< Annali (Tacito)
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Publio Cornelio Tacito - Annali (II secolo)
Traduzione dal latino di Bernardo Davanzati (1822)
LIBRO SECONDO
I III

LIBRO SECONDO

sommario
I. L'Oriente in qualche tumulto. — III. Vonone re dei Parti, da Artabano scacciato, ricoverasi dagli Armeni da essi preso per re, rifiutato poco poi per tema e minacce d’Artabano. — V. Tiberio a pretesto dei romori d’Oriente dalle germaniche legioni svelle Germanico, che ubbidisce a piè zoppo. Poich'entra in Germania, in gran giornata Cherusci e Arminio vince. — Soffre tempesta in mare; e tutto compensa con prospera spedizione contro i Marsi. — XXVII. Libone Druso accusato di novità. — A terra i preghi di M. Ortalo — XXXIV. Clemente sotto mentito nome di Postumo Agrippa tumultua. Con arte il prende Sallustio Crispo, e a Roma il mena.— — XLI. Trionfa Germanico de’ Catti, Cherusci e altre nazioni sino all’Albi. — XLII. Archelao re de’ Cappadoci d’insidia chiamato a Roma, e malmenato muore. — Suo regno fatto provincia. — XLIII. Dato l'Oriente a Germanico, la Soria a Pisone con segrete istruzioni contro Germanico, a quel che si crede — XLIV. Mandasi Druso nell'Illirico contro i Germani che per sue discordie fan sicuro e ozioso il Romano. — XLV. I Cherusci sotto Arminìo in gran battaglia sanguinosa vincono il potente e antico re Maroboduo. XLVII. Dodici città d’Asia rovesciate da tremuoto. Liberalità di Tiberio. L. La legge di Stato allunga le mani. — LII. Tacfarinate all’armi in Africa; tosto da Furio Camillo represso — LIII. Germanico di nuovo console passa in Armenia: di lor volere vi fa re Zenone, rimosso Vonone: poi in Egitto. LXII. Druso semina zizzania ne’ Germani.— Maroboduo da Catualda scacciato di regno viene in Italia, fermato anni 18 in Ravenna. — Catualda avuto pariglia è mandato in Fregius. — LXIV. Rescupore re Trace d’opera di Pomponio Fiacco in ferri, è tratto a Roma. — LXVIII. Fonone uscito. — LXIX- Germanico torna d’Egitto; suoi ordini da Pisone aboliti o fatti a rovescio vi trova. Semi tra lor di discordie. — Non guari dopo ammalatosi, a gran lutto de’ popoli muore in Antiochia. — LXXIV. A Pisone, sospetto di veleno dato, vietasi il ritorno in Siria. — LXXXIII. Grandi onori al morto Germanico da Roma. — LXXXV. Leggi contro la donnesca impudicizia — - LXXXVI. Scelta di Festale: prezzo tassato a’ grani. -LXXXVIII. Arminio ucciso in Germania per tradigion dei popolani.

Anno di Roma dccxix. Di Cristo I.

Cons. T. Statilio Sisenna Tauro e L. Scribone Libone.

An. di Roma dcclxix. Di Cristo 17.

Cons. C. Cecilio Rufo e L. Pomponio Flacco Grecino. An. di Roma dcclxxi. Di Cristo 18.

Cons. Tiberio Cesare Augusto III e Germanic. Cesar. II.

An. di Roma dcclxxii. Di Cristo 19.

Cons. M. Giunio Silano e L. Norbano Flacco.

I. I reami dell’Oriente e le province romane, essendo consoli Sisenna Statilio Tauro, e L. Libone, fecero movimento; incominciato da’ Parti che lo re chiesto e ricevuto da Roma, benché del sangue arsacido, schifavano come straniero; questi fu Vonone, dato ad Augusto per ostaggio da Fraate; il quale quantunque scacciato avesse i Romani eserciti e’ capitani, s’era rivolto a venerare poi Augusto, e mandògli parte de’ figliuoli per pegno d’amicizia; temendo non tanto di noi, quanto della fede de’ suoi.

II. Morto Fraate, e tra loro ammazzatisi i re succeduti, i grandi mandarono a Roma ambasciadori per rimenarne Vonone primogenito. Recandolsi Cesare a grande onore, lo rimandò con ricchi doni; e lo accolsero i Barbari con la festa usata a’ nuovi re. Venne poscia loro vergogna d’avere, come Parti imbastarditi, chiamato re d’un altro mondo, infetto de’ costumi de’ lor nimici. „Già il seggio arsacido per vassallaggio di Roma stimarsi e darsi; dove essere que’ gloriosi che tagliaron a pezzi Crasso, che cacciaron Antonio; se chi sofferto aveva tanti anni di essere schiavo di Cesare, doveva lor comandare?„ Stomacavali anche egli co’ suoi modi diversi dagli antichi; cacciar di rado; non si dilettar di cavalli; ire per le città in lettiga; fargli afa i cibi della patria; ridevansi del codazzo grechesco, del serrare e bollare ogni cencio; le larghe udienze, le liete accoglienze, virtù nuove, ai Parti erano vizj nuovi: e ciò che antico non era, odiavano, buono e rio.

III. Misono adunque in campo Artabano Arsacido allevato ne’ Dai: nella prima battaglia fu rotto; rifeòsi, e prese il reame. Vonone vinto, rifuggì in Armenia, allora vota: e tra le forze romane e de’ Parti, tra mezzo, non fedele, per la cattività d’Antonio, che Artavasde1 re di quella, come amico chiamò, incatenò e uccise. Onde Artassia suo figliuolo con le forze degli Arsacidi sè e il regno difese contra di noi. Essendo tradito e morto da’ suoi, Cesare investì di quel regno Tigrane, e Tiberio Nerone lo vi condusse. Corto imperio vi tenne esso, e’ figliuoli, benché con loro sorelle, di regno e matrimonio congiunti, alla barbara. Augusto vi mise Artavasde; fanne non senza nostra sconfitta cacciato.

IV. C. Cesare mandato a rassettar l'Armenia, diè loro Ariobarzane Medo; era bello, era fiero: l’ebbero caro. Morto per isciagura, miscontenti de’ suoi figliuoli, assaggiaron la signoria d’una donna detta Erato; e quella cacciata ben tosto, confusi e sciolti senza signore, anzi che liberi, lo rifuggito Vonone fanno re. Ma perché Artabano il minacciava, gli Armeni poco il potevano aiutare, e noi difendendolo, rompevamo guerra co’ Parti; Cretico Sillano, governatore in Soria; chiamatolo, il fe’ prigione, pompa e nome reale mantenendogli. Questa indegnità come egli tentasse fuggire, dirò a suo luogo.

V. Tale scompiglio dell’Oriente non dispiacque a Tiberio, per diveller Germanico dalle legioni troppo sue, e mandarlo, con la scusa di nuovi governi forse a smaltire per froda o fortuna. Ma la prontezza dei soldati e la malignità del zio, gli erano pungoli allo affrettare la vittoria; e seco divisava le maniere del combattere, quel che gli era in tre anni di quella guerra riuscito bene o male: „giornate e pianure esser la morte de’ Germani: boschi e paludi, state corta. Verno tostano, a loro giovare; i soldati suoi meno delle ferite, che de’ lunghi cammini e delle pesanti armi patire; aver le Gallie2 munte di cavalli: gran bagagliume, esca al predare, noia a difenderlo. Se io vo per mare, ne son padrone; il nimico non l’usa; guerreggerò prima: gente e vivanda insieme porterò: per le bocche e letti delle riviere metterò nel cuore della Germania i cavalli e gli uomini riposati„.

VI. Gittatosi a questo, mandò P. Vitellio e Canzio a riscuotere le decime delle Gallie, e a Silio, Anteio e Cecina diè cura di fabbricar le navi3. Mille parvero bastevoli, e prestamente furon in punto: parte corte e strette di poppa e prua, e largo ventre per meglio reggere a’ flotti, altre in fondo piatte, per ben posare: le più col timone a ogni punta, per approdar da ogni banda a un rivolger di remi: molte acconce a portar macchine, cavalli e viveri, destre a vela, sparvierate a remo: e la baldanza de’ soldati le mostrava di più numero e terrore. Appuntossi che facessero massa nell’Isola de’Batavi, d’agevole sbarco, comoda a mandare le bisogne alla guerra per lo Reno, che per un letto solo, che fa alcune isolette, giunto a’ Batavi, si divide come in due fiumi; l’uno col suo nome e rapido corso passa per la Germania nell’Oceano, l’altro, che nell’orlo della Gallia corre più largo e dolce, muta nome, e lo dicono i paesani Vaale: e poco oltre Mosa, che per ampissima foce si versa nel medesimo Oceano.

VII. Mentre l’armata s’aduna, Cesare manda Silio Legato con gente spedita a danni dei Catti. Esso sentendo esser una fortezza in su la Luppia assediata, v’andò con sei legioni. Silio per le repenti piogge poco altro fe’ che predare la moglie e la figliuola d’Arpi signore de’ Catti, nè Cesare combattè gli assedianti, perchè al grido del suo venire sbandarono. Spiantato nondimeno il nuovo sepolcro delle legioni di Varo, e l’altar vecchio di Druso, rifece l’altare: e con le legioni dietro, per onoranza del padre vi torneò4. Il sepolcro non parve da rinnovare; e tra la fortezza e l’Alisone e’l Reno tutti di nuovi termini e bastioni afforzò.

VIII. Giunta l’armata, avviò i viveri: scompartì per le navi le legioni e gli aiuti: e nella fossa, detta Drusiana, entrato, orò al padre Druso: Che favorisse lieto lo suo ardimento alla medesima impresa, mostrasse i fatti, ricordasseli i modi suoi. Navigò per li laghi e per l’Oceano felicemente sino a foce d’Amisia. Quivi lasciò le navi a sinistra del fiume; e fu errore a non isbarcar le genti più su; chè dovendo andare per quelle terre a destra, ebbe a perder parecchi dì a far ponti sopra quei marosi, che dalle legioni e cavalli furono passati francamente innanzi al tornar della marea; ma gli aiuti diretani, volendovi sgarar l’acque e mostrar valentie di notare, si disordinarono, e ve ne annegò. Ponendo Cesare il campo, intese esserglisi alle spalle ribellati gli Angrivari. Stertinio ’prestamente mandatovi con cavalli e fanti leggeri, a ferro e fuoco li gastigò.

IX. Correva tra’ Romani e’ Cherusci il Visurgo. Arminio co’ suoi primi fattosi alla riva, domandò se Cesare v’era: udito che sì, pregò di parlare a Flavio suo fratello. Questi era nel nostro esercito in grande stima per sua fedeltà, e per avere in una battaglia sotto Tiberio perduto un occhio. Affacciatosi, Arminio lo salutò: e levati dalla riva gli arcieri suoi, chiedeo i nostri levarsi. Ciò fatto, al fratel disse: „Che occhio è quello? Lo perdei nel tal luogo, nella tal battaglia. Che ne guadagnasti? Soldo cresciuto, collana, corona e altri doni militari, contò„. Arminio si rideva che a sì buon mercato servisse.

X. Mostrando poi l'uno la grandezza romana, la potenza di Cesare, le crude pene ai vinti, la pronta misericordia alli arresi, lo amichevole trattamento a sua moglie e figliuolo; l’altro ricordando l'obbligo alla patria, l’antica libertà, la loro religione, le lagrime della madre: Non volesse il suo sangue, i parenti, i compatriotti, lasciare e tradire, anzi che comandare. L’una parola tirò l’altra sino agli oltraggi; nè gli avrebbe il fiume divisi, se Stertinio non correva a trattener Flavio infuriato, chiedente arme e cavallo: e vedevasi Arminio di là minacciare e sfidare a battaglia mezzo in latino, perchè già ebbe compagnie di Germani nel campo romano.

XI. L’altro giorno i Germani si presentaro schierati oltre al Visurgo. Cesare non gli parendo da capitano avventurare la fanteria senza ponti e guardie, passò a guazzo i cavalli: Stertinio ed Emilio capo di prima fila, li guidarono tra sè lontani per dividere il nimico. Cariovalda, capo de’ Batavi, guadò dove era maggior la corrente. Mostrando i Cherusci di fuggire, il tirano in un piano cinto di boschi, onde gli piovono addosso per tutto: ripingono i combattenti, seguitano i fuggenti: o con mani o con tiri, sbaragliano gli attestati in giro. Cariovalda, dopo molto reggere la furia nimica, disse a’ suoi: „Serratevi e sdruciteli.„ E ne’ più folti lanciatosi, di dardi caricato e mortogli sotto il cavallo, cadde con molti nobili intorno. Gli altri salvò la virtù loro, o il soccorso de’ cavalli di Stertinio e d’Emilio.

XII. Cesare passato il Visurgo, intese da un fuggito, dove Arminio voleva far giornata; altre nazioni essere nella selva d’Èrcole, e voler di notte assalire gli alloggiamenti. Credettegli: e vedevansi i fuochi; e riferirono gli andati a riconoscere, aver sentito d’appresso grande anitrìo di cavalli e borboglio di turba infinita. Stando dunque la cocca in su la corda, gli parve di spiare il coraggio de’ soldati5: e pensando a modo sicuro, perchè i tribuni, e’ centurioni riferiscon cose piacenti più tosto che vere, i liberti ritengono dello schiavo: gli amici adulano, in parlamento, quello che pochi intuonano, gli altri cantano: risolvette quando mangiano, e come non uditi tra loro si discredono, origliarli.

XIII. Esce, fattosi buio, della porta augurale, con un compagno, impellicciato6, non appostato, va per le vie del campo: accostasi a’ padiglioni, e gli giova udir di sè dire a diversi: „Oh che nobile capitano! o che bell’uomo! paziente, piacevole in ogni azione grave o giocosa, tutto amore; ben doverlo tutti; riconoscere in questa battaglia e sacrificar questi cani rompitori della pace alla sua vendetta e gloria„. Accostossi allo steccato uno de’nimici a cavallo, e con voce alta in lingua latina da parte d’Arminio offerse moglie, terreno, e fiorini due e mezzo d’oro il dì durante la guerra a chi passasse in suo campo. Tale affronto raccese l’ira a’ soldati: „Venga il giorno: entro deasi: buono augurio: sì sì, prederemo i terreni, le mogli e’danari de’ Germani.„ Su la terza guardia assaliro il campo senza colpo tirare, non l’avendo trovato a dormire.

XIV. Germanico quella notte sognò di sagrificare, schizzargli di quel sagro sangue nel vestone; e Augusta sua avola porgernegli altro più bello. Con questo, e con gli auguri risposti bene, arringò, mostrando i savi prorvedimenti fatti, e quello che essi dovevano fare nella presente battaglia: „Il soldato romano combattere non pure in pianure, ma in boschi e burroni, se mestier fa; quelle targhe e pertiche sconce de’ Barbari tra le macchie e gli alberi non valere, come i lanciotti e le spade e l’assettata armadura. Tirassero di punta spesso al viso; non aver quei corazza, non celata, nè scudi di ferro o di nerbi, ma di graticci o tinte assicelle: aste (chenti elle si sono) nelle prime file: nel resto mozziconi di pali arsicciati: esser terribili d’aspetto, rovinosi a prima furia; ma non sopportare le ferite: voltare, fuggire: non vergogna, non ubbidienza conoscere: nelle rotte codardi; nelle bonacce, nè d’uomini, nè d’iddio ricordevoli. Se bramano finire il tedio dei viaggi del mare, in questa giornata consistere. Essere più all’Albi, che al Reno ricini: finita ogni guerra, se, lui calcante l'orme del padre e del zio, fermeranno in quelle terre vittorioso.„ Il dire del capitano infocò i soldati, e diedesi il segno alla battaglia.

XV. Nè Arminio e gli altri capi mancavano d’incorare i Germani: „Quelli essere romanastri dell’esercito di Varo, abbottinati per non aver a combattere: che disperati tornano con lor malanno a pasturare le spade germane delle loro membra sforacchiate di dietro o macinate dalle tempeste. Esser venuti quatti quatti per tragetto di mare, per non dare in chi gli pettoreggi, cacci e prema; ma quando saremo alle mani vittoriosi, non varrà loro venti e remi. Con gente sì taccagna, crudele e superba, puoss’egli altro che mantener libertà o morire?„

XVI. Cosi riscaldati, e chiedenti battaglia, li conducono nel piano d’Idistaviso, che tra’l Visurgo e i colli serpeggia, secondo che quelli sportano o acqua rode. Dietro sale una selva con alte ramora, e suolo netto. I Barbari presero il piano e le radici del bosco; i Cherusci solo le cime, per piombare, appiccata la zuffa, sopra i Romani. L’esercito nostro ebbe in fronte i Galli e’ Germani aiuti; poscia, gli arcieri appiedi. Seguitavano quattro legioni con Cesare, in mezzo a due pretoriane coorti e cavalli scelti: appresso altrettante legioni, i fanti spediti, gli arcieri a cavallo e gli altri aiuti; stando tutti presti, e al combattere intesi.

XVII. Vedendo Cesare caterve di Cherusci con ferocità calate sdrucire per fianco la cavalleria migliore; mandò Stertinio con la restante a circondarli di dietro e batterli; esso a tempo andrebbe a soccorrerlo. Allora ad un bellissimo augurio d’otto aquile, viste volare entro la selva, voltò il capitano, e gridò: Via seguitate i romani uccelli, propri vostri Iddii„7. Entrò la fanteria, e li già mandati cavalli sforzarono i fianchi e la coda; e due schiere di nimici ( mirabil cosa!) a fiaccacollo della selva nel piano, e del piano nella selva, si fuggivano incontra. I Cherusci in quel mezzo, erano traboccati giù da quelli colli, tra quali Arminio si facea vedere con mani, con voce, con ferite, sostenente battaglia; e pontava nelli arcieri per indi uscire; ma le ’nsegne de’ Reti, Vindelici e Galli, gli fecero parapetto. E nondimeno per isforzo suo e del cavallo scappò, col viso tinto di suo sangue per non essere conosciuto. Alcun dice, i Cauci tra’ Romani aiuti averlo raffigurato, e datogli la via. Per simil virtù o froda, fuggi Inguiomero. Gli altri furon per tutto tagliati a pezzi, o rimasero, passando il fiume, annegati, lanciottati nella foga del fugienti nel franar delle ripe affogati: alcuni con laida fuga inalberati, s’appiattarono tra’ rami, che scoscendendosi, o bolzonati per giuoco, tombolavan giù, e storpjavansi. Grande senza nostro sangue fu la vittoria.

XVIII. Dall'ora quinta del dì8 sino a notte durò l'ammazzare: dieci miglia era pieno di cadaveri e di armi. Trovaronsi tra le spoglie le catene per legare i Romani, come sicari del vincere. L’esercito nel luogo della battaglia gridò: Viva Tiberio Imperatore: e sopra un monticello, a ciò fatto, rizzò come un trofeo di quell'armi, e sotto vi scrisse i nomi delle vinte nazioni.

XIX. Cosse più a’ Germani questo spettacolo9 che le ferite, le lagrime, lo sperperamento; e quei che pensavano al ritirarsi oltre Albi, voglion ora quivi stare e combattere: plebe, grandi, giovani, vecchi, carpano l’arme e le romane schiere investono, travagliano. Indi scelgono un piano stretto e motoso, cinto da fiume e da boschi cinti da profonda palude: se non che da un lato gli Àngrivari, per dividersi da’ Cherusci, avevano fatto grosso argine. Quivi si posero i fanti, e ne’ vicini boschi cavalli in agguato, per uscir di dietro ai nostri quando vi fossero entrati.

XX. Sapeva Cesare tutti i loro disegni, luoghi, fatti segreti e pubblici; e l’astuzie del nimico in capo lor rivolgeva. A Scio Tuberone Legato assegnò i cavalli e il piano: i fanti ordinò parte entrassero per lo piano ne’ boschi, parte guadagnassero l’argine; il più forte lasciò a sè: il rimanente a’Legati. Quei del piano entrarono agevolmente; gli scalatori dell’argine, come sotto muraglia, eran di sopra percussati duramente. Vide il capitano che dappresso non si combatteva del pari: e fece ritmare alquanto le legioni; e da’ tiratori di mano e di fionda, balestre e mangani, spazzar di nimici l'argine; per cui difendere, ohi s’affacciava, cadeva. Cesare co’ pretoriani suoi fu primo a pigliar lo steccato, e sforzare il bosco; quivi si venne alle mani. Chiusi erano i nimici dietro dalla palude: i nostri dal fiume, e da’ monti. A ciascuno dava il sito necessità, la virtù speranza, la vittoria salute.

XXI. Non erano i Germani inferiori d’ardire, ma di maniera di combattere e d’armi; non potendo quella gran gente in luogo stretto le lunghe aste maneggiare, nè destri saltare, nè correre, ma combattevan piantati: dove i nostri con iscudo a petto, e spada in pugno stoccheggiavano quelle membrona e facce scoperte, e faciensi con la strage la via. Nè Arminio era più sì fiero per li continovi pericoli o per nuova ferita: Inguiomero volava per tutto, e mancavagli anzi fortuna che virtù. Germanico, come sotto muraglia, per esser me’ conosciuto gridava: „ Ammazza, ammazza; non prigioni; il solo spegnerli tutti finirà questa guerra.„ Verso sera levò di battaglia una legione per fare gli alloggi: l’altre sino a notte si satollaron del sangue nimico. Le cavallerie combatteron del pari.

XXII. Cesare chiamò e lodò i Vincitori, e rizzò un’trofeo d’armi con superbo titolo: Avere l’esercito10 di Tiberio Cesare quella memoria delle soggiogate nazioni tra’ l Reno e l’Albi consacrato a Marte, a Giove, ad Augusto. Nulla disse di sé, temendo d’invidia, o bastandogli l’aver fatto. Mandò subitamente Stertino a combattere gli Angrivari; ma furon a darsi a ogni patto solleciti, e ribenedetti.

XXIII. E già essendo mezza state, rimandò alle stanze alcune legioni per terra, e l’altre imbarcò e condusse per l’Amisia nell’Oceano. Solcando le mille navi a vela, o remi prima quieto il mare; eccoti d’un nero nugolato un rovescio di gragnuola con più venti, e gran cavalloni, che toglievan vista e governo. I soldati spauriti, e nuovi a’ casi del mare, affannosi, davano impacci o mali ajuti a’buoni uffici de’ marinai. Risolvesi tutto ’l turbo del mare e del cielo in un violento mezzodì, che dalle montuose terre, e profonde riviere germane, e da lunghissimo tratto di nugoli rinforzati, e dal gelato vicino settentrione incrudelito, rapì e sbaragliò le navi in alto mare, o in secche o scogli11; onde alquanto con pena allargatesi, la marea tornò, e traportavanele dove il vento; non potevano star su l’ancore, nè aggottare la tanta acqua che per forza entrava. Fecesi getto di cavalli, giumenti, salme e arme, per alleggerire i gusci, che andavano alla banda, e di sopra gli attuffavano i cavalloni.

XXIV. Quanto è più spaventevole l’Oceano degli altri mari e più crudo il Germano degli altri cieli, fu tanto la sconfitta più nuova e dura, in mezzo ai liti nimici, in infinito mare, creduto senza fondo o riva. Parte delle navi fur tranghiottite; le più dileguate in lontane isole disabitate, ove morì di fame qualunque non sofferse manicare le carogne de’ cavalli approdatevi. Sola surse ne’ Cauci la capitana di Germanico; il quale per quelli scogli, o punte: di terra, dì e notte, incolpante se di tanta rovina, appena gli amici tennero non si scagliasse nel medesimo mare. Rivolto al fine il flusso e’l vento, cominciarono le navi a tornare sdrucite, o zoppe e senza remi, o fatto delle vesti vele, o rimorchiate; le quali a furia rassettò, e mandò alla cerca per quell’isole. Molti ne raccolse tal diligenza: e ne ricattarono gli Angrivari, nuovi fedeli: e sino in Britannia ne fùr traportati, e rimandati da que' baroni. Contavano i tornati più di lontano miracoloni di bufere, novissimi uccelli, mostri marini, uomini mezzi bestie, e altri stupori di veduta o sognati in quelle paure.

XXV. La fama della perduta armata rinvogliò i Germani a ricombattere, e Germanico a risgarargli e mandò Silio con trenta migliaia di fanti, e tre di cavalli ne’ Catti. Egli con più forze entrò ne’ Marsi. Malovendo, lor capitano, poco fa datosi, insegnò una dell’Aquile di Varo vicina, sotterrata, e poco guardata. Mandò parte di dietro a cavarla, parte a fronte a far uscire il nimico; a ciascuno riuscì. Cotanto più ardito Cesare penetrò, saccheggiò, squarciò il nimico, che non ardì affrontare, o rotto fu alla prima dove s’era fermato, non mai (come i prigioni dissero ) sì spaurito; invincibili dicendo i Romani, cui nulla fortuna vincea: „Fracassata l'armata, perdute le armi, gremite le litora di cadaveri dei lor cavalli e uomini; con più virtù e fierezza che mai, quasi cresciuti di numero, ci sono entrati nel cuore.„

XXVI. Ridusse alle stanze i soldati, lieti d’aver con questa prospera fazione ristorato i dannaggi del mare; e Cesare sì liberale fu, che a ciascuno quantunque aver perduto disse, pagò. Era senza dubbio il nimico in volta, e pensava agli accordi: e fornivasi la vegnente state la guerra. Ma Tiberio per ogni lettera lo chiamava12 al trionfo apparecchiatogli: „Aver fatto, e arrischiate assai, battaglie grosse e felici, ricordassesi anco de’ danni senza colpa, ma atroci, patiti dal mare. Nove volte, che Augusto mandò in Germania lui, aver più fatto col consiglio che con la forza; così ricevuto a patti i Sicambri, i Suevi: legato il re Maraboduo con la pace. Potere i Romani ora, che hanno gastigato i Cherusci e gli altri ribelli, lasciarli accapigliarsi tra loro.„ Germanico chiedeva un anno per finire ogni cosa, e Tiberio affrontò con più forza la sua modestia, dicendo: Che l’aveva rifatto consolo; venisse a suo ufficio: e lasciasse ancora, se nulla vi rimanesse da fare, qualche materia di gloria a Druso suo fratello, che fuori di Germania, non ci essendo altra guerra, non poteva conseguir nome d’imperadore, nè corona d’alloro. Germanico non aspettò più; benché conoscesse questi esser trovati d’invidia per isbarbarlo dal già acquistato splendore.

XXVII. In questo tempo Libone Druso, di casa Scribonia, fu accusato di macchinare novità. Dirò il fatto da capo a piè con diligenza, per essersi trovato allora cosa che per tanti anni divorò la repubblica. Firmio Cato senatore, anima e corpo di Libone, giovane semplice e vano, gonfiandolo dell'aver bisavol Pompeo, zia Scribonia, prima moglie d’Augusto, i Cesari cugini, la casa piena d’immagini, lo indusse a credere a gran promesse di strolaghi, negromanti, e disfinitori dì sogni: a far gran cera13, gran debiti; gli era compagno alle spese e a’ piaceri, per ravvilupparlo in più riscontri di testimoni e servi, che vedevano gli andamenti.

XXVIII. E quando n’ebbe assai, diede di questo caso notizia, e domandò udienza per Flacco Vesculario, cavalier intimo di Tiberio; il quale alla notizia porse orecchi, l’udienza negò; potendo il medesimo Flacco portare i ragionamenti. Intanto onora Libone di pretoria; convitalo: cuopre con viso e parole sua ira, per sapere, anzi che troncare come poteva14, ciocché trescasse, e dicesse il giovane, il quale ricercò un certo Giunio di far per incanti venir diavoli. Costui lo disse a Fulcinio Trione, che spia pubblica era, e se ne pregiava. Tosto pone la querela; pretesta a' consoli che il senato la vegga; chiamansi a furia i Padri per gran caso atroce.

XXIX. Libone in vesta lorda accompagnato da nobili donne picchia gli usci de’ parenti, pregali che lo difendano. Tutti, per non s’intrigare, si ristringono nelle spalle con varie scuse. Egli cascante di dolóre e paura, o fintosi malato, come alcun vuole, il dì del senato v’andò in lettiga, e alla porta, retto dal fratello, con mani e voce chiedeva a Tiberio mercè; il quale non gli fe’ viso chiaro, nè brusco: lesse i peccati; nè leva, nè poni.

XXX. E i nomi di Trione e Cato accusanti, ai quali s’aggiunsero Fonteio Agrippa e C. Livio; e contrastando chi fare dovesse la diceria distesa, e niuno cedendo, e trovandosi Libone senza avvocato, Livio prese a trattare d’un peccato per volta. Lesse, come Libone aveva fatto gettar l’arte; se egli avrebbe mai tanti danari che coprissero la Via Àppia fino a Brindesi, e cotali scempiezze e vanità, da increscer buonamente di lui. Una scrittura vi fu con postille atroci o scure, a nomi de’ Cesari, o senatori, di mano (dicea l’accusatore) di Libone. Negando egli, parve di farle riconoscere dagli schiavi; e non potendosi per legge antica martoriarli contro alla vita del padrone; Tiberio, dottor sottile, fece venderli al fattor pubblico15; e così salvata la legge furon collati contro a Libone, il quale chiedeo di tornare l'altro giorno. Giunto a casa, mandò per P. Quirinio suo parente a Tiberio gli ultimi preghi: „Preghi il senato,„ rispos’egli.

XXXI. Intanto soldati gli accerchian la casa: giù in terreno fanno rombazzo perchè gli oda e vegga. Mettesi il cattivello per ultimo piacere a mangiare: gusta tanto tossico: chiama chi l’uccida; prende questo servo e quello per lo braccio: „Te’ questo ferro16; ficcal qui;„ fuggono a spavento, danno nel lume; cade in terra: rìmaso al buio oggimai della morte, con due colpi si sventra. Allo strido corrono i liberti: i soldati vedutol disteso, s’acquetano. Ma i Padri spediscon la causa più severi: e Tiberio giurò che voleva loro chieder la vita di lui, benché colpevole, se e’ non aveva tanta fretta.

XXXII. Gli accusatori si divisero i beni. Senatori ebbero contrattempo le pretorie. Propose Cotta Messalino: Che mai in esequie niuna l’immagine di Libone non si portasse. Gn. Lentulo: Che Scribonio niuno il cognome di Druso prendesse. Pomponio Flacco: Che in certi giorni a processione s’andasse, Lucio Pubblio e Gallo Asinio e Papio Mutilo, e L. Apronio: Che s’andasse a offerta, a Giove, a Marte, alla Concordia: e che il dì tredici di Settembre, che Libone s’uccise, fosse dì di festa. Ho voluto dire i nomi e l’adulazioni di tanti, perchè si sappia che questo nella repubblica è mal vecchio. Fatti furono decreti di cacciar d’Italia strolaghi e negromanti; tra quali L. Pituanio fu gittato dal sàsso; e Marzio da’ consoli ebbe il supplizio antico17 fuor della porta Esquilina, con la strombazzata.

XXXIII. La seguente tornata Q. Àterio e Ottavio Frontone, stati consolo e pretore, molto dissero del disonesto spendere della città; e ordinossi; Non si mangiasse in oro massiccio; nè uomo s’infeminisse, vestendo di seta. Frontone trapassò a moderare argenteria, arredo, servitù; usando assai per ancora i senatori, se scorgevano qualche ben pubblico, non proposto, salire in bigoncia 18, e pronunziarne il loro parere, non domandati. Àsinio disse contro: „Le facultà private essere secondo l’imperio cresciute: non pure oggidì, ma per antico. Altro danaio aver avuto i Fabbrizj, altro gli Scipioni. Tutto ire all’avvenante della repubblica. Quando ella era poca, i cittadini aver fatto col poco; or ch’ell’ è magna, ciascuno magnificarsi. Arnese, ariento, famiglia, niuno tener troppo nè poco, se non rispetto al suo stato. Maggiore stato darsi ai senatori che a’ cavalieri’, non perchè diversi sieno per natura, ma perchè, come essi hanno luoghi, gradi e dignità degli altri maggiori così19 s’adagino per contento dell’animo e sanità del corpo di cose maggiori; se già noi non volessimo chi maggiore è, maggior pensieri e pericoli sostenere e mancare de’ loro dicevoli ricriamenti.„ Piacque Gallo agevolmente a coloro che udivano i loro vizj difendere e chiamare per nomi onesti. Anche Tiberio disse: Non esser tempo allora di riforme; nè mancherebbe chi le facesse, se scorso di costume vi fosse.

XXXIV. In questo mentre L. Pisone cominciò a sclamare: „Ogni un vuole magistrati: la giustizia è corrotta; le spie e gli oratori ci minacciano: io vo con Dio: lascio la città per ficcarmi in qualche catapecchia lontana;„ e uscivasi di senato. Tiberio se ne sconturbò: addulcillo con parole: e anche fece che i parenti gli furo addosso, e con l’autorità e coi preghi non lo lasciaron partire. Con libertà non minore poscia si richiamò di Urgulania, gran favorita d’Augusta: perciò delle leggi superchiatrice: e ritirossi in casa Cesare, beffandosi di comparire. Nè Pisone ristette; benché Augusta offesa se ne tenesse e menomata. Tiberio, non parendogli poter civilmente fòre alla madre altro servigio, tolse a comparire in persona al pretore, e difendere Urgulania. Uscì di palagio, alquanto lontano dalla guardia: il popolo corse a vederlo: con volto moderato e vari ragionamenti, consumò tempo e camminò tanto, che non essendo niente che i parenti spuntàsser Pisone; Augusta gli mandò i suoi danari, e fu finita la quistione; ove Pisone acquistò alcuna gloria, e Tiberio miglior fama. Essendo la potenza d’Urgulania venuta a tale, che dovendo sopr’una causa esaminarsi in senato, non degnò andarvi, e s’ebbe a mandarle a casa messere la podestà20: e pure le vergini di Vesta vengono abantico ne’ magistrati a diporre verità.

XXXV. Non direi del prorogato in quell’anno, se non fosse bello intendere le batoste fattone G. Pisone e Asinio Gillo. Pisone, avendo Cesare detto: „Io non ci sarò„, voleva che tanto più i Padri e i cavalieri seguitassero lor ufficio; come che ciò fosse onore della repubblica. Gallo, perchè ciò sapeva di libertà, disse: Nulla essere illustre, o degno del popol romano, fatto fuor dell’occhio del principe; però a lui doversi la dieta d’Italia, e tanto corso di province riserbare. Tiberio gli stava a udire e taceva; molto si dibattero; ma la spedizione si riserbò.

XXXVI. Gallo la prese anche con Cesare, volendo che gli uffici si dessero per cinque anni; e che ogni Legato di legione s’intendesse allora fatto pretore; e che il principe ne nominasse dodici duraturi cinque anni21. Scorgevasi in questo parere misterio sotto; che a Cesare toccherebbe a dare meno uffici; il quale quasi non gli paresse scemare, ma crescere podestà, sermoneggiava: „Grave essere alla modestia sua22 tanti eleggerne, tanti mandarne in, lungo. Se d’un anno s’adirano ora, che sperano ’nel vegnente; quanto l’odierebbono a farli storiare oltre a cinque? Come potersi tanto tempo antivedere, che mente, famiglia, fortuna, uno avrà? Insuperbiscono a tenere un anno l’Onore, che farieno in cinque? Incinqueriensi i magistrati23, manderiensi sozzopra le leggi, che hanno assegnato a’ vogliolosi gli spazj ragionevoli a chieder gli uffici, e goderli„.

XXXVII. Con questa sembianza di caritatevol parlare ritenne la sua podestà, e a’ senatori poveri giovi. Tanto più fece maravigliare la sua superba risposta a’ preghi di M. Ortalo, giovane nobile, venuto in calamità evidente. Fu questi nipote di Ortensio l'Oratore. Augusto gli donò venticinquemila fiorini d’oro perch’ei togliesse moglie; avesse figliuoli, e questa chiarissima famiglia non si spegnesse. Venne adunque in senato, che si tenne in Palagio, con quattro figliuoli alla porta; e voltandosi all’immagine, ora d’Ortensio che v’era tra gli altri oratori, ora d’Augusto, quasi per cosa di ben pubblico incominciò: „Padri coscritti, io mi trovo questi figliuoli dell’età e numero che vedete, non di volontà mia, ma del principe; e per avere i maggiori miei meritato succeditori. Io non avendo potuto per li tempi sinistri acquistar danari, non seguito di popolo, non eloquenza, proprio dono di casa nostra, mi contentava di stentare con quel po’ ch’io aveva onestamente senza dar noia a persona; ubbidii all’imperadore, e ammogliami: ecco la stirpe e la progenie di tanti consoli, di tanti dettatori. Nè ciò mi procacci invidia, ma misericordia maggiore. Vivendo tu, o Cesare, darai degli onori a’ bisnipoti di Q. Ortensio, agli allievi d’Augusto; in tanto assicurali dalla fame.„

XXXVIII. La gran volontà del senato di consolarlo, la fece uscire a Tiberio24, e disse: „Se tutti i poveri s’avvieranno qua a chieder limosina pe’lor figliuoli, niuno si vedrà pieno, e la repubblica fallirà. Concederon gli antichi il dire talvolta il ben comune; e non il fare qua entro i fatti nostri privati e bottega del senato, con carico di esso e del principe, largheggisi o no. Perciocché non preghiera è, ma richiesta a sproposito e sprovveduta, quando i Padri son ragunati per altro, rizzarsi su, mostrare un branco di figliuoli, violentare la modestia del senato, e me, e quasi sconficcare la tesoreria; la quale se noi voteremo per vanità, l’avremo a riempiere per ingiustizie. Augusto, o Ortalo, ti donò; ma non per sentenza contro, nè con obbligo di sempre donarti. Mancherà l’industria, e crescerà la pigrizia, se timore o speranza non ci governa; ogni dappoco con nostro danno aspetterà sicuro che noi l’imbocchiamo.„ Parve a’lodatori di tutte le cose de’principi, oneste e disoneste, che egli avesse dipinto25; ma i più ammutolirono o bisbigliavano di nascosto. Ei se ne accorse; e, taciuto alquanto, disse: avere risposto a Ortalo; tuttavia se a’ Padri paresse darebbe a ciascuno de’ figliuoli maschi cinquemila fiorini. Essi lo ringraziarono: Ortalo niente disse, o per paura o per antica nobiltà d’animo, albergante ancora in quella miseria. Onde a Tiberio non ne increbbe mai più, quantunque la casa d’Ortalo cadesse in povertà vergognosa.

XXXIX. Nel detto anno l’ardir d’un verme fu per mettere la repubblica, se tosto non si ovviava, in discordie e armi civili. A Clemente schiavo di Agrippa Postumo, udita la fine d’Augusto, venne concetto, non da schiavo d’andare nella Pianosa, e per forza o inganno rubare Agrippa, e presentarlo agli eserciti di Germania. Una nave mercantile penò tanto che lo trovò ammazzato; onde si mise a sbaraglio maggiore: rubò le ceneri, e passò a Cosa, capo di mare in Toscana, ove stette nascoso tanto, che rimesso barba e chioma, somigliando per età e fattezze il padrone, sparse voce per idonei suoi che Agrippa era vivo: prima di sottecchi, come si fa delle cose di pericolo, poi ne riempié ogni gente, specialmente ignoranti, curiosi, e malfattori bisognosi di novità. Andava egli per le terre al barlume; in pubblico non s’affacciava. Giunto in un luogo, spariva via; lasciava di sè fama, o avanti lei compariva; perchè occhio e dimora aiutano il vero: fretta e dubbiezza il falso.

XL. Già si spargea per Italia che Agrippa era salvo, bontà degli Iddii; in Roma si credeva. Giunto a Ostia, molta gente: in Roma i conventicoli lo celebravano. Tiberio stava sospeso se contra un suo schiavo convenisse andare armato, o lasciare col tempo svanire la credenza; ora niente doversi sprezzare, ora non d’ogni cosa temere, gli dettavano vergogna e paura. Finalmente di suo ordine Crispo Salustio induce due cappati suoi (alcuni dicoii soldati) a trovar l’uomo, e dirgli di venire a servirlo: offerirgli danari, fedeltà e la vita. Ciò fatto, l’appostano una notte senza guardia, e con buona compagnia lo legano, e tirano con la bocca turata in palagio. Tiberio il dimandò, „Come ti se’ tu fatto Agrìppa26? Rispose: „Come tu Cesare.„ Di fargli dire i compagni non fu verso. Nè Tiberio ardi giustiziarlo in pubblico; ma in parte segreta del palazzo il fe’ uccidere, e portar via; e benché molli cortigiani, cavalieri e senatori si dicessono avergli porto aiuti e consigli, non fu rimestato27.

XLI. Consagrossi al fine dell’anno per le insegne che Varo perdè, da Germanico a Tiberio racquistate, l’arco presso al tempio di Saturno: il tempio di Sortefortuna lungo il Tevere, negli orti che Cesare dettatore lasciò al popolo romano; una cappella a casa Giulia, e una statua al divino Augusto in Boville. Nel consolato di C. Celio e L. Pomponio, il dì 26 di maggio Germanico Cesare trionfò dei Cherusci, Catti, Angrivari e altre nazioni infino all’Albi. Eranvi portate le spoglie, i prigioni, i ritratti dei monti, fiumi e fatti d’arme. Per finita tennesi quella guerra, che non fu lasciata finire. Non si saziavano di guatare la sua gran bellezza, e i cinque figliuoli sul carro; con segreto batticuore, considerando essere a Druso suo padre il favor del popolo stato infelice; Marcello suo zio, perchè la plebe ne folleggiava, rubato anzi tempo; questi amori del popol romano, brevi e malaurosi.

XLII. A nome di Germanico, Tiberio donò alla plebe fiorini sette e mezzo per testa; e sè e lui elesse consoli. Non perciò diede ad intender di voler bene al giovane; ma trovò, o seppe prender via da poterlo smaltire sotto specie d’onore. Godeva già cinquanta anni la Cappadocia il re Archelao, odiato da Tiberio perchè in Rodi non lo onorò; non per superbia, ma per essere avvertito da intimi d’Augusto, che vivendo C. Cesare, e governando l’Oriente, la pratica di Tiberio non parea sicura28. Stirpati i Cesari, e fatto imperadore, fece dalla madre scriver ad Archelao, che sapeva i disgusti di suo figliuolo, e gli offeriva perdono se ei venisse a supplicare. Il buon uomo29, che lo inganno non intendeva, o scoprendosi d’intenderlo, forza aspettava, corse a Roma; ove dal crudo principe male accolto, è tosto querelato in senato, non per le apposte cagioni, ma per la vecchiaia, per l’angoscia, e perchè a’ re non par giuoco patire le cose giuste, non che gli smacchi30, fornì per volontà o natura, la vita sua. Il regno fu fatto vassallaggio, e Tiberio per quell’entrata sgravò l’un per cento31, e lo ridusse a mezzo. Abbatteronsi ancora i Comageni e i Cilici, per la morte d’Antioco e di Filopatore loro regi, a travagliare, volendo chi re, chi Roma ubbidire; e la Soria e la Giudea, stracche dalle angherie, chiedevano alleggerirsi il tributo.

XLIII. Tutte queste cose adunque e l’altre dette dell’Armenia, Tiberio contò a’ Padri e conchiuse: Non poter l’Oriente, se non la sapienza di Germanico acquetare; essendo egli oggimai vecchio e Druso non ancor fatto32. Allora per lor decreto. Germanico ebbe il governo d’oltre mare, e ovunque andasse, sovrano, a qualunque reggesse, o, per tratta o a mano. Ma Tiberio levò di Soria Cretico Silano, che aveva impalmata una figliuola a Nerone, primo figliuolo di Germanico; e misevi Cn. Pisone, uomo rotto, soprastante e feroce come il padre, che nella guerra civile aiutò valorosamente le parti risurgenti in Affrica contra Cesare; poi seguitò finito e Cassio; ebbe grazia di tornare a Roma; e non si dichinando a chieder onori, Augusto l’ebbe infino a pregare che accettasse il consolato. Ma oltre a’ paterni spiriti, la nobiltà e le ricchezze di Plancina sua moglie lo ringrandivano. A Tiberio appena cedeva; i suoi figliuoli, come molto da meno, spregiava. Conoscevasi piantato in Soria per tener basso Germanico; e alcuni vogliono, che Tiberio gli desse commessioni occulte. Augusta senza dubbio inizzò Plancina a fare alle peggiori con Agrippina; parteggiando la corte in segreto, chi con Druso, chi con Germanico. Tiberio carezzava Druso suo natural sangue; Germanico era più amato dagli altri, perchè il zio l'odiava33, e più chiaro di sangue da lato della madre, nata di Marcantonio e d’Ottavia sorella d’Augusto34; dove il bisavolo di Druso Pomponio Attico cavaliere male tra le indagini de' Claudi campeggiava; e Agrippina moglie di Germanico a Livia di Druso soprastava per fecondità e netta fama. Ma questi fratelli erano forte uniti, nè da tempestare di lor brigate scrollati.

XLIV. Non v’andò guari, che Tiberio mandò Druso in Illiria, per milizia apprendere e per farsi dallo esercito amare: star meglio in campo che a sviarsi ne’ piaceri della città35, e più sicure le forze sue ne’ due figliuoli spartite36. Ma finse mandarlo per aiuto chiesto da Svevi contro a’Cherusci. Avvegnachè costoro liberati, per la partita de’ Romani, da forestiero timore, e per natia usanza, e per contesa di gloria, si voltassono l’armi contra; pari di forze e di valore de’ capi; ma quel nome di re in Maroboduo non piaceva a’ popoli; Arminio, che per la libertà combatteva, era il favorito.

XLV. A lui rifuggito del regno di Maroboduo Svevi, Sennoni, e Longobardi, co’ quali aggiunti ai Cherusci, e loro allegati antichi soldati suoi, era più forte; se Inguiomero col suo seguito non s’accostava a Maroboduo, perciò solamente, che si sdegnava ubbidire essendo zio e vecchio al giovane nipote. Ordinaronsi le battaglie con pari speranze: non più i Germani divisi in frotte in qua e là scorrenti, come solevano, avendo per lungo guerreggiar co’ Romani appreso a seguitare le insegne, soccorrersi, ubbidire i capitani. Arminìo per tutto l’esercito cavalcando a ognuno ricordava: La riavuta libertà, le squarciate legioni: mostrava in mano a molti di loro ancor le spoglie e l’armi tolte a’ Romani: chiamava Maroboduo fuggitore codardo, intanato nella selva37 Ercinia, chieditor d’accordi con ambascerie e presenti, traditor della patria, cagnotto di Cesare, degno d’esser con più l’abbia spiantato che Varo non fu ucciso; se si ricordassero delle tante battaglie, i cui fini, con la cacciata finalmente de’ Romani, chiarire chi riportasse l’onor della guerra.

XLVI. Nè taceva Maroboduo i suoi millanti, e le vergogne d’Arminio; ma dando ad Inguiomero della mano in su la spalla, diceva: „Ecco qui la gloria de’ Cherusci. Per li costui consigli si è fatto ogni bene, e non di quell’animale d’Arminio, che se ne fa bello per aver tradito le tre legioni smembrate, e il capitano, che dormiva, con gran mortalità di Germani e sua ignominia, avendo ancora schiavi la moglie e il figliuolo. Ma io assalito da legioni ben dodici, capitanate da un Tiberio, mantenni alla gloria germana il suo fiore. Fecesi accordo onorevole: nè ci ha ripitìo, posciachè a noi sta se vogliamo di bel nuovo combattere, o senza sangue vivere in pace.„ Pugnevano l’uno e l’altro esercito, oltre alle dette, altre cagioni proprie, che i Cherusci e’ Longobardi combattevano per la gloria e per la libertà nuòva i quegli altri per accrescer dominio. Affronto non fu mai sì possente e dubbio: perciocchè l’uno e l’altra destro corno fu rotto: e rappiccavansi, se Maroboduo non si ritirava alle colline: segno che impaurì; onde i rifuggiti alla sfilata il piantarono. Se n’andò ne’ Marconianni, e domandò per ambasciadori a Tiberio aiuto. Rispose: Non poter aiuto contro a’ Cherusci chiedere a’ Romani, chi loro già contro a’ medesimi lo negò. Nondimeno fu mandato Druso, come dicemmo, a rappaciarli.

XLVII. Rovinarono in quell’anno dodici città nobili dell’Asia, per tremuoti venuti di notte, per più sprovveduto e grave scempio. Non giovava, come in tali casi, fuggire all’aperto, perchè la terra s’apriva e inghiottiva. Contano di montagne nabissate, piani rimasi in altura, lampi nel fracassìo usciti. Ne’ Sardiani fu la maggiore scurità; onde Cesare loro promise dugencinquantamila fiorini, e di quanto pagavano al fisco e alla camera, gli esentò per anni cinque. A’Magnesi di Sipilo toccò il secondo ristoro e danno. I Temnj, Filadelfj, Egeati, Apolloniesi, Mosceni, Macedoni, detti Ircani, Gerocesarea, Mirina, Cimene e Tinolo, piacque per detto tempo sgravar de’ tributi, e mandare a visitatali e provvedergli un senator pretorio, non consolare, come il governator dell’Asia era; acciò non competessero come pari, e s’impedissero: e fu eletto M. Aleto.

XLVIII. Questa magnifica liberalità pubblica fu rifiorita da Cesare con due altre private non meno care; diede la ricca redità d’Emilia Musa, morta senza testare, che andava nel fisco, ad Emilio. Lepido, che di tal famiglia parea; e quella di Patuleio ricco cavalier romano (benché a lui ne lasciasse una parte) a M. Servilio chiamato nel testamento primo, e non sospetto; e disse, che que’ gentiluomini riarsi meritavano cotali rinfirescamenti. Nè accettava reditadi se non se meritate per amicizia; quelle di sconosciuti, o che in dispetto d’altrui lasciavano al principe, ributtava.* Ma come egli sollevò l’onorata povertà di questi buoni, così privò del grado senatorio o permise lasciarlo, Vibidio Varrone, Mario Nipote, Appio Appiano, Cornelio Sulla, e Q. Vitellio, impoveriti per mal vivere38. XLIX. Dedicò a Bacco, Proserpina e Cerere il tempio per boto d’A. Postumio Dettatore, cominciato da Augusto, guasto da tempo o fuoco, accanto al Cerchio maggiore: e quivi pure quel di Flora, ordinato da Lucio e Marco Publicj, Edili: e quel di Iano dal mercato degli erbaggi, che C. Duillio edificò, per la riportata prima vittoria romana in mare, e navale trionfo de’Cartaginesi; e Germanico dedicò alla Speranza quello che Atilio nella medesima guerra botato avea.

L. La legge di stato allungava i denti; e fu accusata Apuleia Varilia, nipote d’una sorella d' Augusto, d’aver beffeggiato lui, Tiberio e la madre: e commesso adulterio 39 con parente di Cesare. Di questo fu rimessa alla legge Giulia; dello sparlato d’Augusto, volle si condannasse; di sè non se ne ricercasse: della madre non ne rispose al cunsolo; ma l’altra tornata pregò il senato da parte di lei ancora: Che di parole dette contra lei, niuno fusse reo. Assolvella adunque del caso di stato; e per lo adulterio, persuase i suoi che bastasse la pena antica del discostarla da loro dugento miglia. Manlio lo bertone, fu cacciato d’Italia, e d’Affrica.

LI. Nel rifare il pretore per la morte di Vipsanio Gallo v’ebbe contesa. Germanico, Druso (che erano, ancora in Roma) volevano Aterio Agrippa parente di Germanico: pontavano i più per lo più carico di figliuoli, secondo la legge40. Tiberio aveva piacere che il senato disputasse chi poteva più, i suoi figliuoli o le leggi. La legge (chi noi si sapea?) fu vinta; ma tardi, e a randa: a uso di quando elle valevano.

LII. Quest’anno nacque guerra in Affrica con Tacfarinata. Costui fu di Numidia: militò in campo romano tra gli aiuti; truffò; si fece capo di malandrini41: ordinolli sotto insegne, bande e buona milizia: e finalmente di capo di scherani, duca dei Musulani divenne gente forte, confine a’ diserti, ancor niente incivilita. Pece lega co’ vicini Mori, e loro duca Mazippa, con patto che Tacfarinata in campo il fior de’ soldati armati alla romana ammaestrasse; e Mazippa con gente leggiera mettesse a ferro e fuoco, e in terrore il paese; e trassero dalla loro i Cinizj, nazione di conto Allora Furio Camillo, viceconsolo in Affrica, andò’a trovar il nimico con la legione e tutti gli aiuti: gente poca a tanti Numidi42 e Mori; ma dove sopra tutto si procurava non isfuggir la guerra per paura, per sicurezza di vincere furon vinti. Presentossi la legione in mezzo; fanti leggieri, e due alie di cavalli nei corni. Tacfarinata non rifiutò; fu sbaragliato: e Furio per molti anni riacquistò il vanto della milizia, che da quel Camillo, che salvò Róma e suo figliuolo in qua, era stato in altre famiglie. Fattostà, che tal uomo non era tenuto da guerra: tanto più celebrò Tiberio sue geste in senato. I Padrì gli ordinarono le trionfali; e non gli nocquero43, per la tanto sua vita rimessa.

LIII. Il seguente anno furon consoli Tiberio là terza volta, e Germanico la seconda, che prese l'ònore in Nicopoli città d'Acaia, dove era per Illiria venuto da visitare il fratello in Dalmazia, con mala navigazione ne’mari Adriatico e Iònio. Onde vi badò pochi giorni a risarcir l’armata, e in tanto vedere quel famoso Ario per la vittòria e rizzati trofei di Augusto, e lo campo d’Antonio, ricordazioni a lui (perchè Augusto gli fu zio, e Antonio avolo com’è detto), e grandi spettacoli d’allegrezze e dolore. Entrò in Atene con un solo littore, rispettando l’antica città collegata. Que’ Greci lo accolsero con onori squisitissimi; e con eroico adulare gli portavano innanzi i chiari detti e fatti de’ suoi maggiori.

LIV. Andò in Eubea: passò in Lesbo, dove Agrippina fece il suo ultimo parto di Giulia. Vide nel fine dell’Asia Perinto, e Bizanzio città di Tracia; lo stretto della Propontide, e bocca del Ponto, per vaghezza di riconóscere quell’antiche famose contrade; e insieme ristorava, quelle province strutte per loro discordie e nostre angherie. Volendo nel ritorno visitare le divozioni di Samotrace44, ripinto da’ tramontani, vi costeggiò l’Asia, e que’luoghi per variata fortuna, e nostra origine, venerandi; e surse in Colofone per intender di sè da quell’oracolo d’Apolline Clario. Non donna v’è’, come in Delfo; ma sacerdòte di certe famiglie, le più di Mileto, il quale piglia solamente i nomi e il numero de’ domandanti: entra in una grotta; bee a una fonte sagrata: non sa leggere per lo più, nè poetare: e londe in versi alle domande cogitate i risponsi; e dicevasi aver cantato Germanico morte vicina con parole scure d’oracoli.

LV. Ma Pisone, per tosto cominciar sua opera, entra furioso in Atene, e la riprende agramente, dicendo: Troppi convenevoli, non degni del nome romano, essersi fatti ( e pugnerà per fianco Germanico ) non alli Ateniesi, che n’è spento il seme; ma a questo guazzabuglio di nazioni. Essi essere que’buon compagni di Mitridate contro a Silla, d’Antonio contro al divino Augusto. Rinfacciò loro l'antiche percosse de’ Macedoni, le violenze ai loro, volendo male per altro a quella città, che non gli avea fatto grazia d’un Teufilo, condannato dall’Areopago per falsario. Quindi navigando a fretta per le Ciclade e per tragetti di mare, raggiunse in Rodi Germanico ) avvisato di tanto perseguito; ma sì bonario, che, battendo Pisone per burrasca in iscogli, ove poteva alla fortuna attribuirsi sua morte, gli mandò galee, e salvollo. Non perciò mitigato Pisone, stato con Germanico appena un dì, gli passò innanzi, e giunto alle legioni in Soria, con donare, praticare, tirar su infimi fantaccini, cassar vecchi capitani e severi tribuni, e mettervi suoi, cagnotti o cerne, e lasciargli nel campo senz’esercitamento, nelle città senza freno, fuori scorrere e rubare: scapestrò sì ogni cosa, che il volgo il dicea: Padre delle legioni: e Plancina, fuori del dicevole a femmina, interveniva al rassegnare, all’addestrare cavalli e fanti; d’Agrippina e di Germanico diceva ree parole; e alcuni soldati, e de’ buoni, le si offerivano a’ più rei fatti; bisbigliandosi che l’imperadore così volesse.

LVI. Germanico sapeva tutto; ma volle attender prima agli Armeni. Di questi non fu mai da fidarsi per lor natura, e per lo sito in corpo a nostre province, che s’estende sino a’ Medi, e tramezzando due grandissimi imperi, or combattono co’ Romani per odio, or co’ Parti per invidia. Erano allora senza re, rimòsso Vonone; ma volti a Zenone, figliuolo di Polemone re di Ponto; il quale sin da fanciullo usando caccia, vestire, vita, costumi, e ciò che li Armeni amano, s’era guadagnato i grandi e la plebe. Laonde da Germanico nella città d’Àrtassata, con piacer de’ nobili, a pien popolo fu incoronato, e da tutti gridato re, e dal nome della città detto Artassia. A’Cappadoci fatti vassalli fu dato per Legato Q. Veranio; e sgravato alcuno de’ tributi del re, per intonare il romano giogo più soave. A’ Comageni fu primo pretore dato Q. Serveo.

LVII. A Germanico i sì ben composti collegati non facean pro per la superbia di Pisone; al quale avendo comandato che venisse egli o il figliuolo, con parte delle legioni, se he beffò. Pure in Cirra, dove alloggiava la legion decima, s’abboccarono con visaggi, l’uno di non temere, l’altro di non minacciare. Germanico era benigno, come s’è detto; ma molti commetteano male, veri accrescendo e falsi aggiungendo, contra Pisone e Plancina e i figliuoli. All'ultimo, Cesare, presenti alcuni di casa, gli parlò con ira rattenuta: quei fece scuse altiero: partirsi con odj concentrati45. Pisone poche altre volte entrò nel tribunale di Cesare, e sempre aspro e contradio. In un convito del re de’ Nabatei, essendo portate corone grandi d’oro a Germanico e Agrippina, e a lui piccola come agli altri, disse forte: Che quel pasto si faceva al figliuolo del principe di Roma, e non del re de’ Parti: gettò via la corona, e molto biasimò quella spesa: cose da Germanico stransentite, ma sopportate.

LVIII. In questo vennero ambasciadori da Artabano re de’ Parti, che ricordava la loro amicizia e lega; desiderava rinnovarla con le destre: onorerebbe Germanico di venire a riva d’Eufrate: pregavalo intanto non tenesse Vonone in Soria a sollevargli i grandi co’ vicini messaggi. Rispose all’amicizia dei Romani coi Parti, parole pompose: al venire per onorarlo, belle e modeste; cansò Vonone in Pompeiopoli città di mare in Cilicia, in grazia d’Artabano e dispetto di Pisone, a cui era gratissimo per la gran servitù e 46 presenti ch’ei faceva a Plancina.

LIX. Nel consolato di M. Silano, e L. Norbano, Germanico andò in Egitto per vedere quelle antichità, dicendo per visitar la provincia. Aperse i granai, e i viveri, rinvilio, e molte gratitudini al popolo fece; andar senza guardia47, col piè scoperto, vestire alla greca, come già Scipione in Sicilia, benché nell’ardor della guerra Cartaginese. Tiberio lo gridò un poco del vestire; ma agramente dell’essere entrato in Alessandria senza suo ordine, contro ai ricordi di stato, che Augusto lasciò, e tra gli altri, che niun senatore, nè cavaliere di conto entrasse senza patente in Egitto: perchè uno potrebbe con poca gente centra grossi eserciti in quella chiave della terra e del maie, tenersi è affamare Italia.

LX. Ma Germanico non sapendo ancora che quella gita dispiacesse, se n’andava per lo Nilo reggendo, e prima Canopo. Edificaronla gli Spartani per sepoltura di Canopo loro nocchiere, quando Menelao, tornando in Grecia, fu traportato in diverso mare e in Libia. Passò indi alla seconda foce che quei della contrada dicono di Ercole lo Antico48, ivi nato: gli altri Ercoli avere acquistato per simil virtù simil nóme. Visitò l'anticaglie di Tebe, la grande, dov’erano ancora le Aguglie, con lettere egizie, che mostravano l'antica possanza; le quali fatte disporre da un vecchio sacerdote, dicevano esservi abitati settecentomila da portar arme; e con tale esercito avere il re Ransenne conquistato la Libia, l'Etiopia, i Medi, i Persi, il Battro e la Scizia, e quanto tengono i Soriani, gli Armeni, i Cappadoci lor confini: e sino a’ mari di qua di Bitinia, di là di Licia avere signoreggiato. Vi si leggevano i tributi dell’oro, ariento, armi, cavalli, avorio e odori, per li tempi, grano, e d’ogni sorta arnesi, che porgeva ciascuna nazione, niente scadenti da que’che oggi la violenza de’ Parti o la romana grandezza riscuote.

LXI. Volle vedere ancora le principali maraviglie: la Statua del sasso di Mennone, che battuta dal sole, rende voce: le piramidi, come montagne condotte al cielo, co’ tesori dei principi gareggianti e sparse per le appena valicabili arene: e gli ampi laghi cavati per ricetti dell’acque traboccanti dal Nilo; e altrove le strette voragini senza fondo. Indi venne a Elefantina e a Siene, termine allora del romano imperio, che oggi si stende al Mar Rosso.

LXII. Mentre Germanico quella state consumava in veder paesi49, Druso acquistò non poca gloria col metter tra’ Germani discordie, e far Maroboduo, già scassinato, cadere. Era tra i Gotoni un nobile giovane, detto Calualda, cacciato già dalla forza di Maroboduo, ne’ cui frangenti allora ardi vendicarsi. Entrò ne’ Marcomanni con buone forze: e con intendimento de’ principali sforzò la città reale e la cittadella accanto. Trovaronvi le antiche prede dei Svevi: vivandieri e mercatanti nostri paesani, per le franchezze del traffico e per lo guadagno, obbliata la patria, fermatisi tra' nimici.

LXIII. Maroboduo abbandonato da tutti, non ebbe altro rifugio che alla misericordia di Cesare. In Baviera passò il Danubio; e scrisse a Tiberio, non da fuoruscito o supplicante, ma da chi e’ sole v’essere; Molte nazioni chiamarlo, come stato gran re; ma non volere altra amicizia che la romana. Cesare gli rispose, offerendogli in Italia stanza sicura e onorata, e partenza sempre libera, con la venuta. sotto la medesima fede; ma in senato disse: Non Filippo alli Ateniesi, non Pirro, nè Antioco al popol romano essere stati da temer tanto. Hacci quella diceria ove egli magnifica la grandezza di costui, la fierezza dei suoi popoli, la vicinanza d’un tanto nimica all’Italia, e l’arte sua nello spegnerlo. Maroboduo tenuto fu in Ravenna, quasi per mostrarlo comodo a rimetter nel Regno, se i Svevi armeggiassero. Ma egli non uscì d’Italia; v’invecchiò diciott’anni, e per troppa voglia di vivere, molta sua chiarezza scurò. Di Catualda fu il medesimo caso, e rifugio. Vibilio, capitano delli Ermunduri, non guari dopo il cacciò, ricevessi nel Foro Giulio, colonia della Gallia Nerbonese. Que’ Barbari, che accompagnaron l’uno e l'altro, per non metter simil razza nelle province quiete, fur posti oltre al Danubio tra’l fiume Maro e’l Cuso, e dato loro Vannio, di nazion Quado, che gli reggesse.

LXIV. Per tali avvisi, e per lo re Artassia, dato da Germanico alli Armeni, ordinarono i Padri che egli e Druso entrassero in Roma ovanti50; e si fecero archi alle latora del tempio di Marte Vendicatore co’ ritratti de’ Cesari. E Tiberio gioiva d’aver fermato la pace col sapere, ansi che vinto la guerra con le battaglie. Onde pensò di carpire al sì con l’astuzie Rescupori re di Tracia. Tenne tutto quel paese Remetalce, alla cui morte Augusto divise la Tracia tra Rescupori fratello e Coti figliuolo di quello. Le città, il coltivato e ’l vicino alla Grecia toccò a Cuti; lo sterile, aspro e confine a’ nemici, a Rescupori; secondo loro nature, quegli benigno e lieto, questi atroce, avido, e non pativa compagno. Dapprima s’infinse contento: e poi passava in quel di Coti, facevalsi suo, e, se gli era conteso, usava la forza; destreggiando, vivente Augusto, per paura di lui, lo cui lodo spregiava: morto lui, vi mandava masnadieri a rubare: rovinava castella per guerra attizzare.

LXV. Tiberio, la cui maggior cura era che le cose acconce non si guastassero, mandò un centurione a dir loro: Che non disputassero con l’armi. Coti licenziò tosto sua gente: Rescupori tutto modesto disse: „Abbocchiamoci, che potremmo accordarci.„ Del tempo, luogo e modo, non fu disputa; concedendo e accettando l’un dolce, l’altro fello, ogni cosa. Rescupori per solennizzare (dicev’egli) l’accordo fece un bel convito, ove a mezza notte nell’allegrezza delle vivande e del vino, incatenò Coti, invocante, quando intese lo inganno, il sagro regno, i loro avvocati Iddii, le mense sicure. Avuta tutta la Tracia, scrisse a Tiberio: Essersi allo insidiatore levato innanzi; in tanto s’afforzava di nuovi cavalli e fanti, e diceva per far guerra a’ Bastarni e Sciti.

LXVI. Tiberio riscrisse dolcemente: Se fraude non v’era, stesse di buona voglia; ma non poter egli, nè il senato, discernere senza conoscer la causa chi s’abbia torto o ragione. Desse il prigione e venisse a scolparsi. Latinio Pando, vicereggente della Mesia, mandò questa lettera con soldati per menarne Coti. Rescupori stato alquanto tra la paura e l'ira, volle essere reo di peccato anzi fatto, che di cominciato: uccise Coti; e lui essersi da sè ucciso falsamente affermò. Cesare non lasciò su’ arte; e, molto Pando, cui Rescupori allegava per nimico, mandò a quel governo apposta Pomponio Fiacco, soldato vecchio, amico stretto del re; perciò più atto a giugnerlo.

LXVII. Fiacco si trasferì in Tracia: e bellamente con parole ampissime lui sè riconoscente e scontorcente, carrucolò nelle forze romane. Forte banda lo cinse, quasi per onorarlo; tribuni, centurioni, gli pur diceano venisse, non dubitasse; e con guardia quanto più andava oltre, più manifesta e con forza, finalmente da lui intesa, lo portarono a Roma. La moglie di Coti l’accusò in senato; fu dannato a prigionia fuori del regno: e divisa la Tracia tra Roemetalce, suo figliuolo, che si sapeva essersi contrapposto al padre, e li figliuoli di Coti pupilli, e a loro dato per tutore e governatore del regno, Trebellieno Rufo, stato pretore, come già Marco Lepido a’ figliuoli di Tolomeo in Egitto. Rescupori si mandò in Alessandria, dove, per fuga tentata o appostagli, fu ucciso.

LXVIII. E nel tempo medesimo Vonone causato, come dissi in Cilicia, corruppe le guardie per fuggirsene ( sott’ombra di cacciare ) per li Armeni nelli Albani e nelli Eniochi, al re di Scizia suo parente. Lasciata la maremma s’imboscò, e corse a tutta briglia al fiume Piramo. I paesani, udita la fuga del re, avevano rotto il ponte; nè potendol guazzare, Vibio Frontone capitano di cavalli, in su la riva lo riprese; e Remmio Evocato, sua prima guardia, incontanente di stoccate l’uccise, quasi per ira; ma si crede perchè e’non ridicesse che ei lo corruppe.

LXIX. Germanico, tornato d’Egitto, trovò gli ordini lasciati nelle legioni e città, levati o guasti. Agre parole ne disse contra Pisone, il quale non meno acerbi fatti contr’a lui ordiva. E vollesi partire di Sorìa; ma ristette, sentendo Germanico ammalato. E quando seppe ch’ei migliorava, e se ne scioglievano i boti, fece mandar da’ littori sozzopra le vittime e gli apparati della plebe festeggiante, perch’ei guariva in Antiochia. Andossene dipoi in Seleucia, per attender la fine della ricaduta di Germanico, il quale s’accresceva il maligno male col tenersi da Pisone affatturato; trovandosi sotto il suolo, e nelle mura ossa di morti, versi, scongiuramenti, piastre di piombo scrittovi Germanico, ceneri arsicciate, impiastriccicate di sangue e altre malìe; onde si crede l’anime darsi alle dimonia; e incollorivasi de’ messaggi che mandava ora per ora Pìsone a spiare come egli stesse.

LXX. E mettevangli tali cose, oltr’all’ira, paura: „ Sono assediato in casa, muoio in su gli occhi a’ miei nimici: che sarà di questa povera donna e pargoli figliuoli? La fattura non lavora tanto presto, ei non vede l’ora di tener solo la provincia, le legioni; ma io sono ancora vivo: la mia morte gli costerà.“ Detta una lettera; gli disdice l’amicizia51; e comanda ( dicono alcuni ) che sgomberi la provincia. Senza indugio Pisone s’imbarcò, e aliava d’intorno Soria, per rientrarvi tosto che Germanico fosse spirato;

LXXI. il quale prese un poco di speranza; indi mancate le forze, e giunta l’ora disse ai circostanti: „ Se io morissi naturalmente, mi potrei dolere con gl’Iddii che mi togliessero a’ parenti, a’ figliuoli, alla patria, sì giovane, sì tosto; ma essendo rapito dalla sceleratezza di Pisone e di Plancina, lascio questi ultimi preghi ne’ vostri petti, che voi riferiate a mio padre e fratello, con quali acerbità lacerato, con quanti inganni tradito, io sia trapassato di vita miserissima a morte pessima. Se alcuni, o per le mie speranze o per essermi di sangue congiunti ( e di quegli ancora che m’invidiavan vivo ), lagrimeranno, che io in tanto fiore scampato da tante guerre, per frode d’una malvagia sia spento, voi allora potrete lamentarvene in senato, invocare le leggi. Non è proprio uficio dell’amico il piagnerlo senza pro; ma l’avere in memoria ed effettuare le sue volontadi. Piangeranno Germanico ancora gli strani: vendicatel voi, se amaste me, e non la mia fortuna. Presentate al popol romano la nipote d’Augusto e moglie mia; annoverategli sei figliuoli; la pietà moverete voi accusanti: e se i traditori allegheranno qualche scelerata commessione, o non saranno creduti o non perciò assoluti.„ Giurarono gli amici, stringendogli la destra, di lasciare anzi la vita, che la vendetta.

LXXII. Voltatosi alla moglie, la pregò che per amor suo, per li comuni figliuoli ponesse giù l’alterigia: cedesse alla fortuna crudele; nè in Roma, competendo, inasprisse chi ne può più di lei. Queste cose le disse in palese: e altro nell’orecchio; credesi quel che ei temea di Tiberio; e indi a poco passò. La provincia e li vicini popoli ne fecero gran corrotto e se ne dolsero gli stranieri e i re; si era piacevole a’ compagni, mansueto a’ nimici, nelle parole e nell’aspetto venerando: e senza invidia o arroganza riteneva sua gravità e grandezza.

LXXIII. L’esequie furono senza immagini o pompa, splendentissime per le sue laudi, e ricordate virtù. Assomigliavanlo alcuni ad Alessandro Magno; perchè ambi furon belli di corpo, d’alto legnaggio; morirono poco oltre trent’anni, in luoghi vicini, tra genti straniere, traditi dai loro. Ma questi fu dolce alli amici, temperato ne’ piaceri, contento d’una moglie, certo de’ suoi figliuoli. Combattè niente menò, e senza temerità; e nel mettere il giogo alle Germanie, che già per tante vittorie le si accollavano, fu impedito; che se egli poteva far solo, se egli era re, come Alessandro tanto riportava il pregio dell’armi meglio di lui, quanto l’avanzò di clemenza, di temperanza e d’altre bontà. Il corpo, prima che arso, fu posto ignudo in piazza d’Antiochia, ove dovea seppellirsi. Non è chiaro se e’ mostrò segni di veleno; chi diceva: „Ei sono„, chi: „Ei non sono:„ secondo stringeva la compassion di Germanico, e il preso sospetto o il favore di Pisone.

LXXIV. I Legati e i senatori che vi erano, consultarono chi lasciare al governo della Soria. Poca ressa ne fecero altri che Vibio Marso, e Gn. Senzio. Vibio alla fine cedè all’età e più voglia di Senzio. Questi a richiesta di Vitellio, Veranio, e altri che formavano il processo contro i rei, quasi già accettati, prese una Martina, maliarda famosa in quella città, l’occhio di Plaucina, e mandolla a Roma.

LXXV. Agrippina ammalata, e dal pianger vinta, nimica d’indugio alla vendetta, s’imbarcò con le ceneri di Germanico, e co’ figliuoli; piangendo le pietre che sì alta donna, dianzi in sì bel matrimonio congiunta, festeggiata, adorata, portasse allora quelle morte reliquie in seno, non sicura di vendetta; in pericol di sè, e par tanti infelici figliuoli, tante volte bersaglio della fortuna. Pisone raggiunto da un suo fante nell’Isola di Coo, con la morte di Germanico, ammazza vittime, com a’ templi, folleggia per allegrezza; e Plaucina insolentisce, scaglia via il bruno per la sorella, ammantasi drappi gai.

LXXVI. Affoltavansi centurioni a dirgli, che le legioni lo desiavano, ripigliasse la provincia vota, toltagli a torto. Consigliandosi quel fosse da fare; M. Pisone suo figliuolo voleva sollecitasse d’andare a Roma52: Non essersi ancor fatto cosa da non potersi purgare: novelle e sospetti deboli non doversi temere: meritare la discordia con Germanico odio forse, ma non pena: sfogherebbonsi i nimici per la provincia toltagli; comincerebbesi, tornando per cacciarne Senzio, guerra civile: non gli terrebbono il fermo i capitani e i saldati, che hanno fresca la memoria del loro imperadore, e confitto nel cuore l’amore a’ Cesari.

LXXVII. In contrario, Domizio Celere suo sviscerato disse: „Non si perda l’occasione: Pisone e non Senzio, fu posto in Soria al governo civile, criminale e militare. Se forza l’assalirà, qual arme più giuste, che di chi tiene autorità di Legato, e proprie commessioni? Lascinsi anco allentare i romori; agli odj freschi non resistono gl'innocenti. Quando avremo l'esercito, e forze maggiori, tal cosa verrà ben fatta, che non si pensa. Che vuoi correre e smontare al pari delle ceneri di Germanico, acciocchè al primo strido d’Agrippina il popolaccio t’affoghi? Augusta ci è intinta, Cesare in segreto è per te; e della morte di Germanico più schiamazza chi più l’ha cara.„

LXXVIII. Venne agevolmente Pisone, atroce per natura, in questa sentenza, e a Tiberio scrisse: „Germanico fu sparnazzatore e superbo; e mi cacciò per poter fare novità. Ho ripreso la cura dell'esercito con la fedeltà medesima che lo tenni.„ A Domizio comanda che con una galea, largo da terra e isole, per alto mare vadia in Sorìa. Quanti truffatori e bagaglioni a lui corrono acciarpa e arma; giunte le navi a terra, sorprende una insegna di bisogni che in Sorìa andavano; chiede aiuti a’ baroni di Cilicia; amministrando con valore il giovane Pisone la guerra, benché da lui contraddetta.

LXXIX. Costeggiando adunque la Licia e la Panfilia, riscontrarono l’armata che portava Agrippina. Come nimici si misono in arme: la paura fu divisa: ringhiossi, e non altro. M. Vibio intimò a Pisone che venisse a Roma a difendersi. Rispose motteggiandolo, che vi sarebbe quando il giudice delle malie avesse citato le parti. Intanto Domizio giunto a Laodicea città di Sorìa, s’avviò agli alloggiamenti della legion sesta, la più atta a novità; ma Pacuvio Legato v’entrò prima. Senzio per lettere se ne dolse con Pisone, avvertendolo a non mettere sollevatori nel campo, e guerra nella provincia; e tutti i divoti di Germanico, e nimici de’ suoi nimici adunò: e mostrando loro quanto l’imperadore era grande, e che la repubblica era assalita con l’arme, fece una buona oste, e pronta a combattere.

LXXX. Pisone, a cui le cose non riuscivano, per lo miglior partito prese’ Celendri, forte castello in Cilicia, e avendo tra di truffatori e gentame dianzi sorpresa, e servidorame di Plancina e suo, e d’aiuti di que’ Cilici, racimolato il novero d’una legione, dicea loro: Sè essere il Legato di Cesare: cacciato dalla provincia ch’ei gli diè, non dalle legioni che il chiamavano; ma da Senzio, per odio privato colorito di pubbliche accuse false. Bastare presentarsi alla battaglia, perchè quei soldati, visto Pisone, già appellato lor padre, superiore di ragione, di forze non debole; non combatterieno. Presentagli poi fuor delle mura del castello in un colle alto, e scosceso, essendo cinto il resto dal mare. Avevano a petto soldati vecchi, ben ordinati e provveduti. Qua era fortezza di uomini, là di sito; ma poco animo, poca speranza, armi rusticane, prese in furia per soccorso. Vennero alle mani, nè vi fu dubbio, se non quanto penaro i Romani a salir su. Allora i Cilici, voltate le spalle, intanano nel castello.

LXXXI. Pisone tentò in vano di combatter l’armata, che non lungi aspettava. Tornò, e su le mura trafelando, per numi chiamando e promettendo, avea cominciato a sollevare; e tal commosso, che un alfiere della legion sesta gli portò l’insegna. Allora Senzio fece dar ne’ corni, nelle trombe, piantare scale, salire al bastione, i più fieri succedere, aste, sassi, fuochi con ingegni lanciare. Ricreduto finalmente Pisone, pregò di render l’armi, e nel castello dimorare; sì Cesare dicesse cui volesse in Sorìa. Non piacque; ma dielisi nave e sicurtà sino a Roma.

LXXXII. Dove le nuove della malattia di Germanico rinfrescando, e come lontane, crescendo, scoppiava il dolore, l’ira e la lingua: „Ecco perchè lo strabalzaro in orinci53: perciò ebbe Pisone la provincia: ciò tramavano i bisbigli d’Augusta con Plancina54; bene di Druso dicevano i nostri vecchi, che i principi non voglion figliuoli cittadini: trattavano di render la libertà, e ugualarsi al popol romano; perciò gli hanno levati via.„ L’avviso della morte riscaldò sì queste voci del popolo, che senza decreto nè bando, fu feriato, serrato porte, botteghe, finestre: tutto era orrore, silenzio, pianto, e da profondo cuore, oltre a tutte le dimostrazioni usate nei mortori. Certi mercatanti usciti di Sorìa quando Germanico migliorò, portarono questa nuova; incontanente fu creduta; fu sparsa: questi a quelli, essi a molt’altri, non bene intesa, sempre aggrandita, festosi la riferivano. Corrono per le vie; abbatton le porte dei tempj: la notte aiutava il credere; il buio l’affermare. Tiberio non s’oppose all’errore, ma lasciollo dal tempo svanire. Ripianselo il popolo più disperatamente, quasi toltogli un’altra volta.

LXXXIII. Trovati e ordinatigli furono onori quanti seppe ingegno e amore. Fosse il nome suo da’ Salj salmeggiato: postogli ne’ teatri sedie curuli incoronate di quercia; ne’ luoghi de’ sacerdoti d’Augusto, ne’ giuochi del Cerchio portata innanzi l’effìgie sua d’avorio: non augure, nè flamine rifatto in suo luogo se non di casa Giulia. Fatto gli archi in Roma, in riva di Reno, e in Sorìa nel monte Amano, con epitaffi delle sue geste, e come morio per la repubblica: sepolcro in Antiochia dove arso fu: tribunale in Epidafne ove spirò. Delle immagini, e luoghi per lui adorare non si raccorrebbe il novero. Fu proposto porgli il ritratto tra gli eloquenti in maggiore scudo e d’oro. Tiberio lo concedè come gli altri, dicendo: Che maggior fortuna non fa maggior eloquenza; assai era porlo tra gli antichi scrittori. L’ordine de’ cavalieri, la Punta de’ cavalli, nomata dei Ginnj, nomò di Germanico: e stabilì che nell’armeggeria di mezzo luglio55 si portasse la sua immagine per bandiera. Di questi onori sen’osservano molti; alcuni furon lasciati subito o col tempo.

LXXXIV. In questo dolore, Livia sorella di Germanico, moglie di Druso, partorì due maschi. Della qual cosa rara, e lieta eziandio ai pover’uomini, Tiberio fece tanto giubbilo, che in senato scappò a vantarsi: Niuno altro Romano di sua grandezza aver avuto due nipotini a un corpo; recandosi le cose ancor di fortuna a gloria. Ma il popolo anche di questo in tal còngiuntura s’addolorò, vedendo che la casa aperta di Druso serrava quella di Germanico.

LXXXV. Nel detto anno il senato fece gravi ordini contro alla disonestà delle femmine, e che niuna che avesse avuto padre, avolo o marito cavalier romano56, si mettesse a guadagno; veduto, che Vistilia, di famiglia pretoria, s’era matricolata agli Edili; e concedevanlo gli antichi, assai pena stimando a donna gentile il publicar sè stessa impudica. Fu citato Titidio Labeone suo marito, a dire perchè non avesse procurato il gastigo legittimo alla rea moglie57 e pubblica: e gavillando, non esser passati li sessanta giorni dati a risolversi, parve bastare (tal fusse di lui) giudicar lei: e fu racchiusa in Scrifo isola. Trattossi di cacciar via le religioni degli Egizj e dei Giudei; e decretarono i Padri, che quattromila liberti di tali sette, di buona età, si portassero in Sardigna a spegner ladri: e morendo in quell’aria pessima, poco danno; gli altri tra tanti di avessero rinegato o sgomberato d’Italia.

LXXXVI. Cesare ricordò doversi eleggere una Vergine nel luogo d’Occia, stata cinquanzette anni con somma santità reggitrice de’ sacri ordini di Vesta. Fonteo Agrippa, e Domizio Pollione offersero le figliuole, e furono del gareggiare per la repubblica da Cesare ringraziati. La Polliona piacque più; perciò solamente che la madre ancor si vivea col primo marito, e Agrippa avea per discordie menomata la casa sua. Ma Cesare consolò l’altra con venticinquemila fiorini di dote.

LXXXVII. Lamentandosi la plebe del troppo caro, pose al grano il pregio; e donò venzoldi dello staio58 a chi a vendere ne recasse; nè per tanto accettò il nome di padre della patria, altre volte offertogli e sgridò certi che appellarono divine le sue occupazioni e lui signore59: talché poco, e male si poteva aprir bocca sotto quel principe, che aveva il parlare libero a sospetto e l’adulazione in odio.

LXXXVIII. Vecchi e scrittori di que’ tempi, dicono essersi letto in senato lettere di Àdgandestrio principe de’ Catti, che prometteva la morte d’Arminio, mandandogli veleno; e risposto: Il popol romano vendicarsi de’ suoi nimici con aperte armi e non con inganni60; nella qual gloria Tiberio si pareggiava a quegli antichi, che l’avvelenatore a Pirro scopersero e lo scacciarono. Arminio, partiti i Romani, e cacciato Maroboduo, cercò di regnare; ma que’ popoli per la libertà lo combatterono con varia fortuna; e per tradigione di suoi parenti morì. Liberatore senza dubbio della Germania; disfidatore, non di quel primo popolo romano, come altri guerrieri e re; ma dell’imperio potentissimo. Nelle battaglie vario, nella guerra non vinto, trentasett’anni visse; dodici comandò. I Barbari ancor ne cantano: i Greci non lo contano ne’ loro annali, perchè solo millantano le cose loro. Nè dai Romani celebrato è quanto merita, perchè noi magnifichiamo le cose antiche, e ne cale poco delle presenti61.

  1. Artavasde, amico e aiuto de’Romani, aveva lascialo tagliare a pezzi Oppio Staziano. Dione 49. Antonio lo gastigò con questo tradimento. Oggi si direbbe, saper di guerra o ragion di stato, che fa lecito ciocch’è utile. Il popol basso la direbbe fantinerìa.
  2. Quel che oggi si chiama Francia è parte delle Gallie; però ritengo il nome antico.
  3. Nel terzo delle Storie nella guerra d’Aniceto descrive meglio questo autore loro forma, nome, uso.
  4. Di questo costume antichissimo detto Decursio, vedi Senofonte nel sesto di Ciro, Dione 55, Suetonio in Nerone. Il Lipsio cita Omero, Virgilio, Livio, Lucano e Stazio. Postilla di questo libro § LXXXIII.
  5. Vegezio nel terzo, cap. 12, dice „ Avanti al combattere, l’animo de’ soldati diligentemente si dee cercare. La fidanza e la paura, per lo volto, per le parole, e per li gesti e movimenti si discerne.„
  6. Per parere uno de’ soldati d’aiuto germani, che portano assai pelli.
  7. L’aquile, il labaro, l’immagini, e l’altre insegne stavano nel campo in un tabernacolo, o (come noi diremmo) cappella: e quasi erano gl’Iddii dell’esercito che quivi s’adoravano. Questi tabernacoli chiamavano Principia. Stazio gli circonscrive nel X libro:
    Ventum ad concilii penetrale, domumque verendam Signorum, etc.
    Eravi franchigia, e si giurava per quelle. Quivi s’appiccavano gli editti, si leggevano le lettere, si facevano i parlamenti, si poneva il segno dell’aver a combattere e vi seguivano le maggiori azioni. Mario trovò l’Aquila. Ogni legione aveva la sua. Non era molto grande, svolazzante; con l’un piede teneva la folgore d’oro, con l’altro posava in su l’asta, che con la gorbia del ferro si ficcava in terra. Di queste cose vedi le autorità del Lipsio sopra questo luogo, e sopra il lib. 15.
  8. Germanico tre anni aveva combattuto coi Germani per vendicar la rotta di Varo. In su ’l buono del soggiogarli, Tiberio ingelosito della sua grandezza, lo richiamava. Egli, per non perder tanta gloria, sollecitò d’uscire in campagna e fece quest’anno 769 due grosse giornate. Questa prima all'entrar di primavera, quando per esser i giorni per tutto dodici ore eguali, la quinta ora del giorno, cominciandosi in quel paese a contare quando si leva il sole, fu alle diciassette ore secondo noi, che cominciamo quando tramonta. La seconda giornata, dicendo di sotto che la state era adulta, venne a essere a mezza state; chiamandosi in latino le stagioni, nova, adulta et praeceps.
  9. Il danno, perchè può venire dalla fortuna, si sopporta: lo scherno, perchè mostra viltà, mette in disperazione. Basta vincere, e non si dee stravolere. Quanto costa la statua del duca d’Alva posta in Anversa?
  10. Anche lo volgar nostro, quando bisogna, come qui gonfia; avvenga che egli, per natura, tenda più tosto al gentile.
  11. In insulas saxis abruptas (abruptis ha il testo de’ Medici) vel per occulta vada infestas. Con queste due parole abbiamo detto più, e meglio che Cornelio con queste molte. Humida paludum et aspera montium, disse nel primo; e noi: pantani e grillaie. Nihil intermissa navigatione hiberni maris, Corciram applicuit; e noi: Navigò di verno a golfo lanciato a Corfù. E così spesse volte è più breve questa lingua fiorentina propria, che la latina. La comune italiana non ha queste sì vive voci.
  12. Per torgli la gloria della guerra vinta; per gelosia della troppa grandezza: così chiamato fu da Napoli il Gran Capitano; cosi molti altri.
    Agrippa in Dione 49, discorre che la fatica e gli errori debba il capitano attribuire a sè (perchè il principe non volle aver mai errato), e a lui tutta la felicità o prudenza; perchè gloriandosi della sua vera virtù il capitano, viene in sospetto di troppa grandezza, e di pensare al valersi delle forze che sono in sua mano. Anche gli è agevole; perchè i soldati fanno come i cavalli, che annitriscono a chi li governa, e tiran de’ calci al padrone.
  13. Dal Greco χαίρειν.
  14. Chi vede il cieco andare a cadere nella fossa e non lo trattiene, vel pigne. Chi può tenere che non si pecchi, e per suo utile chiude gli occhi, il comanda. Aaronne, sommo sacerdote, per risparmiar gastigo, fu gastigato.
  15. Actor publicus, si può intendere il cancelliere che scriveva gli atti; e il fiscale, che maneggiava le facoltà. Questa malizia del vender li schiavi, per poterli in fraude della legge tormentare contro al padrone, fu trovata da Augusto (Dione 55, Plutarco in Antonio ), e non da Tiberio.
  16. Mette innanzi agli occhi, quasi in tragica scena, questa morte miseranda.
  17. Strangolava il carnefice a suon di trombe fuor della porta Esquilina, per non turbare di spettacolo tristo e orrendo la bella libertà.
  18. Àringavano i nostri antichi al popolo in piazza in ringhiera; ne’ consigli in bigoncia, che era un pergamo in terra a foggia di bigoncia. Parere, a noi oggi significa quel discorso che ciascheduno che siede in magistrato, fa della cosa proposta. Sentenza, quel partito, o decreto che si vince, e si distende dal cancelliere. Ma i Romani dicevano Sentenza il detto discorso, cioè quanto il senator ne sentiva e pronunciava. Proposto era il consolo. La deliberazione si diceva Senatus-consulto, Plebiscito o Decreto. Non parlava chi non era richiesto da consolo. Ma quando uno scorgeva un pubblico bene non proposto, lo poteva dire in luogo di sentenza, e tal forza avea. Potevano proporre che non era loro ufìcio, e sopra di ciò, non richiesti, consigliare. È da vedere il Lipsio sopra il lib. 15 di questi Annali.
  19. Leggi senza dubbio, et aliis quae; perchè talesque turbava troppo il sentimento.
  20. Potevasi dire, Io pretore, ma e’ m’è piaciuto, non per usarla, ma per isciorinarla un tratto, e trarre questa voce del suppediano dell’antichità. Oggi diciamo il Podestà, e facciamo discordanza in genere. Gli antichi, perchè nel pretore era tutta la somma podestà della giustizia, il chiamavano la Podestà, come noi oggi i principi, la santità, la maestà, perché in loro queste qualità sono in sommo grado, e quasi l’istessa cosa. Ma perchè la città nostra era cresciuta di stato e di ricchezze, e di negozi mercantili, che non si fanno tuttavia col notaio a cintola, ma con fede e lealtà di semplice parola; e questi negozi da’ legisti erano giudicati con troppo rigore, sottilità e lunghezza; fu creato il magistrato de’ sei mercatanti, che lì decidessero pettoralmente d’equità, e verità, secondo l’uso del negoziare. E perchè delle loro sentenze que’ savi in giure spesse volte sì ridevano, le annullavano, il contrario giudicavano; que’ nostri savi in governo, fecero contra li offenditori delle sentenze de’ sei quella legge severa detta del Noli me tangere.
  21. Leggo quinos, perché singulos non può stare.
  22. Con questo medesimo, Gallo fece similmente il modesto nel primo libro.
  23. Omero, Dante, e tutti i grandi, formano nomi dalle cose. Quintiliano, e tutti i gramatici, l’approvano, quando calzino appunto, come qui, dove Tiberio schernisce la cinquannaggine, che Gallo voleva de’ magistrati.
  24. I principi per esser maggiori degli altri uomini, come non posson esser comandati, così si sdegnano d’esser ammoniti; però mancano di chi dica loro il vero. Perchè chi s’oppone alla loro mente, pare che gli scemi di maggioranza; e per non cadere, s’ostinano nell’errore. Nerone a dispetto di mare e di vento, volle mandar l’armata in campagna, come si dice nel libro quindici di questi Annali. Sappiamo quel che avvenne in Algieri, e a Metz a Carlo Quinto. Dice il pratico al principe, Non far, non fare; e’ fa. Qui nota una gran brevità di nostro parlare (poiché ad altro fine non tende la presente nostra fatica). Quello, e fa, importa at ille tunc co magis facit. tutto questo comprende e significa: e ben lo sente chi è Fiorentino.
  25. In dosso alle persone dipinte i panni non sono larghi nè stretti, nè corti nè lunghi. Con questa metafora e somma brevità diciamo, uno aver dipinto, che detto o fatto ha cosa calzante, per l’appunto che non poteva star meglio: quadra, entra, riempie tutti i ventricoli del cervello e dell’animo.
  26. Bula capo di secento assassini fatto prigione, e da Papiniano domandato, Perchè rubi? rispose, Perchè giudichi? Sifilino in Severo.
  27. Perchè lo spettacolo d’Agrippa falso avrebbe ricordato al popolo la morte d’Agrippa vero: e non era bene rinfrancescarla.
  28. Nel fine del quinto si dice che Caio urtava Tiberio.
  29. Ben fusti arcolaio aggirato. Dione dice che Tiberio lo voleva dicollare, benché decrepito, gottoso e basoso. Ma udendo che egli avea detto: Se io torno nel mio regno, io mostrerò a Tiberio il mio nerbo: il riso spense l’ira. Altri dice che Archelao per aver detto questa scempiezza si morì di dolore. Tacito la conta più gravemente.
  30. I grandi non vogliono essere spacciati per l’ordinario. A Scipione non parve dovere comparire a difendersi. Sempronio Gracco, nimico suo, disse: „Gl’Iddìi e gli uomini l’hanno fatto sì glorioso, che il metterlo come gli altri sotto la ringhiera a sentirsi leggere in capo l'accuse, e malmenare e sfiorire, era vergogna del popol romano.„ Livio 48, Appiano nella Siriaca. Similmente, Lucio suo fratello tornato d’ Asia, quantunque non trovasse mallevadori per la somma bisognevole al suo sindacato, non fu lasciato incarcerare.
  31. Questo era di tutte le cose che si vendevano. E parea grave al popolo; dal quale pregato Tiberio di levarlo, lo negò; e qui lo ridusse a mezzo per cento.
  32. Non maturo a tanto governo; metafora nostra.
  33. Chiama Tiberio quando Zio, quando Padre di Germanico. L’uno era per natura, come nato di Druso suo fratello, l’altro per adozione di lui fatta per volontà d’Augusto, come nel primo libro. Così Germanico e Druso eran fratelli cugini per natura, e carnali per adozione.
  34. Questa era madre d’Antonia minore, madre di Germanico. Come adunque dice il latino che Germanico, ferebat avunculum Augustum? avunculus é il fratel della madre, non dell’avola. Forse si dee leggere proavunculum, o magnum avunculum. Per fuggir questa difficoltà, e con più brevità, ho detto come si vede. Il seguente albero mostra come la nobiltà materna di Germanico fusse più chiara di quella di Druso.
    C. Ottavio Senatore Ottaviano Augusto. Ottavia maggiore, moglie di Marcantonio.
    Pomponio Attico, cavaliere. Pomponia, moglie di Vispanio Agrippa. Antonia minore, moglie di Druso il Germanico. Germanico.
    Vispania Agrippina, moglie di Tiberio Imperadore. Druso.
  35. Dice bene quel nobile poeta Franzese nella sua Settimana, che i piaceri sono monti di diaccio, dove i giovani corrono alla china; aggiungovi i trampoli.
  36. Commodo avendo scoperto e ucciso Perennio, diede ai soldati pretoriani due generali. Erodiano nel primo.
  37. Maroboduo era stato in Roma da giovane e carezzato da Augusto. Portò a casa le romane arti, e soggiogò molti popoli, da’ quali odiato, si ritirò in quella selva per fortezza Strabone, l. 17.
  38. Interesse pubblico è che niuno disperda le sue facoltà; ma le conservi a’ suoi, per mantenere le famiglie nobili e gli uomini buoni: e questi fanno la repubblica felice. Avvegnachè colui che di ricco e nubile cade in necessità, che legge non teme, non si voglia dichinare a fare ignobili esercizj per campare, ma diasi a rubare, giocare, tradire spiare, falso testimoniare, Ruffian, baratto, e simili lordure: e questi fanno la repubblica infelice. Quindi sono le tante leggi suntuarie che ogni di si fanno; e niuna se n’osserva. E dannosi curatori a’ prodighi non meno che a’ furiosi. Il che faceva in Roma il magistrato con queste bellissime parole; QUANDO TVA BONA PATERNA AVITAQVE NEQVITIA TVA DISPERDIS, LIBEROSQVE TVOS AD EGESTATEM PERDVCIS, OB EAM REM TIBI EA RE COMMERCIOQVE INTERDICO. Così fu messo (diciamo noi) ne’pupilli il figliuolo di Fabio Massimo; non potendo Roma sopportare che la roba che doveva mantenere il grande splendore de’Fabj, si biscazzasse. E tentò il figliuolo di Sofocle di metterlovi, straccurando le facoltadi, per attendere alle tragedie; ma leggendo egli a’ giudici l’Edipo Coloneo, che egli componeva allora, mostrò loro quanto era in cervello; Santa fu ancora l'ordinanza di Solone, tratta, dice Erodoto, dalli Egizj; e parmi intendere che s’osservi nella China, di dare ogn’anno ciascheduno la portata della sua entrata e spesa. Per la quale furon citati Cleante, Menedemo e Asclepiade, a dar conto come fosse, che nulla possedendo e tutto ’l di a filosofia attendendo, stessero cosi gai e prò. Ma udito l'Areopago da un mugnaio e da un ortolano, che ogni notte a, voltar la ruota e attigner acqua si guadagnavano due dramme d’ariento per uno, ne donò loro dugento. In Corinto a chi teneva più spesa che non avea entrata, era comandato che la Scemasse; e chi niuna entrata avea, e tenea vita larga, era giustiziato senz’altro processo, convenendo che vivesse di sceleritadi. Ma Tiberio solamente tolse la degnità senatoria a questi quattro scapigliati; per chiamare i fonditori delle loro facoltà con questo nuovo vocabolo, che la nostra città ha trovato al nuovo lusso strabocchevole entratoci pretto veleno alla vita di lei, fondata nella parsimonia e industria; a lei più che mai necessaria ora, che non più che il quarto dei beni stabili rimane a’ privati laici, come mostra il catasto: e camminasi oltre, e nutriscónsi i mendicanti; che provvide san Silvestro Papa toccare ai conventi ricchi. Il che si legge nella lezione sesta del suo Mattutino. Quindi nacque la legge Agraria, e gli Scismi in Germania e Inghilterra, e la storia de’ sacerdoti di Bel in Daniello a’ 14, e l'ira delli Iceni contro a’ sacerdoti del tempio di Claudio in questi Annali nel libro 14.
  39. Alle antiche pene dell’adultéro raccolte dal Lipsio nel 4 sopra quello di Aquilia con Vario Ligure, aggiugni questa che narra Vopisco d’Aureliano imperadore: Fece chinare le vette a due vicini arbori, legare a ciascuna un piè del reo, e lasciarle andare. Sbranossi in due pezzi, e rimaservi suso a mostra per esempio della strettissima congiunzione di marito e moglie disgiunta.
  40. Papia Poppea, che dava i magistrati prima a chi era più carico dì figliuoli. Dione 56.
  41. Chi è capo di malandrini, già non fa altro che vagos, et latrociniis suetos ad praedam et raptus congregare. Le due parole fiorentine comprendono tutte queste, per propria virtù di questa lingua; il dirle sarebbe replicare il detto, però le lascio. Cosi avviene molte volte, e non è mancamento.
  42. Però vi fu mandata d’Ungheria la legione nona. Così erano due legioni in Affrica, come dice l’autore, quando fa la rassegna di tutte le forze romane nel 4, lib. I, e non una, come dice qui. Forse vi fu mandata poi, per lo corso pericolo.
  43. Seppe usar l’arte, o modestia d’Agrippa, detta nella postilla di questo libro, § XXVI.
  44. Venne di questa isola Dardano col Palladio in Frigia, ove fu Troia: onde usci Roma, la quale di si piccola origine salì in sì ampia fortuna. Molte parole del latino traspone il Lipsio correggendo questo luogo, una sola con bello avvedimento il Picchena: Igitur Asiam aliaque ibi varietate fortunae et nostri origine veneranda relegit, appellitque Colophona; e tutto torna benissimo.
  45. Leggo opertis, non apertis.
  46. Chi vuol corrompere il giudice, presenta la moglie.
  47. Vedi la Postilla del primo libro, §. XLI.
  48. Fu ne’ primi secoli che il mondo era rozzo e pieno di giganti poco dopo Nino, che fu innanzi alla rovina di Troia più d’800 anni. Nacque in Egitto, in Tebe, d’Osiride e di Cerere. Ebbe nome Libico, che vuol dire porta fiamma: soprannome Ercole, che significa vestito tutto di pelli: statura di gigante, muscoloso, nerboruto, forte e ardito. Statura quattro gomiti e un piede, più alto che comunal uomo, proporzione trovata da Pittagora, che’ misurò quanto il corridoio Olimpico di Pisa di secento piedi d’Èrcole, che correva tutto a un fiato, era più lungo degli altri corridoi, di secento piedi comunali, che erano lo stadio, cioè un ottavo di miglio. Chiamaronlo Atexicaco, cioè Scacciamali, perchè quasi di tutto il mondo giganti e tiranni, che si mangiavano i popoli, scacciò o uccise; Gerìone di Spagna, Busiride di Fenicia, Tifone di Frigia, Erice di Sicilia, i Lestrigoni d’Italia (di cui lasciò re Tusco suo figliuolo ) Anteo di Libia, cui pose il suo nome, e rizzovvi una colonna in memoria delle sue glorie. E’ fu il primo de’ mortali adorato in vita per Iddio, e fattogli tempj e aitati. Mori di 200 anni ne’ Celtiberi di Spagna. Qualunque era poscia robusto e valoroso, si diceva Ercole. Quarantatrè ne nomina Varrone, sei Cicerone. Confessa Diodoro che i Greci, che millantano le cose loro, attribuiscono il nome e i fatti d’Ercole Antico ad’Alceo, nato poco innanzi alla rovina di Troia, di Alcmena moglie d’Anfitrione, concubina di Giove; perciò odiatissimo da Giunone; che lo necessitò a combattere con tanti mostri, per ispegnerlo, e lo fece più chiaro. Non ebbe questo Greco imperio, nè giovò al mondò come l’Egizio antico; anzi fu corsale cogli altri Argonauti sotto Euristeo, e mori nel fuoco rabbiosamente per la camicia avvelenata da Nesso.
  49. I gran fatti non vogliono perdimenti di tempo. Cicerone nella legge Manilia dice che Pompeo gli fuggiva; però fece la maraviglia del pigliare tutta la Cilicia, e nettare il mar di corsali in quarantanove dì, dal partir suo da Brindisi.
  50. Nel trionfo, maggiore lo generale vittorioso entrava in Roma coronato d’alloro, in carro tirato da quattro cavalli, sagrificava tori. Nel secondo, con corona di mortine, più venerea che marziale, a piede, col popol dietro gridante per letizia O o o o. Però si diceva questo trionfo Ouazione, e ooare, e per agevol pronunzia, ouare, o vero ovare per v consonante; benché Plutarco dica ab ove, cioè dalla pecora, che in questo trionfo si sacrificava, come nel maggiore il toro. O vero esprimevano la parola greca δυασμδν, che significa grido. Onde le Baccanti, che gridavano Evoé, si dicevano Evanti. Il terzo trionfo erano le insegne trionfali. Vedi frate Noferi Panvini, Dell’uso e ordine de’ Trionfi. E in Agellio le cagioni loro, l. 5, cap. 6.
  51. O antica bontà! Chi non voleva uno più per amico, lo faceva intendere; e che non gli capitasse più a casa. Non aveano doppio cuore: non voleano ingannare.
  52. Per sei ragioni notabili, per la prudenza del giovane, e brevità dello scrittore.
  53. ( In oras longinquas). Di tutte queste questa popolar voce è composta, e appunto esprime il latino testo, che dice in extremas terras.
  54. Volentieri avrei detto i pissi pissi, voce formata dallo strepito che fanno le labbra di chi favella piano, perchè altri nol senta; ma io ebbi paura de’Muzj; e me ne pento. Ripigli questa voce di qui suo vigore.
  55. Dionigi d’Alicarnasso nel sesto scrive per lo minuto questo annoval giuoco, in memoria della vittoria contro ai Latini al lago Regillo, dove apparsero in aiuto Castore e Polluce. Post. di questo libro, §. VII.
  56. Il primo grado di degnità avevano i senatori; il secondo i cavalieri romani; e questi, quando risplendevano per virtù o ricchezza, entravano in senato, rendevano il voto, e poco scadevano da’ senatori; e vergogna pubblica era lasciarli macchiare di tanta disonestà.
  57. Quando il marito non pensava al gastigare la moglie disonesta, vi metteva mano il magistrato.
  58. Era quel modio la nostra mina, o vuoi dire mezzo staio: il sesterzio un quarto di denario, il denario un decimo di dramma d’oro fine; una dramma il nostro fiorino, che vale oggi dieci lire. Tiberio adunque donò due sesterzi per modio, che son quattro per istaio, che sono un denario, che è un decimo di fiorino, che è una lira, o vuoi dire venzoldi piccioli. Vedi la postilla del primo libro, §. VIII. Leggi nel Villani le belle ordinanze e grosse perdite che fece il nostro comune, per pietà del nostro popolo e dell’altrui, nelle carestie del 1328, 39, 46. Tuttoché certi ufficiali ( dice egli) ne facessero baratteria, condannando gl’innocenti, lasciando i possenti tra le grandi endiche.
  59. Oggi diamo a’ privatissimi non pure Signore, ma dell’Illustre, molto Illustre, e plus ultra; e chi più basso e’ più empire i titoli vuole.
  60. Davitte fece uccider colui che venne a dirgli aver ucciso Saul suo nimico; e mozzar mani e piedi a Baana e Reca, che gli portaron la testa d’Ishoset figliuolo di esso Saul. Cesare pianse.

    . . . . . quando il Traditor d' Egitto
    Gli fece il don de l'onorata testa.

    E qui Tiberio per non aver accettato il tradimento contro ad Arminio, si pareggia agli antichi quando salvarono Pirro.

  61. Nella Vita d’Agricola, nel principio, dice il medesimo.


Note

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