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William Shakespeare - Amleto (1599 / 1601)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1901)
Scena IV
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SCENA IV


Una pianura in Danimarca.


Entra Fortebraccio col suo esercito in marcia.


FORTEBRACCIO.
Andate. capitano, recate i miei saluti al monarca Danese; ditegli che, in conformità della sua promessa, Fortebraccio chiede di passare pel suo regno. Voi conoscete il luogo del ritrovo. Se Sua Maestà ha qualche cosa da comunicarci, andremo a porgergli in persona i nostri omaggi; vogliate dirglielo.
CAPITANO.
Lo farò, signore.
FORTEBRACCIO.
Avanziamoci in ordine. (Esce con l’esercito.)


Entrano Amleto, Rosencrantz, Guildenstern, ecc.


AMLETO.
Amico, che esercito è quello?
CAPITANO.
L’esercito di Norvegia, signore.
AMLETO.
Cosa intende di fare, ve ne prego?
CAPITANO.
Marcia contro la Polonia.
AMLETO.
Chi lo comanda?
CAPITANO.
Fortebraccio, il nipote del vecchio re di Norvegia.
AMLETO.
Va esso contro tutta la Polonia o solo contro un punto della sua frontiera?
CAPITANO.
Per parlare il vero, signore, noi andiamo per conquistare un pezzo di terra da cui trarremo gloria, ma non lucro. Nol prenderei in affitto per cinque ducati, e se si dovesse vendere, la Polonia o la Norvegia non ne ricaverebbero nulla di più.
AMLETO.
Allora i Polacchi non lo difenderanno.
CAPITANO.
Si, e v’è già un presidio.
AMLETO.
Duemila anime e ventimila ducati non definiranno la contesa di quel palmo di terra. E un tumore che, frutto di un’agiatezza soverchia e di una quiete troppo protratta, scoppia all’interno senza che nulla mostri al di fuori come sia stata cagionata la morte. — Vi ringrazio umilmente, signore.
CAPITANO.
Iddio sia con voi. (Esce.)
ROSENCRANTZ.
Volete che continuiamo la nostra via, principe?
AMLETO.
Vi raggiungo all’istante. Precedetemi un poco (Escono Rosencrantz e Guildenstern.) Come in ogni occasione tutto mi accusa e viene a spronare la mia tarda vendetta! Che cosa è l’uomo, se il suo supremo bene, se tutto il tempo ei consacra a dormire e a cibarsi? Un bruto e null’altro. Certo colui che ne dotò di questa divina ragione, che può veder nel passato e nell’avvenire, tanta intelligenza (facoltà celeste) non ci diede perchè in noi rimanesse inoperosa. Ora, sia per uno stupido oblio, pari a quello della belva, sia per una vana delicatezza che teme di troppo approfondare lo avvenimento (e in tale delicatezza per un quarto di saviezza, tre ne sono forse di viltà), io non so perchè viva ancora per ripetere continuo: questa cosa vuoi farsi, avendo pur ragione, e volontà, e forza, e modo di farla. La terra è piena di esempi che m’incuorano, e lo mostra l’esercito bellicoso di quel delicato e nobile principe, la cui anima, accesa da una divina ambizione, affronta l’invisibile avvenimento, esponendo ciò che e mortale e incerto a tutte le vicissitudini della fortuna, ai pericoli, alla morte, e questo per una cosa da nulla.1 La grandezza non ista nel non oprare senza un gran motivo, bensì nel trovare nobilmente una ragione di contesa quando l’onore ne va di mezzo. Allora a che mi ristò io che ho un padre ucciso, una madre contaminata, mille stimoli della ragione e del sangue, e lascio tutto in oblio? E ciò mentre veggo con mio rossore la vicina morte di ventimila uomini, che per un nonnulla, per una varia fama s’avviano al sepolcro come ad un letto: vanno a combattere per ragioni ignote ai più, per una terra non pure vasta abbastanza per ricettare quelli che morranno in tale tenzone? Oh d’ora innanzi i miei pensieri siano di sangue o si disperdano nel vuoto! (Esce.)
  1. Per un guscio d’uovo.
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