< Alessandro Volta, alpinista
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II

III.

Ma non è solo nella parte occasionale de’ suoi viaggi che Alessandro Volta mostrò d’avere l’intuito dell’alpinismo: per altre manifestazioni non meno importanti egli merita d’essere collocato fra i precursori di questo grande prodotto del secolo che sta per chiudersi. Ecco innanzi a noi l’inventore della pila in veste di poeta-alpinista! Dieci anni dopo aver compiuto il viaggio nella Svizzera, egli dettò un carme in omaggio al suo amico De Saussure, che nell’agosto del 1787 riuscì finalmente nella impresa per tanto tempo agognata: quella, cioè, di toccare la vetta del Monte Bianco. Così merita pure di sedere fra i poeti della montagna, come fra i poeti della scienza per altre sue composizioni, e specialmente per un poemetto scritto a 19 anni in esametri latini sopra alcuni fenomeni chimici e fisici, e per una bellissima ode sull’innesto del vaiuolo, dettata quando era già maturo1. In un suo sonetto poi — scritto, dicesi, a sedici anni per la vestizione religiosa fra i Somaschi del nobile Giorgio Odescalchi — trovasi una bella imagine alpinistica; difatti il sonetto comincia:

Giovin signor, che con arditi passi
   Movi a calcar l’alpestre arduo sentiero,
   Vedesti qual l’inaspra ispido e nero
   Di rami ingombro o inospitali sassi?

Il Volta non è venuto meno alla tradizione eminentemente italiana dell’armonia fra la scienza e l’arte, del mutuo riverbero, come direbbe l’Humboldt, fra il pensiero ed il linguaggio. I principali scienziati del nostro paese furono, nel tempo istesso, ottimi scrittori, e talvolta anche poeti. La letteratura italiana ha splendidi modelli di prosa nelle opere scientifiche del Galilei, del Castelli, del Cavalieri, del Torricelli, del Boselli, del Redi, del Cassini, del Viviani, del Magalotti, del Vallisnieri, dell’Algarotti, dello Spallanzani, del Brocchi, dello Stoppani e di tant’altri valenti che seppero esporre con forma eletta e viva le più ardue nozioni delle rispettive dottrine. E fra gli scienziati poeti basterà ricordare i matematici Paolo dell’Abbaco, il Maurolico, l’Alberti, il Baldi, il Torelli, il Marchetti, il Tartaglia, il Manfredi, il Ceva, il Clerici, il Mascheroni, il Venini, il Del Grosso, ecc., per dare una idea della pleiade d’illustri italiani che mentre coltivavano le più severe e fredde discipline, avevano slanci di vera e calda poesia. Seguendo appunto questa tradizione il Volta, benchè profondamente immerso nelle sue esperienze e nelle sue ricerche di fisica, si dilettò di belle lettere, ed usò della poesia per manifestare a quando a quando i moti del suo animo, che estasiavasi al cospetto delle magnificenze della natura e commovevasi agli ardimenti degli studiosi per istrapparne i segreti. L’ascensione al Monte Bianco era proprio tale impresa da eccitar l’estro del Volta, sia pel grande valore scientifico della stessa, sia per l’amicizia cordiale che legava da parecchi anni il fisico di Como al naturalista ginevrino.

Il componimento di cui parlo è rimasto fino ad oggi inedito, e molti dei biografi del Volta non ne ebbero notizia. Il Monti soltanto ne fece un cenno elencandolo tra le opere inedite e riportandone le prime quattro strofe2. Zanino Volta, nel suo studio biografico3 ne parlò pure brevemente, trascrivendone i primi dieci versi; ma ne diede più larga notizia, riportandone una decina di terzine, in apposita nota presentata all’Istituto Lombardo nella seduta del 19 giugno 1884 4. Recentemente lo stesso Zanino ne riparlò, citandone tre strofe5, e pure tre strofe si leggono nella biografia del Volta testè compilata da Luigi Porlezza6.

Sono due gli autografi che si hanno di questo carme, ed entrambi si trovano all’Istituto Lombardo predetto, l’uno di provenienza della famiglia Volta, l’altro donato dal prof. Luigi Magrini7. Non sono però eguali: uno contiene correzioni e varianti, epperò deve considerarsi come il migliore, sebbene non ancora riveduto anch’esso in modo definitivo. Giustamente osserva il nipote Zanino: «Il confronto dei due esemplari ci manifesta parecchi pentimenti, e l’uso del nostro fisico-poeta di sottosegnare con una specie di piccolo scarabocchio, che sembra, ma non è casuale, que’ passi o parole di cui non era contento; laonde apprendiamo ch’esso non amava soffermarsi a far correzioni durante il primo getto, seguendo piuttosto lo slancio del pensiero per riservarsi a modificare e correggere poi. La facilità al verseggiare, la pronta abbondanza di nobili pensieri, e una certa fantasia non gli mancarono senza dubbio, ma, non aspirando egli al lauro d’ottimo poeta, e modestamente pago d’ascriversi tra coloro che con parola di moda chiamerò dilettanti di poesia, non sudò per fermo giammai nè all’atto di dettar versi, nè al successivo più paziente e sì difficile lavoro della lima, come forse sudarono e stentarono altri che a’ tempi suoi si proclamavan da se stessi eccellenti autori. Uomo di squisito sentire, incapace d’invidia, ricorreva alla poesia quando gli commovesse l’animo alcun fatto rilevante che toccasse persone da lui amate o stimate, perciò la freddezza non è il difetto della sua musa, come non è suo pregio la perfetta eleganza degli ornamenti: più spontaneità che studio tu vi riscontri, una certa altalena di merito letterario e ineguaglianze di forma che tradiscono la poca fatica spesavi attorno e in pari tempo la possibilità di far meglio».

Queste osservazioni mi dispensano di entrare a discorrere del merito letterario del carme in parola. Lo faranno, se mai, i critici di professione, ai quali però sento il dovere di comunicare l’autorevole giudizio che ne ha dato Giosuè Carducci, ch’ebbe la compiacenza di leggere sulle mie bozze di stampa il carme del Volta. Premesso che appartiene al genere di quella «falsa eloquenza poetica affatturata che usava nel secolo passato, massime in Francia», il sommo poeta dice: «Lingua e verseggiatura sono quasi sempre corrette: la forma studiata, è della migliore di quel tempo: chi scriveva così aveva una vera coltura letteraria e pratica del verseggiare». Giudizio, come si vede, abbastanza lusinghiero8; d’altronde, a me basta di rendere pubblico — dopo un secolo e più che è stato scritto — questo componimento del Volta, non per la smania banale di stampare tutte le briciole cadute dalle penne illustri, ma perchè esso serve alla mia tesi, attestando con quanto interesse il grande fisico seguisse i primi conati alpinistici. Esso è intitolato precisamente così: Omaggio al sig. di Sossure per la sua salita alla cima del monte Bianco e le sperienze ivi fatte ne’ primi d’agosto del 1787, e subito dopo segue l’avvertenza: Traduzione libera dal francese. A questo riguardo il prof. Magrini fa notare, ed il biografo Zanino approva, che non si tratta di traduzione d’una poesia d’altro scrittore: il Volta, praticissimo dell’idioma francese, avrà dettato il carme in tale lingua, e poi per passatempo lo voltò in terzine italiane; probabilmente anzi, a parer mio, il testo francese l’avrà scritto a Ginevra, mentre colà si trovava, giacchè proprio nel settembre di quell’anno, come abbiam già visto, recossi in quella città allo scopo appunto di trovare il De Saussure9. Che poi sia veramente traduzione dal francese tiene anche il Carducci. Ma ecco senz’altro il carme, con le note istesse con cui dal suo autore è stato illustrato10.

Alfin su quella inaccessibil vetta
  Di Natura confin potè Sofia
  Poggiare ai fianchi di Sossure stretta;

Alfin la fronte indomita, restia
  Del gigante de l’Alpi altero vinse
  L’arte che di salir trovò la via.

Invano i fianchi d’irti scogli ei cinse
  E a l’ampie spalle feo con strane forme
  Scudo de l’onda che in cristallo strinse,

Che non può umano ardir, che mai non dorme?
  L’intrepido Sossur que’ scogli algenti
  Stampa con franco pie’ di novell’orme.

Mugghino pure la procella e i venti,
  E corona facendo all’alte rupi
  Sciolgan dall’atro crin mille torrenti,

Che piombando per balze e per dirupi
  Divelti massi, infranti scogli all’onde
  Misti travolgan giù per gli antri cupi;

Rimbombino le valli; e l’erme sponde
  Crollando, e i ponti a diroccar già presti
  Apran nuove voragini profonde;

L’eroe non teme; dopo i dì molesti,
  Dopo le nubi tempestose, un giorno
  Spunterà, che la gioia in lui ridesti.11

Apparso è il sol: ei già spïando intorno
  Qual fia men dubbio calle, ardito move
  Ad affrontare il periglioso corno

Dicea tra sè: «Pur salirò là dove
  Siede, cinta d’un vel, l’alma natura,
  E scoprirò sue belle forme nuove».

Così la strada faticosa e dura
  Tenta alleviare; e i suoi compagni incerti
  E pavidi conforta e rassicura. 12


Lo seguon venti cacciatori esperti,
  Usi il dotto stranier, Brittanno o Franco,
  Spesso guidar per que’ sentier deserti;

Ei più ardito di lor, di lor men stanco,
  Superati gli scogli, il primo segna
  Ne’ rotti ghiacci il carnmin aspro e bianco,
 
E quando là, dove silenzio regna
  E morte e orror, scende la notte bruna,
  Su’ ghiacci stessi di posar non sdegna

L’affaticato fianco; e l’importuna
  Sete col ghiaccio pure a stento accheta.
  Che in cavo rame egli discioglie e aduna.

Sorgea del terzo dì l’alba più lieta,
  Quand’ecco fuor della gelata stanza13
  Mossero in ver la sospirata meta.

Ora il più aspro del cammino avanza:
  Non i Titani vi porrìano il piede.
  Che di salir al cielo ebber baldanza;

Quei d’appressare la siderea sede
  Tentaro invan, chè fulminato e spento
  Giacque, e tal ebbe il folle ardir mercede.
 
Il tuo, Sossur, più nobile ardimento
  Sieguon migliori auguri: i voti accesi
  Di tanti cuor, del mio, non sperda il vento!

Genio dell’Arti préside, se resi
  Ami a’ tuoi santi altari e culto e onore,
  Sian dell’eröe i dì per te difesi!

E tu, o Natura, che il soverchio ardore
  De’ scrutatori tuoi in ira avendo.
  Spesso punisti un innocente errore,

Tu, ch’ai rimoti tempi, in quel tremendo
  Giorno allor che ’l Vesevo il chiuso lato
  A sè stesso squarciò con scoppio orrendo,

Sotto pioggia di cenere infocato
  Il tuo gran Plinio pur volesti estinto.
  Ch’oggi in Sossure ognun mira rinato;


Tu, che pur or dall’etra, ove sospinto
  Con stupenda virtù Pilatre14 s’era,
  Cader facesti dal suo peso vinto,

Sì che la salma affumicata e nera
  Parve accoglier pur ei dolente il suolo,
  Non che d’amici la pietosa schiera,

Natura, in questo fortunato e solo
  Giorno a’ trofei del nostro eroe prescritto,
  Deh! non rinnova all’Arti un simil duolo!

Già ver l’estremo vertice, che ritto
  Tutto di ghiaccio solido s’innalza,
  Giunto è co’ suoi il condottiero invitto:

Inerpicati su per quella balza
  L’occhio li scopre alfin del popol folto,
  Che per mirarli già si preme e incalza.

Siede nel fondo non deserto e incolto
  Della valle un päese15; ivi in aperto
  Loco si stava il popol tutto accolto;

Ognun pendeva desïoso, incerto
  Fra timore e speranza; ma il timore
  Vincea nel core più in amare esperto,

Nel più tenero core: ahi! Sposa, ahi! core,
  Che non soffrivi? Deh! perchè non fui
  Misto io pur allo stuolo spettatore?

Tu il fosti, e gli occhi immobili su lui
  Tenendo, che alla meta mai giungea,
  Spettacol di te offristi agli occhi altrui,16

Quando tremante la tua man correa
  A quell’ottica canna, che d’un dio
  D’amore invenzïone esser dovea,

Che il dolce ben, poi che da noi partio,
  Ravvicina pur anco, e il caro volto
  Svelato rende al cupido desìo,


E il ritorno di lui atteso molto
  Discopre all’amoroso impazïente
  Sguardo da lungi a rimirar rivolto.

D’ordigno tale armata in fra la gente,
  Che stringesi a’ tuoi fianchi, immota resti,
  Poi «ecco, eccol lassù!» gridi repente,

E chiami ad osservarlo, e il tubo appresti
  Alle suore dilette, ai dolci figli,
  Con trasporto abbracciando or quelle or questi;

Con lor movi questioni e ti consigli
  Sul sperato ritorno del consorte,
  Cui aspettan tuttor nuovi perigli.

Ma dov’è la tua figlia? Avversa sorte
  Non la torria da te; ma un dolce peso,17
  Che il sen le grava, ritien l’alma forte:

Ella da’ patrî tetti il guardo inteso
  Al lontan monte, fuor che ghiacci e orrori
  Non vede, e sol di tema ha il cor compreso.

Udisse almen le grida ed i clamori
  Di gioia, e il suon de’ timpani festivi,
  Che il bel trïonfo annunzia a’ spettatori!18

«Vivi! Sossure» grida ognuno «vivi!»;
  Se’ giunto, hai vinto; or sarà ben che l’opre
  Tutte a svelare di natura arrivi.

Ma quale mai agli occhi tuoi si scopre?
  Tutto, se all’alto al basso il guardo giri,
  D’insolito color s’ammanta e copre:

In ebano cangiati ha i suoi zaffiri19
  Il cavo ciel; pur l’aureo sol più chiaro
  I rai giù piove da’ lucenti giri.

Ma che? Se a un tempo prodigo ed avaro
  Pari alla luce il caldo non dispensa
  E l’aere agghiaccia trasparente e raro?


Sotto a’ tuoi pie’ profondi abissi, e densa
  Caligin miri; intorno un mar di nevi,
  E d’ombre pinta la pianura immensa.

Il dotto sguardo allor tu rivolgevi
  Ai varî ordigni, onde le varie tempre
  Sai del foco scoprir, dell’aure lievi;
 
A quegli ordigni, che a te fidi sempre
  Soglion predire il dì futuro, o splenda
  Sereno, o in pioggia si disciolga e stempre.

E a chi più nota mai fu la stupenda
  Del liquido metal virtude, e quale
  Ne’ vitrei tubi inchiuso or salga or scenda?

Pur qual, mirando, alto stupor t’assale.
  Ch’oltre una spanna esso discese, e meno
  Di due nel tubo sostenersi or vale,20
 
Nell’alto tubo, che un aperto seno
  Mentre offre all’aria, il varïabil peso
  Bilanciando di lei ti scopre appieno.

Nell’altro angusto tubo esso è pur sceso
  Sì, che segno non sol d’acuto gelo,
  Ma della morte di natura è reso;21

Quindi è che ninno in quell’estranio cielo
  Di terra o d’aria abitator vedesti,
  Nè fronda, od erba di vivace stelo.

Debil arde la fiamma, ch’ivi desti,22
  E d’ignea canna il fragoroso tuono
  Par che sopito nel gran vano resti.23

Tali i prodigi e i cambiamenti sono
  Che a te primier fu di scoprir concesso
  La ’ve Natura sovra l’orbe ha trono.

Ma chi dirà quel che soffrir tu stesso
  Dovesti da languore insuperabile
  Non pur le membra, ma lo spirto oppresso?


Quasi ad ogni opra ed al pensar inabile,
  Dell’aria in la region vai d’aria in traccia,
  Che già manca al vital moto spirabile.24

Fino dell’Arti il genio or par che taccia
  Nel tuo petto, Sossur; par che a natura
  Nulla più curi di svelar la faccia;

Pur vinci alfin l’inerzia, e ogni arte e cura
  Adopri sì che niun dei pochi istanti
  Sen fugga, che la sorte a te procura.

Or io se, ardito troppo, i nuovi vanti
  Celebrato ho di lui caro a Sofia,
  Degno argomento a più sonori canti,

Spero trovar perdon. Fors’anche fia,
  Se alcuna ottiene il buon voler mercede,
  Che compia il Cielo la preghiera mia:

Del nome di Sossure il monte erede,
  Ch’ei superò; passi all’età future,
  E faccia ognor del gran miracol fede.

Su via, stranier, filosofi, e voi pure
  De’ vicin luoghi abitator, venite
  Il nome a consacrar di Monsossure.

Questo con lieto suon meco ridite
  Nome, che dalla fama avrà perenne
  Vita ed onor tolto all’oblio di Dite.

Così di molti Eroi vien che solenne
  Memoria resti, così un nome altero
  Più d’una terra e più d’un fiume ottenne:

Ecco quel d’Americo un mondo intero.
  Quello di Kook conserva un chiaro fiume,
  E al novel astro il nome suo primiero

Resta d’Herschell, simile fatto a un nume.25


Le note apposte dallo stesso Volta spiegano alcune circostanze dell’ascensione, ma è certo che il commento migliore al carme è la Relazione, che della salita al Monte Bianco scrisse il De Saussure appena tornato a Ginevra, e pubblicò, con l’aggiunta di alcune osservazioni ed esperienze fatte sulla vetta, in opuscolo. Tale Relazione il geologo ginevrino inserì poi testualmente nel settimo volume de’ suoi Voyages dans les Alpes, uscito nel 1796 (Capo II. Relation abrégée d’un Voyage à la cime du Mont-Blanc en-août 1787), ampliando notevolmente, nei successivi capitoli, la parte relativa alle osservazioni ed alle esperienze. Rimando quindi ad essa il lettore26 a me basterà far notare come nella poesia riportata siano squisitamente opportuni tanto il ricordo di Plinio il Naturalista, quanto il voto che al Monte Bianco fosse dato il nome del De Saussure.

Accennando all’antico filosofo, il Volta rese omaggio, non solo al celebre concittadino ed alla vittima della scienza, ma puranco all’uomo che, in mezzo alla indifferenza generale degli antichi verso la montagna, ebbe invece il sentimento di questa, senza dubbio sortogli nell’animo colle impressioni ricevute da fanciullo tra le bellezze multiformi della conca lariana. Obbligato poi, dalle circostanze della vita, a traversare più volte gli Appennini e le Alpi, ed a valicare le Sierre della Spagna ed i monti della Germania, accrebbe quel sentimento con la conoscenza «de visu» de’ vari aspetti della montagna, che l’occhio suo di naturalista sapeva discernere ed apprezzare. Nella sua Storia naturale infatti troviamo citati i monti, allora conosciuti, con una specie di culto che, mentre lascia capire le delizie che si godono nel valicarli (lib. XXXVI, 1), grida quasi alla profanazione contro gli

erborai che li salgono per asportarne piante medicinali, o mangereccie d’ornamento (lib. XXV, 1); contro i cercatori di pietre che non si fanno scrupoli di forarli, tagliarli e portarne via immensi blocchi; e persino contro quelli che si spingono sulle vette e sui ghiacciai, penetrando nelle nubi ed avvicinandosi al cielo (lib. XXXVI, 1). Dal che si vede come Plinio amasse la montagna, ed al pari di lui furono tutti quegli antichi che veneravano i monti e per questo motivo appunto non li profanavano salendoli: era il loro un alpinismo mistico, platonico. Si limitavano ai passi, ai valichi, donde contemplavano le vergini vette. Tuttavia la curiosità scientifica fu in Plinio così grande, che lo fece rimaner vittima alle falde del Vesuvio, mentre appresta vasi a salirlo e studiarne i fenomeni, di cui, per la prima volta, a memoria d’uomo, il vulcano facevasi teatro.

Con la proposta poi di dare il nome del De Saussure a quel monte — che, sebbene fosse il più alto della catena alpina, rimase per tanto tempo sconosciuto, sì da figurare per la prima volta nell’Atlante del Mercatore edito nel 1595, colla denominazione di Maledetto, e solo nella carta del Bourrit, edita nel 1787, col nome attuale27 — il Volta precorse il sistema invalso, dacchè i Clubs Alpini cominciarono a funzionare, di classificare le cime coi nomi dei rispettivi primi salitori e con quelle d’altre persone benemerite dello studio dei monti. Probabilmente se il Volta avesse pubblicato il suo carme, o se in qualsiasi altro modo avesse fatto conoscere la sua proposta, questa sarebbe stata senz’altro accettata, ed il nome dell’autore dei Voyages dans les Alpes figurerebbe a quest’ora sulle carte topografiche allato al colosso delle Alpi, e non soltanto come distinzione d’una delle guglie del gruppo (Aiguille de Saussure m. 348028). Per un procedimento inverso, il re di Sardegna accordò il titolo di Balmat du Mont-Blanc alla famosa guida Giacomo Balmat, che un anno prima del De Saussure aveva salito col dott. Paccard la gran vetta e v’era ritornato ancora un mese avanti, ed il titolo passò con valore nobiliare a’ suoi discendenti29. Ma se la denominazione suggerita dal Volta rimane come un voto inadempiuto del suo carme, essa serve ancora più a testimoniare quanto grande fosse l’affetto e la stima che il fisico poeta nutriva per l’amico e pel collega di Ginevra, e fa nascere il desiderio che gli alpinisti, i quali non mancarono di rendere in altri modi omaggio al rivelatore delle Alpi, si ricordino anche del Volta, intitolando al suo nome qualche bella punta del vasto diadema. Nel gruppo del San Gottardo non si potrebbe, per esempio, dare il nome del Volta alla punta di Fieudo da lui salita?

Specialmente i colleghi di Como dovrebbero pensare ad un ricordo di questo genere, tanto più che il Volta conservò sempre vivissimo amore per le montagne del Lario, che spesso percorse per ragioni di studio o per semplice diletto. Quand’era fanciullo girò per ogni verso i monti che sovrastano a Gravedona, nella qual borgata, storicamente illustre, si trovava in villeggiatura la sua famiglia. Durante i suoi studî sulla composizione dell’aria dei monti e delle pianure, si portò sovente a fare esperienze in luoghi elevati, ed in un manoscritto, in data 1777, che si conserva presso l’Istituto Lombardo, accenna a simili ricerche eseguite sovra «una montagna altissima» del lago di Como. Onde a ragione l’amico Giambattista Giovio (Poliante Lariano), nel suo Commentario su Como ed il Lario (Como, Ostinelli, 1795), lo eccitava, con le parole seguenti, a mettere fuori una bella illustrazione dei monti lariani: «In questi ultimi tempi i monti nostri salirono finalmente alla gloria d’aver fisici e naturalisti e botanici, che v’impiegarono gli studî loro, ma fra tanti pure niun s’accinse a darne una storia compiuta. E perchè non se ne sente al cuore l’onorato sprone, onde insignorirsene, il chiarissimo patrizio nostro don Alessandro Volta? Ben escirebbe allor cosa, che non sol rimbombasse co’ nomi strani di quarzo e spath, onde l’illustre Francesco Venini, benchè pieno di filosofia il petto e la lingua, pur gentilmente mordica l’età nostra nella satira quarta. Cosa escirebbe, lusingomene, innanzi cui tacerebbero forse certi eleganti, che ci sfasciano il mondo e il rifanno, sprofondan vallee, ergon giogaie, rotolan rupi di graniti intiere, e sedendosi al fresco, sotto a un bel raggio di luna, dentro ameno giardino, favellano di Mongibelli, ovvero presso a lucido camin carrarese s’intertengono sulle eterne ghiacciaie di Grindelwaldo. Ei ne soccorra il Volta adunque, e l’invito accolga della terra natale».

Quando poi nel 1819 il Volta chiese ed ottenne di ritirarsi a vita tranquilla nella sua Como in seno alla famiglia diletta, trovò nelle aure salubri del Lario un ristoro efficace alla gloriosa vecchiaia e nella contemplazione dei monti, che fanno corona alle acque, uno svago ed un sollievo morale dolcissimi. Compieva ancora sovente qualche passeggiata nei dintorni, e prediligeva quel Brunate, che oggi è divenuto una stazione alpinistica, degna di rivaleggiare con quelle che nella Svizzera attraggono forestieri d’ogni parte del mondo.30 Oggi si sale a Brunate con la funicolare, ma in addietro, e quando non esisteva nemmanco la mulattiera, eseguita nel 1817, la strada era molto ripida e di pretto carattere alpestre, sì da meritarsi i versi di Benedetto Giovio (Carmina, traduzione libera di Maurizio Monti):


                          . . . . . La solinga via
Aspra, sassosa, dirupata e storta
Che in alto mena al benedetto monte,
Parve la scala cui sognò Giacobbe,
Il piede in terra e con la cima al cielo
E d’angioli lucente e popolata.

Egli amava poi, in modo speciale, Brunate ed i suoi terrazzani, perchè lassù aveva passato con la nutrice i primi mesi di sua esistenza. Così, tra gli affetti de’ suoi cari e le bellezze delle natie montagne, finiva quel grande i suoi giorni, e li finì appunto, grave di 82 anni, cinque mesi avanti che il bravo Zardetti mandasse alle stampe la Relazione, di cui abbiamo parlato, e dalla quale il Volta appare, tra gli altri meriti superiori, anche un alpinista degno d’essere collocato nella schiera insigne che — per citare gli italiani soltanto — va dal Vallisnieri, dal Galeazzi, dal Moro, dal Michieli, dall’Arduino, dallo Spallanzani, dal Targioni-Tozzetti, dallo Zanichelli, dal Monti, dal Santi, dal Vandelli, dal Pini, dallo Spadoni, dal Viviani, dal Brocchi e dal Breislak, a Quintino Sella, a Bartolomeo Gastaldi, ad Antonio Stoppani, a Michele Lessona, a Francesco Denza, a Paolo Lioy — illustri scienziati tutti — iniziatori quelli dell’alpinismo — fautori ed apostoli questi del Club Alpino Italiano.

La Sezione di Como del Club può andare ben orgogliosa di aver avuto tra’ suoi predecessori l’immortale Alessandro Volta. Essa deve venerarlo come il suo nume tutelare!


  1. Maurizio Monti nella sua Storia di Como (vol. III, pag. 613) e Zanino Volta nella sua Biografia di A. Volta (pag. 70) accennano a questo poemetto e ne riportano alcuni versi che trattano della forza espansiva dei vapori e che il Volta fin ne’ suoi più tardi anni soleva ripetere a’ suoi figliuoli. Eccoli:

    Concava sic fuso conflatur et amphora vitro
    Quae cereis defixa (calor cum evasit ad intus
    Stagnantem lyinpham) saliens infringitur ultro,
    Extinguitque leves inopino murmurc flammas:
    Sic et castaneae molles, queis liquidus humor
    Arborei succi tumido sub cortice degit,
    Dum puer incautus subjectos assat ad ignes
    Erumpunt strepitu ingenti, finduntur et hiscunt:
    Sic oleo immixti latices, seboque tenaci
    Extricant se, crepitantque, ac vincula solvunt
    Dum prius ac oleum concepto ardore vaporant.

    Il dotto filologo, traduttore d’Ovidio, Giuseppe Brambilla, elogiò altamente questo lavoro giovanile del fisico di Como. Egli dice nella sua Commemorazione del Volta: (Como, Franchi, 1866): “Un giorno gli suonò all’orecchio il nome di Tito Lucrezio Caro e del suo grandioso poema intorno alla natura delle cose; lo ebbe, lo lesse più volte, lo meditò; ne prese tanto amore ed ammirazione, che divenne il suo più gradito maestro. Anzi, piena la mente delle materie verseggiate dal romano poeta, volle anche imitarlo, non già nello stile, che tale non era il suo scopo, ma nell’abbellir le scienze di luce poetica: e, fra le altre cose, dettò per maniera di esercitazioni scolastiche un poemetto in esametri intorno alle più rilevanti scoperte nella fisica allor conosciute„. Ed osserva che questo componimento potrebbe “far arrossire, non dico tutti gli scolari che molti anni sprecarono ad imparar la lingua del Lazio, ma la più parte dei professori che affermano d’insegnarla; e quantunque non abbia veri lampi di genio, è nel suo dettato bastevolmente corretto, spesso elegante„.

    Il Cantù nella sua Storia di Como (vol. II, pag. 361, ediz. 1856) dice del Volta: “Fece tra le altre cose un poemetto di ottocento versi latini sulle stagioni, e lo recitò a lingua corrente. Se ne conserva un altro, ove trattò dell’oro, della polvere fulminante, di fuochi fatui, dell’elettricità: opera da giovane, ma che mostra come tendesse a far parlare alla poesia il severo linguaggio delle scienze. Neppur maturo non rinnegò mai le Muse, ed ho alla mano alcuni suoi versi d’occasione, che possono ben disgradare quelli di cert’altri, che non sapevano nulla più che credersi eccellenti poeti...„ — Il poemetto sulle stagioni andò perduto.

  2. Storia di Como, vol. III, pag. 613 (Como 1832).
  3. Op. cit., pag. 70.
  4. Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Serie II, vol. XVII, fascicolo XIII (Milano, Hoepli, 1884).
  5. La coltura letteraria e gli scritti di A. Volta. Conferenza al Circolo Filologico di Como (Como, Omarini, 1898).
  6. Vita di A. Volta (Como, Omarini, 1898).
  7. Il prof. Magrini accompagnò il dono con la lettera seguente, in data 2 giugno 1868, che ricopio dall’originale esistente presso l’Istituto Lombardo.
    Illustrissimo sig. Presidente del Reale Istituto di scienze, lettere ed arti in Milano,
    Interesso la di Lei compiacenza, esimio sig. Presidente, acciò che nella p.ª v.ª adunanza del Corpo Accademico sia data lettura della presente comunicazione.
    È indubitato che le scienze naturali aiutano la letteratura nel suo ufficio di ritrarre le nozioni alle prime loro origini, rendono l’insigne beneficio di far che le parole divengano fedeli interpreti della verità, e spargono semente che fruttifica poesia, dignità di pensieri, potenza di sentimenti e di ragioni.
    Che lo spettacolo della natura disponga i dotti alle impressioni poetiche, ce lo dimostra la bella descrizione della Fata Morgana del Varano, nella delle sue “Visioni„.
    Altra prova della forte impressione che fanno le poetiche descrizioni quando sono prese dal vero, e che non possiamo mai dimenticare, è quella che Virgilio dà della folgore nella Georgica:

    Ipse pater.........
    Fulmina..... quo maxima motu
    Terra tremit; fugere ferae et mortalia corda
    Per gentes humiles stravit pavor: ille flagranti
    Aut Atho, aut Rhodopen, aut alta Ceraunia telo Dejicit.

    Alla pagina 376 della edizione delle opere attribuite ad Orfeo, fatta in Lipsia nel 1764, sono citati alcuni versi sulla Luna. Certo ne è antico, qualunque sia, l’autore; essendo stati quei versi adoperati nei misteri eleusini, e quindi fatti pubblici nel 3° secolo. Questi memorabili versi dicono che la Luna è un’altra terra immensa, chiamata Selene, la quale contiene grandi montagne, numerose città, molti palazzi.... Cotali idee dovevano fare vivissima impressione per la grandiosità del concetto, e perchè esprimevano con colori poetici le più profonde cognizioni filosofiche del tempo d’allora.
    Fra gli uomini preclari che coltivarono le scienze e la poesia (il che forse avvenne più in Italia che altrove) oltre il Mascheroni, abbiamo il Manfredi e lo stesso Galileo. E se io non fossi tanto digiuno della poesia, certo ne saprei additare molti altri. Posso per altro aggiungere il celeberrimo Volta, di cui, oltre vari sonetti e anacreontiche per nozze e per monache, furono nelle nostre raccolte pubblicati altri lavori, per es.: Un’ode sull'innesto del vaiuolo, alcune poesie bernesche, un poemetto latino in esametri sopra alcuni fenomeni fisici e chimici.

       Sono poi lieto che in questi ultimi giorni mi sia capitato nelle mani un di lui autografo, che compiego, contenente un componimento in terza rima col titolo: “Omaggio al sig. di Saussure per la sua salita al Monte Bianco e le esperienze ivi fatte nei primi d’agosto del 1787. Traduzione libera dal francese„.

       Nella Storia di Como di Maurizio Monti (Vol. II, parte II, pag. 613) trovasi accennato questo lavoro inedito del Volta, appunto come una traduzione libera; se ne riportano anzi le prime quattro terzine. Ma dall’esame delle corrispondenze autografe, dagli intimi rapporti che esistevano fra i due scienziati e dalla grande facilità che il Volta aveva di scrivere nell’idioma francese, io sono indotto con altri a credere che l’originale spedito a Saussure deva attribuirsi al Volta medesimo.

       Interessanti sono anche le note che corredano questo autografo; ed io mi pregio di farne dono al Reale Istituto Lombardo, perchè lo unisca agli altri preziosi manoscritti del sommo fisico Comense, dei quali, spero, diverrà in breve assoluto possessore.

    Prof. Luigi Magrini.

       Il presidente dell’Istituto Lombardo comunicò il dono fatto dal prof. Magrini nella tornata dell'11 giugno 1863, e negli Atti non v’è che il semplice annunzio del dono, coll’osservazione, fatta dal Magrini stesso, che anche il testo francese della poesia debba attribuirsi al Volta (Atti del Reale Istituto Lombardo, ecc.: Vol. III, pag. 341).

  8. Anche l’illustre poeta Enrico Panzacchi ha letto sulle mie bozze il poemetto, dandone il parere seguente: “Di queste terzine alcune sono, a mio credere, veramente belle e ricordano lo stile di Alfonso Varano, allora molto in voga. Peccato che siano disuguali!... Ma quanto entusiasmo poetico per tutto il componimento! Ai grandi naturalisti questo avviene di frequente. Esempio, il Buffon, l’Humboldt ed il nostro Mascheroni„
  9. Esiste nell’Archivio di Stato di Milano la domanda del Volta per poter compiere questo viaggio. È in data del 16 agosto 1787 ed il Volta chiede al ministro plenipotenziario il permesso d’andare a Ginevra verso i primi di settembre, avendo bisogno — così dice — di conferire col De Saussure su alcune questioni. Il ministro accondiscese subito, a patto però che il professore fosse di ritorno per l’apertura dell’Università.
  10. La trascrizione è stata fatta dal migliore dei due autografi presso l’Istituto Lombardo. In questo autografo alcune terzine, coma la 50a, 54a e 63a, hanno molte correzioni e cancellature. La calligrafia è chiara, ma non bella; vi si nota assenza di chiaro-scuri e le linee curve sono ineleganti e goffe.
  11. I tempi cattivi trattennero il signor di Saussure a Chamonix, villaggio situato ai piedi della montagna, ben quattro settimane, cioè dal principio di Luglio, fino al 1° di Agosto, in cui intraprese la salita per giungere alla cima il giorno 3, come avvenne. (N. d. V.)
  12. Volean questi abbandonarlo la prima sera, poichè, avvezzi a simili cose soltanto di giorno, temevano di dover soccombere al gran freddo col passare la notte su quei ghiacci. (N. d. V.).
  13. Aveva accampato la seconda notte sulla neve, scavandosi una gran fossa, ove tutti si raccolsero sotto una tenda, che tesa avevano per comporre l’apertura. (N. d. V.)
  14. Francesco Pilâtre de Rozier, fisico, nato a Metz nel 1756, morto a Boulogne il 14 maggio 1785 durante un’ascensione in pallone.
  15. Il Priorato di Chamonix sopranominato. (N. d. V.).
  16. La sposa del sig. di Saussure, i due suoi figli, e due cognate in mezzo al popolo accorso contemplavanlo con un cannocchiale. (N. d. V.).
  17. La figlia (madama Neker) trovandosi vicina al parto aveva dovuto mal suo grado trattenersi a Ginevra tutto il tempo che il resto della famiglia passò a Chamonix. (N. d. V.).
  18. Come si scoperse che Saussure toccò la cima, fa dato segno a festa nel sunnominato
    villaggio con suon di trombe e tamburi. (N. d. V.).
  19. Il color del cielo era di un color così cupo che pareva nero. (N. d. V.).
  20. Il mercurio nel barometro era disceso dai 27 pollici a 16. (N. d. V.).
  21. Il termometro anche al sole, nell’ora del mezzodì e dopo, era sotto il limite della congelazione. (N. d. V.).
  22. La fiamma d’una lucerna d’Argan, che in 14 o 15 minuti faceva bollir l’acqua in una caffettiera al piano, ve ne impiegò 30 a fare altrettanto colassù, quantunque l’acqua per bollire vi acquistasse soltanto 66 gradi invece dei soliti 80. (N. d. V.).
  23. Lo sparo di una pistola non fece più rumore d’un piccolo razzo. (N. d. V.).
  24. Tutti ebbero a soffrire lassezza estrema, sete inestinguibile, affannoso respiro, grandissima accelerazione di polso, e una malavoglia a tutto. (N. d. V.).
  25. Anche Ippolito Pindemonte cantò la celebre ascensione del De Saussure in una sua poesia poco conosciuta dagli alpinisti, nella quale narra di un sogno che lo trasporta (e così è intitolata) tra le Ghiacciaie di Boissons e del Montanvert nella Savoia. Reputo far cosa grata al lettore riportandola per intero.

    La Vergine che al Sole il crin dispoglia
      De’ più fervidi raggi, aperta ancora
      Del suo bel tetto non gli avea la soglia,

    Quando a me venne un sogno in sull’Aurora
      Di forme così belle e sì distinto,
      Che maggior lume il ver mai non colora.

    Da gran montagne io mi vedea ricinto,
      Che dar pareano assalto al ciel superno,
      Tanto le acute cime avean sospinto.

    Tra lor biancheggia un ampio ghiaccio eterno
      Presso cui ride giovine verzura,
      Che nulla teme sì vicino verno.

    M’appressai desïoso; e qui la dura
      Neve con l’una, e qua con l’altra mano
      Biondissima io toccai spica matura.

    Multiforme è quel ghiaccio: in largo piano
      Si stende qui, là fassi alta muraglia,
      Altrove sembra un bianco mar, se invano

    Non move agli Austri l’Aquilon battaglia
      D’orribili urli armato e d’aspri fischi,
      E che un’onda s’abbassi, e l’altra saglia

    E qui sorge in gran torri, e in obelischi
      Termina strani, e là tu vedi aprirsi
      Di cerulee fessure orridi rischi,

    E le candide punte colorirsi,
      Mentre dal cielo opposto il Sol raggiava
      D’una porpora tal che non può dirsi.

    Con maraviglia muta io riguardava,
      Quando mi scosse un così gran fracasso,
      Ch’io mi volsi a colui che mi guidava;

    E seppi come dirupato al basso,
      Svelto dal proprio peso o pur dal vento.
      Era un vasto di neve antico masso;

    E che sepolto pria quasi che spento
      Sotto forse potria l’uomo infelice
      Col tugurio restarvi, o con l’armento.

    Mentre il buon condottier questo mi dice,
      Non però spaventato il pie’ s’arresta,
      Ma seguo a costeggiar l’alta pendice.

    Poi ci mettemmo in mezzo a una foresta
      Di larici, di pin, d’abeti folta,
      Che al ciel piramidando ergon la testa

    Quindi uscimmo in bel prato ove raccolta
      Era gente leggiadra, eran donzelle.
      Che non temêr la via scoscesa e molta



    Pel desiderio delle cose belle,
      E quale del Tamigi, e qual Germana
      Ai volti mi pareano e alle favelle.

    Ma io tenea così la via montana,
      Che alfìn gli stanchi e curïosi piedi
      Sulla nuda fermai cima sovrana.

    Quinci d’un mondo intier la scena vedi
      Tra il velo della nebbia che sovrasta,
      Quinci di cento popoli le sedi.

    Turbasi con piacer l’alma, e non basta
      L’occhio, che allor per poco è chiuder forza,
      Immensitade a sostener sì vasta.

    Qual mutamento! La terrena scorza
      Qui per l’alma svestirsi, ed ogni vile
      Bassa voglia nel cor tosto s’ammorza.

    Quanto avea di vulgare o di servile
      Entro all’aure lasciollo impure ed ime,
      E non sente che il grande ed il gentile.

    Qui non giunge un mortal, che non istime
      Toccar quasi col pie’ l’ultimo suolo.
      L’aure quasi lambir del cielo prime:

    Che nel vestibol già del natio polo
      Esser non creda, e veder quinci corto
      All’antica sua patria il calle e il volo.

    Alfìn d’un calpestìo mi feci accorto,
      Che ricondusse l’alma al primo stato.
      Da quel che la rapìa, dolce trasporto:

    E vidi un uom che baston lungo e armato
      Di ferrea punta in man stringea: da un tetro
      Sottil panno il suo volto era bendaton 1:

    E molti gli venian compagni dietro,
      Cui vanno empiendo questa mano e quella
      Dotti strumenti di metallo e vetro:

    Strumenti che trattar gode la bella
      Pensierosa Sofia, quando a sè chiama
      Esperienza sua fedele ancella.

    Come uom che ama saper, chieder non ama,
      Io stava: ed egli, che di ciò s’avvede.
      Così mi tranquillò l’onesta brama.

    — Dal gran monte cui nome il ghiaccio diede.
      Ghiaccio ch’eterno vi biancheggia sopra,
      Io primo e vincitor rivolgo il piede.

    L’appuntato baston fu meco all’opra,
      Onde in lubrica via non ir travolto,
      E un negro velo che le guancie copra

    (Ma il vel già s’era dalle guance tolto),
      E gli strali invisibili sostegna,
      Che la neve saetta in mezzo al volto.


    Oh che silenzio universal là regna!
     Come tutto è deserto, e come v’alza
     Morte la sua vittoriosa insegna!

    Onda che altra onda mormorando incalza,
      Là mai non senti, e muto il vento aleggia
      Per la nuda di tutti arbori balza.

    E se vedi cader rupe che ondeggia,
      O per gran vento, o per sostegno infido,
      Solo è quel tuono a cui null’altro echeggia:

    Nè voce d’animal, nè acuto strido
      Vi risponde d’augello, cui paura
      Subita cacci dal tremante nido.

    Certo v’abita il Sonno; ed ogni cura
      Pare depor colà, par di sè stessa
      Dimenticarsi e riposar Natura.

    Ed il Sonno a me pur la mente oppressa
      Strinse allor ne’ suoi lacci, e dolce calma
      Comandata mi fu, non che concessa.

    Destaimi, e alzai la ristorata salma
      Ch’era la notte a mezzo l’emisfero,
      E stupor nuovo mi percosse l’alma.

    Cintia in un ciel dell’ebano più nero
      Splendea così, tal luce il bianco gelo
      Ripercuotea, che vinse ogni pensiero.

    Spenta n’era ogni stella. Ed io nol celo;
      Restar solo mi parve, e ne tremai,
      Visto deserto il suol, deserto il cielo. —

    Queste mi disse, ed altre cose assai.
      Mentre meco ei scendea da quella cima,
      Chiari spargendo di scïenza rai.

    Disse lo strano di que’ luoghi clima.
      Letto ch’egli ebbe il freddo, e letto il lieve
      Nel licor che s’abbassa o si sublima.

    Di quei ghiacci parlò; come la neve
      S’unisce e indura, e in gelo si converte
      Per nevi che fur sciolte, e ch’ella beve.

    Di que’ monti parlò; come coverte
      Del mare ancora d’abitanti vôto.
      Stesser le cime lor più acute ed erte:

    Come d’un mineral Nettunio loto
      Si componesse quella cote antica,
      Che il natal confessò da prima ignoto.

    Questo fu il sogno, e benchè lingua amica,
      Che il vero solamente a me s’offerse,
      Che illusïon quella non fu, mi dica:

    Pur sì maravigliose e sì diverse
      Fur le cose ch’io vidi, e tale a questo
      Incantato mio cor scena s’aperse,

    Che pensar non poss’io ch’io fossi desto.


    Altri poeti cantarono il Monte Bianco e l’ascensione del De Saussure. Fra i carmi sul Monte Bianco sono notevoli quelli del Shelley e del Lamartine. Il poeta ginevrino Salomone Reybaz, il quale dettò un poema sull’ascensione del De Saussure al Monte Bianco, paragonando l’ascensione di questi con quella del Balmat e del dott. Paccard usci con questa tirata mitologica:

    Ah! qu’un riche lettré, noble en ses jouissances,
    Porte jusqu’au Mont-Blanc le luxe des sciences,
    Qu’attentifs à ses pas, vingt guides éprouvés
    Le sauvent des périls qu’ils ont vingt fois bravés.
    J’applaudis; c’est Jason et sa troupe intrepide
    Qui s’arment pour dompter l’hydre de la Colchide.
    Leur audace me plait et ne m’étonne pas.
    Mais qu’Hercule tout seul étouffe dans ses bras
    Ce monstre rugissant, l’effroi de la Némée,
    Hercule est plus qu’un homme et vaut seul une armée.

    Come vedesi il Reybaz esalta in modo speciale la guida Balmat, e, in fondo, non ha torto; ma vi fu anche chi esagerò nelle lodi al dott. Paccard, cantando:

    De Saussure à la cime est arrivé trop tard
    Et déjà le Mont-Blanc était le Mont Paccard.

    Ecco una proposta contraria a quella che fece il Volta di dare al Monte Bianco il nome del filosofo ginevrino! Ma rispose bene il Durier: “Le Mont Paccard? Ah! non, par exemple!„

  26. Relation abrégée d’un voyage à la cime du Mont-Blanc en août 1787 par H.-B. De Saussure (Genève, Bard, Manzet et C., 1787) — Esiste una traduzione italiana — ed io la posseggo — di tale relazione, col titolo: Compendiosa relazione d’un viaggio alla cima del Monbianco fatto in agosto del 1787 da H. B. Di Saussure recata in italiano da F. S. M., aggiuntavi una tavola dell’altezza delle principali montagne finora misurate, ma senza data nè luogo di stampa. Certamente risale all’epoca stessa in cui il De Saussure pubblicava il suo opuscolo.
       Il libro: Les ascensions célèbres aux plus hautes montagnes du globe (Parigi, Hachette, varie ediz.) dei sigg. Zurcher e Margollé si apre con la narrazione del De Saussure composta di parte del cap. II e di tutto il cap. VII del settimo volume dei Voyages: detto libro fu pure tradotto in italiano (Le ascensioni famose alle più alte montagne del globo. Milano, tip. edit. Lombarda, 1876).
  27. Veniva anche detto: l’Agghiacciata pe’ suoi enormi ghiacciai. Nella carta del Mercatore il gruppo del Monte Bianco è segnato col nome generico di Glacih-es e la vetta con quello di Roches Blanches o Mont Maudit. Nella carta della Savoia di Paolo Forlani edita a Venezia nel 1562, la regione del Monte Bianco è indicata in modo che, invece di un gruppo di altissimi monti, sembra uno stagno con giuncheti. Nella più antica carta della Savoia, incisa dal belga Gilles Bouillon nella prima metà del cinquecento, e riprodotta poi dall’Ortelio nel suo Atlante (Theatrtun orbis terrarum, 1a edizione, Anversa 1570) vi sono indicate le montagne, ma coi soli nomi del Grande e Piccolo San Bernardo e del Moncenisio.
  28. Nella nuovissima Carta della Catena del Monte Bianco dei signori Imfeld e Kurz è quotata m. 3554
  29. Parimenti fu dato il soprannome di Marie du Mont-Blanc a Maria Couttet, ragazza di Chamonix e parente del capo di quelle guide, Simone Couttet — la prima donna che s’arrischiò a salire il gran monte.
  30. Vedi su Brunate la monografia di Luigi Porlezza (Como, 1896) ed il brillante racconto del chiaro pubblicista Massuero.


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Note


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