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LEZIONI
Per il testo di tutte le lezioni ci siamo serviti, come s’è detto, del controllo diretto dei giornali La Libertà, Il Pungolo e L’Era Novella1. Quanto alle lezioni IX-XIII, pervenuteci nel duplice resoconto dei due ultimi quotidiani, abbiamo optato per il testo del Pungolo (Torraca), in certo senso autorizzato dallo stesso De S.2 e generalmente più soddisfacente dell’altro sia per la ricchezza del materiale che per il rigore e la correttezza dell’esposizione3. Senonché la constatazione generale di una maggiore concisione degli appunti dell’Era Novella, è passibile di alcune eccezioni. A parte la registrazione più frequente di certi movimenti colloquiali («Ed abbiamo visto pure», «Io vi dirò in breve», «E voi vedete quel che accade», «essi, l’indovinate, sono», ecc.; fino alla trascrizione sistematica del vocativo «signori», costantemente omesso dal Torraca), è possibile anche rinvenire nel testo dell’ignoto uditore alcuni elementi sostanzialmente integrativi del discorso fornito dal Torraca. Complessivamente si può notare che questi elementi, piuttosto scarsi nelle lezioni IX-XI, spesseggiano nelle altre due, tanto da collocare il testo dell’Era Novella quasi alla pari, per compiutezza se non per rigore, col testo del Pungolo. Perciò noi ci siamo decisi a riportare nell’apparato critico il testo integrale di quei resoconti, anche per mettere il lettore in grado di farsi un’idea più esatta dei due intercettatori.
Nei confronti del testo dei giornali, folto di locuzioni familiari e molto spesso approssimativo nella sua estemporaneità (ma non privo di una sua fresca suggestione, proprio in grazia di quella forma mossa e colorita e delle sue forti sprezzature, così congeniali al De S. oltre la stessa tirannia dell’improvvisazione4), abbiamo cercato di mantenerci il più possibile fedeli, ritoccando solo quei passi che risultavano oscuri o senz’altro corrotti. Anche per quanto riguarda la punteggiatura siamo intervenuti con nostri ritocchi solo in quei casi in cui lo richiedeva la chiarezza del discorso, rispettando in generale la sobrietà dei giornali, anche in questo vicina ai modi originali della scrittura desanctisiana. Per i titoli delle opere e per le citazioni abbiamo conservato, come s’è già fatto per i saggi, la lezione dei giornali, salvo nei casi in cui ci è sorto il sospetto che la deformazione fosse da attribuirsi ad errore di trascrizione degli uditori o, più probabilmente, ad errore di lettura dei tipografi. Un discorso a parte meritano tuttavia le cicitazioni dai Promessi Sposi contenute nelle lezioni XIV-XV (Era Novella). Qui, in conformità con le predilezioni manifestate dal De S. negli ultimi due saggi e nelle stesse lezioni raccolte dal Torraca, abbiamo puntualmente ricondotto le citazioni del romanzo, riferite dall’ignoto uditore nella lezione del ’42, alla lezione del ’27. Ne è venuto cosí un testo radicalmente diverso da quello fornito a loro tempo dal Croce (Cr) e dal Gentile (Ge), preoccupati essenzialmente di offrire una versione più stringata e meno provvisoria dei vari resoconti. Senonché, se da un lato le correzioni crociane e gentiliane si risolvevano nell’elaborazione di un testo formalmente più rigoroso, dall’altro lato esse tendevano ad attenuare la fresca vivacità del discorso desanctisiano, riconducendolo a un modello di prosa letterariamente più sostenuto (con una conseguente moltiplicazione dei segni d’interpunzione, nel senso già indicato a proposito dei Saggi). Diamo qui alcuni esempi di tali correzioni dirette a «purgare» l’espressione presumibilmente desanctisiana:
Questo lavoro di smussamento veniva a coinvolgere talvolta alcuni giudizi e definizioni, ritenuti evidentemente troppo bruschi per un discorso scritto:
Rientrano naturalmente in questo discorso alcune omissioni di frasi o di interi periodi: p. 119 rr. 5-6: «i papi già avean cominciato a scomunicare» (mancante in Cr e quindi in Ge); p. 138 rr. 13-14: «Senza che si possa dire che dall’immaginazione del Manzoni sia sorto un uomo o una donna» (mancante in Cr e quindi in Ge); p. 180 rr. 7-8: «componendo egli pensa ai fischi del parterre» (mancante in Cr e quindi in Ge); ecc. La libertà d’azione dei due editori si estendeva infine sino alla possibilità di rettifiche storiche alle affermazioni del giornale: p. 126 rr. 34-36: «un’intera storia - la quale poi il Sestini diluì in una novella, prima che Manzoni concepisse la sua Ermengarda», Cr: «storia che il Sestini diluì ecc., nel tempo stesso che Manzoni concepiva la sua Ermengarda»; p. 178 r. 8: «i limiti messi all’arte da Aristotele», Cr (e Ge): «i limiti messi all’arte dagl’interpreti di Aristotele»; p. 214 r. 16: «gli Austriaci dominavano a Napoli e a Torino», Cr: «gli austriaci intervennero a Napoli e a Torino»; ecc. Queste ed altre libertà comportavano i criteri editoriali del Croce e del Gentile, e la nostra esemplificazione potrebbe estendersi ancora per lungo tratto. Ma prima di dedurne troppo severe censure di «infedeltà» o di «tendenziosità», bisogna riflettere sul tempo in cui quelle edizioni vennero pubblicate: quando cioè il De S. rappresentava un autore ancora da rivalutare o comunque da disseppellire, piuttosto che un classico da restituire alla sua più genuina e sia pur confidenziale realtà. E del resto già l’edizione Gentile del 1922 conteneva tutti i materiali manzoniani del De S. allora reperibili.
Di una quasi totale aderenza al testo dei giornali si può parlare invece per il Cortese (Co), sia riguardo alle lezioni desunte dal Pungolo e pubblicate nel primo volume della Letteratura italiana nel secolo decimonono, sia per le lezioni recuperate posteriormente dalla Libertà e pubblicate nella Poesia cavalleresca. Ma nelle edizioni del Cortese, ai pregi di una maggiore aderenza ai testi originali non sempre corrisponde un’adeguata correttezza testuale. Ci limitiamo qui a elencare alcuni evidenti errori di quelle edizioni:
A un criterio di completa aderenza alle forme dei giornali, salvo «pochi indispensabili ritocchi», s’ispira invece l’edizione di Muscetta e Puccini (MP), essenzialmente convinti della correttezza dei resoconti, comprovata anche da alcuni errata-corrige inseriti nei giornali dove le lezioni venivano pubblicate (op. cit., p. LXXV). Ma non sempre questo criterio, che senz’altro condividiamo, ci pare sia stato applicato con la dovuta opportunità. In più luoghi infatti quell’aderenza ai giornali si risolve in una pura riproduzione diplomatica di essi, laddove un sia pur cauto intervento critico si rendeva necessario per la chiarezza o addirittura per la correttezza del testo. Citiamo alcuni esempi di lezioni scorrette od oscure dei giornali (R), riprodotte da MP:
Segnaliamo infine alcuni errori dell’edizione MP:
Crediamo così di aver dato un’idea del lavoro compiuto dagli editori che ci hanno preceduto. Quanto di quel lavoro ci è parso valido agli effetti di una giusta lettura del testo, abbiamo cercato di utilizzarlo nelle nostre correzioni, riferendo di volta in volta tra parentesi la sigla dell’editore a cui eravamo debitori del suggerimento.
Avvertiamo qui che nel testo, per comodità del lettore, abbiamo posto sotto l’indicazione numerica di ciascuna lezione un sottotitolo in parentesi, indicante l’argomento.
Lezione I. [Il Romanticismo e gli a Inni sacri»]. — Il resoconto di questa lezione fu pubblicato, come s’è detto, oltre che da La Libertà, anche dall’Unità Nazionale, in un articolo a firma di F. F., preceduto da alcune considerazioni generali. Ne riferiamo qui il testo per intero, a titolo di documento.
Io non avevo mai udito il De Sanctis, ma un’antica rimembranza della mia fanciullezza mi durava ancora nella mente. In quella età avevo udito a parlar di lui, giovane, che insegnava a giovani, suoi amici, più che discepoli, che lavorava con essi, e che al culto dell’arte, rifatta dalla sua potente critica, accoppiava il culto della patria, di questa Italia, che ora ci vive dinnanzi, e che allora era un ideale di giovani scolari. Quanta poesia in questa rimembranza!
Si figuri adunque il lettore, con qual animo io sia andato ad udirne la prima lezione! Molti forse ci erano venuti, indotti dallo stesso sentimento; alcuni ancora, memori del De Sanctis di altra volta, di meglio che venti anni fa. Questi ultimi avranno potuto raffrontare il De Sanctis di ieri col De Sanctis del 1848: a me è paruta, che calore e vita il De Sanctis ce ne avesse, quanta poteva averne nei suoi più belli anni; checché egli dica dell’inutile sforzo che ha fatto di ricreare se stesso. La generazione che gli stava attorno, era piuttosto cangiata; ed egli se n’è accorto. La poesia dei sogni e delle speranze era più bella della realtà: l’indefinito sentimento che suscita l’ideale ha più pregio assai della vita, quantunque questa possa essere somigliante al sogno vagheggiato. Il desiderio appagato non vale il tormento soave della speranza; gli ostacoli superati non aguzzano più l’ingegno, mancando la lotta che ingagliardisce e solleva lo spirito. Posto ancora che il De Sanctis sia tornato lo stesso, con tutta la fiducia ch’egli ha di rinnovellare quello stretto e volenteroso drappello, che lo circondava altra volta, noi dubitiamo forte della riuscita. La politica, che allora sospingeva i giovani allo studio delle lettere, nelle quali sole si era ricoverato il santo amor d’Italia, oggidì ne li allontana, e li sparpaglia nelle piazze, nei ritrovi, dove si trova più facile sfogo ai mal concepiti disegni. Quando l’amor d’Italia era un pericolo, esso poteva essere un Ideale: oggidì, ch’è per moltissimi un traffico, può essere soltanto pretesto ad ambizioni premature.Ma questo è l’esordio: torniamo al professore.
Sua intenzione è di raffrontare le letterature di Europa nel secolo presente.
Come comincia l’arte nel secolo decimonono? Il professore ha delineato prima, ed ha fatto benissimo, come l’arte sia finita nel secolo decimottavo. Dal contrasto delle due età si raccoglie più preciso il significato dell’una e dell’altra.
Che cosa voleva il secolo passato? Restituire all’uomo la naturale libertà, i diritti sortiti da natura, e manomessi dalla Società. Fu una riscossa contro le istituzioni sociali tutte quante. Alla fede fu contrapposta la ragione, ai privilegi delle classi la eguaglianza, al dritto divino ed alla legittimità la sovranità popolare. Questa negazione recisa di tutta la società esistente era il contenuto di quella letteratura, la quale il De Sanctis disse « letteratura che aveva per ideale la natura, e la negazione del cielo ».
Ma questo contenuto, effetto dell’astrazione degli Enciclopedisti, contrastava con la forma: non era un ideale nato dalla vita di un popolo, ma anzi ad essa opposto, ed elaborato dalla speculazione filosofica. Il Rousseau compendiò questa contraddizione in quel celebre motto: l’uomo per natura è libero, ed intanto si trova schiavo da per tutto. Onde l’arte, ad incarnare quel concetto, dovette mutuare la forma dalla società stessa, da quella società che essa negava: la forma togata contraddiceva palpabilmente al contenuto democratico; nella stessa guisa, che fa risibile figura oggidì un tribuno titolato, un democratico col blasone; un Bruto commendatore, come direbbe il Giusti.
Tal è il difetto dei nostri tre grandi poeti di quell’età, dell’Alfieri, del Foscolo, del Parini. Con un acconcio raffronto tra il Timoleone dell’Alfieri ed il Farinata di Dante, mostrò il De Sanctis il divario fra l’ideale vero, maturato nella coscienza di un popolo, e rilevato dall’artista, ed il concetto meramente astratto, concepito nella solitudine, e quindi falso ed esagerato. Il Farinata vive, sente l’ira, s’infiamma alla vista del figlio del suo nemico, e quando dice: « Ciò mi tormenta più che questo letto », noi crediamo alla veracità della sua rabbia. Il Timoleone. di Alfieri, invece, si sdegna a freddo, e declamando in cinque atti interi non ci commuove. Noi vediamo non Timoleone, ma una finzione dell’Alfieri, sotto i nostri occhi.
Questa differenza tra l’Ideale ed un’idea, il De Sanctis l’ha fatta toccare poi con mano: l’ideale non è un concetto astratto, ma tutta quanta la persona, in una situazione reale, e storica. Nell’analisi dell’Ideale il critico napoletano ci ha fatto ricordare la stupenda teorica dell’Hegel.
Al secolo decimottavo, che si chiudeva in Italia coi Sepolcri del Foscolo, si pone di rincontro il decimonono, che n’è l’antitesi. Il secolo precedente era la negazione del cielo; e non solo la negazione, ma l’odio, ch’è però qualcosa dippiù, che non già la mera indifferenza, che regnava prima: il secolo decimonono comincia con la fede nel Cielo, con gl’Inni sacri.
Che cosa era avvenuto? Alla rivoluzione sociale ed artistica del secolo precedente era succeduta la rivincita. Il secolo decimonono da vincitore si mette sotto i piedi il secolo vinto: alla Dea Ragione contrappone la Santa Fede; alla Rivoluzione la Santa Alleanza; nell’arte similmente alla forma classica, presa in accatto, a vestire il contenuto democratico, si cercò di sostituire una forma nuova, e nacque il Romanticismo.
Senonché, questa forma nuova nacque con altri auspicii in Germania, che in Italia, ed in Francia. Le ragioni stanno nell’indole diversa degli anzidetti popoli.
In Germania il Romanticismo era nato non da una riscossa, ma dalle tradizioni stesse di quella nazione, senza bisogno di distruggere nulla Al contrario anzi la corte di Federico di Prussia teneva per la letteratura francese, e contro a questa appunto, ch’era letteratura aulica, si rivolse la letteratura nazionale con Klopstock, Schiller, e Goethe. La Germania, per trovare questo nuovo Ideale, non dovette negare il passato, anzi lo cercò in esso: lo cercò nelle sue imprese guerriere, nella sua Riforma religiosa; nelle sue lotte col Papato. Inoltre la razza germanica aveva disposizioni di spirito affatto diverse dalle razze latine, ed il Romanticismo si sviluppò quivi con le tre qualità che lo costituiscono, con l’intimità, la malinconia, e l’umore; senza sforzo, e senza imitazione.
Lo sviluppo di questi tre caratteri ci dà la chiave del Romanticismo germanico. L’intimità consiste nel restringersi nella breve cerchia della sua vita domestica, nella propria casa, nell’orto attiguo, lontani dal mondo, rinchiusi in se stessi. Questa disposizione non l’abbiamo certo noi meridionali, che sentiamo il bisogno di espanderci nella vita esteriore della società; onde a noi il Romanticismo venne trasformato, e doveva venire così.
Dal breve mondo, che Goethe con ragione chiamava Regno delle ombre, non si perde d’occhio però la natura, e la società: si contempla ancora, ma non qual’è in sé, sí veramente riflessa attraverso delle nostre subbiettive disposizioni. Questa natura e questa società si assottigliano, si fanno impalpabili, vaporose, e noi vi ci tuffiamo dentro, godiamo di abitarvi, e le preferiamo alla vita ed alla società reale. Questo secondo stato è propriamente la malinconia germanica, o romantica, assai disforme da quella tristezza proveniente da cagioni reali, alla quale d’ordinario sogliamo applicare lo stesso nome. Quando infine ci accorgiamo, che quelle forme eteree si sfioccano, e si dissolvono,- e che con loro va via quel soave incanto, in cui eravamo immersi, allora succede l’umore, che i francesi convertono nello spirito, ma che n’è assai differente. L’Heine è il più stupendo modello di questo ultimo momento del Romanticismo germanico.
Ora coteste tre disposizioni i popoli latini non l’hanno, e quando la Staël fece conoscere nella rimanente Europa la letteratura tedesca col suo libro su l’Alemagna, gli animi predisposti già contro la forma classica, che mal rivestiva il nuovo ideale, si volsero a quella forma, e si studiarono di appropriarsela.
In Italia c’era un giovane a venti anni, educato a Milano nella scuola classica, ben veduto dalSenza parlare per ora della forma romantica di Vittor Hugo in Francia, e del Leopardi in Italia, il professore si ferma alquanto nell’esame della prima forma manzoniana, di quella degl’Inni. Non più la forma plastica, modellata su quella del Monti, che si trova nei versi a Carlo Imbonati, e nella Uranio; ma un’ispirazione più intima si trova negl’Inni. Il cielo vi riappare, il cielo tanto detestato dalla letteratura del secolo precedente; ma non il cielo, qual era prima, quello che faceva causa comune con gli aristocratici, ma un cielo democratico. Il Dio di Manzoni non si trova nelle vegliate porte dei potenti, ma nelle umili case dei pastori; non si occupa dei re, dei grandi della terra, ma degli afflitti, degli orfani, delle vedove; e nel suo dolore non dimentica nessuno dei figli di Eva.
Il lato sovrannaturale del suo Dio non infiamma il poeta: l’adempimento puntuale delle profezie è appena accennato; la caduta dell’uomo e l’opera misteriosa della redenzione sono chiarite con un paragone: paragone che tutti ricordano, mentre forse pochi sapranno a mente la sostanza del paragone. Ora spiegare il sovrannaturale è negarlo. Il corteggio degli angeli è fatto sensibile con le onde sonore, e l’eco della musica, che rimane pur quando essi tornano al firmamento.
Questa è la parte mortale degl’Inni sacri; ma chi dimenticherà le sventure dipinte nell’inno alla Vergine, e che questa è destinata a consolare? A chi non pare di vedere la vedovella, il viandante, il navigante, il fanciulletto ricorrere a lei, raccomandarsegli, e lei accogliere tutti sotto il suo patrocinio? Questa tendenza ad un ideale democratico è la parte immortale degli Inni manzoniani. Più tardi questo artista, messo in contatto con la vita reale, con Bonaparte morto a Sant’Elena, e con la ricca varietà dei casi di Renzo e di Lucia,- vi darà il Cinque Maggio ed i Promessi Sposi. Ecco le linee principali della lezione del De Sanctis; linee senza colorito, e senza calore. Il lettore immagini queste idee vestite dalla parola dell’eloquente critico, e comprenderà l’impressione, che ha dovuto risvegliare.
Il resoconto de La Libertà è preceduto da questa dicitura: «Dopo poche parole ai giovani che l’applaudivano, l’illustre prof, avantieri parlò presso a poco così». Ma da una notizia di cronaca dell’Unità Nazionale del 30 gennaio sappiamo che il De S. aveva esordito con queste parole: «Voi mi fate un’accoglienza di memoria; voi cercate in me il De Sanctis di venti anni fa, ed io cerco pure di trovare me stesso dopo tanti casi corsi, dopo tante lotte, tante speranze, tanti avvenimenti»; ed aveva conchiuso la lezione con questa dichiarazione (riferita in altro modo dal Torraca): «Ora dicono che io sia diventato positivo. Ebbene! Voglio darvi un consiglio positivo, ed è d’incitarvi allo studio».
Diamo ora un elenco delle correzioni che abbiamo apportato a testo del giornale (R), escludendo naturalmente gli errori di stampa più facilmente individuabili;
Lezione II. [L’ideale religioso degl’Inni» - Adelchi]. — In nota alla prima puntata di questa lezione (La Libertà del 7 febbraio) si legge la seguente avvertenza: «Questo non è che un riassunto della lezione, come si è potuto raccogliere, mentre il Prof, parlava». Ma prima di passare all’argomento della lezione il De S. aveva esposto ai giovani i suoi intendimenti circa la «scuola» che voleva formare, come risulta da una notizia di cronaca de La Libertà del 1 febbraio (in cui si precisava che «circa sessanta giovani» si erano iscritti) e dal citato Libro della scuola (cfr. qui addietro, p. 347).
Lezione III. [Ermengarda]. — Correzioni al giornale:
Lezione IV. [Il «Cinque Maggio»]. — Correzioni al giornale:
Lezione V. [La tragedia alfieriana e la tragedia manzoniana «Il Conte di Carmagnola»]. — Correzioni al giornale:
Lezione VII. [Il sentimento nazionale e il Coro del «Carmagnola»]. — Correzioni al giornale:
Lezione VIII. [Storia e ideale nell’«Adelchi» - Il disegno dei «Promessi Sposi»]. — Correzioni al giornale:
Lezione IX. [La poetica di Manzoni]. — Correzioni al giornale:
Riferiamo ora il resoconto di questa lezione nella redazione pubblicata sull’Era Novella del 9-10 aprile 1872 (avvertendo che ci siamo limitati a correggere solo gli evidenti errori tipografici).
Dopo l’Adelchi ed il Conte di Carmagnola non si parlava più di quella grande attività che si chiama Manzoni. Quando spuntavano Niccolini, Guerrazzi, Mamiani ed altri illustri ingegni, Manzoni pareva finito.
Ma vi fu qualcuno che disse: «Manzoni va studiando una storia del XVI [sic] secolo».La poetica del Manzoni non fu una poetica nuova del tutto, e noi la riassumeremo per poter poi ben apprezzare il suo lavoro, i Promessi Sposi.
Manzoni non crede che tutta l’esistenza sia poetica. Egli crede che vi sia un mondo poetico ch’è il mondo morale, religioso, e questo è l’ideale o il mondo dell’idea, in contrapposto del mondo reale che è il mondo della storia.
Questa credenza è l’origine de’ suoi pregi e de’ suoi difetti.
Quando volgarmente si dice che un tale ha molta poesia, si vuol dire ch’egli aspira ad un mondo superiore e che ha il sentimento del bello; e si dice pure che quel tale ha un carattere poetico, ossia che vive fuori del mondo volgare. Ed in quel tempo erano molto in voga certe parole, il vero, il bello, ed il buono, parole magiche. Ebbene, il Manzoni che vive in quell’ambiente e che non può sottrarsi a quelle idee, immagina che vi sia un mondo del vero del bello e del buono, e che tutto ciò sia fuori del mondo della storia che è il mondo positivo, e che non è la poesia.
Queste idee del Manzoni non sono idee originali; egli segue con queste idee la corrente del secolo.
Queste idee sono sviluppate ne’ suoi discorsi; e quando egli, cessato d’essere artista diventò critico, produsse un’opera ch’è il Dialogo sull’invenzione.
Gli è da questi documenti clic noi deduciamo la sua poetica.
Ora è evidente che la poetica del Manzoni si accosta alla forma inglese ed alla forma tedesca, piuttostochè all’italiana, rappresentata dal Foscolo e dall’Alfieri. E da ciò si potrebbe dedurre che il Manzoni dovrebbe avere nel suo stile qualche cosa di tedesco o d’inglese. Ma no: egli è severamente italiano, e si vede in lui l’uomo che ò stato a Parigi. É italiano ed educato con Gravina con Aristotile ec., e vi aggiunge quel brio che è tolto all’ambiente francese, e con questa forma esprime teorie inglesi e tedesche.
Con tutto ciò Manzoni è originale.
Il suo mondo morale e reale non è il mondo di Goethe e di Shakespeare, mondo prodotto dallo spirito, modificato dalla immaginazione. Egli sostiene che il bello, il vero e il buono non sono prodotti dell’immaginazione, ma che hanno un valore reale ed obbiettivo; e questo concreto è la religione, è la storia dell’uomo nella redenzione, nella risurrezione delle anime nell’altro mondo, è la sostanza degl’inni, è il suo mondo dell’arte realizzato nella storia. L’eroico, a differenza dell’eroico antico, sta nell’abbassamento della personalitá, riconoscendo che tutto che v’ha di buono non si deve ascrivere a proprio merito, ma del creatore. In questo abbassamento della persona, nella preghiera, nella rassegnazione quando si è colpiti dalle sventure, nel perdono, anzi nell’amore de’ nostri nemici ed offensori, nel sacrificarsi per la giustizia anche a prezzo della vita, nell’umiltá, risorgono tutti i caratteri del Manzoni. Ed è questo il suo mondo.
Or questo eroico del Manzoni non può essere uno stato ordinario dell’uomo, poiché per poterlo forzare a castigare la propria natura si richiede uno sforzo, ed in questo stato dell’animo si ha l’estasi, nella quale si sente l’anticipazione del mondo futuro. Ond’è che il carattere proprio di questo mondo del Manzoni è da una parte l’eroico, e dall’altra il lirico.
Or finché il Manzoni per realizzare quest’ideale ha innanzi a sé una storia divina, va bene.
Ma il grande problema che egli si propone è di realizzare quest’ideale nella storia umana, nel suo romanzo; nel quale egli si pone col suo ideale di rincontro al mondo positivo, al vero storico, al vero reale. Che cosa farà il Manzoni?
Mescolerà questi due mondi?
Questo sarebbe per Manzoni una profanazione, e s’egli fa un appunto all’Alfieri, è quello di non aver rispettato il reale; egli ha grande rispetto per questo mondo positivo, ha grande rispetto per questo mondo divino.
Ma in che modo dunque questo divino sarà realizzato senza adulterare l’idea positiva?
Manzoni comincia dal dichiarare che il reale appartiene alla storia totalmente, e che però quando l’uomo contempla l’ideale è artista, ed è storico quando studia il reale. Egli dunque pone una linea di divisione fra l’un mondo e l’altro; sono come due linee che corrono parallelamente senza mai incontrarsi. A questo modo adunque considerati il vero positivo e l’ideale, non vi si scorge più fra di loro legame, che renda possibile la compenetrazione di questi due mondi.
La storia ha un certo suo corso immutabile. Incomincia ad essere cronaca, ch’è esposizione nuda de’ fatti; e poi diventa storia, che è il fatto spiritualizzato; e poi viene la critica storica, ch’è indagine sulla verità del fatto; e poi segue la filosofia storica che spiega i fatti in relazione con i costumi e con le leggi, e finalmente la filosofia della storia che li riannoda ad una causa comune o suprema.
Fin qui per Manzoni non c’è l’arte.
E qui per Manzoni si pone la quistione: l’arte può mai rappresentareil positivo? Per lui l’arte entra nella storia.
Nella storia del Colletta e del Botta l’arte ci è, ma come qualche cosa che falsifica la storia. Essi mettono in bocca a’ loro personaggi discorsi immaginati, e questo non è dello storico positivo. Diciamo pure che questo è positivo, ma non è tutto positivo, perché gli è far della rettorica, ed il lettore dice: è qualche cosa che poterono fare e pensare, ma non è certo se sia vero.
Or bene per Manzoni, o signori, l’arte riempie questa lacuna quando illustra la storia, perché qui il compito dell’arte è di rappresentare il possibile della storia. Per lui il poeta può procedere per via d’indizii, mettere in bocca a’ suoi personaggi parole non reali ma probabili, sebbene non giustificabili con cronaca. Ed è così che il poeta ci dà la storia integrata.
Questa, o signori, é la teorica del Manzoni. È conseguenza legittima del già discorso, che allorquando Manzoni concepisce il vero storico, cerca servirsi dell’arte per dimostrare la storia.
Ed a questo proposito accenneremo quello che già altre volte abbiam detto a proposito delle tragedie del Manzoni.
Che cos’è il Carmagnola?. È la riabilitazione del Carmagnola. A Manzoni parve che dal complesso della storia la figura del Carmagnola sorgesse innocente dell’onta che gli gravava, e fece quella tragedia. E quando faceva l’Adelchi, egli vedeva già che sotto il sostrato de’ Longobardi v’era un popolo latino che palpitava; ed egli con l’Adelchi rettificò un concetto storico, illustrandolo. È chiaro, o signori, che l’arte qui diviene la mezzana della storia, ed il poeta se ne serve per provare una storica verità.
E da qui Manzoni vi prova che la poesia nel fatto è stata storica. Egli prende l’Iliade, Eschilo, i poemi cavallereschi, e dimostra che il fondamento di questa poesia è storico. Omero è rappresentazione di un cumulo di fatti storici; che ora nella nebulosità di tanti secoli sembrano favole. La lirica di Pindaro ha il sostrato storico; è la storia familiare glorificata, come quella di Omero è la glorificazione della storia nazionale. Il cantastorie medioevale, l’Ariosto, parlano della cronaca di Turpino e vogliono darci a credere che ò vero tutto quello che dicono. Però Manzoni dice che la poesia è storica originariamente. Ma poscia a quel sentimento primordiale si sostituisce il fittizio; l’immaginazione si distacca dalia realtà, esempio Virgilio, che non è puro come Omero. Ricordiamo l’Arcadia che lavorava con l’immaginazione, perduto il senso del morale e del reale; ed i poeti del XVIII secolo che non hanno potuto liberarsi dal convenzionale, perché hanno fatto lavoro di fantasia, maltrattando la storia. Ecco, o signori, la ragione del Manzoni per dimostrare che l’arte è il rispetto del reale.
Ma volendo il Manzoni mantenere la realtà storica, e non avendo potuto far entrare il suo ideale in quella e farla vivente, immaginò personaggi totalmente ideali come il Marco nel Carmagnola e l’Adelchi. Di tal che il suo ideale è un ideale negativo, sopraffatto e vinto dal mondo positivo; non penetra nel reale, e quindi non è nella sua condizione ordinaria: ideale negativo che non ha potenza di estrinsecarsi, e che però rimane lirico. Questa lirica viene dalla contradizione che nasce nell’uomo che ha in sé il tipo, che aspira al migliore, e che è circondato dal mondo pessimo, e non ha la forza di lottare con esso; ed è il sentimento di questa contradizione che erompe nell’accento lirico, che sono i suoi cori — come quando egli vede il mondo latino
vulgo disperso che nome non ha. |
Dunque l’ideale del Manzoni è ideale negativo, ideale impotente, perché questo sta da una parte, e la storia sta dall’altra.
Nello Schiller vediamo l’ideale incarnato nell’individuo, come nel Marchese di Posa che l’estrinseca anche a forza del martirio: ma l’Adelchi finisce impotentemente nella lirica.
In questa teoria del Manzoni c’è del vero e c’è dell’esagerato.
C’è del vero, e questo è il bisogno del positivo e del reale. Allorquando l’immaginazione ha lavorato sola fuori del positivo ed ha creato la grande poesia, e quando essa è giunta fino all’abuso, allora si sente il bisogno di andare appresso a sentimenti più sani; ed è il Manzoni che sente quel bisogno ed ubbidisce a quel sentimento, quando nutre quel rispetto pel positivo. E ci è un altro utile nella teoria del Manzoni, e quest’utile si scorge quando si consideri che il poeta debbe avere anch’egli la sua educazione. Non basta leggero Omero ccl altri classici per divenir poeta, bisogna educarsi ad un’altra ginnastica. Ed al tempo del Manzoni í poeti lavoravano d’immaginazione su di altre poesie; Monti, Alfieri, Foscolo lavoravano sovra un repertorio greco, ed anche italiano.
Ora il Manzoni richiama l’attenzione al positivo, ed a questa ginnastica vuol educare l’ingegno. Egli vi dice: non studiate gli uomini in Omero o in Dante, ma nella storia.
Ed il sostituire la natura e l’uomo della storia alla pura immaginazione, era il rinnovare il mondo poetico, era un progresso.
Dallo studio della storia nasce quella misura, oltre la quale v’è l’esagerato. Il Jacopo Ortis è un bel lavoro, ma ebbe plauso fugace, e di occasione, perché ha difetto nella misura: ivi tutto è oltrepassato.
Saper dunque trovare il limite del reale nel più accurato studio della storia è l’altro frutto benefico della teoria del Manzoni.
Ma, o signori, essa ha del falso, e questo è l’esagerazione.
Manzoni ha confuso la parola positivo con la parola reale.
Il reale è un concetto superiore all’ideale ed al positivo. Una cosa può essere avvenuta e può non essere reale artisticamente, come l’insignificante etc.; ed al contrario una cosa può non essere avvenuta e può essere reale artisticamente se lo spirito le ha dato potentemente una forma. Con ciò Manzoni si è creato una difficoltà, ed il risultato ottenuto da lui fu diverso da quello che si proponeva. Egli cercava nella tragedia servigi dell’arte per illustrar la storia, e non c’è riuscito, ed ha raggiunto invece l’ideale che non poté penetrare nel mondo storico separato da esso; quell’ideale che brilla nei tratti lirici, nei cori, ond’è che tutto il resto rimane senza interesse, e come materiale bruto.
Manzoni si pone a fare il romanzo storico sepellito nelle cronache del XVI secolo, ma non cangia la sua poetica; egli è ostinato a rappresentare il mondo positivo, e si serve dell’arte per illustrare la storia del secolo XVI. Questo concetto, o signori, è stato espresso dallo stesso Manzoni.
Manzoni pubblicò i Promessi Sposi, e che cosa ne venne? Avvenne che ciò che doveva essere mezzo, diventò scopo, e quello che doveva essere scopo diventò un materiale storico.
Egli non si rallegrò quando vide che il mondo cercava il suo romanzo non per leggere la cronaca, ma per ammirare i tipi del Padre Cristofaro e della Lucia, e si armò della critica, richiamò a novello esame il suo romanzo e pubblicò il discorso sul Romanticismo in Italia.
Manzoni ebbe torto quando disse il suo romanzo un giorno essere destinato all’obblio. Come critico egli riprova quello che il pubblico approva, dicendo che il suo romanzo è sbagliato, perché il fine non è raggiunto, e non lo ha raggiunto perché assurdo, perché avendo distinto il reale dall’ideale, mancava d’unità, e perché egli aveva tentato di fonderli ed aveva sbagliato.
Se la storia è stata il suo fine, se la storia è l’idea principale del romanzo, il Manzoni ha ragione; ma se al contrario la storia è semplice materiale senza significato per noi, se quello che era accessorio è principale, allora è evidente, o signori, che Manzoni ha torto.
E quando noi diciamo che Manzoni ha torto come critico, noi rendiamo omaggio al suo merito.
Lezione X. [La «Morale Cattolica» e i «Promessi Sposi»]. — Correzioni al giornale:
Ecco il resoconto di questa lezione nella redazione pubblicata sull’Era Novella del 18-19 aprile 1872:
Signori,
Manzoni ora lascia il dramma per il mondo storico che è il secolo XVI, e sono le stesse le idee con le quali fece gl’inni e le tragedie, e quelle ch’egli vagheggia quando scrive il romanzo. Che cosa infatti vuol fare il Manzoni se non superare la medesima difficoltà, ch’egli voleva superare nel dramma, servirsi cioè dell’ideale per illustrare il secolo XVI? Noi dunque innanzi tutto esamineremo qual è questo ideale che Manzoni vuol rendere drammatico nel suo romanzo, e come lo ha ottenuto.
Il mondo ideale del Manzoni nel romanzo de’ Promessi Sposi è quello istesso che, quand’egli più tardi di artista divenne critico, espose nella Morale Cattolica. In essa vi è il germe delle concezioni e delle situazioni del suo romanzo, con la differenza che in essa voi vedete come ragione quello che nel romanzo è rappresentato come azione e come passione.
Cos’è dunque quell’ideale?
Dopo il 1821 quando i liberali furono sconfitti, ed il dispotismo appoggiato alle baionette austriache riprese il dominio che aveva perduto sull’Italia, quel partito si sciolse, ed alcuni andarono nella Svizzera come il Sismondi, il quale romantico come Manzoni, scriveva egli pure nel Conciliatore, sostenendo le medesime dottrine di lui. Il Sismondi dunque andato a Ginevra portò nel suo cuore il culto e l’amore d’Italia, che gliene dovrebbe esser grata. Quivi egli scrisse la Storia delle repubbliche italiane. Lo scopo di questa storia è di dimostrare che le istituzioni politiche non sono indifferenti a formare il carattere nazionale, e che però se l’Italia fu potente nel medio evo, lo fu perché le istituzioni politiche le erano a seconda.Io vi dirò in breve, o signori, come Sismondi espone questo concetto al quale egli attribuisce la decadenza del popolo, e questa disamina ci servirà per concepire più chiaramente l’ideale del Manzoni.
La morale cattolica, secondo il Sismondi, ha due momenti nella sua esistenza, ne’ quali è sempre corruttrice; quando nasce cioè, e quando è depravata da’ casisti. Quando la virtù, dice Sismondi, capita fra gli ascetici, essa viene esagerata, ed invece del concetto della virtù conforme alla natura umana, si ha una depravazione del concetto ragionevole di essa.
Per esempio la sobrietà è una virtù che ha per fine la mens sana in corpore sano, perché l’eccesso de’ cibi nuoce al corpo ed in conseguenza allo spirito. Or bene gli ascetici, o mistici, esagerando ed oltrepassando questo concetto giusto della sobrietà, invece di essa vi predicano l’astinenza, il digiuno, il cilizio, la macerazione del proprio corpo. Ed è questa, o signori, una virtú esagerata,- perché non nasce dalla natura umana, ma da un concetto ascetico della morale cattolica; e poiché è contro l’umana natura questa macerazione della propria carne, l’ascetismo vi ha fatta una morale guasta.
La continenza è un’altra virtù; ed anche di una donna maritata si può dire ch’essa è casta e continente, perché non è necessario astenersi dalle funzioni naturali per dirsi continente. Lo scopo di essa è la sobrietà e quella purezza d’animo scolpita sì vivamente in quel che Livio disse di Lucrezia: Corpus violai um est, animus vero insons. La purezza dunque dell’animo costituisce la castità. Ebbene il cattolicismo ha esagerato questo concetto, riponendo lo stato della perfezione nel celibato, nella verginità: ed il monaco e la monaca sono obbligati a sciogliersi da ogni legame di famiglia e di convivenza sociale, e nascondere alcune fiate sotto la maschera dell’astinenza gli eccessi della Signora di Monza, od altri simili.
La modestia, la più amabile delle virtù, l’est modus in rebus, è la stima moderata di se stessi senza la volontà di usurpare il merito degli altri, cioè senza ostentazione. Meno l’uomo è grande, e più egli cerca ostentare il merito che non ha; e più l’uomo è grande, e piú egli è semplice, è vero senza ostentazione. La morale ascetica al contrario ha proclamata l’umiltà, e ne ha fatto un ideale religioso: l’umiltà ch’è la nessuna stima di se stesso, che anzi è il disprezzo di sé,- è il sentirsi al disotto degli altri, perché l’uomo cattolico deve attribuire tutto al Creatore, e riferire ogni proprio merito a Dio. Ma, o signori, il privilegio dell’uomo è di poter mirare a fronte alta il cielo, mentre che questa dottrina spacciata dagli ascetici, l’obbliga d’andare a testa china, a mettersi anche in ginocchio, e qualche volta anche a baciare la terra, e raccoglierne la polvere; e tutto ciò, o signori, che uccide la coscienza della dignità umana, è battezzato per merito dalla dottrina ascetica.
La coscienza. E virtù il consultare la propria coscienza, e seguirne in pratica i responsi. Or bene la morale ascetica sostituisce la coscienza del prete alla coscienza propria, l’autorità esterna alla interna, ed alla libera elezione della propria coscienza, vi sostituisce l’ubbidienza passiva. Ed avviene che per l’esercizio assiduo di questa virtù, a poco a poco l’ideale di questa confessione si materializza e diventa pratica di certi atti esterni senza annuenza dello spirito, come avvenne pure dei conventi, che discostandosi dal loro ideale, si materializzarono, sì da eccitare la collera di Dante e di Caterina da Siena. Gli è da questa esagerazione che nacque una brutta parola, la materializzazione, e che consiste nel dare quell’importanza ai fatti esterni, che compete all’intima coscienza. E voi vedete quel che accade nella confessione; che mentre il suo fine è il pentimento, vanno sibbene a pentirsi, ma poi tornano da capo, ridotta com’è ad un fatto puramente materiale. E ciò mi ricorda un motto del Sismondi, che cioè secondo questa dottrina, importa al cristiano non come è vivuto, ma come è morto; e mi rammento quel proverbio italiano che suona: date la gioventù al diavolo, ed il carcame della vecchiezza a Dio. Ma andiamo avanti.
La carità è un sentimento di compassione per chi soffre, sentimento che non è mosso dal desiderio egoistico di guadagnare la salute eterna, ma dall’amore de’ fratelli. In contrapposto della carità voi trovate le indulgenze, la messa ed il culto in generale, e intendo di quel culto che non è compagno della santità interna; perché così anche il brigante si crede d’essere in grazia di Dio per l’amuleto della Madonna che gli pende dal collo; perché così l’esser divoto non sarebbe garenzia di probità, ma del contrario.
Il capitolo del Sismondi finisce con una magnifica descrizione del come si educava allora la gioventù, ed i precetti esposti in essa valgono tuttavia al presente, quando l’Italia c’è, ma non v’ha ancora italiani.
Ora, signori, che cosa è una morale a questo modo che noi abbiamo visto? È una morale d’eunuchi atta a far degenerare un popolo, a parare il pensiero dal fatto, a far negligere la sostanza per la forma. E si dice che un popolo ha carattere, appunto quando in esso v’è la probità, e la lealtà; e che non ha carattere, quando v’è il contrario.
Questo libro del Sismondi fece grande impressione in Italia, ed a molti parve che i Promessi Sposi rappresentassero quella morale. Or io posso dirvi, signori, che mai libro più utile fu scritto in questo tempo quanto la Storia delle repubbliche del Sismondi, ed io vi raccomando quella storia che più dei romanzi e d’altri libri, affrettò il nostro risorgimento. Essa dev’essere il nostro codice, ed il nostro vangelo.
Ma il Manzoni sentì che fare un’accusa così contro la morale cattolica era un gran pericolo per gl’italiani, che a quel tempo oppressi da’ pregiudizii erano scettici, ed egli si sforzava a dimostrare che religione e libertà potevano andare di conserva: egli credè che quel libro poteva essere veleno alla gioventù d’Italia. Volle dunque mettere un antidoto a quel libro, antidoto che si chiama Discorso sulla morale cattolica, che egli fece in risposta al Sismondi.
Ora io osservo che Manzoni e Sismondi sono perfettamente d’accordo, perché nell’istesso modo che la morale è concepita dal Sismondi, nel modo istesso è concepita dal Manzoni, perché l’uno e l’altro rappresentano i medesimi abusi nell’esagerazione di essa. La sola differenza sta in ciò, che il Sismondi esprime quegli abusi da storico; egli non si occupa della morale cattolica da teologo, ma la coglie in flagrante, e viene narrando quel che v’ha di male. Il Manzoni al contrario riconosce quegli abusi, ma come filosofo vi dice che non bisogna confondere l’abuso con l’uso, e che la morale cattolica vista da un punto filosofico, è come la ragione prescrive che sia; e però le virtù sono da Manzoni ritenute diversamente dal come la morale cattolica le ritiene. In somma l’uno, il Sismondi, vi dice il mondo qual è; e l’altro, il Manzoni, quale dovrebbe essere secondo la religione non profanata. Il Manzoni infatti nel suo Discorso sulla morale cattolica rigetta il misticismo, e mantiene che lo stato matrimoniale è stato di perfezione, che l’umiltà dev’essere modestia, che l’astensione dev’essere sobrietà, e così di seguito; egli dunque concepisce la morale religiosa nella sua purezza, come la dà la filosofia, e stigmatizza per abuso il materializzarsi di essa.
E che cosa pensa il Manzoni quando studia il secolo XVI? Pensa precisamente a mettere in azione la morale cattolica e renderla drammatica, e questo senza alterare la verità positiva ch’egli vuole illustrare. Ma vi pare egli possibile, o signori, d’inquadrare nel secolo XVI una morale così pura come la concepisce il Manzoni, libera dal materialismo? Come può essa star li senza dissonanza, e che non paja invenzione del poeta?
Il XVI secolo, o signori, è politicamente la dominazione spagnuola in Italia, ed in Lombardia specialmente. È la dominazione straniera senza che gl’italiani avessero concetto di libertà, e senza sentire l’umiliazione della servitú.E la plebe era, come dice Sallustio, prona et ventri oboediens; se le fate mancare il pane, tumultua; se la pascete, s’inchina.
Sono questi, o signori, gli elementi in cui può entrare l’ideale del Manzoni?
Ed è in essi che lo pone, ed in modo che non solo mantiene la purezza della sua poesia, ma che si trova con quelli d’accordo.
In tutti i tempi corrotti vi sono certe parti di uno stato separato, sia che si trovino sovra de’ monti, o fuori de’ grandi centri, dove la corruzione giunge più tardamente; ed è allora, quando cioè uno stato è corrotto, che nasce l’idillio: il poeta si va ad ispirare in que’ luoghi, ed allora voi vedete nascer Titiro, l’Aminta e il Pastor Fido. C’è lì in quei luoghi, il contadino e la contadina rimasti fuori del lezzo delle grandi città, che mantengono incorrotta la purezza de’ costumi; e Fautore, o signori, è andato lì a trovare le sue ispirazioni, a cercare il suo tipo.
Manzoni infatti possedeva una villa vicino Lecco, e stando in mezzo a quelle forosette, ha potuto vedere quella natura sana, che difficilmente si riscontra nelle grandi città; quei tipi di contadine, donde il Raffaele Sanzio trasse le sue più belle ispirazioni; tipi che voi intravvedete nelle più belle delle sue vergini.
Manzoni dunque in quel secolo e fra quella gente ignorante, se volete, ma buona gente e di animo incorrotto, credente in Dio con fede pura, sebbene modificata un poco dal parroco del villaggio, trova il suo ideale, e questo egli pone nella donna; ed eccovi Lucia che diventa centro di quella storia. Essa di fede schietta, credente, timida, pudica, semplice, modesta, diventa l’eroina di questa storia fantastico-poetica. Essa non si è mai dimandata che cosa c’è di falso nella religione, epperò la sua è tutta una morale pratica che ha seguita fin dalla prima età. Questo tipo di donna credente non è, o signori, un ideale esagerato, ed anche oggi non è difficile trovarlo. Però egli è evidente che Manzoni, volendo fare di Lucia la sua eroina, se ne innamora, l’abbellisce, n’esagera il colorito, sì che diventa un ideale, innanzi a cui, come dice il poeta, ed io e tutti sentiamo riverenza.
Ma il poeta per accostarla un poco più al mondo positivo, per non farla quasi un’oasi in mezzo al deserto, le mette accanto due esseri educati allo stesso modo, ma più vicini al mondo e capaci d’imperfezioni: essi, l’indovinate, sono Renzo ed Agnese. Renzo ha gl’istessi sentimenti di Lucia, ma è uomo, ha bile e passione, è impetuoso ma inesperto della vita positiva, nella quale trova degli ostacoli e cerca oltrepassarli con la forza, impetuoso com’è; e da ciò nascono i suoi guai. Da questo contrasto nel quale Renzo è sopraffatto, nasce il comico, ond’è che la parte ideale che risplende in Lucia è negata da Renzo.
Agnese ha pure gl’istessi sentimenti, che come mamma naturalmente ispirò in Lucia, ma è donna fatta, e ci si vede un altro comico, che forma un bel contrasto con Renzo; perché mentre questi cerca con la forza di superare gli ostacoli, Agnese cerca superarli con i mezzi indiretti. Ella è un po’ comare, chiacchierona, pettegola, credula ed un poco ignorante.
Abbiamo dunque un ideale puro in Lucia, al cui fianco sono due ideali simili, modificati dalla vita positiva e diventati comici. Ed è chiaro che Lucia è l’ideale puro perché i personaggi che agiscono nel romanzo sono Renzo ed Agnese, mentre Lucia è troppo timida, nei pericoli ricorre a Dio, che cerca con la sua dolce voce d’intenerire: quelli son personaggi d’azione, Lucia è contemplativa, che lascia fare, ed è però una vittima; essa dunque conserva l’ideale, e gli altri che si accostano al mondo, sono quell’ideale modificato.
Ma bisogna muovere questi personaggi, e per farli muovere c’è bisogno d’una leva, e la leva, o signori, è il mondo tristo in cui essi si trovano. Gli elementi fradici di quel secolo diventano mezzi drammatici per Manzoni.
Siamo dunque nel secolo XVI in un piccolo paese, che è Lecco, il quale ha pure il suo barone. Un barone, che per caso s’incontra in Lucia, e s’impuntiglia per averla, e quel ch’era in principio un semplice puntiglio, quando gli si parano dinnanzi degli ostacoli, diventa ostinazione, e Lucia divenne il pensiero martoriatore di quel barone che diventò il suo persecutore. Abbiamo quindi le due forze di rincontro l’una all’altra, il mondo ideale ed il positivo; da una parte Lucia, Renzo ed Agnese, e dall’altra Don Rodrigo, ed Attilio con i suoi bravi, e con la borghesia, la quale in luogo di soccorrere i poveri contadini, trema del signore, e si volge contro di essi; e voi avete già indovinato che il rappresentante della borghesia è quel Dottore Azzeccagarbugli, che rimandò il povero Renzo con i capponi; quindi capì che egli era de’ poveri soperchiati, e non de’ soperchiatoli, contro i quali le gride non contavano.
Ma questo mondo— permettetemi che lo chiami baronale-borghese: baronale come oppressione, borghese come corruzione — non si rimane in Lecco, perché i baroni avevano molte relazioni, le quali formavano come una catena che da Lecco c dagli altri paeselli metteva capo a Milano; lega di birboni, come la disse Renzo; una lega fatta di notai, e di dottori uniti col barone per non far valere le gride, lega che stava specialmente contro i poveri villani.Ed ora si comincia a colorire il mondo cattolico.
Fra queste due forze che si oppugnano, v’è un mediatore; desso è il prete, il ministro di Dio che si pone contro gli oppressori per aiutare gl’infelici oppressi. E qui ferve innanzi alla mente del poeta l’ideale di quel prete che bisogna trovare in quel mondo.
Ma in quel tempo gli ordini religiosi erano corrotti, perché si erano materializzati.
Vera però fra quelli un ordine che non viveva poltrendo ne’ conventi, ma nelle campagne, messo in relazione con tutti, e da tutti ricevendo l’elemosina; e questi frati del popolo erano i cappuccini.
Ora da quest’ordine soltanto il poeta poteva fare il suo tipo. Ma fare del cappuccino in generale un tipo, un ideale del romanzo sarebbe stato un po’ troppo forte, perché non andava del tutto esente da’ difetti del secolo. Ond’è che il poeta sceglie nel cappuccino un individuo che si trovava in condizioni eccezionali; che era stato nel mondo, nel quale aveva commesso un delitto, e che sopraffatto da’ rimorsi si era pentito, consacrandosi tutto all’amore del suo simile ed al sacrificio. Il tipo dunque di questo monaco è un individuo speciale, è una creazione puramente individuale; ed eccovi, signori, un capolavoro del Manzoni, il Padre Cristofaro.
Questo cappuccino che conosceva Lucia, e che la sente perseguitata da Don Rodrigo, diventa il suo protettore; e questo monaco che, come i cavalieri erranti del tempo antico, divenuto cavaliere errante di Cristo, s’impunta a proteggere un’infelice fanciulla, è un bello ideale. Ma come Lucia è troppo accarezzata dal poeta, così pure il Padre Cristofaro esce un po’ troppo dal convenevole, perché è troppo colorito; quel monaco è una continua esaltazione. A temperare dunque quest’ideale che pare che vada troppo lungi dal mondo positivo, il poeta mette accanto al padre Cristofaro, al magnanimo frate, un’altra figura; ed ecco di rincontro a lui sorgere l’ombra di Don Abbondio.
Don Abbondio ha gli stessi principii del Padre Cristofaro, egli crede alla religione; ma che cosa è che lo rende comico? È appunto la sua inattitudine a sostenere l’urto del mondo come l’impetuoso Renzo, che crede poterne spezzare gli ostacoli; egli, per cui Don Rodrigo era qualche cosa di superiore, ch’era avvezzo a tremare alla vista di un bravo, a misurare fino a qual punto potesse rischiare la pelle, è disposto nel contempo a dar lezioni sulla vita a Renzo e ad Agnese.
Quell’ideale dunque del monaco, il Padre Cristofaro, viene modificato dal prete: Don Abbondio è il correttivo del cappuccino.
Ma l’azione, o signori, non rimane in Lecco, essa si svolge in centri più ampii dove l’orizzonte s’ingrandisce, e dove se vi trovate gli stessi elementi, li trovate con lineamenti piú larghi, come si conviene a grandi città. E mediante quella catena di relazioni, di che ho parlato, voi vedete che il Padre Cristofaro ha il modo di salvare Lucia per mezzo del Padre Guardiano del convento de’ Cappuccini a Monza, come Don Rodrigo ha le sue relazioni con quel tal conte Attilio.
E l’azione così procedendo, mette capo finalmente in due grandi personaggi, de’ quali uno rappresenta il prete, e l’altro il barone: il cardinale Federico Borromeo, e l’Innominato; l’oppressore, ed il difensore degli oppressi. E la lotta fra questi due potenti finisce nel senso cattolico, poiché l’Innominato è vinto e non materialmente dalla forza, ma dall’amore, dalla parola ispirata del Cardinale, e dalla voce soave e dalla preghiera di Lucia.
L’Innominato è un peccatore convertito, epperò l’ultimo risultato di quella storia è una conversione; è il mondo reo migliorato dalla parola del prete.
Questa l’ossatura de’ Promessi Sposi.
Che cosa è questa concezione?
Questa concezione, o signori, è una concezione eminentemente patriottica, democratica e religiosa.
É patriottica, non perché l’autore vi parla di patria e di nazionalità conio il Guerrazzi, ma perché ora essendo egli che racconta e non restando dietro ai personaggi, come nel dramma, si ha l’agio di vedere l’intimo di quell’uomo che è eminentemente patriottico, e voi ben vi ricordate che quand’egli discorre la storia di quella dominazione spagnuola, facendo un’analisi minuta di tutto ciò che in essa vi ha di opprimente, ne trae una conclusione che è stata molto sana per gl’italiani: e gli altri che dopo Manzoni son venuti scrivendo, han trovato il quadro già fatto.
È democratica, perché è il primo esempio d’un romanzo che abbia per protagonista la contadina; è il primo esempio d’un romanzo che v’interessa non per lo sfarzo della grandezza umana, ma per una fanciulla che ha un cuore schietto e puro, spogliata del manto bugiardo della società.
Anche noi oggi consideriamo un contadino od un povero operajo nel quale ci abbattiamo con un nostro avanzo di semidei, come cosa da guardarsi dall’alto in giù; ebbene Manzoni ha fatto un miracolo quando v’interessò delle avventure della contadina di Lecco sino al punto di farvi piangere, sino al punto di farvi tremare, come la timida Lucia fa piangere e tremare l’Innominato.
È finalmente religiosa; e badate ch’io dico religiosa e non cattolica, perché consultando le impressioni che se ne ricevono, si vede che non è il sentimento cattolico quello che opera; che anzi quando si parla d’abusi, il poeta s’incollerisce contro il cattolicismo depravato. In quella concezione c’è qualche cosa di superiore al cattolicismo, ed è lo spirito religioso che si confonde col sentimento della virtù, sentimento che non si può scacciare dal proprio seno, senza sentirsi menomare la propria coscienza. La confessione infatti è elevata in una regione più pura, ed il fine che la corona è la conversione. Ed è questo il sentimento che rende un capolavoro quell’incontro del Borromeo e dell’Innominato. Vedete nella dispensa dai voti. Anche Lucia quand’ebbe quella brutta paura, rapita dai bravi dell’Innominato, fa un voto; ebbene quando questo voto si scioglie, non ci vedete la bolla, od altro simile: la parte volgare è annullata, ed il Padre Cristofaro che è divenuto quasi il padre ideale de’ due sposi, scioglie senz’altro Lucia dal voto. Guardate nella predica. Lí non ci avete il predicatore che fa le sue citazioni latine, e che, non alzando il popolo a sé, ma abbassandosi al popolo, ne accarezza i pregiudizii; lí ci trovate il contrario: il Padre Felice che in luogo di compatire a’ pregiudizii di quello, si serve dello spettacolo della peste per innalzarlo ad una regione superiore.
Però la concezione del Manzoni è patriottica, è democratica,- è religiosa, ed aggiungo che dessa è la concezione più semplice che vi sia, potendola voi abbracciare con l’animo d’un solo sguardo.
Ma credete voi, o signori, che tutto questo sia l’arte? Credete voi che basti questa concezione semplicissima d’un romanziere per dire che s’è fatto un bel romanzo?
Noi fin qui esaminammo una concezione puramente intellettuale, esaminammo l’ossatura del romanzo. Ora entreremo nel regno dell’arte, e per entrare in quel regno bisogna realizzare quella concezione. Or bene, Manzoni dice che per realizzarla fa d’uopo mettere quella concezione in un mondo storico, per illustrare quella storia. Come ha ciò fatto il Manzoni? Ha raggiunto egli il suo scopo?
Lezione XI. [Il mondo intenzionale e la concezione dei «Promessi Sposi»]. — Correzione al giornale:
Ecco il resoconto di questa lezione nella redazione pubblicata sull’Era Novella del 23-24 aprile 1872:
Signori,
Ora avendo il nostro autore interesse di creare per mezzo di questa concezione il mondo positivo istorico, è chiaro che deve prenderla e farla storica. E di fatti apriamo Manzoni, e fin dalle prime pagine troviamo ch’egli comincia con un pezzo di cronaca scritta nello stile del seicento, imitandolo con molta finezza, e che rivela l’uomo che per tre anni continui ha fatto profondamente gli studii di quel secolo; ed egli fin da quelle prime pagine ci dice che ci vuol dare l’istessa cronaca cambiata solo nella forma: quindi l’autore si affaccia con la pretensione di volerci dare a credere che ci dà una storia, cancellando ogni prevenzione sulla veridicità del suo racconto.
E se tutto questo che fa il Manzoni fosse fatto come praticarono il Pulci, il Berni, il Bojardo e l’Ariosto, e come l’Ariosto indicatamente ne’ suoi poemi cavallereschi, per seguire le tradizioni antiche, e per divertirsi alle spalle dell’Arcivescovo Turpino, abbandonandosi nel contempo a tutti i capricci d’una sbrigliata fantasia, sarebbe stata una imitazione. Ma il Manzoni concepisce seriamente, e quello che vi dice ispira un interesse non solamente poetica, ma v’ispira eziandio un interesse storico: quello che egli dice vuol farlo sembrare non solo verosimile, ma avvenuto; e tutto ciò io chiamo mondo intenzionale del Manzoni, che corrisponde cioè alla intenzione dello scrittore, a differenza del mondo effettivo, che è quello uscito dal cervello del poeta.
Ma in che modo il Manzoni ha voluto ispirare questo sentimento dell’avvenuto, sì che l’ideale non sembri posto in esso che per dichiararlo?
Il Manzoni pria di scrivere il romanzo si è servito di questo mezzo: egli ha preso un grande avvenimento storico, e poi vi ha gittate dentro qualche episodio che adombrava l’ideale; ed abbiamo visto come nell’Adelchi e nel Carmagnola quell’ideale rimase fuori della storia; ma ora Manzoni istruito dall’esperienza tiene un metodo contrario; perché quello che lí era episodio, qui diventa concezione; sicché la parte storica positiva non è da cercarla. Episodii in quella concezione ce n’è appena qualcuno e legato con essa con tanta stretta relazione, che si potrebbe chiamare parte integrante di quella; cosí nell’episodio della monacazione forzata di Gertrude episodio e concezione sono così intimanente legati, che Gertrude ed Egidio diventano necessarii, perché il ratto di Lucia avvenga. Quali sono dunque i mezzi del Manzoni per ispirarci il suo sentimento del positivo?
V’ha, o signori, celti avvenimenti che io chiamerò impersonali e patetici e che sono grandi avvenimenti storici, grandi non perché ad essi si collegano grandi nomi, come quelli di Bismarck e Napoleone nella guerra Franco-Prussiana, ma perché di una influenza cosí generale, che toccano 1 ’esistenza de’ piú umili cittadini. Da ciò risulta che rendendo questi fatti centro di quella storia, voi potete avere un fidanzato ed una fidanzata colpiti dalle sventure, e quelli avvenimenti in tanto sono importanti, in quanto si collegano alle sventure e alla sorte di essi.
Esempii di questi avvenimenti sarebbero, il terremoto, la carestia, la peste, i quali oltrepassano il giro de’ personaggi o di altro che ne fu la causa, e si diffondono, modificando le condizioni delle più umili esistenze. Questi sono gli avvenimenti che Manzoni sceglie, e voi vi ricordate la peste di Milano, la carestia, la guerra de’ Lanzecchinecchi ec. Ed essi sono avvenimenti impersonali e patetici, perché la vita avendo un suo stato normale, quando un avvenimento di questo genere percuote un popolo, ha forza di scomporre quel corso ordinario, far sorgere novelle condizioni, muovere le passioni, stimolare la vita interna, e farla estrinsecare, come le tempeste che turbano e sconvolgono gli abissi marini. E questi avvenimenti hanno stimoli più possenti di Don Rodrigo per mettere in movimento, e dare impulso alle passioni.
Il Manzoni con la sua sapienza di coordinazione vi presenta fin da prima una specie di quadro di getto dove tutti questi avvenimenti sono, direi così, in miniatura; sono la prima voce d’un mondo che deve nascere; io parlo della famosa orgia di Don Rodrigo, alla quale invitava i suoi bravi, gli amici, i nobili, e la borghesia rappresentata dall’Azzeccagarbugli. In questa festa, quando il calore del vino ha sciolto lo scilinguagnolo degli invitati, l’autore trova occasione di descrivere Il mondo di Lecco non solo, ma anche quello di Lombardia, che poi deve entrare nello svolgimento della storia; e voi vi rammentate ch’ivi si parla della carestia, degli avvenimenti politici; ivi comparisce quel tale Conte Duca, che verrà in azione più tardi; avete insomma in iscorcio il mondo storico impersonale e patetico.
Ma quel benedetto interesse storico, che vuole ispirare l’autore, lo fa eccedere in una parte della rappresentazione, nella proprietà e nell’armonia di essa; e poiché egli guarda quasi unicamente a quell’interesse per farci conoscere perfettamente quel secolo, egli non solo fa il racconto del fatto principale, ma c’intermezza delle digressioni, delle escrescenze, delle appendici o parti aggiunte, non per rilievo della parte principale, ma per un fine puramente storico. Cosí nelle prime pagine, quando compariscono i bravi, ed egli ci vuol persuadere che tutto è storico, l’autore rompe il racconto, e ci parla di quei bravi, ce ne descrive il vestiario, e non contento di ciò, riporta e cita le gride che vietavano e condannavano quella classe di persone, e dice perfino i nomi dei diversi legislatori, spendendo alquante pagine per farci sapere tutto questo, che arresta il movimento dell’azione principale, mercé una digressione. Ma passi se queste digressioni fussero sempre brevi, e rare. Alcune volte egli si dimentica che fa una digressione, si dimentica di avere un racconto per le mani, e a rischio di stancare la pazienza del lettore, scrive capitoli interi di quelle tali appendici o escrescenze, delle quali si serve per compiere il quadro di quel secolo XVI. Così egli consacra un capitolo al Cardinale Federico Borromeo, ed un altro a Don Ferrante per farci conoscere i costumi e la letteratura di quel tempo.
Ma mi direte, vorreste voi toglier di mezzo que’ capitoli?
Io non lo vorrei, perché i fatti in que’ capitoli sono esposti con tanta esattezza, con tanto spirito, che quando voi dopo la prima lettura, nella quale siete spinti dall’interesse del racconto di correre fino all’ultima parola, saltando le digressioni, tornate poi a rileggerli, voi non potete fare a meno di fermarvi sopra di essi, dove sono notizie esposte con grande calore artistico, e voi non avrete il coraggio di dire all’autore: «toglieteli dal vostro romanzo». Ma vi dirò che il bell’effetto in voi prodotto riesce dal metodo di esposizione, ma che d’altronde gli è sempre un difetto perché vengono così lese per poco le leggi d’armonia e proporzione artistica. Nondimeno quel difetto è minore qui che in altri poeti, dominati parimenti dal gusto di argomenti estranei al concetto principale. Prendete il Dante; il suo mondo artistico è l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso, ed egli volle gittarvi dentro tutta la sua teologia, e la filosofia; c’è lí dentro un mondo intero teologico e filosofico che vizia e guasta il concetto artistico: e voi trovate pure nelle parti interiori la sentenza, il sillogismo, che vi oscurano l’immagine, ed all’esterno ci trovate la forma simbolica che la turba e vi fa pensare a darle significati arbitrarii.
Quel difetto dunque in Dante ed in altri poeti è maggiore che in Manzoni, perché in essi penetra in tutto, mentre nel Manzoni, se ne togliete poche appendici, il resto è puro.
Così pure vi è stato un gran poeta che ebbe la istessa intenzione e si trovò nelle stesse condizioni del Manzoni.
Torquato Tasso infatti fu il poeta che sorse come reazione contro il Concilio di Trento, come il Manzoni fu il poeta della reazione contro le teoriche degli Enciclopedisti di Francia, e gli scrittori del secolo XVIII. Ambedue poeti della reazione, che cercano restituire il suo posto al mondo cattolico, e che vogliono sostituire ad un mondo fantastico un mondo storico e positivo. Cosi il Torquato volle contrapporre al mondo cavalleresco e fantastico dell’Ariosto il mondo delle crociate, come il Manzoni ad un mondo di aride dottrine, la severità del mondo positivo. Ma il Tasso volendo contrapporsi al mondo cavalleresco dell’Ariosto produce un mondo cavalleresco egli stesso, e quand’egli vede la Gerusalemme Liberata ricercata da’ suoi contemporanei non per la parte religiosa, ma per la parte romantica ed artistica, per l’Armida, per l’Argante e per la Clorinda etc. egli si ribella contro il suo poema, e predominato dalla sua intenzione storica lo rifà in tutto il suo organismo, e lo chiama la vera Gerusalemme, che i posteri hanno qualificato per falsa, ritenendo per vera la prima. Imperocché nella vera Gerusalemme la parte artistica, per far risaltare la religiosa, divenne arida, ed egli, il Tasso, profanò la sua prima e bella creatura. E così del pari il Manzoni voleva fare il suo un mondo storico, ma tirato dall’arte, lo fece artistico. Ma fra l’uno e l’altro v’ha questa differenza, che Manzoni non guastò come Tasso la sua creatura, ma la rifece un poco, aggiungendo un tal sapore toscano, e forse a torto: ma egli non crea de’ nuovi Promessi Sposi, sebbene respinga quasi il parto del suo genio in un discorso, dicendo che il romanzo non corrisponde alla sua intenzione, e che ancorché bello, egli lo ripudia. Ma donde nasce che egli non ha raggiunto il suo scopo, forse per difetto di sentimento storico? No, basta, o signori, leggere quel romanzo per riconoscere l’uomo che ha studiato per tre anni quel tempo.
Se noi ne chiediamo a Manzoni la ragione, egli vi risponde che non ha raggiunto il suo scopo, perché è impossibile raggiungerlo, perché gli è assurdo che l’arte e la storia vadano di conserva, e che l’una deve prevalere sull’altra; ed allora vi sarà la storia, o l’arte, ma non vi sarà mai un romanzo storico. E noi rispondiamo che non è vero quello ch’egli dice, che non è assurdo, e che l’arte può far tutto, essa può raggiungere un fine storico, filosofico, e perfino geografico. Leggete il viaggio di Anacarsi, quello di Platone in Italia del nostro Cuoco, le Lettere Persiane, leggete i versi di Portoreale, che nella mia fanciullezza hanno tormentata la mia memoria, ed io vi dico che questa è arte messa a servizio della storia, della geografia, della lingua. Che cosa sono i viaggi di P. Cook? P. Cook ci fa comprendere in una forma artistica, e però meno nojosa, i costumi dell’America. Ma osservate che l’arte serve ad un patto, che neghi, cioè, se stessa come sostanza, e si contenti d’essere parte formale come nel viaggio di Anacarsi dove è l’arte come forma piacevole che attenua la noja di studii geografici. Se Manzoni dunque avesse voluto raggiungere il suo fine storico, avrebbe potuto farlo, e con un viaggio per esempio fatto in Lombardia, o per mezzo di dialoghi avrebbe potuto descriverci i costumi di quel tempo, e così di seguito.
Ma il Manzoni è artista, e che cosa fa egli? Crea una concezione altamente artistica in cui risplende un mondo ideale altamente poetico e che non ha niente che fare col secolo XVI; mondo che si può trovare in tutti i tempi, e che corrisponde al suo animo, e che è figlio del suo cuore. E quando, signori, si è messa una concezione di quella fatta, che vi produce sì profonda impressione nell’animo, potete voi menomare quella concezione artistica, e far sì che l’interesse principale sia storico? Fu colpa la sua, ma felice colpa, perché malgrado la sua storia e le sue appendici, Manzoni è un potente artista, ed a noi piace ch’egli, come Torquato Tasso, abbia raggiunto un fine differente da quello che s’era proposto.
Dante dunque, e Goethe e Milton ed i più grandi scrittori hanno avuto quel difetto, di voler cioè inserire cose del tutto estranee all’argomento, e per un interesse storico, teologico e filosofico. E badate che noi parliamo di grandi artisti, poiché quel difetto uccide i mediocri, come avvenne del Rosini, eccellente uomo del resto, ma che non aveva il senso dell’arte. Egli in certo momento si è innamorato della figura della Gertrude tratteggiata dal Manzoni, e fece La monaca di Monza. Manzoni non riuscì nel suo scopo perché era artista, ma il Rosini ha prodotto un lavoro che barcamenandosi fra la storia e l’arte, non è né storia né arte.
Or quando questo mondo interno si affaccia alla mente dell’artista, che cosa è egli questo mondo?
Dietro l’artista, o signori, ci è l’uomo; non è artista soltanto chi produce lavori d’arte; il grande artista è uomo compiuto con le sue passioni private e con le sue convinzioni in tutte le sfere della vita; e tutto questo complesso è quel che si dice mondo interno dell’artista; e più questo mondo si muove, e più sentite l’artista. E quando il Manzoni vi produce quelle tali parti aggiunte, lo fa con tale potenza di analisi, che il suo lavoro se per questo sembra difettoso, dobbiamo rallegrarcene, perché questo difetto del Manzoni è niente rimpetto alla grande utilità che ci recano quegli studii così accurati, che hanno perfezionato il senso dell’analisi, la cui importanza è così grande per uno scrittore moderno.
Uno scrittore del secolo XVIII parte da un’idea, Manzoni parte da’ fatti; la sua ispirazione ha per principio un reale storico, ed ha creato in questo modo la lirica drammatica; e questo vi fa vedere la differenza che passa tra la lirica del Manzoni e quella del Monti e del Foscolo; questa è lirica da discorsi, quella esce palpitante dal mondo de’ fatti. Abbiamo dunque avvisata la concezione ideale del Manzoni, ma rimane ben altro a vedere, poiché dessa non rappresenta che le prime linee, e la più semplice combinazione dei suoi elementi.
Vogliamo dunque veder formato quell’ideale, perché l’essenza dell’arte sta nella forza di dare forma alla concezione e non nelle intenzioni storiche e metafisiche. Il fenomeno di dar forma alla concezione non è uguale in tutti i poeti, come disuguali sono le loro forze produttive, siccome la vita non è uguale in tutti gli uomini.Lo sente egli, come si dice, in sé e per sé come un filosofo? C’è tutto questo in Manzoni, ma non v’è il moralizzatore e l’uomo politico al di sopra dell’artista: v’è però tutto questo nel suo animo,- ed il suo lavoro vi produce l’impressione morale, l’impressione politica. Manzoni sente il suo ideale, e questo sentimento si traduce in lui nel bisogno di darle [sic] forma che noi diciamo plastica.
Ed in fatti quando egli ha in mano un personaggio, non lo abbandona finché non gli abbia dato esistenza, morale, tutto. Questa disposizione a concretizzare è la forza artistica, sicché Manzoni è principalmente artista.
Ma in che modo egli mette in questa forma plastica i suoi personaggi? Qual’è la sua posizione speciale dirimpetto al suo mondo? Quando l’ideale, o signori, si affaccia per la prima volta ad un poeta, egli se ne entusiasma, perché è tutto bellezza, e vuole che tutti debbano amarlo: egli dunque lo sente come ideale non ancora calato nell’esistenza; e quando piglia il pennello per fissarne la figura, che cosa sarà la sua creazione? Astratta, nuda, poco storica, e ciò lo vedete nell’Alfieri quando l’ideale di libertà si presenta innanzi alla sua mente, ed egli lo vagheggia dopo tre secoli di dispotismo; e con un nobile sentimento che l’Italia non fosse difficile opra a compiere, noi vediamo in tutti i suoi personaggi molta passione, ma poca realtà: e questa è la sua tragedia, forme scarne, e senza condizioni che rendano storici que’ personaggi, onde la forma di quella poesia è l’illusione.
Ma quando quell’ideale vien messo nel mondo della realtà, egli s’incontra con la corruzione, ed al primo urto di essa, senza esperienza com’è, cade nel fango e nel sangue ed allora quell’ideale si presenta sotto la forma del disinganno.
Ed il disinganno non è la vita reale, perché quando io vedo sprecato quello che io amava, invece di dimandarmi il perché, io mi ribello contro la realtà e la impreco. E questa forma è rappresentata nel Jacopo Ortis, dove l’amante di Teresa, imprecando al mondo, finisce nel sangue.
Ora credete voi che Manzoni sia un fanatico, come un Vescovo Dupanloup, che vedendo il suo ideale contrariato ed urtato nella realtà, esca in esclamazioni, maledicendo a questo secolo? Niente affatto. Manzoni parte da un sentimento della vita positiva, che se in lui è esagerato, costituisce non pertanto la fisonomia dell’artista. Egli comprende che la vita è ben diversa dall’ideale, e non se ne indegna; ché anzi se vede qualcuno indegnarsene, egli sogghigna, ed è questo sentimento proprio dell’ironia che è vagheggiata dal Manzoni, che costituisce il carattere dell’arte moderna.
E per far meglio intendere questo concetto lo spiegherò con un esempio. Un giovane sente che il tale per il suo sapere dovea essere scelto in un concorso, ed intanto è preferito un tal altro per certi legami di partito, d’influenza e che so io; quel giovane allora scintilla di sdegno e grida che il mondo è corrotto. Ma supponete che vada ad un uomo esperto nelle cose della vita, e questi facendogli una carezza, gli dirà che quo’ sentimenti l’onorano, ma gli soggiungerà di certo: — Mio caro, sono gli accidenti soliti della vita, com’è costituita — . Simile a quella dell’uomo esperto è la posizione del Manzoni di rincontro alla vita; egli sorride perché la capisce, e perché la capisce egli la scusa, poiché l’intelligenza, o signori, è tollerante.
Quando dunque noi abbiamo questa posizione, quale sarà la forma della concezione manzoniana, sarà forse l’illusione? forse il disinganno? Mai no, perché l’autore ebbe troppi disinganni per illudersi, o per indegnarsi contro la corruzione del secolo. La forma dunque sarà l’ironia, forma propria delle creazioni manzoniane; quell’ironia come l’ha Leopardi, come l’ha il Goethe, come tutti i grandi scrittori moderni. Dessa è la caricatura che fa l’intelligenza messa di rincontro alla ignoranza del mondo; è la caricatura di chi ha molta esperienza a chi non n’ebbe mai; è la caricatura che l’avvenire fa al passato.
Ogni volta che si hanno questi contrapposti, quel dire «io ti conosco» si traduce in un tal risolino, e questo risolino ripeto è l’ironia. Ma quando un uomo sta in questa posizione, quand’egli con l’arte ha creato un mondo, al quale con un sogghigno dice: — Io ti comprendo, perché io ti ho creato— .quale sarà il carattere dell’ideale? Sarà il carattere indeciso dell’illusione, ed inesperto del disinganno? Sarà la misura dell’ideale misurato dall’esperienza della vita: quindi vanno fuori tutti i tipi esagerati; perché tutti sentono un poco de’ difetti della terra; l’ideale acquista un limite, e Manzoni si distingue appunto per il sentimento della misura.
Quando noi consideriamo un mondo come concetto, siccome esso non è sottoposto alle leggi storiche,- e per sua natura è illimitato, noi procediamo innanzi senza andare in cerca di quelle tali limitazioni che vengono da’ fatti. E quando lo scrittore considera quel mondo come obbietto, allora il suo ideale perde l’illusione ed acquista limite dalla realtà dei fatti. Abbiamo però due specie di poeti, poeti subbiettivi, e poeti obbiettivi; i primi che vedono il mondo come concetto, e camminano fino alla più sfrenata illusione; e gli altri, che rispettando il fatto, ricevono il limite dalle condizioni di esso, perché lo comprendono. Il Manzoni dunque fa sentire l’ironia nel suo mondo, perché ha la misura dell’ideale, e perché egli considera il mondo come obbietto,- onde la forma di quello sarà la rappresentazione obbiettiva, che è il mondo plastico veduto dal di fuori.
Per esempio, noi diciamo Omero obbiettivo, perché ivi è il mondo greco tutto impressioni, considerato tutto al di fuori; e diciamo Virgilio poeta subbiettivo, perché ivi comincia qualche sentimento che si congiunge alle rivelazioni dell’animo dello scrittore. Il più grande poeta obbiettivo è l’Ariosto, ed in Goethe istesso le forme sono le obbiettive, ed esse più di ogni altra hanno vivacità e freschezza.
Ma quella del Manzoni non è una forma ariostesca; in essa vi è un carattere speciale, perché il mondo del Manzoni non è quello della prima impressione come in Omero: noi troviamo la forma manzoniana in uno stato riflesso, perché l’autore spiega i suoi personaggi. Prima che Don Abbondio entri in iscena, Manzoni ce lo spiega; egli fa il critico prima d’essere artista, ed è questo che contraddistingue lo scrittore moderno.
La rappresentazione dunque obbiettiva del Manzoni è penetrata dalla forza della critica. La potenza straordinaria dell’analisi del nostro autore dà a’ suoi personaggi quella verità e vivacità che viene appunto dal profondo sguardo critico con cui li vede; e da ciò nasce la sua potenza plastica, perché, analizzando, dà loro le forme esterne adeguate e ci dà personaggi come Don Abbondio, che dopo avercelo descritto in una certa occasione, improvvisamente esce fuori col dirvi che girava gli occhi di qua e di là come se avessero paura d’incontrarsi con le parole; dandoci cosí in un sol tratto mirabilmente spiegato l’animo del prete.
Ed ora che abbiamo visto l’uomo, vediamo come egli si metta all’opra.
Lezione XII. [La forma dei «Promessi Sposi»]. — Correzioni al giornale:
Ecco il resoconto di questa lezione nella redazione pubblicata sull’Em Novella del 3 e 5 maggio 1872:
Avendo taciuto per qualche tempo, rendiamoci un poco conto del cammino fatto nella disamina dei Promessi Sposi. Noi abbiamo visto innanzi tutto la concezione manzoniana conforme al mondo morale e religioso, e poi questa medesima concezione calata nel minuto mondo positivo e storico, il quale dovendo essere, secondo il Manzoni, illustrato dall’arte, diede origine a quelle appendici od escrescenze di che abbiamo discorso. Abbiamo quindi esaminato l’autore dirimpetto alla sua concezione; e per mostrare il carattere storico della forma del Manzoni, noi determinammo la posizione del poeta con le sue passioni e convinzioni d’uomo di rincontro ad essa concezione, e vedemmo ch’egli non era né il poeta dell’entusiasmo, né il poeta del disinganno. E dicemmo che non l’era, perché l’ideale che si presenta a lui non è l’ideale giovane non ancor provato nelle disavventure della vita, o l’ideale calato di fresco in essa, e che da essa profanato, si ribella alla realtà. E dicemmo però che l’ideale del Manzoni non era capace né d’illusioni, né di disinganni: osservammo anzi ch’egli oltrepassando questo doppio stadio, guardò la vita nella sua realtà, si rese ragione della contradizione tra l’ideale ed il reale, della quale non si meravigliò, ma che cercò anzi di spiegarla, accompagnandola con quel tale risolino proprio di lui, che significa: «io ti comprendo». Quando fissammo quella forma, ricavammo per primo una tendenza che ha il lavoro del Manzoni.
I poeti idealisti spiritualizzano l’ideale, e vogliono farlo apparire, ma abbozzandolo appena, e mettendo in rilievo le impressioni ed i sentimenti che si sprigionano da esso; mentre Manzoni vuol nasconderlo, e dare a lui apparenza talmente storica, sicché si dica: non ch’esser probabile, questo è avvenuto, è storico. È questo un carattere della forma manzoniana, che distingue il Manzoni dagli scrittori precedenti, i quali, compreso anche il Tasso, non erano che grandi sognatori, grandi rèveurs, come dicono i francesi; e questa tendenza di realizzare l’ideale si manifesta nel modo onde Manzoni dà vita e forma alle sue concezioni. La tendenza contraria fa sí che mentre i poeti idealisti ingrandiscono le proporzioni dell’ideale, che si avvicina così all’indefinito dell’idea, Manzoni l’accosta al finito, al determinato, che noi chiamammo misura dell’ideale.
Ora che abbiamo notata questa tendenza, voi capite un altro passo della forma manzoniana. Volendo egli infatti rendere storico l’ideale, cerca naturalmente nella forma la figura, la plastica.
Le stesse idee, le impressioni si traducono in immagini esterne, ed egli le analizza, le spiega; ed è questa potenza di analisi, congiunta alla sua potenza d’immaginazione che costituiscono [sic] la sua potenza produttiva. E dopo che vi ha dato il plastico, egli vi rende conto del perché la figura sia fatta in quel modo; e tutto ciò ve lo spiega con un sopralavoro: quando di poeta diventa critico, vi dice perché la sua creatura ha quella fisonomia, ha quel carattere, ha quelle passioni. Per meglio comprendere questo concetto, paragonate per poco il Manzoni con gli altri poeti. Se voi osservate i poeti italiani, vedete ch’essi vi danno la figura in blocco, sicché avete l’idea del tutto, e non delle singole parti. Quando Dante dice: «Qual io fui vivo tal son morto», egli vi dà la totalità d’un personaggio, che si presenta vivamente al lettore, il quale colpito da quella totalità, non ha l’agio di analizzarla, ed osservarne le parti. Ond’è che il Farinata vi apparisce come una gigantesca forma piramidale, e l’impressione ch’essa vi produce vi fa sfuggire l’osservazione delle parti. Questo considerare in blocco la figura è della prima poesia, perché oggi siamo troppo critici per contentarci di quella forma: nel mondo moderno si è fatto gran lavoro di analisi, e quel quasi sintetizzare la figura, ci è sembrato infanzia dell’arte. Ed il primo, o signori, che accennò a questo novello indirizzo fu Niccolò Macchiavelli, il quale è grande appunto per aver tolto le immagini sintetiche, che rappresentavano il pensiero italiano, iniziando un movimento di civiltà, che fu poscia affogato. E fra’ moderni mentre Shakespeare, Goethe e Schiller ritraggono i fenomeni più delicati del cuore, gli scrittori in generale del secolo XVIII vi danno quelle tali forme in blocco che sfuggono all’analisi. E per dare un esempio, ricorderò la Teresa del Foscolo, il quale è lo scrittore più vicino al Manzoni, perché egli morì nel 1827, quando si pubblicavano i Promessi Sposi. Ebbene vedete la gran differenza fra la Teresa del Foscolo ed i Promessi Sposi. La Teresa è una reminiscenza della Beatrice; essa non muta mai, conserva sempre la sua prima faccia, è sempre la stessa, quantunque mutino gli avvenimenti; e fra lo avvicendarsi di essi non trova forza di cavare un suono diverso dal suo cuore. Foscolo non è penetrato dallo spirito moderno. Guardiamo al contrario Manzoni, e fin dalla prima pagina troviamo la descrizione di un ramo del lago di Como, la quale sarebbe stata troppo lunga, se posta in mezzo al racconto; mentre non l’è al principio, quando ancora non si sa che cosa l’autore ci vuol raccontare.
Ora qual è il concetto di quella descrizione? Nella descrizione italiana in generale si trova la tendenza di togliere al luogo che si descrive i suoi caratteri speciali, per cui quel luogo si distingue da un altro; pigliare in vece delle generalità, confonderle con belle apparenze della natura, e produrre un godimento estetico, così che il lettore dica: «questo è bello». Questo descrivere per generare il sentimento del bello della natura, è tendenza di poeti come l’Aleardi ed il Prati. In essi trovate per esempio un chiaro di luna, che vi produce un tale effetto malinconico nell’anima guardandola attraverso le fronde d’un boschetto, ed il rumore del ruscelletto vi aggiunge un non so che di romantico, e così via via. Ora i caratteri di questo luogo descritto sono poetici sì, ma sono caratteri comuni, e non caratteri speciali, sicché si dica: «il luogo è quello, e non altro». Manzoni non si dà pensiero degli effetti estetici; toglie le generalità de’ luoghi e toglie le impressioni che l’anima del poeta risente da essi. Egli, quando ha descritto qualcosa, è andato sul luogo, lo ha analizzato, e vi ha descritto quello.
Ci sono de’ poeti che volendo rappresentare la natura, la studiano nel repertorio; repertorio che non è ignoto a Manzoni. Egli conosce abbastanza i poeti greci, romani, tedeschi, inglesi e italiani, fra’ quali non c’è chi non abbia immagini copiose sulla natura. Ora Manzoni uccide tutto ciò che è repertorio: egli si mette in comunione diretta con la natura viva, la studia, e toglie le sue descrizioni dal vero. Ma non basta studiar dal vero, perché c’è il vero comune, ordinario, che è dei poeti che non hanno ingegno poetico, e la maggior parte di costoro o idealizzano, o realizzano comunemente; mentre avviene che nello scrittore serio è sviluppato il talento dell’osservazione congiunto con l’analisi, il che vi dà per risultato di vedere le cose non come ci si presentano superficialmente, ma vederle con fina osservazione nei più intimi particolari, che spariscono agli occhi di poeti ordinarii.
Dicevamo dunque che fin dalle prime pagine si trova la descrizione del lago di Como.
Quel ramo del lago di Como dunque viene ad un’tratto a restringersi, e prende corso e figura di torrente, e le due rive sono congiunte da un ponte, ch’è la manifestazione sensibile del passaggio, e che segna quasi il punto in cui il lago cessa e l’Adda ricomincia. Questa osservazione non può essere fatta se non da chi si è trovato sul luogo. Uno scrittore ordinario vi avrebbe già date le impressioni avute da quel ramo del lago di Como, dal suo restringersi in fiume, dal ponte, ec. Manzoni non vi dice niente di tutto questo: in lui c’è l’occhio dell’osservatore senza interesse poetico. Con ciò non vogliamo dire che in Manzoni non ci è poesia; essa c’è, ma quando si presenta? Non certamente quando non ci vuole, o che si tratta di dire impressioni proprie; ma quando nel luogo ch’egli descrive si presenta un movimento estetico; ed è allora che l’autore lo nota. In quella descrizione del lago infatti le particolarità topografiche sono tante, che conviene leggerla due volte per tenerla presente; ma viene il momento delle impressioni estetiche, e vedremo poi come fa il Manzoni a dirle.
Ora pigliate a leggere delle lunghe descrizioni, e dopo averle lette io vi domando: avete avuta un’idea chiara del luogo descritto? No certamente, perché son così confuse, e si trasvola così in esse su’ particolari, che voi non potete farvene un’immagine. Leggete la descrizione del Manzoni, e voi non la dimenticherete più, perché in essa c’è un certo ordine intellettuale, ordine che adopera quasi sempre colui che osserva. Vediamo dunque l’ordine, il piano di questa descrizione, perché dessa ha certamente il suo disegno. Abbiamo un lago che vien quasi ad un tratto a restringersi e diventa fiume, e poi le rive allontanandosi, l’acqua si distende, si rilassa, e torna ad esser lago con nuovi golfi e seni; e badate ch’egli vi dice il perché l’acqua torna lago. Ebbene quando l’Adda torna ad esser lago, essa s’allarga fra un promontorio ed una costiera formata dal deposito di tre torrenti, e fra gli altri il Resegone, che piglia il nome dal monte così chiamato per i suoi molti cocuzzoli in fila, che lo fanno somigliare ad una sega. I torrenti che si inoltrano,- scavando, o seguendo la conformazione de’ monti, cominciano a pigliare forme terree; ond’è che avete qui una valle, e lì un poggio, un valloncello, una spianata e via dicendo. Il lembo estremo del lago tagliato dalle foci de’ torrenti, finisce in ghiaia e ciottoloni, e poi vigne, campi sparsi di terre e villaggi, fra’ quali Lecco. Quando siamo in terra il lago diviene oggetto da guardarsi da lontano, e vengono innanzi le strade del paese, più o meno ripide o piane, alcune volte affondate fra due muri, donde non si scorge che un pezzo di cielo, e l’altre elevate su terrapieni aperti, donde la vista spazia per prospetti più o meno estesi.— Qui naturalmente viene un momento di tentazione estetica per l’autore. Dall’alto di quelle strade vi sono de’ prospetti sempre nuovi; voi vedete dove un pezzo e dove un altro di quel variato specchio dell’acqua del lago, dove chiuso fra un andirivieni di montagne, dove allargato fra altri monti, che il lago riflette capovolti con i paeselli che stanno sulla riva; quel lago che va a perdersi in lucido serpeggiamento tra’ monti che l’accompagnano, e che si digrada con essi sull’orizzonte. In questa scena v’è qualche movimento estetico, perché non c’è niente di più poetico; ma il Manzoni non vi dice le impressioni ch’egli ne risente; egli vi abbozza bellamente le figure che se ne veggono, e lascia al lettore di avere quelle impressioni che se ne possono avere. Sicché anche il plastico è il fondamento delle descrizioni manzoniane, descrizioni che non si possono dimenticare, perché in esse vi ha un ordine ed una successione, che vi sembrano un’azione che si sviluppa sotto i vostri occhi. Ed ora che abbiam discorso della forma del Manzoni, vediamo fino a qual punto essa è potente. Noi dividiamo la potenza di creazione artistica in tre gradazioni, il talento, l’ingegno e il genio. Il talento è vita meccanica, e ad averlo riescono anche i mediocri; e così volgarmente noi diciamo talento di osservazione, che si riferisco appunto ad un fatto meccanico. Tutti i poeti mediocri però hanno il talento: l’immaginare per esempio una generalità qualunque, formar 10 parti, sicché non abbiano fra loro dissonanza, aggiungere un po’ di colorito dell’immaginazione è il talento di poeti come Prati e Regaldi, i quali sono poeti di secondo ordine. L’ingegno poi è di molto pochi. Esso è la seconda vista, vista interiore, che vuol dire guardare lì di dentro dal di fuori. Goethe dice che il tesoro si deve cercare nelle profondità della terra, ed Heine che la scienza sta ne’ profondi recessi della natura. Or bene questo investigare profondo si chiama vista dell’ingegno, il quale può essere anche naturale o fisico; ed a differenza di essi, come del filosofico, l’ingegno poetico non è visione ma forza produttiva, perché deve spiegare la vita e realizzarla: ond’è che per lui non basta vedere bene i caratteri, la parte interiore, che basterebbe pel filosofo, ma riprodurli e presentarceli in azione. Ma chi ha questa forza deve avere di più la volontà di esplicarla, perché non esplicata, la sua forza rimane oziosa, insodisfatta. Un poeta per esempio a cui manchi la forza produttiva per mancanza di calore vi produce cose, come le tragedie del Gravina, aride perché non aveva il genio, ed egli si annoiava e non era tutto nella sua produzione. E qui notate che siccome il poeta che produce ha sentita la medesima impressione che sente chi legge, ciò che annoja lo scrittore annoja naturalmente il lettore, come nell’esempio apposto. E quando non trovate forza produttiva ma velleità, in modo che lo scrittore deve faticare per produrre, voi avete il gonfio e l’esagerato, il quale è sforzo e fatica, perché lo scrittore si sforzava per mancanza di facilità e di brio; in lui vi era sforzo e non forza. Ecco perché se l’ingegno basta al filosofo, non basta al poeta, il quale ha bisogno del genio. Ed il genio, o signori, non è il grado superlativo dell’ingegno; per esso non c’è quistione quantitativa, perché è sui generis, non è visione, ma è la volontà di realizzare la visione: e ciò si scorge anche nel linguaggio volgare, quando si dice che si ha genio a far qualche cosa, volendo esprimere il brio e la facilità, con cui quella qualche cosa è prodotta. Ed un segno esterno per riconoscere un’opera geniale è questo, quando cioè nell’opera di uno scrittore è cancellato lo scrittore, quando egli non vi ha lasciato menomamente l’orma di se stesso: che se vi accorgerete d’una impressione qualunque che l’autore lasciò di sé, nella sua produzione troverete immancabilmente lo sforzo e però l’esagerato.
Di poeti geniali ce n’è molto pochi, e fra questi il più geniale è Ludovico Ariosto, e dopo di lui si può mettere con franchezza il Manzoni. Manzoni è inferiore al Dante e al Petrarca per altro rispetto, ma in quanto alla facilità è difficile il raffrontarlo con chicchessia. Ed è superiore all’istesso Goethe, perché in costui ci vedete il filosofo che oltrepassa lo scopo della produzione, mentre Manzoni è veramente geniale, e la sua creatura più geniale è il Don Abbondio, carattere nuovo e la creatura più perfetta che sia uscita dalla sua immaginazione. Subito che Don Abbondio comparisce in iscena, voi lo trovate in una di quelle stradicciuole sul lago di Como; e voi avete avuto l’agio di osservare ne’ piccoli paesi alcuni buoni preti, che si fanno la loro passeggiata verso la sera, dicendo tranquillamente il loro ufficio, e fra un salmo e l’altro chiudere il breviario, tenendovi per segno il dito, e poi mettere le mani dietro la schiena e continuare il cammino, guardando a terra e buttando con un piede da un canto i ciottoli che fanno inciampo nel sentiero; e gli avete visti girare — perché hanno le teste vuote — oziosamente gli occhi intorno. A Don Abbondio, girando appunto gli occhi, si presenta una scena bellissima, della luce del sole già scomparso, che scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là ne’ massi sporgenti, come a larghe ed inuguali pezze di porpora. Ebbene Don Abbondio si ferma macchinalmente, ed aperto di nuovo il breviario, recita un altro squarcio... quella scena non gli ha prodotto impressione veruna. Avete dunque qui tutto intero l’animo di Don Abbondio non mediante riflessioni dell’autore, ma per atti che il Manzoni ha ritratti dal vero; certi piccoli atti caratteristici, che sfuggono a’ mediocri, ma che egli scolpì sì vivamente, perché è produttore geniale.Ora dopo tutto questo lavoro critico che noi abbiamo fatto, non potendo esaminare tutti i personaggi del romanzo, ne sceglieremo uno per vedere come egli vive nel lavoro del Manzoni, e prenderemo appunto il Don Abbondio, e ne faremo oggetto della ventura lezione.
Lezione XIII. [La forma dei «Promessi Sposi» - Don Abbondio]. — Correzioni al giornale:
Ecco il resoconto di questa lezione nella redazione pubblicata sull’Era Novella del 9 maggio 1872:
Siamo giunti, o signori, al più alto punto della forma artistica, al genio; forma tanto elevata e così inerente al fenomeno oscuro della vita artistica (perché anche l’estetica ha la sua parte oscura), che nel principio coloro che hanno osservato quel fenomeno lo hanno fatto derivare da qualche ragione miracolosa, e lo chiamarono l’ispirazione, che è appunto il fenomeno che essi non potevano spiegare, e che secondo loro veniva dal di fuori, e da qualche cosa di divino; e come i sacerdoti erano ispirati dall’oracolo, i poeti si sentivano agitati da tale divinità. Or noi abbiamo mostrato in che consiste questo fenomeno, quando abbiamo detto ch’esso consiste nel genio, ch’è l’attitudine e la volontà di realizzare la concezione artistica. Abbiamo detto pure che l’ingegno si riferisce all’intelletto, ed il genio alla volontà; quel genio derivante da una forza superiore, che cerca manifestarsi, e che quando questa forza non c’è, rimane velleità; poiché è falso che volere è potere, ma potere è volere, perché colui che vuole senza la forza del potere, senza la forza del genio, non può darvi che noiose creazioni artistiche, ed ampollose: l’artista produrrà sempre a seconda il grado della forza artistica ch’egli ha.II mondo artistico non è solo quello che sta di rincontro all’artista; vi ha ancora, o signori, il mondo dei lettori: da una parte c’è la scena, e dall’altra la platea. Questi due mondi non hanno la medesima temperatura, perché nella scena gli attori compariscono e parlano con calore, perché le passioni in loro sono forti, e si ha una temperatura altissima, mentre lo spettatore sta freddo con le impressioni ordinarie della vita, ch’è la temperatura regolare. Se il poeta, dimenticando questi due mondi si gittasse nel mondo artistico, e confondendosi con esso, spingesse le immagini all’ultima esagerazione, se alzasse il tono, se gestisse sforzatamente, portasse le passioni al di lá dell’ordinario, egli è evidente che fra la scena e la platea vi sarebbe disuguaglianza di temperatura, e questa disuguaglianza sarebbe certamente una dissonanza. Bisogna dunque creare una temperatura media. Il mondo romanzesco è il mondo dei lettori, i quali possono mettersi in comunicazione con quello, riducendo le impressioni, i sentimenti ed i fatti in tale proporzione, che sia accessibile ad essi, sicché si elevino in quel mondo e sentano le medesime impressioni dell’autore. Questo carattere si trova appunto nella forma manzoniana: Manzoni vive nel mondo che crea; e vive senza confondersi con esso; che al contrario tiene a rimanerne staccato, a metterselo dirimpetto, a spiegarlo, a porlo in ridicolo, e neanche il Padre Cristofaro sfugge alla sua ironia: egli qualche volta pianta al meglio il personaggio e parla lui, facendo delle osservazioni e riducendo così il mondo artistico in proporzioni più convenienti agli spettatori. E di fatti voi vi ricordate quando Lucia non vuol dare il suo consenso per fare quel tal matrimonio di sorpresa perché non istava bene, perché erano degl’imbrogli e non erano cose lisce, e dimandava perché questa cosa non era venuta in mente al Padre Cristofaro? «Che volete che io vi dica?» risponde Agnese. «La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto, e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose...» E qui s’interrompe e soggiunge: «Ecco è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma dato che gliel abbiate, né anche il papa non glielo può levare». Questo interrompere una forma seria o tragica mercé il comico, è modo comune del Manzoni, il quale così tempera la forma artistica, facendola scendere al livello de’ lettori. Lucia dunque esita ancora, ed allora Renzo si accende, e dice che la finirà lui con un tal viso da non lasciar dubbio sulle sue parole, e che dovunque avrebbe raggiunto Don Rodrigo, avesse pur cento, mille diavoli nell’anima, finalmente era di carne e d’ossa anche lui: e qui interviene la madre e la figlia, e la scena dura per una pagina e mezza. E Lucia gittandosegli a’ piedi dice: «E io che male v’ho fatto, perché mi facciate morire?» — «Voi», dice Renzo, «voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non v’ho pregata, pregata e pregata? E voi: no! no!» — «Sí si», risponde precipitosamente Lucia, «verrò dal curato domani, ora, se volete; verrò». Se ora credete alla lettera alle escandescenze di Renzo, troverete che l’autore abbia spinta la scena, e l’abbia esagerata; ma Renzo lì era egli calcolatore, faceva egli l’attore, era la sua concitazione vera, o falsa? L’autore dice: non lo so, e crede che nemmen Renzo lo sapesse bene. E soggiunge: «Il fatto sta ch’era realmente infuriato contro Don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor d’un uomo, nessuno, neppure il paziente-, può sempre distinguere chiaramente una voce dall’altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini». Osservate dunque dietro questa ripresa dell’autore che in quella scena ci era una concitazione esagerata per fare impressione sull’animo di Lucia; esagerazione che è il motivo comico in forma tragica, per cui quella rappresentazione vien messa al livello della temperatura degli spettatori. E non solo Manzoni si stacca dal suo mondo, e se lo mette di fronte, ma egli guarda altresì gli spettatori e si mette in comunicazione con loro. Quando Don Abbondio riceve quelle tali minacce da’ bravi per cui rimase un momento a bocca aperta, come incantato, e poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate, l’autore si volge immediatamente a’ suoi venticinque lettori, e dice loro: vediamo qualcosa del naturale di Don Abbondio, e de’ tempi, in cui gli era toccato di vivere. Or questo mettersi in comunicazione diretta con gli spettatori crea appunto quella temperatura media che modera l’alta temperatura estetica.
Immaginate pure per esempio di piccoli paesi, dove sieno degli oziosi e vagabondi, che devastino, come i soldati spagnuoli a Lecco, i campi, le viti, che disonorino le fanciulle e commettano di simili enormità. Considerando tutto ciò nel mondo reale in cui avviene, è orribile cosa, guardando l’interesse delle famiglie che risentono que’ danni, e immaginando il loro dolore. Ora supponete che l’autore voglia rappresentare questi fatti con le impressioni de’ danneggiati, si metterà egli nella condizione dei lettori? V’ha certi fatti, o signori, che se per la prima destano indignazione, ripetuti diventano fatti ordinarii. Ora naturalmente si pensa che i soldati cercano fortuna, e si ride su quelle cose che prima facevano inorridire; e se l’autore avesse voluto rappresentare que’ fatti con la prima impressione avuta da’ contadini di Lecco,- si sarebbe messo in contradizione coi lettori presenti. Ond’è che il Manzoni cerca d’introdurre il comico in quel racconto, e vi dice che quel borgo aveva l’onore di alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnuoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre, e sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Vi presenta in somma come benefício quello che non era che oppressione e delitto. Or questo modo di rappresentare i fatti è il rappresentarli secondo il mondo de’ lettori.
Guardate pure quel momento quando Lucia si è persuasa,- dietro l’escandescenza di Renzo, di andare in casa di Don Abbondio; dopo che Renzo dice: «Signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie», e che Lucia aveva potuto appena profferire «questo è...», Don Abbondio addivenuto coraggioso per paura, buttando per terra libro, carta, e la lucerna, imbacuccando Lucia col tappeto, chiama Perpetua, e poi grida a’ ladri; l’autore si ferma a questa scena e dice: «Renzo che strepitava di notte in casa altrui e che vi si era introdotto di soppiatto, ha tutta l’apparenza d’un oppressore, eppure, alba fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure in realtà, era lui che faceva un sopruso». E soggiunge: «Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo». L’impressione che produce questa frase è che non c’è niente di più vero pure oggi, — del fatto reale contro la sua apparenza, e l’ironia — che così andava nel secolo XVII — fa sì che quella scena tragica degenera nel comico, mettendosi così in comunione con lo stato dell’animo degli spettatori presenti.
Ora avviene, o signori, che se il più delle volte conviene abbassare la temperatura artistica, in altre conviene elevarla perché il grado della temperatura de’ lettori è più avanzato. Quel momento per esempio, in cui Renzo, Agnese e Lucia debbono allontanarsi dalla patria loro! Ebbene che cosa avete voi? Tre contadini,- tre persone del popolo, che certamente non sono al livello de’ lettori intelligenti. Vediamo che cosa fa Manzoni? I tre viaggiatori entrano nel battello; non tirava un alito di vento, ed il lago sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggero della luna; essi con la testa voltata indietro guardavano i monti ed i paesi rischiarati dalla luna; si distinguevano i villaggi, le case, le capanne ed il palazzotto di Don Rodrigo, con la sua torre piatta, che elevandosi sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce, che ritto nelle tenebre, in mezzo ad una compagnia d’addormentati vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vede e rabbrividisce, e scendendo con l’occhio giù per la china scopre la sua casetta, scopre la chioma del fico, che sopravvanzava il muro del cortile, scopre la finestra della sua camera, posa il braccio sulla sponda, sul braccio posa la fronte, come per dormire, e piange segretamente. E poi, e Renzo ed Agnese? Silenzio sepolcrale: voi ci avete in quel silenzio l’espressione degli uomini del popolo.
Ebbene qui l’autore interviene per mettere in comunicazione quegli uomini col mondo de’ lettori, e fa l’«Addio» di Lucia. Lucia quando guardava que’ luoghi cari per memorie pensava forse? No, signori, ella piangeva; l’autore vi dice cose che quella giovinetta non dice a se stessa, e vi traduce quelle rimembranze in linguaggio poetico.
«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto dei suoi più famigliari; torrenti de’ quali distingue lo scroscio,- come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti, addio!...
Addio, casa natia, dove sedendo con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore di un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa-, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio!»
Tutto questo movimento lirico non si poteva certamente operare nella testa d’una popolana, ed è l’autore che rialza quella temperatura bassa fino al grado di quella de’ lettori. Voi non troverete nella poesia italiana antecedente un poeta che si metta così direttamente in comunicazione con i lettori, che vi spieghi e vi sminuzzi il vero come il Manzoni; e per noi non è più un mistero la popolarità de’ Promessi Sposi, perché Manzoni è il poeta che si mette in comunicazione con tutte le classi popolari, ritraendo tutto dal vivo — e per questo riguardo non possono mettersi nemmeno in confronto le popolari Mie prigioni di Silvio Pellico.
Qual’è ora la conseguenza che nasce da tutto ciò che abbiamo detto?
Nel Manzoni voi avete tre grandi centri: quello del bene, rappresentato da Fra Cristofaro e dal Borromeo, quello del male da Don Rodrigo e dall’Innominato, e l’intermedio, che ha un po’ dell’uno e dell’altro, e che però si accosta di più al comune della vita.
Quale di questi tre gruppi sono usciti con carattere piú geniale dell’immaginazione del Manzoni?
È il gruppo intermedio dove Manzoni sta più a suo agio, gruppo rappresentato specialmente da Don Abbondio; ed è questa la conseguenza del già detto.
Ora domandiamo qual’è la genialitá di questa figura.
V’ha due specie di comico, o signori, il comico dell’intelletto, che è la sciocchezza, ed il comico della volontà che è la paura.
Il primo momento comico è il Calandrino, ch’è il comico intellettivo, e che rappresenta il risveglio dell’intelligenza negli Italiani, poiché tutto ciò che è ignoranza della plebe vien messo in ridicolo; è la borghesia progredita nell’intelligenza che si diverte alle spalle di quella. Ed all’ironia intelligente della borghesia di que’ tempi offriva campo anche il prete, il quale, abusando dell’ignoranza della plebe, faceva crederle tutto ciò che voleva per interessi proprii ed interamente mondani; ed accanto al prete ci avete il frate, la cui caricatura è nel Fra Timoteo del Macchiavelli. Sicché la plebe ed il prete erano le due basi comiche di que’ tempi.
Dopo il Concilio di Trento il prete sparì dalla scena: e poiché la volontà di far qualche cosa cresce a misura che una legge la proibisce, invece del prete, dopo il Concilio, trovate l’Astrologo, il quale, come il primo, cerca d’ingannare gl’ignoranti per profittarne. E dopo quell’epoca il prete non comparve più sulla scena fino a’ Promessi Sposi, se se ne accettano certi lavori osceni scritti anche da preti; e voi già indovinate le novelle dell’Abate Casti.
Questo fondamento del comico subì una modificazione dopo il Cinquecento, perché le classi fatte comiche erano due-, la Nobiltà ed il Clero, e la prima ebbe il suo poeta in Parini, il quale era pure un prete, e che è il grande comico sociale, a cui si può aggiungere il Tartufo di Molière.
Fin qui abbiamo il comico dell’intelletto.
Dopo il Concilio di Trento il comico è scambiato; quella che pria metteva, ora è messa in caricatura, ed il comico va a riversarsi sopra la borghesia, che prima aveva posto in burla la plebe ed il prete, borghesia tuttora istruita, ma debole di fronte alla oligarchia, e però ipocrita, carattere che conserva tuttora. Ora il Guicciardini, ne’ suoi Ricordi, elevò con fina critica ad arte di saper vivere tutta l’abbiezione di quella classe, e la sua formola è: stare col piú forte; navigare in modo destro da non aver brutti incontri; la ragione star nella forza, e simili.
Ora nessuno in Italia aveva prima del Manzoni rappresentata e messa {{smaller|in azione questa degenerazione del carattere italiano, e da ciò vedete la grande importanza del Don Abbondio, il quale non è ridicolo perché prete, ma perché con la sua pochezza d’animo, col suo latinorum, e con la pieghevolezza della schiena, rappresenta in grado eminente l’altra forma di comico non ancor rappresentata, il comico della volontà, la paura contro la forza.
E vi dico che questo è un carattere comune a tutto quel mondo intermedio del Manzoni, e vedete che a Lecco sottosopra tutti quanti erano come Don Abbondio; e voi vi rammentate il Dottor Azzeccagarbugli, che cacciò via Renzo quando capiva che si trattava di Don Rodrigo, ed il Console che soggiace alle intimazioni de’ bravi di questo tirannello, e ci avete perfino un oste. Sapete che quando Renzo e Gervasio stavano in quell’osteria a preparar la sorpresa a Don Abbondio, Griso ed altri bravi erano di fuori, aspettando il momento per far la sorpresa a Lucia e ad Agnese.
Tutti meditavano una sorpresa. Renzo vede i bravi e dimanda all’oste: «Chi sono que’ forestieri?» E l’oste (che già li conosceva) risponde che non li conosceva, e che la prima regola del suo mestiere era di non domandare il fatto degli altri; e che si starebbe freschi con anta gente che andava e veniva, che l’osteria sembrava un porto di mare.
Il Griso alla sua volta si avvicina all’oste per sapere chi erano que’ galantuomini arrivati; e l’oste: «Buona gente qui del paese»; ed insistendo il Griso, dice i nomi di Renzo, Gervasio, e Tonio. Il Manzoni dopo ciò aggiunge che «osservando al diverso modo che teneva costui nel sodisfare le domande, era un uomo così fatto che in tutti i suoi discorsi, faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale; ma in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh!» E qui notando quest’ultima ironia del Manzoni, possiamo dire che la situazione del comico rappresentato da Don Abbondio è comune a tutti i personaggi di quel gruppo intermedio.
Vediamo ora come questa situazione si presenta. Avete vista la magnifica messa in iscena di Don Abbondio il quale tornava dalla sua passeggiata, dicendo tranquillamente il suo ufficio, e tra un salmo e l’altro, chiudendo il breviario, e mettendo per segno l’indice della mano destra, che proseguiva il cammino, buttando da un lato i ciottoli che facevano inciampo sul sentiero. Volete ora vedere in due parole venirvi innanzi tutto ciò che v’ha di comico in Don Abbondio?
Ma bisogna prima fare la seguente osservazione. Chi ha la forza ha sempre ragione. A questo proposito debbo dirvi ch’io non ho potuto leggere senza ribrezzo i proverbii del Giusti; basta leggerli per vedere la degenerazione del popolo di Firenze. In essi non s’inculca altro che la pazienza, il chinare il capo alla forza prepotente; in quei proverbii popolari voi vedete che anche nel popolo è forte l’idea che l’uomo deve fare i fatti suoi, e scansar tutti i contrasti, e cedere in quelli che non si possono scansare, come faceva Don Abbondio. Chi ha dunque la forza ha la ragione, perché la fa valere con essa; ma a poco a poco l’animo del prepotente si perverte in modo che prende l’aria di chi ha ragione veramente, siccome i re, che a forza di sentirsi dire che sono al di sopra degli altri uomini, se lo credono davvero. E vi ha d’più, che il debole che ha la ragione di rincontro al forte, che la fa valere con la forza, prende l’attitudine di chi ha torto, che anzi è nel caso di addurre scuse come se, con tutta la ragione, avesse commesso un delitto.
Ed ora vedete come Manzoni vi delinea in due parole l’animo di Don Abbondio.
I bravi incontrano Don Abbondio, ed uno di essi con tuono come se avesse ricevuto un torto dal povero curato gli dice: «Lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!» E l’autore vi dà la parte plastica del bravo nelle parole «proseguí l’altro con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia». E Don Abbondio timido,- avvezzo ad abbassarsi dinnanzi a’ signori ed a’ loro servi, se ne fa imporre, e con voce tremolante risponde: «Cioè, cioè...» In questa parola voi vedete tutto il comico di quel personaggio.
Ma queste sono larghe considerazioni, e nella ventura lezione vedremo quanta ricchezza di note sa cavare il Manzoni da questo motivo generale.
Lezione XIV. [Don Abbondio].— Avvertiamo che le citazioni dai Promessi Sposi contenute in questa lezione e nelle seguenti, e riferite dall’ignoto uditore dell’Era Novella secondo il testo del 1842, sono state da noi puntualmente ricondotte al testo del 1827, in conformità con le predilezioni manifestate dal De S. negli ultimi due saggi e nelle stesse lezioni raccolte dal Torraca. Laddove una parte della citazione risultava deformata rispetto a entrambe le edizioni, abbiamo ugualmente adoperato quella del ’27, data la minore attendibilità, rispetto alla trascrizione del Torraca, di quella dell’ignoto uditore, per cui non ci è parso il caso di dover far risalire quelle deformazioni allo stesso De S. (che del resto doveva avere il testo sott’occhio). Comunque ne diamo qui un elenco, avvertendo che indicheremo senz’altro con PS il testo del ’42, e naturalmente con la numerazione della nostra edizione il testo del ’27: p. 276 rr. 10-12: «Fanno i loro piastricci ecc. a riscuotere», PS: «Fanno i loro pasticci tra loro e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscuotere», R: «Fanno i loro pasticci e poi... vengon da noi come a riscuotere da un banco»; p. 277 r. terzultimo: «facesse per dispetto» (così anche PS), R: «facesse a dispetto»; p. 280 r. 6: «illustrissimo signor don Rodrigo» (così anche PS), R: «illustrissimo D. Rodrigo»; p. 282 r 3: «ad altro, non si fanno» (così anche PS, a parte il punto e virgola invece della virgola), R: «ad altro, e non si fanno»; ivi r. 14: «Giunto fra il tumulto di questi pensieri alla porta della sua casa», PS: «Giunto ecc. di casa sua», R: «Giunto alla porta di casa, fra il tumulto di questi pensieri»; p. 284 r. n: «costretta di domandare», PS: «costretta di domandar», R: «costretta a dimandar»; ivi r. 22: «averle fatto» (così anche PS), R: «averla fatta». A p. 283 r. 5 abbiamo però lasciato il termine «ravviluppato» (PS del ’27: «avviluppato», PS del ’42: «legato»), della cui relativa autenticità il trascrittore non aveva coscienza (tanto vero che al r. 8 ha: «dove l’autore dice ‘passo legato’», da noi sostituito con «ravviluppato») e che del resto è ripreso indirettamente al r. 10: «ed il passo si avviluppa». Non di deformazione, ma di vero e proprio errore si deva parlare invece a proposito dell’omissione del «non» a p. 278 r. 24: «chi lo farà non se ne pentirà».
Correzioni al testo del giornale:
{Pt|| }}Lezione XV. [Don Abbondio]. — Diamo un elenco delle citazioni dai Promessi Sposi deformate rispetto a entrambe le edizioni: p. 286 rr. 6-7: «Eh! ci vuol altro cerotto, ci vuol altro cerotto, ci vuol altro cerotto», PS: «Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro», R: «Ci vuol altro cerotto, ci vuol altro cerotto»; p. 288 r. 23: «era un partito» (così anche PS), R: «fu un partito»; p. 289 rr. 24-25: «Egli pensa all’amorosa», PS: «Egli pensa alla morosa», R: «Tu pensi alla morosa» (in questo caso abbiamo però rispettato l’uso che fa R della seconda persona, in coerenza con la frase che introduce la citazione: «finge che Renzo gli sia dirimpetto e dice»; così pure a p. 290 rr. 2526); p. 291 rr. 18-19: a ma che sonno!» (così anche PS), R: «che sonno!»; p. 292 rr. 6-7: «Son venuto, signor curato, per sapere a che ora le convenga che noi ci troviamo in chiesa», PS: «son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa», R: «Signor curato a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa?»; p. 296 rr. 31-32: «Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò», PS: «Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò», R: «Don Abbondio vide, si spaventò». A p. 296 rr. 6-7, in un brano dove ricorrono termini desunti dall’edizione del ’42, abbiamo sostituito quei termini coi corrispettivi del ’27: «Tonio carpone che scopa colle mani il pavimento per adunghiare la sua quitanza, Gervaso che grida e trasalta spiritato», R: «Tonio carpone che spazza con le mani il pavimento per raccapezzare la sua ricevuta, Gervaso che grida e saltella spiritato». Analogamente, a p. 297 r. 24 abbiamo sostituito «buttò» con «gittò».
Correzioni al giornale:
Lezione XVI. [Don Abbondio - Don Rodrigro - Padre Cristoforo]. — Citazioni dai Promessi Sposi deformate rispetto a entrambe le edizioni: p. 300 r. ultimo: «a cercare quella madre, per condurla qui», PS: «a cercar quella donna, per condurla qui», R: «a cercar della madre di quella poveretta» (abbiamo lasciato questa deformazione perché necessaria nel contesto, in quanto nel discorso introduttivo la madre di Lucia non è nominata, a differenza che nel testo manzoniano); p. 308 r. 31: «gran cappe» (così anche PS), R: «grandi cappe»; p. 3x0 r. 5: «verso don Rodrigo» (così anche PS), R: «verso di lui» (anche qui abbiamo lasciato la deformazione, perché don Rodrigo è già nominato nella frase introduttiva). Abbiamo sostituito, fuori delle citazioni dirette, parole del testo del ’27 a parole del testo del ’42 nei seguenti punti: p. 308 r. quartultimo: «servi», PS e R: «servitori»; p. 309 r. 27: «gragnuola», PS e R: «grandine». Viceversa a p. 302 rr. 11-13: «sulla sua faccia con una smorfia, con un versaccio, che don Abbondio nascose, chinando profondamente la testa in segno di ubbidienza», alcuni termini del testo del ’42 («sulla sua faccia», «un versaccio», «la testa», «di ubbidienza») essendo strettamente legati al giro stesso della frase di R, non sono stati da noi sostituiti.
Correzioni al giornale:
- ↑ Nella Biblioteca Nazionale di Firenze abbiamo potuto consultare i numeri della Libertà, eccetto quelli del 3, 14, 20, 21, 22, 23, 27, 28 e 29 marzo, mancanti nella collezione; e l’intera serie dell’Era Novella. Nella stessa biblioteca abbiamo anche ritrovato le copie del Pungolo già esistenti nella Biblioteca Lucchesi-Palli di Napoli e lì consultate a suo tempo dal Cortese e successivamente da noi per la precedente edizione. Nella Biblioteca Provinciale di Avellino (Emeroteca Tozzoli) abbiamo consultato le copie della Libertà mancanti nella Nazionale di Firenze.
- ↑ Cfr. L’Introduzione al saggio su Leopardi, ed. cit., p. 1. Il De S. parla esplicitamente delle lezioni pubblicate sul Roma, ma tutto il contesto riguarda i tre primi corsi, e quindi anche quello sul Manzoni.
- ↑ Citiamo alcune scorrettezze dell’Era Novella: p. 219 r. 9: «il suo mondo morale e religioso non è quello di Goethe ecc.», Era Novella: «Il suo mondo morale e reale non è il mondo di Goethe ecc.»; p. 228 rr. 3-4: «chiamò tutto a nuovo esame, e pubblicò il Discorso sul romanzo storico», Era Novella: «richiamò a novello esame il suo romanzo e pubblicò il discorso del Romanticismo in Italia»; p. 247 rr. 23-24: «fin dal principio presenta un quadretto di genere», Era Novella: «vi presenta fin da prima una specie di quadro di getto»; p. 248 r. 1: «nella proporzione e armonia delle parti», Era Novella: «nella proprietà e nell’armonia di essa [rappresentazione]»; p. 249 rr. 8-9: «Torquato Tasso fu il poeta della reazione del Concilio di Trento», Era Novella: «Torquato Tasso infatti fu il poeta che sorse come reazione contro il Concilio di Trento»; ecc.
- ↑ Il Torraca arrivava addirittura a preferire le lezioni ai saggi originali, esprimendo il rammarico suo e dei suoi condiscepoli per la rimanipolazione compiuta dal De S. nei riguardi dei materiali del primo e dell’ultimo corso: «La materia di quel primo corso, il professore riordinò e riassunse in parecchi saggi. Pensava che, ai lettori delle riviste e dei volumi, non doveva esser presentata con la larghezza di esposizione e l’abbondanza di esempi e di prove convenienti a lezioni universitarie. Noi non sapemmo risolverci a dargli ragione, né allora, né quando, allo stesso modo, rielaborò e condensò il corso sul Leopardi. La forma ricca, varia, mossa, calda della trattazione orale, ci pareva impoverita, mortificata da quella severa cura di brevità e di rilievo. Le idee sostanziali erano le stesse; ma ci pareva non avessero più il calore e il colorito, con cui erano sgorgate dalle sue labbra» (La settimana, numero citato, p. 404).