri stami in tele e in nastri
per legar l’alme ed apportar disastri,
delle donne il desio non rendon pago.
Di gonfia vanitá portano un mondo,
ch’a soffrirlo non rendonsi mai stanche,
ed emulando le fattezze franche
gradito è a lor di sconce vesti il pondo.
Ergon sul capo altier, come Cibelle,
merlata torre di galani e veli;
v’imprigionano il crin ch’avvien si celi
in pena che d’amor fe’ l’alme ancelle.
Candida benda dispiegar si vede
qual bandiera di pace in su la torre,
sotto il dominio lor il mondo a porre,
cui muovon guerra poi, mancan di fede.
Sprigionato indi il crin, rivolto in fiocchi,
ne formano piramide d’Egitto,
per dare alla beltá termin prescritto,
parlare a mille e stupor mille agli occhi.
Col rinvenir sí disusate forme
credon piú bella far beltá natia;
ma ingannate ne van da lor pazzia,
ché la beltá natia fassi difforme.
Di Firenze non mai bestia da soma
portò di rozzi fregi il capo greve,
com’altre ch’hanno poco senno e lieve
portan monti di fior sopra la chioma.
Vivon sott’arso ciel di fiamme armato
nere beltá come le fe’ natura,
coperte sol dalla nerezza oscura,
ma vergognose il sen tengon velato.
Vedesi qui, se borea agghiaccia il rivo
all’aria in risoffiar fiato di gelo,
mezze nude beltá senz’alcun velo,
che d’onesto rossore il volto han privo.
Gli uomini intanto la follia donnesca
accompagnano, ancor resi piú folli;
gli abbigliamenti femminili e molli
usar par ch’a ciascun la stima accresca.
Han quelle, il perucchin dismesso e guasto,
per sempre varïar vario l’umore;
questi col ripigliare il loro errore
nel renderlo maggior recansi a fasto.
Or le perucche a frenesie tessute
fan di lor copia ed intrecciate e scinte;
altre son naturali, altre son tinte,
altre corte, altre lunghe, altre ricciute.
Quel che non fe’ natura inventa l’arte,
dando alle sete color vari e belli;
maestre mani in trasformar capelli
stravaganti chimere ai crini han sparte.
Varie di piú color ferman lo sguardo,
aggravando col peso or l’altrui fronte,
che di sudor fan che distilli un fonte,
quando che in capricorno il Sol vien tardo.
Or d’un villan gli scarmigliati crini,
che pendendo da un legno ei diede al vento,
pria sotto a’ piedi vili, indi ornamento
d’illustre capo han riverenti inchini.
Industria mercantil, chiome europee,
rubate a morti e da languenti accolte,
son divenute in molte fogge e in molte
pompe alle fronti nobili e plebee.
Diviso un monte altri ne forma e innalza
novel Vesuvio, e se non par ch’allumi,
pur di superbia all’aria esala i fumi,
da cui discende al sen gemina balza.
Due ciocche acute avvien ch’altri riporte
sul capo, qual portò raggi lucenti
quel grand’ebreo ch’in adoprar portenti
diede altrui con la verga or vita or morte.
Ché s’in mano ei non tien verga fatale,
fanciullesco spadin gli pende al fianco,
ch’ora da lussi effeminato e stanco
l’annoia arma pesante e a trar non vale.
Giá composte le chiome in tante guise
dal mondo alla vecchiezza han dato il bando,
tornata in gioventú, né si sa il quando,
ch’al figlio Enea somiglia il padre Anchise.
Or temerario il pelo invano insulta,
col rinovar l’uscita, il volto antico,
ché lo sgombra da sé qual rio nimico;
nïun si vede piú d’etade adulta.
S’ammira altri bensí d’etade annosa,
che siede in primo loco egli fra i matti,
giovane in apparenza e vecchio in fatti,
ch’imperruccato ha la canizie ascosa.
Dal mento grinzo il bianco pel reciso,
rasa ben la lanugine canuta,
ha faccia giovanil, ma non creduta
per tante crespe che dimostra al viso.
Vuol l’amata ingannar con tal menzogna
in mentir chioma, in falseggiar sembiante;
ma non mai donna amò rugoso amante,
e d’esser rïamato egli si sogna.
Al rinascer del pel non ha riparo,
vero appalesator di sue bugie;
onde per occultar le sue follie
spesso vi fa adoprar rodente acciaro.
Ingannato al pensier mentre folleggia,
smarrito del discorso il buon governo,
si rende a tutti e passatempo e scherno;
vaneggia ognor, né sa ch’egli vaneggia.
Posta in oblio la gravitá spagnuola,
l’uso di nere vesti oggi è abborrito,
ch’a piú colori sciamberghin fiorito
il pregio maestoso a quelle invola.
Gli abiti colorati e da campagna
mostran che i cittadin sien forestieri,
o che voglian segnar lunghi sentieri
per veder curïosi Italia o Spagna.
Onde di vesti baldestanie cinti,
brandisse, brandeborghe e patalette,
di bollanchine e di sciamberghe elette,
son da ventosa bizzarria sospinti.
Par che perda d’onor, manchi a se stesso
chi per capricci have il cervel non sodo,
se la moda che s’usa e senza modo
non usa e qual monton non vada appresso.
Scemo cosí farnetico delira,
idea del bello alla sua idea si pinge;
credesi un altro, un semidio si finge,
e a vertigin di smanie il capo ei gira.
Menin, cui Febo diè penna erudita,
la mia giá è stanca; a scriver tu ripiglia
gli altri eccessi, a stupir la meraviglia,
che lasciai, di Partenope impazzita.
La tua man valorosa indi a lei porgi,
ch’espugna i morbi e d’Esculapio ha i vanti.
Ma che? per far che torni il senno a tanti
non bastan cento rote e cento Giorgi!