< Annali (Tacito)
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Publio Cornelio Tacito - Annali (II secolo)
Traduzione dal latino di Bernardo Davanzati (1822)
LIBRO SECONDO
II IV

LIBRO TERZO

SOMMARIO


I. Agrippina colle ceneri di Germanico a Brindisi, poi a Roma. Chiudonsi quelle nella tomba d’Augusto: funerali. — VII. Druso da capo nell’Illirico. — VIII. Gn. Pisone reso a Roma è accusato di veleno e di stato. Aringato e veduto andargli tutto male, si dà morte. — XX Raccende Tacfarinate in Affrica la guerra, soffocata da L. Apronio proconsole. — XXII. Lepida Emilia, di adulterio e veleno accusata e condannata. — XXV. La legge Papia Poppea sin là in rigore, da Tiberio è addolcita: suoi nodi sciolti: origine e vicende delle leggi. — XXX. Muoion gl’insigni L. Folusio e Sallustio Crispo. — XXXI. Tiberio in Campagna. — XXXII. Di nuovo l’Affrica investe Tacfarinate. Scelto a guardarla Giunio Bleso. — XXXVII. Dannati per maestà alcuni equestri. — XXXVIII. Traci in discordia. — XL. Ribellansi, a niun pro, le città galle, duci Giulio Sacroviro e Giulio Floro lor oste dalle germane legioni battuta, torna al giogo. — XLIX. C. Littorio cavaliere, dannato per fellone, è morto in carcere. — LII. Imprendesi a moderare il lusso e si desiste. — LVI. Druso Tribuno. — LVIII. A Flamine di Giove si vieta dimandar provincia. — LX. I greci asili visitati e purgati. — LXVI. C. Silano per mal tolto e maestà, dannato. LXXIII. Giulio Bleso dà guai a Tacfarinate, prende un suo fratello. — LXXV. Morti illustri e mortori.

Anno di Roma dcclxxiii. Di Cristo 20.

Consoli M. Valerio Messala e M. Aurelio Cotta.

An. di Roma dcclxxiv. Di Cristo 21.

Consoli. Tiberio Augusto IV. Druso Cesare II.

An. di Roma dcclxxv. Di Cristo 22.

Consoli. D. Aterio Agrippa e C. Sulpizio Galba.

I. Navigò Agrippina di verno a golfo lanciato in Corfù, isola dirimpetto Calabria, ove vinta da disperato dolore, pochi, dì ristette a moderarsi. Quando sua venuta s’intese, gl’intimi, i soldati già di Germanico, ancora i non conoscenti, dalle terre vicine, chi parendo lor obbligo verso il principe, chi quei seguitando, piovevano al porto di Brindisi, più vicino e sicuro. Alla vista dell’armata, il porto e la marina, e mura o tetta, e le più alte vedette, far piene di turba mesta, domandantesi: Se, quando ella sbarcava, da tacere era; o che dirle o che fare. L’armata s’accostò co’ rematori attoniti, senza il solito festeggiare. Ella usci di nave con due figliuoli, e col vaso lagrimevole in mano, ove affissò. Levossi un compianto di donne e d’uomini suoi, e d’altri, non distinto; se non che quel della corte di lei per lo durato tribolo era più stanco.

II. Cesare le mandò due coorti di guardia con ordine, che in Calabria, Puglia e Campagna i magistrati facessero l’esequie al figliuolo. Tribuni e capitani adunque sopra gli omeri portavan le ceneri con le insegne lorde innanzi e i fasci capovolti. La plebe delle colonie, onde passavano, era a bruno; i cavalieri in gramaglie: ardevano, secondo il potere, veste, profumi, con altre solennità de’ mortori. Dalle terre ancor fuor del cammino venieno le genti ad incontrare, a far sacrifici a quell’anima, a mostrare con pianti e strida il dolore. Druso con Claudio fratello, e i figliuoli, che in Roma erano di Germanico, vennero sino a Terracina. Marco Valerio e Marco Aurelio, nuovi consoli, il senato, e gran parte del popolo, tutti in bulima, calcaron la strada, e piagnevano, non ostante l’allegrezza di Tiberio mal celata, a tutti nota, della morte di Germanico, non potendola adulare.

III. Egli e Augusta non uscir fuori per fuggire in pubblico i piagnistei disdicevoli a maestà, e fare scorgere a tutti gli occhi nei lor visi la loro allegrezza. Annale non trovo, nè giornale, che dica se Antonia sua madre ci fece atto notabile alcuno; e pure, oltre ad Agrippina e Druso e Claudio, veggo nominati gli altri congiunti; forse era malata, o non le patì l’animo vedere con gli occhi il suo gran male. Credo io che Tiberio e Augusta la tenessero in casa, per mostrare esservisi madre avola e zio serrati per pari dolore.

IV. Il dì che le ceneri si riponevano nel sepolcro d’Augusto, pareva Roma, ora per lo silenzio una spelonca, ora per lo pianto un inferno. Correvano le vie: ardeva Campo Marzio pieno di doppieri; quivi soldati armati, magistrati senza insegne, popolo per le sue tribù gridavano: Esser la repubblica sprofondata, cosi arditi e scoperti, come scordatisi ch’ei v’era padrone. Ma nulla punse Tiberio, quanto l’ardor del popolo verso Agrippina. Chi la diceva: Ornamento della patria, reliquia sola del sangue d’Augusto, specchio unico d’antichitade: e volto al cielo e agl’Iddii, pregava salvassero que’ figliuoli, sopravvivessero agl’iniqui.

V. Desideravano alcuni in queste essequie la pompa pubblica; allegando gli ampi onori che Augusto fece a Druso padre di Germanico, incontrollo di crudo verno sino a Pavia: da quel corpo non si partì: si fu seco entrato in Roma; fu d’immagini di Claudj e di Giulj1 accerchiata la bara: pianto nel fòro: lodato in ringhiera: fatto quanto invennero mai antichi e moderni; e a Germanico non è toccato pur l’usata, e ad ogni nobile dovuta, onoranza. Siasi per lo lungo viaggio il corpo arso, come s’è potuto, in terra lontana e straniera: cotanti più onori gli si doveano, quanti negli aveva la sorte negati; ma il fratello non l’ha incontrato appena una giornata; il zio non pure alla porta. Dove sono gli ordini antichi? l’effigie sopra il cataletto? i versi composti per memoria delle virtù? le lagrime? i triboli2?

VI. Tiberio sapeva queste grida del popolo, e per ammorzarle lo ammonì per bando: „Essere molti romani illustri per la repubblica morti, ma niuno stato celebrato con tanto ardore, onorevole a sé e a tutti pur che si moderi; non convenendo a’principi, e popolo imperiante, le cose medesime3 che alle case e picciole città. Essersi dovuto al fresco dolore il pianto, e quindi il conforto; doversi ora fermar l’animo, e scacciare la maninconia, come fecero i divini Giulio e Augusto, nel perder quegli la figliuola unica, questi i nipoti; per non contare quante volte il popol romano francamente sofferse eserciti sconfitti, generali morti, famiglie nobili spente. I principi essere mortali, la repubblica eterna; però ripigliassero le loro faccende, e ne’vegnenti giuochi Megalesi anche i piaceri.„

VII. Allora fini il feriato. Druso se n’andò agli eserciti di Schiavonia. Ogn’uno a orecchi tesi aspettava il gastigo di Pisone: nè si potevan dar pace ch’ei si stesse pe’ giardini dell’Asia e dell’Acaia ai solazzi per ispegnere con sì arrogante e maliziosa dimora le provanze delle sue scelleritadi, essendosi divolgato, che quella Martina maliarda, che Gn. Senzio mandava a Roma, presa come dissi, s’era in Brindisi trovata morta, con veleno nelle trecce, senza segno nel corpo d’essersi ammazzata. VII. Pisone manda a Roma il figliuolo ammaestrato per mitigare il principe: e vassene a Druso, sperandolo non tanto incrudelito per lo fratello mortogli, quanto addolcito per tanto concorrente levatogli. Tiberio per mostrare che il giudizio andrebbe retto accolse il giovane, e donogli come a’ figliuoli de’ nobili usava. Druso a Pisone disse in pubblico: „Se vero fosse quanto si dice, mi cocerebbe più che a tutti: Dielvoglia siano favole, e che la morte di Germanico non rovini chi che sia.„ Riconoscevansi queste parole erba di Tiberio, con le cui vecchie arti il giovane dolce e non astuto si governava.

IX. Pisone navigò in Dalmazia, in Ancona, ove lasciò le navi, e per la Marca, e poi per la Flaminia raggiunse una legione che andava d’Ungheria a Roma per passare in Affrica4 a quella guardia. E dissesi, che nel cammino spesso si presentò a’ soldati tra l’ordinanze; onde, per sospetto levare, o perchè la paura sbalordisce, fattosi da Nami portare per la Nera nel Tevere, raccese l’ira del popolo, ond’erano le ripe piene quel dì solenne; vedendolo sbarcare al sepolcro de’ Cesari, con gran codazzo ei di seguaci, e Plancina di damigelle, con le teste alte: stomacò soprattutto la casa in piazza parata a festa, lo spanto convito, a porte spalancate e corte bandita.

X. Il dì seguente Fulcinio Trione chiamò Pisone a’ consoli. Vitellio, Veranio e gli altri, stati con Germanico, dicevano: che Trione non aveva che farci; e volevano essi non accusare, ma testimoniare e sporre le commessioni di Germanico. Ottenne d’accusarlo almeno d’altri peccati vecchi. Di questa causa fu pregato il principe d’esser giudice: nè al reo dispiacque; temendo di quell’amor del popolo e dei Padri: dove Tiberio del dire del popolo si facea gran beffe: eraci interessato egli e la madre: meglio un giudice solo il fatto dal creduto discerne; odio e invidia i molti accecare. Sapendo Tiberio quanto questo giudizio importava, e i pezzi che di lui si levava, in presenza d’alcuni di corte udì le minacce e difese delle parti, e le rimise al senato.

XI. In questo tornò Druso d’Illiria, e volevano i Padri, che per lo ricevuto Maroboduo e altri fatti di quella state, egli entrasse in Roma col trionfo minore di gridare „Où, Où,„ ma questo onore si prolungò. Pisone ricercò T. Arunzio, Fulcinio, Asinio Gallo, Esernino, Marcello, Sesto Pompeo, d’essergli avvocati; e tutti diverse scuse allegando, M. Lepido, L. Pisone e Liveneio Regolo, accettarono. Stava tutta la città in orecchi, come fosser fedeli gli amici a Germanico; in che si fidasse il reo; se Tiberio si scopriva, o no5; nè fu unque il popolo tanto curioso: o contro al principe bisbigliò, o tacendo sospicò.

XII. Onde Cesare fece a’ Padri questo compilato e bilanciato parlare6: „Pisone fu Legato e amico, di mio padre: d’ordine vostro il diedi per aiuto a Germanico, a reggere l’Oriente. Se quivi egli ha col disubbidire o contendere, inasprito il giovane, e della sua morte s’è rallegrato, o pur l’ha fatto reamente morire, or si dee senz’animosità giudicare. Quando egli sia uscito di ubbidienza di Legato al suo imperadore, rallegratosi della morte di lui e del pianto mio, io lo disamerò, e sbandirò di mia casa, e gastigherò la privata inimicizia mia, e non da principe7 con la forza. Ma trovandoci, peccato capitale in qualsivoglia, date a’ figliuoli, e, a noi padre e avola di Germanico, giusto conforto. Chiaritevi ancora se Pisone ha l’esercito sollevato e turbato; guadagnatosi con arte i soldati, ritentata la provincia con l’arme; o se pure queste son falsitadi sparse, e aggrandite dagli accusatori per troppo affetto, del quale io ho da dolermi. Che indegnità fu quella, spogliare ignudo quel corpo, farlo dagli occhi del popolo quasi malmenare, empiere il mondo ch’ei sia stato avvelenato, se ancora non si sa, e si cerca? Io piango il figliuol mio, e piangerollo sempre mai; non perciò al reo vieto il produrre ogni provanza di sua innocenza, o torto da Germanico ricevuto; e voi prego che il mio dolore non vi faccia pigliar le querele date per provate. Se parenti o confidenti ci ha per difenderlo, con tutta l’eloquenza e diligenza aiutatelo, e al sì, per lo contrario, s’aguzzino gli accusanti. Basti Germanico privilegiare, che in consiglio dal senato, non in corte da giudice si conosca della sua morte: nel resto vada del pari. Niuno guardi alle lagrime di Druso, niuno al mio dolore, nè a cosa che forse si mentisse di noi.„

XIII. Dati furon per termini due giorni a dirgli contra, sei ad armarsi, tre a difendersi. Fulcinio disse: Che egli aveva con ambizione e avarizia retto la Spagna; peccati vecchi e frivoli, che provati non gli nocevano, purgando i nuovi; nè difesi lo scioglievano dai più gravi. Dopo costui, Serveo, e Veranio e Vitellio con pari caldezza, ma Vitellio con più eloquenza, incolparon Pisone d’avere, per rovinar Germanico e rivoltar lo stato, la feccia de’ soldati con licenze, e insolenze a’ confederati, corrotta in guisa, che padre delle legioni lo dicevano i peggiori; usato, per lo contrario, ogni crudeltade a’ migliori, e spezialmente agli amici e seguaci di Germanico: e lui, per ultimo, avvelenato, stregato, sagrificato egli e Plancina ai dimoni; assalito con arme la repubblica; e, per poterlo accusare, esser convenuto combatterla e vincerlo.

XIV. Non ebbe difesa l’aversi guadagnato i soldati, dato la provincia in mano a pessimi, detto male del generale; il velen solo parve purgato; perchè dicendo gli accusatori, che Pisone, cenando con Germanico, e standogli di sopra8, gli avvelenò la vivanda con le sue mani, non parve simile che tra i servi altrui, con tanti occhi addosso, e dello stesso Germanico, cotanto ardisse: e chiedeva Pisone tormentarsi i servi suoi e di Germanico. Ma i giudici gli erano avversi per cagion diverse; Cesare per l’aver fatto guerra alla provincia; il senato non potendo mai credere9 che Germanico morisse senza inganno. Il che non meno Tiberio che Pisone negarono. Di fuori gridava il popolo: „Se i Padri l’assolveranno, egli non ci uscirà delle mani„ e spezzavano le sue immagini strascicate alle Gemonie, se il principe non le faceva salvare e rimettere. Fu messo in lettiga, e ricondotto a casa da un tribuno di coorte pretoria, chi diceva per salvarlo, chi per finirlo.

XV. Plancina era non meno odiata, ma più favorita; onde si sapeva quanto Cesare ne potrebbe disporre. Essa, mentre di Pisone fu qualche speranza, promettea correre una fortuna, e, bisognando, seco morire. Ottenuto per segreti preghi d’Augusta perdono, s’allargò dal marito, e divise la causa sua. Qui si tenne spacciato; pure, confortato da’ figliuoli a ricimentarsi fatto cuore, rientra in senato, e trova rinforzate l'accuse; i Padri sbuffare; contrario e terribile ogni cosa. Più di tutto l'atterrì il veder Tiberio saldo, coperto; non di misericordia, non d’ira far segno. Riportato a casa, scrisse alquanto quasi nuova difesa, e suggellato diedelo ad un liberto, e attese alla usata cura del corpo. La notte la moglie uscì di camera; ei fece chiuder l’uscio: e al far del giorno si trovò sgozzato e il coltello in terra.

XVI. Ricordomi aver udito da’ vecchi, che a Pisone fu veduta più volte in mano una lettera, la quale egli non mostrò; ma dissero gli amici che era la commession di Tiberio del fatto contro a Germanico: e volevala squadernare dinanzi a’ Padri; ma Seiano con vane promesse l’aggirò; e che egli non morì per mano sua, ma gli fu mandato l’ammazzatore. Nè l’uno, nè l’altro affermerei; ma da celar non era il detto di coloro che vissero insino a mia giovanezza. Cesare maninconoso domandava al senato: se tal morte s’attribuiva a lui; e all’apportator dello scritto di Pisone, quel ch’ei fece il dì e la notte ultima. Il quale avendogli risposto, parte a proposito e parte no, lesse lo scritto, che diceva: „Poiché la setta de’ nemici e l’odio del falso opposto m’opprimono, e la verità e l’innocenza mia non s’accettano, gl’Iddìi immortali mi siano testimoni, che io sempre fui a te, Cesare fedele, e a tua madre pietoso. Raccomandoti i miei figliuoli. Gneo, stato sempre in Roma, non ha parte nelle mie fortune. Marco non voleva ch’io tornassi in Soria; fatto avess’io a senno del giovane figliuolo, e non egli del vecchio padre! tanto più caramente ti prego che l’innocente non porti pena delle mie colpe. Per la servitù mia di quarantacinque anni, per la compagnia del consolato, onde fui accetto ad Augusto tuo padre, amico a te, fammi questa grazia ultima, che io ti debbo chiedere, perdona al mio figliuolo infelice.„ Plancina non mentovò. XVII. Tiberio scusò il giovane della guerra civile, comandata dal padre, come forzato a ubbidirgli; e increbbegli della nobil famiglia, e del grave caso del morto, che che meritasse. Per assolvere Plancina allegò con ingiustizia e vergogna i preghi di sua madre, la quale i migliori bestemmiavano piano: „Che avola è questa, che puote vedersi innanzi l’ucciditrice di suo nipote? Le favella, la ruba al senato, alla giustizia, che non si negherebbe, se non a Germanico. Vitellio e Veranio l’han pianto; lo imperadore e Augusta difendon Plancina. Dachè i veleni è le negromanzie riescon sì bene, adoprinli in Agrippina e ne’ figliuoli; saziasi li prodi avola e zio del sangue di quella casa miserissima.„ Si fece vista di tritare questa causa ben due giorni; e Cesare stimolò i figliuoli di Pisone a difendere lor madre. Affannandosi gli accusanti e le prove, a chi più conficcarli, rispondente niuno, fecero di lei più increscere che incrudelire. Aurelio Cotta consolo fu il primo a parlare (perchè quando Cesare proponeva, il consolo diceva la prima sentenza) e disse: che il nome di Pisone si radesse del calendario; la metà de’ beni andasse in comune, l’altra si concedesse a Gneo, il quale si mutasse il nome proprio. A Marco si togliesse il grado di senatore, con dargli cento venticinque10 fiorini d’oro, e mandarlo via per dieci anni. Plancina s’assolvesse in grazia d’Augusta. XVIII. Di questa sentenza il principe moderò molte cose: Che il nome di Pisone non si radesse, poiché pur vi erano quelli di Marcantonio, che fece guerra alla patria, e di Giuliantonio, che violò la casa d’Augusto; che Marco non ricevesse quel frego, e godesse suo patrimonio, perché Tiberio, come ho detto, non fu avaro, e la vergogna della prosciolta Plancina lo fece men crudo. Nè volle che a Marte Vendicatore si consegrasse nel suo tempio statua d’oro, come voleva Valerio Messalino; nè altre alla Vendetta, come Cecina Severo; dicendo: Tali cose farsi per le vittorie di fuori; i mali di casa seppellirsi nel dispiacere11. Avendo Messalino aggiunto; Che della vendetta di Germanico s’andasse a ringraziare Tiberio, Augusta, Antonia, Agrippina e Druso, L. Asprenate, presente il senato, gli disse: „E Claudio? lascil tu a sciente12„? allora si scrisse: „E Claudio.„ Quanto io più le memorie antiche e nuove rivolgo, più trovo da ridere de’ fatti de’ mortali. Ogn’altri per futuro principe s’intonava, sperava, venerava, che costui, che la fortuna teneva in petto.

XIX. Indi a pochi giorni Cesare fece dare dal senato a Vitellio, a Veranio, a Serveo, certi sacerdozj. A Fulcinio promise favorirlo, chiedendo onori; e l’avvertì a non iscavezzar la rettorica13 per troppo volerne. Qui finì la vendetta della morte di Germanico, narrata da que’ ch’eran vivi, diversa da’ seguenti: sì mal si sanno lo cose grandissime, tenendo alcuni ciocchè odono per sicurissimo: altri travolgono la verità; e l’uno e l’altro chi dopo viene accresce. Druso per ripigliare il suo grado uscì di Roma, e rientrò14 ovante. Pochi giorni appresso Vipsania sua madre morì, sola de’ nati d’Agrippa, di buona morte: gli altri, o si seppe di ferro, o si tenne di veleno o di fame.

XX. Nel detto anno Tacfarinata, che la state dinanzi fu rotto da Camillo, come s’è detto, in Affrica rifece guerra: e prima guastò molto paese a man salva per la prestezza: rovinò casali, fece gran prede; poscia assediò presso al fiume Pagida una coorte romana in un castello, tenuto da Decrio, soldato bravo e pratico, a cui parve vergogna patire assedio: e confortati i suoi, si presentò fuori a combattere: piegarono al primo assalto; entra egli tra l’armi; para chi fugge; sgrida gli alfieri: Che i soldati romani voltino le spalle a truffatori, a canaglia. Pien di ferite, perduto un occhio, a viso innanzi s’avventa tra le ponte, e da’ suoi abbandonato sempre combatte; sì cade.

XXI. A tal nuova Lucio Apronio succeduto a Camillo, più per vergogna de’ suoi che per gloria de’ nimici, de’ dieci l’uno della ontosa coorte, tratti alla ventura (gastigo in quei tempi raro) vituperosamente uccide. Giovò tanto questa severità, che un colonnello di non più che cinquecento fanti vecchi, ruppe que’ medesimi di Tacfarinata, che Tala fortezza nostra battevano; ove Elvio Rufo fantaccino, meritò corona di cittadino salvato. Cesare gliela donò, e con Apronio si dolse senza però spiacergli che, come viceconsolo, non gli donasse anco questa, come le collane e l’asta. Tacfarinata, essendo i Numidi spaventati, nè volendo più assedj, si spargeva per la campagna: affrontato, sguizzava e rigirava alle spalle: e mentre tenne questo modo il Barbaro, beffò franco e straccò i Romani. Calato alle maremme, e standosi nel campo a covare le sue prede, Apronio Cesiano, mandato dal padre co’ cavalli e fanti d’aiuto, e co’ più veloci delle legioni felicemente il combattè e cacciò ne’ deserti.

XXII. In Roma Emilia Lepida, cui, oltre allo splendor della casa, fur bisavoli L. Siila e Gn. Pompeo, fu accusata di falso parto di Pubblio Quirinio, ricco e senza figliuoli: e di adulterj, e di veleni, e di pronostichi, fatti fare da’ Caldei della casa di Cesare15. Manio Lepido suo fratello la difendeva; Quirinio ne la rimandò, e anche perseguitandola, fece increscer di lei, quantunque rea e infame. Male si vide come il principe la intendesse; tanto variò e tramescolò ira e clemenza. Prima pregò il senato non trattasse di maestà; poi incitò Marco Servilio, stato consolo, e altri testimoni, a dir su cose che prime accennò le tacessero. Allargò dall’altra banda i servi di Lepida dalla prigionia de’ soldati a quella de’ consoli16; e non volle che fosser martoriati sopra le cose di casa sua, e che Druso, consolo disegnato, lasciasse dire a un altro il parere. Chi l’attribuiva a civiltà di non necessitare gli altri a seguitarlo; chi lui diceva sì crudele, che non avrebbe ceduto il suo ufficio se non per dannarla.

XXIII. Facendosi ne’ giorni dì quel giudizio una festa, Lepida entrò nel teatro, con una nobiltà di donne, e con pianti e strida invocando i suoi maggiori, e Pompeo, cui era quella fabbrica, e vedeanvìsi le sue immagini: commosse tal pietà e pianto, che maladivano crudamente Quirinio, e chi aveva la destinata già per mogliere di L. Cesare e per nuora di Augusto, affogata a cotal vecchio senza reda, contadino. Avendo poscia i servi tormentati confessato l’enormezze di lei, le fu tolto acqua e fuoco, come pronunziò Rubellio Blando, seguitato da Druso, se bene altri volevano meno rigore. I beni per amor di Scauro, che n’avea una figliuola, non andaro in comune. Allora finalmente Tiberio palesò: Che sapeva da’ servi di Quirinio, come Lepida il volle anche avvelenare.

XXIV. Avendo in poco tempo perduto i Calfurnj Pisone, e gli Emilj Lepida, Decio Silano renduto a’ Giunj, racconsolò l’avversità di tre gran case: lo cui caso dirò breve. Augusto fu nelle cose pubbliche felice; in quelle di casa sgraziato, per la figliuola e nipote disoneste: le quali cacciò di Roma, e fece i drudi morire o fuggire, facendo tali colpe divolgate, casi di stato e di resìa; fuori della clemenza delle antiche e delle sue stesse leggi. Ma io tesserò la fine degli altri, con l’altre cose di quella età, se tanto viverò che io riempia le ordite. Decio Silano, giaciutosi con la nipote d’Augusto, se ben Cesare non fece che disdirgli l’amicizia, lo intese, e si prese l’esilio; nè osò chiederne grazia, se non al tempo di Tiberio, col caldo di Marco Silano suo fratello, potente per grande facondia e nobiltà; dal qual Tiberio ringraziatone il senato, rispose, rallegrarsi anch’egli, che il fratel di lui fosse di lungo pellegrinaggio tornato; e con ragione, poiché nè senato nè leggi il cacciò; ma terrebbe ferma l’offesa, e disposizione di suo padre contro di lui. Così poscia visse in Roma sicuro, ma esoso17.

XXV. Proposesi di moderare la legge Papia Poppea, che Augusto, già vecchio, dopo le Giulie fece, per muovere gli smogliati con le pene18, e per ingrassare il fisco19; nè perciò crescevano (mettendo più conto l’essere scapolo) i mogliazzi, nè i figliuoli, ma i rovinati; sovvertendo i cavilli de’ cercatori ogni casa; e dove prima per le peccata, allora per le leggi si tribolava. Il che m’invita a dire più da alto l’origine della giustizia, e come le leggi siano a questa infinità e varietà pervenute.

XXVI. Vivevano i primi mortali20 senza reo appetito, lordura o sceleraggine alcuna, e perciò senza freni o pene. Non vi occorrevano premj, volendosi per natura il bene; non minacce di pene, non usandosi il male. Venutane la disugualità, e in luogo della modestia e vergogna, l’ambizione e la forza, le signorie montaron su, e molti popoli le hanno patite eterne. Alcuni da principio, o quando stuccati furon de’ re, vollero anzi le leggi. Queste ne’ primi animi rozzi fur semplici: le più famose diedero Minos a’ Candiani, Licurgo alli Spartani; poscia Solone più squisite e numerose alli Ateniesi. Noi resse Romolo a senno suo. Numa acconciò il popolo a religione e divinità: qualche cosa trovarono Tullo e Anco; ma Servio Tullio fu sovrano datore di leggi da ubbidirsi ancora dai re.

XXVII. Cacciato Tarquinio, il popolo contro ai discordanti Padri molto provvide, per difender libertà e pace fermare: e si crearo i dieci: e raccolto ovunque fosse il migliore, ne furon compilate le Dodici Tavole, ove è tutta la buona ragione. Perchè le leggi dipoi, se bene alcune contro a’ ma’fattori, le più furono violente per discordie de’ nobili con la plebe, per acquistare onori non leciti, cacciare i grandi, e altri mali. Così i Gracchi, i Saturnini sollevaron la plebe: e Druso non meno, in nome del senato donando. Così furono i collegati nostri con isperanze allettati, o per contrasti beffati. Nè nella guerra d’Italia, e poi civile, si lasciò di far leggi assai, e contrarie; le quali avendo L. Siila dettatore annullate, racconce e molte più arrote, la cosa fermò; ma per poco, per li scandolosi ordini di Lepido, e poco appresso per la venduta licenza a’ tribuni di fare il popolo a lor modo ondeggiare. E già si facevano leggi, non pure in generale, ma contra particolari; e nella repubblica correttissima, leggi assaissime21.

XXVIII. Allora Gneo Pompeo nel terzo suo consolato, fatto riformator de’ costumi, e più che i peccati i rimedi suoi nocendo, e le sue leggi egli stesso guastando, quello ch’egli con l’armi difendeva, con l’armi perdè. Dipoi per venti anni fu discordia, non costume, non giustizia: franco il mal fare; il bene spesse volte rovina. Augusto finalmente nel sesto consolato, assicuratosi nello stato, le iniquità comandate nel triumvirato annullò, e ci diè leggi da pace, sotto principe. Il quale poi ne ristrinse; e miseci cercatori a rifrustare chi senza poter esser padre tenesse lasci, per la legge Papia Poppea ricadenti al popolo romano comune padre. Ma essi, per agonia di loro stregue, passavano i termini, e rapinavano la città e l’Italia, e ciò ch’era di cittadini. Molti rimasero ignudi, e gli altri lo si aspettavano. Ma Tiberio trasse per sorte cinque consolari, cinque pretorj e cinque semplici senatori; che dichiararon di quella legge i sani intendimenti, e per allora un poco si rispirò.

XXIX. In quel tempo Tiberio pregò i Padri che facessero Nerone, figliuol maggiore di Germanico, già fatto garzone, abile alla questura, senza esser seduto de’ venti; e anni cinque avanti le leggi; non senza riso de’ pregati. Tanto (diceva egli) fu conceduto a lui, e al fratello a’ preghi d’Augusto; che se ne dovetton sogghignare ancora allora; ma l’altezza de’ Cesari era novella: gli antichi modi più in su gli occhi: e meno strignevano quei figliastri al patrigno, che questo nipote all’avolo. Fatto fu dunque e questore e pontefice: e un donativo quel dì, ch’ei prese il grado, alla plebe, allegrissima per vedere a un figliuolo di Germanico già le caluggini; e più poi per le nozze sue con Giulia figliuola di Druso. Dispiacque bene che Seiano si destinasse suocero del figliuolo di Claudio, parendo ch’ei macchiasse sì nobil famiglia, e s’innalzasse uno, già sospetto di troppo aspirare. XXX. Nel fine di quell’anno morirono due grand’uomini; L. Volusio, di famiglia antica, ma non più che pretoria; egli vi mise il consolato: fu censore a fare de’ cavalieri; e delle smisurate ricchezze di quella famiglia primo ammassatore; e Crispo Sallustio, nato cavaliere, nipote della sorella di quel C. Crispo Sallustio fioritissimo scrittore di storie romane, che lo fece di quella famiglia; e poteva aver tutti gli onori, ma imitò Mecenate; e senza esser senatore fu più potente che molti consoli e trionfatori. Tenne vita contraria all’antica: ricca, dilicata, splendida e quasi prodiga; fu di animo vigoroso; da gran negozj: e per fare l’addormentato e il freddo, di cotanto più vivo22. In vita di Mecenate, secondo, poi primo fu nel consiglio di quei principi: trattò la morte d’Agrippa Postumo: invecchiato, mantenne anzi l’apparenza che la grazia del principe, come altresì Mecenate; o sia fatale della potenza, mantenersi23 di rado insino all’ultimo, o perchè quando non rimane più a quelli che dare, nè a questi che chiedere, si vengono a noia.

XXXI. Viene il consolato quarto di Tiberio, e secondo di Druso, notevole per tale compagnia di padre e figliuolo. La medesima due anni fa con Germanico nipote, non fu tanto stretta per natura nè grata a Tiberio; il quale nel principio di quest’anno se n’andò quasi a pigliare aria in Terra di Lavoro, pensando voler fare stanza lunga e continua fuor di Roma, o per lasciare a Druso solo governare il consolato. E per ventura d’una cosa piccola, venuta in gran contesa, s’acquistò grazia il giovane. Domizio Corbulone, stato pretore, si dolse in senato che L. Silla nobile donzello allo spettacolo degli accoltellanti non gli aveva ceduto il luogo. L’età, l’usanza, i vecchi erano per Corbulone; per Silla, parenti suoi, e Mamerco Scauro, e L. Arunzio. Di qua e di là dicerie: esempi di gran pene antiche date a giovani non riverenti. Druso parlò molto acconcio al quietargli; e Mamerco, zio e patrigno di Silla, e di quella età facondissimo oratore, quietò Corbulone. Il qual facendo romore, che molte strade d’Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza de’ conducenti e tracuranza de’ magistrati, le prese a rassettare. Poco giovò al pubblico, e rovinò molti, a cui condannando e incantando, tolse crudamente beni e onore.

XXXII. Tiberio appresso scrisse al senato che Tacfarinata metteva di nuovo sozzopra l’Affrica; scegliessero un viceconsolo, soldato robusto, il caso a questa guerra. Sesto Pompeio, con questa presa di nimicare Marco Lepido, lo disse da mente, morto di fame, vergogna di casa sua; perciò non si mandasse in Asia, benché toccali per tratta. Il senato, per lo contrario, lo diceva benigno, e non dappoco: povertade, che non macchia gentilezza loda essere, non vergogna; così fu mandato in Asia, e rimesso in Cesare a cui dar l’Affrica.

XXXIII. Allora Severo Cecina disse per sentenza, che in reggimento non s’andasse con traino di moglie, avendo molto replicato, che questo suo volere per lo pubblico l’aveva per sè osservato: e quaranta volte, che egli era andato fuori alla guerra, tenuto in Italia la donna sua, pacifica, e madre di sei figliuoli. „Non a caso già essere stato vietato lo ’mpanio delle donne per li paesi amici o stranieri; perchè arreca nella pace spesa e nella guerra paura: o nel marciare assembra il romano campo al barbaro. Essere le donne di briga, fieboli alle fatiche; e se tu le lasci fare, crudeli, ambiziose, comandatrici: mettersi in fila tra’ soldati; fare le maestresse co’ centurioni. Aver fatto una donna pur testè le compagnie addestrare, le legioni torneare. Trovarsi ne’ sindacati delle sei malefatte, le cinque venire dalle mogli. I peggiori delle province far capo ad esse: esse pigliare, esse finire i negozi: due personaggi corteggiarsi; a due ragion chiedersi. A’ superbi e perfidi comandari donneschi essere state già dalle leggi Oppie, o altre, legate le mani; ora che sciolte l’hanno, regger le case, i tribunali e gli eserciti oggimai„.

XXXIV. A pochi piacque questo parlare: e molti lo interrompevano, dicendo, che la cosa non era stata proposta; nè Cecina di tanto negozio degno riformatore. A cui Valerio Messalino, ritraente dalla facondia di Messala suo padre, rispose; „Molte durezze degli antichi sono ammollite e migliorate; perchè non avendo noi più Roma da guerre assediata, nè province nimiche, possiamo far delle spese proprie per le donne, che non gravano le case de’ mariti, non che i vassalli; l’altre cose opposte esser comuni col marito, e non da sollevare. Al combattere si vuol bene uscire spedito, ma nel ritorno dalle fatiche, qual conforto più onesto che la moglie? Alcune sono state ambiziose e avare, sì; ma gli stessi reggitori son eglino tutti Fabbrizj? e pure se ne manda a regger province. Hanno molte mogli guasto i mariti; adunque tutti gli smogliati son santi? Le leggi Oppie fersi perchè quei tempi le richiedevano; fur poscia allargate, e mitigate perchè fu spediente. Se la donna esce de’ termini, questo è (chiamiamola per lo nome suo) dappocaggine del marito. Non si dee a posta d’alcuni milensi levare a’ mariti le loro consorti de’ beni e de’ mali; e lasciare questo frale sesso scompagnato in preda alle vanità sue e alle voglie aliene. Appena si campano con gli occhi addosso; che farebbero sdimenticate gli anni, e quasi rimandate? Rimediate a’ minori disordini di fuori, ma pensate anco a’ maggiori della città„. Soggiunse Druso, che aveva moglie anch’egli: „convenire a chi è prìncipe rivedere spesso le parti lontane dell’imperio. Quante volte essere il divino Augusto con Livia ito in Levante e in Ponente? ed egli in Illiria? Altrove andrà, bisognando; ma non di buone gambe, dovendo ogni volta schiantarsi dalla sua dolcissima moglie, onde ha tanti figliuoli.„ Così fu scartata la sentenza di Cecina.

XXXV. L’altro dì di senato Tiberio per lettera, fiancheggiati i Padri del sempre a lui rimettere, nominò per viceconsolo in Affrica Marco Lepido o Giunio Bleso. Furono uditi Lepido faceva grandi scuse di cagionevole; figliuo’ piccoli, una fanciulla a maritare; e intendevasi, senza dirlo, che Bleso, che fratello era della madre di Sciano, lo scavallava. Bleso fere cirimoniosa ricusa; e tutte le voci ebbe per adulazione.

XXXVI. Un rattenuto dispiacere di molti allora scoppiò. Ogni ribaldo ritirandosi ad una immagine di Cesare, poteva dire a ogni uomo da bene, ogni bruttura: schiavi, liberti con voce e mani, spaventavano il padrone. Gn. Cestio senatore disse: „Essere i principi come gl’Iddii, ma gl’Iddii non ascoltare i preghi ingiusti: e niuno in Campidoglio, o altro tempio, fuggire per aiuto a far male. Essere annullate, sprofondate le leggi, da che nel foro, in su la porta del senato, Annia Ruffillia, per averla egli fatta dannare dal giudice per falsarda, gli dicea vituperi con minacce: nè ardiva chiederne ragione, stando ella sotto la statua dell’imperadore„. Altri di simili cose, e più atroci romoreggiavano intorno a Druso, pregandolo a farne dimostranza: Finché ei la fece prendere, e, convinta, incarcerare.

XXXVII. Consilio Equo e Celio Cursore, cavalieri, per ordine del principe e partito del senato furon puniti di falsa querela di maestà, data a Magio Ceciliano pretore. Dell’uno e dell’altro giudizio, Druso ebbe loda: e col mescolarsi e ragionare con la gente, mitigava la tanta ritiratezza del padre. E piaceva più vederlo spendere il giorno in ispettacoli24, la notte in cene, che rinchiuso fantasticare di cose rematiche25 e odiose,

XXXVIII. che Tiberio e le spie gli porgevano tutto dì senza veruno sollazzo o risquitto. Ancario Prisco accusò Cesio Cordo viceconsolo di Candia, di ladroneccio e di maestà, suggello allora d’ogni accusa. E Tiberio volle che Antistio Vetere, de’ grandi di Macedonia, assoluto d’adulterio (che i giudici ne rabbuffò) tornasse a difendersi di maestà, come sollevatore e consigliere di Rescupori, quando egli ammazzò Coti, e ci volle far guerra. Onde fu condennato a prigionia, senz’acqua nè fuoco, in isola lungi da Tracia e Macedonia; per cagione che la Tracia, divisa tra Remetalce e i pupilli di Coti, al nuovo nostro governo, e di Trebellieno Rufo lor tutore, calcitrava; e non meno che lui maladiva Remetalce che cosi lasciasse i loro popoli divorare. Presero l’armi, Celaleti, Odrusi, e altri; nazioni forti, con capi discordi, egualmente mal pratichi, che non seppero unirsi e far guerra da vero. Chi diede il guasto al paese, chi passò il monte Emo a conducer gente lontana: i più e meglio ordinati, assediaro il re e la città di Filippopoli, posta già da Filippo di Macedonia.

XXXIX. Quando tali cose intese P. Velleio generale del vicino esercito, spinse i più spediti cavalli e pedoni addosso a quelli sparsi, che andavano predando o caendo aiuti; egli col forte della fanteria andò a levare l’assedio, e tutto venne bene. I predatori furono uccisi: tra gli assedianti nacque discordia: il re uscì fuori, appunto arrivata la legione, e fecesi (non merita dirsi giornata) macello di male armati, sfilati e senza nostro sangue.

XL. Nel detto anno cominciarono le città galliche, affogate ne’ debiti, a ribellarsi; forte stimolate da Giulio Floro ne’Treviri, e da Sacroviro nelli Edui; pari di nobiltà, e meriti de’ loro antichi perciò fatti cittadini romani: raro dono e per virtù. Costoro segretamente tirano a sé i più feroci, rovinati e necessitati a misfare per gastighi fuggire; e convengono, che Floro sollievi i Belgi, e Sacroviro i vicini Galli. Parlano dunque in brigata e ne’cerchj scandolosamente de’ continui tributi, delle enormi usure, dei crudeli e superbi governanti: „I soldati, morto Germanico, discordare; vero tempo da ripigliar libertà, se essi nel fiorire delle forze considereranno quanto è povera l’Italia, vile la plebe romana: e che in quelli eserciti, se nerbo è, sono i forestieri„.

XLI. Quasi ogni città fu sommossa. Ma i primi a saltar fuori furono gli Angioini e i Torsigiani. Oppresse Acilio Aviola Legato quelli col presidio tratto di Lione; questi co’ legionari, che Visellio Varrone Legato nella Germania bassa, gli mandò; e con baroni franzesi venuti in aiuto, per fellonia coprire, e serbarla a tempo migliore. E fecesi veder Sacroviro combattere per li Romani in zucca, per mostrare più valore, diceva egli; ma i prigioni, per farsi conoscere e riguardare. Tiberio avvertitone, se ne fe’ beffe, e col non risolvere, nutrì la guerra.

XLII. Conciossia che Floro seguitando l’impresa, tentò una banda di cavalli treviri, militanti per noi al modo nostro, che con l’ammazzarvi i mercatanti romani rompesser la guerra. Pochi ne corruppe; gli altri stettero in fede. Un’altra schiera di falliti e cagnotti, s’armò, e andavano verso la selva Ardenna; ma due legioni de’ due eserciti di Vesellio e di Silio, attraversatole il sentiero, chiusero il passo. E Giulio Indo, di Floro nimico, e compatriotto, perciò all’opera più intento, mandatovi con gente scelta, sbaragliò quella turba, ancora disordinata. Floro s’ammacchiò: vedendo poi presi i passi dell’uscita, s’uccise: e fu finito il movimento de’ Treviri.

XLIII. Con gli Edui ci fu più che fare, quanto erano più potenti, e le forze per atturarli lontane. Sacroviro prese per forza Autun, lor città principale, e la nobiltà de’ giovani franzesi, che v’era a studio, per guadagnarsi con tal pegno i lor padri e parenti. Fabbricò armi segretamente, e dielle alla gioventù. Furono quarantamila: la quinta parte con armi da legione, e’l rimanente con ispiedi, coltelli, e altro da caccia. Oltre certi schiavi, destinati per accoltellatori, coperti d’un pezzo di ferro, a loro usanza, chiamati crupellai26, che tirar colpi non posson, nè li passano i tirati. Aggiugnevasi a queste forze gli animi delle vicine città, se non in pubblico scoperti, pronti in privato; e la gara de’ capitani nostri, volendo questa guerra ciascuno fare; pure Varrone, per vecchiezza debole, la lasciò a Silio vigoroso.

XLIV. In Roma si diceva non pure i Treviri e gli Edui, ma sessantaquattro città delle Gallie essersi rivoltate, e collegate co’ Germani; le Spagne tentennare; ogni cosa, come si fa delle male nuove, si credeva maggiore: ai buoni incresceva del pubblico; molti per odio dello stato presente, e desiderio di mutarlo, si rallegravano de’ loro stessi pericoli, e maladivano Tiberio, che quando ardeva il mondo, badasse a postillare i processi degli accusati: „ Domin se27 i Padri citeranno Sacroviro a comparire per questo caso di stato? Vedi ve’, che pur ci ha chi sappia con l’armi stampanare questi pistolotti scritti col sangue. Tronchi la guerra di colpo alla repubblica il collo, anzi che pace sì sciagurata lo cincischi.„ Tanto più saldo e sicuro, senza cangiar volto nè luogo, Tiberio quei giorni passò al solito; per grandezza d’animo, o per sapere tanti finimondi non ci essere.

XLV. Silio, camminando con le due legioni, manda innanzi una mano d’aiuti, e guasta il paese dei Sequani, confinanti e collegati con gli Edui, che in arme erano: e vanne ad Antun a gran passo, gareggiandone gli alfieri e i fanti, gridando, che non volevan riposo, nè dì, nè notte; vedere il nimico, mostrarli il viso, bastar questo per vincere. Dodici miglia lontano in una pianura si vide Sacroviro in battaglia co’ ferrati in fronte, ne’ corni la fanteria, dietro i male armati; esso co’ principali bene a cavallo scorreva, ricordava l’antiche glorie dei Galli, le rotte date a’ Romani, quanto sarebbe, vincendo, gloriosa la libertà, e perdendo, più dure le rimesse catene.

XLVI. Poco disse a’ poco lieti, perchè le legioni comparivano. Essi terrazzani, non ordinati, non saldi, nè occhio nè orecchio sapevano adoperare. Per lo contrario, Silio, benché tanta prontezza non chiedeva sprone, sciamava: „A voi vincitori delle Germanie è vergogna apprezzare i Galli come nimici. Di questo esercito dianzi una coorte sbaragliò il Torsigiano ribellato; una banda il Treviro; pochi cavalli i Sequani. Ora questi Edui, quanto più danarosi sono, e più morbidi, tanto meno da guerra; che guerra? legateli, e addossa affliggenti lanciatevi28.„ Levossi alto grido. La cavalleria gli attorneò: fanti investiron la fronte: affianchi non s’ebbe a badare; co’ ferrati si ebbe; perchè spade e lanciotti non foravano quelle piastre; onde i nostri con accette e beccastrini, come avessono a mandar giù torri, quelle ferramenta e membra squarciavano, o con pali e forconi atterravano quelle massacce: e non potendosi così intirizzati rizzare, gli lasciavano per morti. Ritirossi Sacroviro, prima in Autun, poi (temendo non si arrendesse) in una villa vicino, coi più fidati suoi. Quivi egli sé di sua mano, gli altri l’un l’altro s’uccisero, fitto fuoco nella villa, che arse ogni uno.

XLVII. Allora, e non prima, scrisse Tiberio al senato il principio e la fine di questa guerra veracemente, come i Legati con la fede e virtù, ei col consiglio, l’avevano condotta; e che non era andato egli nè Druso, per maestà; disdicendosi a principe, se questa città o quella scapestra, uscir del centro di tutto il governo. Ora, che per paura noi fa, v’andrebbe per veder tutto con l’occhio e stabilire. I Padri ordinarono per lo suo ritorno boti, pricissioni, e altre cose. Cornelio Dolabella, adulatore più saccente degli altri, pronunziò, che da Capua in Roma egli venisse ovante. Eccoti lettera di Cesare, che non era sì mendico di gloria, che dopo tante ferocissime genti domate, tanti trionfi avuti e rifiutati in giovanezza, si volesse ora in sua vecchiaia pagoneggiare d’un pellegrinaggio d’intorno alle porte di Roma.

XLVIII. In questo tempo al senato domandò che a Sulpizio Quirinio si facessero esequie pubbliche. Non era de’ 5ulpizj antichi senatori; nacque in Lanuvio: fu soldato feroce. Augusto l’adoperò in forti affari; e fatto consolo, prese le castella, degli Omonadesi in Cilicia, e n’ebbe le trionfali; governò C. Cesare quando tenne l’Armenia. In Rodi fece servitù a Tiberio, che se ne lodò in senato; e dolsesi di M. Lollio che avesse messo C. Cesare in su le cattività e risse. Ma il popolo odiava Quirinio per aver, com’è detto, rovinato Lepida, e per essere vecchio sordido e strapotente.

XLIX. Allo scorcio dell’anno C. Lutorio Prisco, cavalier romano, dopo l’avergli Cesare donato, per aver pianto con una lodata canzone la morte di Germanico, fu accusato d’averla composta prima quando Druso ammalò, e detto, battendosi l’anca; „Domine fallo tristo quel Druso, che non crepò, che n’avrei buscato altra mancia. Lessela per vanità in casa Petronio a Vitellia sua suocera, e altre gentil-donne, le quali confessarono per paura. Vitellia sola disse sempre, non aver udito niente29; ma fu credulo più a quelle. Aterio Agrippa, eletto consolo, dannava il reo al sommo supplizio30;

L. M. Lepido contraddisse cosi: „Se noi guardiamo solamente, Padri coscritti, con che nefanda voce Lutorio Prisco ha sporcato la sua mente e gli orecchi degli uomini, nè carcere, nè laccio, nè servile strazio gli è tanto. Ma se il discreto principe, se gli antichi, se voi, date pure alli smoderati peccati moderati supplizj o rimedi, e divario è da vanità a malizia, da detto a fatto, e’ si può dare una sentenza, per la quale costui si gastighi, e noi facciamo equità. Io ho udito più volte il principe nostro dolersi del non aver potuto graziare alcuni ammazzatisi troppo presto. Lutorio è vivo: e non fia di pericolo il mantenerlo, nè d’esempio l’ucciderlo. Attende a frottole e debolezze, che svaniscono; e poco male vuol farci chi s’accusa dassè, e piglia gli animi non degli uomini, ma delle donne. Caccisi nondimeno fuor di Roma, perda i beni, e acqua e fuoco, come fusse caso di stato.„

LI. Rubellio Blando solo, uomo consolare, seguitò Lepido: tutti altri Agrippa. Prisco fu incarcerato, e caldo caldo ucciso. Tiberio ai Padri ne fece richiamo co’ suo’ andirivieni; lodò a cielo la lor santa mente in punire ogni lieve offesa del principe: pregò non fulminassero pene alle parole: lodò Lepido, e Agrippa non biasimò. Là onde i Padri ordinato: Che i loro decreti per dieci dì non andassero in camera, per dare a’ giudicati questo spazio di vita. Ma nè il senato aveva libertà di ritoccarli, nè Tiberio per indugio si mitigava. LII. Seguita il consolato di Gajo Sulpizio e Decio Aterio. Anno fuori quieto, in Roma sospetto di severa riforma alle pompe, e scialacqui di danari, a dismisurata trascorsi. Molte spese, benché grandissime, spesso si nascondevano nel frodare i pregi; ma le ricche imbandigioni e apparecchi delia gola, tutto dì favellandosene, miser pensiero non gli volesse quel principe parco all’antica, ritirar duramente. Prima C. Bibulo, e poi gli altri edili sciamando: „La legge dello spendere si sprezza; i ricchi arredi vietati ogni di crescono; rimedi mezzani non servono: che da fare è?„ I Padri la rimisono in tutto a Tiberio. Egli un pezzo pensò, se rattenere tanta sfrenatezza di voglie sarebbe possibile, se più dannoso alla repubblica, che indegnità, por mano a cosa che forse non passasse, o, passata, i grandi disonorasse; finalmente compilò questa lettera al senato.

LIII. „Nell’altre proposte, Padri coscritti, forse è bene che io sia domandato, e dica in voce il mio avviso; questa è stata meglio sottratta dagli occhi miei, acciocché quei vergognosi scipatori, che voi vedete arrossare e temere, anch’io non vegga, e quasi colga in peccato. E se que’ prodi edili me ne domandavano, io forse li consigliava a lasciare anzi correre i vizj abbarbicati e cresciuti, che altro non fare che scoprire, come noi non bastiamo a stirparli. Essi hanno ben fatto l’uficio loro, e come io vorrei che ogn’altro magistrato facesse; ma a me non è onesto tacere, e non so che mi dire; perchè io non ho a far l’edile, né ’l pretore, né ’l consolo. Maggiori cose e più alte s’aspettano a principe: e dove, se un solo fa bene, ne li è ogn’uno tenuto; se tutti fanno male, egli solo n’è lacerato. Ma che comincerò io prima a vietare o ritirare al modo antico? le ampissime ville? i tanti schiavi di tante lingue? le masse dell’oro e ariento? i bronzi e le pitture di miracolo? il vestir di seta gli uomini come le donne? e per le gioie loro lo spandere i nostri tesori per le mondora strane o nimiche?

LIV. „Io so, che questi abusi nelle cene, e ne’ cerchj son biasimati, e si vorrebbon levare; ma come e’ si venga al fame leggi, e porvi pena, que’ medesimi metteranno Roma a romore, dicendo; E’ si gitta il ghiaccio sopra i più ricchi; e coprirà ogn’uno. Ma come i vecchi malori impigliati nel corpo si guariscon col ferro e col fuoco, così l’animo quando è infettato e infetta, e di focose libidini arde e languisce, con altrettali rimedi si vuole attutare. Il disuso delle tante leggi antiche, il dispregio, che peggio è, delle tante del divino Augusto, hanno assicurato lo scialacquare. Perchè chi vuol fare la cosa ancor non vietata, la fa con timore non ella si vieti; chi senza pena può fare la proibita, nè più timore ha, nè vergogna. Perchè regnava la masserizia già? perchè ciascuno si temperava; perchè noi eravamo cittadini tutti di Roma: e non avendo signoria fuori d’Italia, non ci venivano sì fatte voglie. Le vittorie di fuori ci hanno insegnato scipare la roba degli altri, e le civili anche la nostra. Che cosellina verso l’altre mi ricordano gli edili? Ninno ricorda che l’Italia vuol soccorso di fuori; che la vita del popolo romano sta a discrezione del mare e delle tempeste; e senza le vettovaglie di fuori chi nutrirebbe noi, i servi, i contadi? I bei boschetti forse e le ville? Questi sono, Padri coscritti, i pesi del principe: questi lasciati, metterebbono la repubblica in fondo; dell’altre cose ciascuno ha nell’animo la medicina. Riformi noi la modestia, i poveri la nicistà; i ricchi la satollanza. Se a qualche magistrato dà il cuore con bastevole arte o severità ripararci, lo lodo, e confesso che mi torrà gran fatica. Ma se e’ vogliono far belli sè dello sgridar i vizj e muover odj per addossarli a me, crediate, Padri coscritti, che anch’io non godo di fai’ nimicizie. E se io ne piglio per la repubblica nelle cose maggiori, e spesso a torto, digrazia delle minori, e senza effetto, nè prò vostro nè mio, non mi vogliate gravare:„

LV. Letta la lettera di Cesare, questa cura fu rimessa a gli edili; e le superbe mense, durate cento anni, dal fine delia Guerra d’Azio a quell’armi che dierno l’imperio a Sergio Galba, a poco a poco mancarono. Della qual mutazione mi piace cercar le cagioni. Già le famiglie nobili, ricche e chiare disordinavano in magnificenza; potendosi anche trattenere all’ora la plebe, i collegati, i regni, ed essere trattenute: e qual era la più appariscente di ricchezza, palagio, arredo, più avea rinomo e seguito. Poiché si diede nel sangue, e che la nominanza era rovina, s’attese a cose più sagge; e gli uomini nuovi di varie terre, colonie e province, fatti ch’è ch’è, senatori, ci portaron la parsimonia da casa loro; e per grosso civanzo che facessero per industria o fortuna, la si mantennero. Ma più di tutti ristrinse Vespasiano col suo vivere e vestire antico. Onde il piacere al principe, e l'imitarlo più valse, che pena o paura di leggi. „E forse ogni cosa fa sua girata, e tornano, come le stagioni, i costumi; nè tutte le cose antiche sono le migliori: anche l’età nostra ha prodotto arti e glorie, che saranno imitate. Prendiamo pure con gli antichi le gare oneste.„

LVI. Essendosi Tiberio, per questa pasciona tolta alle surgenti spie, acquistato grido di moderato 31, scrisse a’ Padri, chiedendo per Druso la podestà tribunesca32. Augusto si trovò questo vocabolo di sovranità, per non darsi di re, nè di dettatore, e pur mostrarsi con qualche nome il maggiore. Fecesi compagno in tal podestà M. Agrippa, e, morto lui, Tiberio Nerone, per lasciar chi succedere: e parvegli cosi levare ad altri le male speranze, confidatosi ancora nella modestia di Nerone e nella propria grandezza. Con questo esempio Tiberio investi Druso del sommo grado, che, vivente Germanico, a niuno de’ due lo dichiarò. La lettera, invocato prima gl’Iddii che prosperassero alla repubblica i suoi disegni, diceva le buone qualità del giovane, moderate, nè oltre al vero: „Essere ammogliato con tre figliuoli; dell’età che era egli quando assunto vi fu da Augusto. Chiedeva alle fatiche questo compagno, non soro, ma otto anni esercitato a quietare sedizioni, finir guerre, trionfare e governare due consolati.„

LVII. I Padri s’erano acconce le parole in bocca; di tanto più squisito fu l’adulare. Non però altro invennero, che immagini, altari, tempj, archi e altre cose solite; se non che M. Silano tolse onore al consolato per darlo a’ principi, sentenziando senza proposta, che negli atti pubblici e privati, a memoria dei tempi, si scrivesse; „Dominanti i tali sacri tribuni„, e non più „i tali consoli.„ Q. Aterio avendo detto, che quanto s’era deliberato quel giorno in senato, vi s’intagliasse a letteroni d’oro, fece rider di sè, che sì vecchio, di sì sozzo adulare aspettasse altro che infamia.

LVIII. Giunio Bleso fu raffermato in Affrica, e Servio Maluginese chiedeo l’Asia, benchè flamine di Giove; dicendo: „Non esser vero il detto volgato, che flamine non esca d’Italia; nè il suo flaminato diverso da’ marziali e quirinali: se que’ tengono le province perchè vietarle a’ gioviali? legge di popolo non ce n’ha; in cirimoniale non si trova. Nelle mancanze de’ gioviali per malattie o cure pubbliche, hanno ufficiato i pontefici. Dopo che Corn. Merula fu ucciso, questo flaminato vacò anni settantadua, e pur non mancò mai d’uficiarsi. Se per tanti anni si può, senza rifarlo, ufìciare, ben si potrà un anno star fuori viceconsolo. L’andare nei governi fu lor tolto già da’ pontefici per private malevoglienze; ora per grazia degl’Iddii, il sommo pontefice è il sommo uomo: non ha gare, non odii, non passioni.„

LIX. Lentulo augure e altri, contraddissero variamente; e si ricorse al pontefice Tiberio, che ne desse sentenza: egli la differì33; e passò a temperare le cerimonie ordinate per l’alzamento di Druso alla podestà tribunesca, e nominatamente abboni l’arrogante proposta e quei nuovi letteroni d’oro. Si lesse una lettera di Druso al senato, che pareva modesta, ma fu presa per trasuperba. «Poveri a noi! non ha rasciutti gli occhi, e non s'è degnato venire a fare di tanto onore uno inchino agl'Iddii della città, morto al senato, nè darle principio in buon’ora dov’ci nacque! Forse che gli è alla guerra o lontano? Trastullasi pe’ giardini, pe’ laghi di Capua; il tempo è ora. Così s’allieva il reggitore del genere umano. Bel precetto per lo primo ha preso dal padre! al quale, orsù sia parato grave, come a vecchio affaticato, il venirci a dare un’occhiata; ma Druso, che ’l tiene, se non arroganza?»

LX. Ma Tiberio così puntellatosi nello stato, per dare al senato un po’ d’ombra dell’antico, rimise a quello le domande delle province di mantenere’ le franchige, cresciute per le città della Grecia in troppa licenza; lasciando ne’ tempj rifuggire schiavi pessimi, falliti, scappati dalla giustizia; nè avrebbero le catene tenuto il popolo che non si levasse, per difendere le sceleratezze umane come religione divina. Fu detto adunque che le città mandassero ambasciadori con tutte loro ragioni. Alcune, che le franchige si avieno usurpate, le lasciarono: molte si fidarono nella divozione antica, o ne’ servigi fatti al popolo romano. Magnifico giorno al senato fu quello ch’ei riconobbe i beneficj de’ nostri antichi, le leghe, le ordinanze de’ re grandi innanzi alla forza romana; e le religioni degl’Iddii, con la primaria libertà di confermare e riformare. LXI. Primieramente gli Efesii dissero, che Apolline e Diana non nacquero in Delo, come crede il volgo, ma partorilli Latona appiè d’un ulivo, che ancor v’è in su ’l fiume Cenerio, nel bosco loro, detto Ortigia, sagrato per divino ammonimento, ove Apolline per li uccisi Ciclopi fuggì l’ira di Giove, e Bacco perdonò alle Amazzone vinte, che abbracciarono quell’altare. Fu poi la divozione di quel tempio di licenza d’Ercole, padrone allora della Lidia, accresciuta e mantenuta da’ Persi, dai Macedoni, finalmente da noi.

LXII. Seguitarono i Magneti, e dissero, che avendo L. Scipione cacciato Antioco, e L. Silla Mitridate, per la loro fedeltà e virtù diedono inviolabil franchigia nel tempio di Diana Leucofrina. Difendevano appresso i tempj loro, di Venere gli Afrodisei, e di Giove e di Diana que’ di Stratonice; producendo un novello privilegio d’Augusto e uno più antico di Cesare Dettatore, conceduto per aver seguito quelle fazioni; lodati della mantenuta fede al popol romano nelle scorrerie de’ Parti. Mostravano i Gerocesarei più antichità; che il lor tempio di Diana di Persia fu dedicato da Ciro; e Perperna, Isaurico e molt’altri imperadori con due miglia intorno il sagraro. I Cipriotti tre tempj raccomandavano: lo più antico, Venere in Pafo, fatto da Aeria34; Venere in Amatanta, dal suo figliuolo amato; Giove in Salamina, da Teucro quando scansò l’ira di Telamone suo padre.

LXIII. E tante altre ambascerie udirono i Padri; che per essere stracchi, e parteggiare ne’ favori, commisero a’ consoli, che veduto le ragioni di ciascuno, e se inganno v’era, riferissono al senato. Riferirono, le dette franchige esser vere, e di più quella dell’Esculapio di Pergamo; le origini dell’altre per l’antichità non vedersi, perchè que’ di Smirna dicevano aver sagrato il tempio di Venere di Stratonice, e i Tenj il tempio e l’immagine a Nettuno, comandati dall’oracolo e versi di Apolline. Cose più moderne allegavano ì Sardiani, che Alessandro vittorioso e i Milesj, che il re Dario ciò donar loro ne’ tempi di Diana e d’Apolline, che essi adorano. I Candiani anco franchigia chiedevano all’immagine d’Augusto. Fatti ne furono i privilegi35 a grande onore; portossi però regola e comandato in essi tempi affiggerne in bronzi sagrata memoria36, acciò la religione non trascorresse in ambizione.

LXIV. In questo tempo a Giulia Augusta venne male repentino, che sforzò il principe a correre a Roma; essendo per ancora tra madre e figliuolo concordia o coperto l’odio, della da lei dianzi posta immagine al divino Augusto vicino al teatro di Marcello37, col nome di Tiberio dietro al suo; la quale benché non dimostrata offesa, per grave e indegna della maestà del principe, si credette ch’ei riponesse nel profondo dell’animo. Il senato adunque ordinò le processioni e i giuochi magni da celubrarsi da’ pontefici, dagli aguri, da’ quindici, da’ sette, e dalli augustali insieme. L. Apronio aggiungeva: „E dalli araldi.„ Ma Cesare disse contro; Esserci più sacerdozi, nè mai datosi ad araldi tal maestà. Il collegio d’Augusto starvi bene, come proprio di questa casa, per cui si pregava.

LXV. Riferisco soli i pareri di notabile laude o vergogna; stimando uficio principale d’annalista non tacere le virtù, e da’ rei fatti e detti, per l’infamia perpetua, ritirar gli uomini. Que’ tempi furono sì fetidi d’adulazione, che non pure i grandi, forzati andare a’ versi, per sostenersi, ma tutti i consolari, parte dei pretorj, e molti senatori di piede38, si rizzavan su, e facevano a chi più alte cose e sozze scagliare. Trovo scritto che Tiberio nell’uscire di senato, usava dire in greco: O gente nata a servire! stomacando sì abietta servitù colui che non voleva la pubblica libertà.

LXVI. Passavano poi dallo ‘ndegno al maligno. Onde essendo C. Silano viceconsolo in Asia, chiamato da qne’ collegati a sindacato, Mamerco Scauro consolare, Giunio Otone pretore, Brutidio Nero edile, di bella compagnia, Io querelarono d’offesa deità d’Augusto, e spregiata maestà di Tiberio. Mamerco infilzava esempi, che Scipione Affricano aveva accusato L. Cotta; e Catone il Censore Sergio Galba, e Marco Scauro bisavol suo P. Rutilio; come se tal sorte di deità e maestà difendessero Scipio e Cato39, e quello Scauro, cui questo Mamerco, obbrobrio de’ suoi, svergognava con tale operaggio. Otone insegnava gramatica: pinto per forza di Seiano nell’ordine de’ senatori, sua vile bassezza d’ardite sfacciatezze fregiava. Brutidio, di molta scienza ornato, poteva per la diritta salire in cielo; ma ebbe troppa fretta di passare innanzi agli eguali, ai superiori, e a sè medesimo. Errore di molti savi che per non aspettare il dolce fico con la gocciola, lo schiantano col lattificcio40. LXVII. Accusarono Silano ancora, Gellio Publicola, questor suo, e Marco Paconio Legato. Crudele e rapace fu egli; ma gli eran contro più cose, ricolose ad ogni innocente: nimicato da tanti senatori, accusato da’ maggiori oratori di tutta l'Asia, solo a rispondere; senza rettorica, in causa propria, da fare smarrire ogni facondia. E Tiberio lo conficcava con ma’ visi, boci strane, domande spesse, da non potersene schermir, nè difendere; anzi spesso bisognava confessarle, acciò non avesse mal domandato. E per potergli contro collare i servi suoi, il fattor pubblico gli comperò. E perchè parente niuno l’aiutassero, gli fecero casi di stato, che non se ne può favellare. Silano adunque chiedeo tempo pochi dì; poi lasciò la difesa, e ardì scrivere a Tiberio, pugnendolo, e raccomandandosi insieme.

LXVIII. Egli per mostrare con esempi, che a Silano voleva fare il dovere, fece leggere un processo d’Augusto, con la sentenza del senato, contr’a Uoleso Messala, pur d’Asia viceconsolo. Poi voltosi a L. Pisone, disse: » Di’ su.» Esso fatto lungo preambolo della gran clemenza di Cesare disse: »Confinerei Silano, privato d’acqua e fuoco, nella Giara.» Così gli altri; salvo, che Gneo Lentulo avvertì, che per essere Silano nato d’altra madre, i beni materni si scorporassero pe ’l figliuolo. Il che a Tiberio piacque. Cornelio Dolabella, con più

lunga adulazione, detto molto male di Silano, inferì: »Che niuno infame e mal vissuto governasse provincia, e tocchi al principe il dichiararlo; perché le leggi puniscono i peccati fatti: or quanto minor male per quelli, e bene per le province, provvedere al non farne? »

LXIX. Tiberio disse contro: «Che sapeva quel che diceva il popolo di Silano; ma non si doveva far legge alle grida. Chi è riuscito nel governare meglio, chi peggio di quel ch’era creduto; nelle gran faccende, chi si risveglia, chi stupidisce; il principe non può saper tutto, nè dee lasciarsi menare a voglia d’alcuno. Le leggi gastigano i peccati fatti, non i futuri, che non si sanno. Così ordinaro i nostri antichi, che dietro ai peccati seguisser le pene; non fate il contrario delle cose saviamente trovate, e sempre piaciute. I principi hanno pur troppo carico e potere; che quando cresce, le leggi scemano. E non è bene usar l’imperio dove si può far con le leggi.» Quanto più rade soddisfazioni dava Tiberio al popolo, tanto più l’allegrò con questo parlare. E soggiunse lo discreto moderatore, ove ira noi vincea: che Giara era isola disabitata e aspra; mandasserlo per amor della famiglia Giunia, e dell’esser pur senatore, nella Citera, come Torquata sua sorella, vergine di antica santità, domandava. Così fu approvato.

LXX. Udironsi poi li Cirenesi; e Cesio Cordo, orante Ancario Prisco, fu condannato di iniquo reggimento. A Lucio Ennio fu fatto caso di stato l’aversi fatto vasellamento d’una statua d’ariento del principe: non volle ne fosse reo: ” Maisì. «(disse Ateio Capitone, quasi per libertà d’animo) i Padri hanno a poter deliberare; sì gran maleficio non si può perdonare; sia dolce quanto vuole per sè: delle ingiurie della repubblica non sì largo.» Intese Tiberio l’adulazione, e seguitò non volere: e Capitone per essere in ragion civile e divina gran savio, tanto più scorno ebbe della sporcata degnità pubblica, e privata eccellenza.

LXXI. Nacque scrupolo in qual tempio doversi appendere il boto per la sanità d’Augusta da’ cavalieri romani fatto alla Fortuna Equestre, perchè niuno de’ molti ’ in Roma di quella Iddea aveva tal titolo: trovossene uno in Anzio, e quivi s’appese; perchè tutte le immagini, tempj e santità, che nelle terre d’Italia sono41, sono dell’imperio di Roma. Trattandosi di religioni, Cesare diede la sentenza, dianzi differita, contro a Servio Malugiuese, flamine di Giove, conforme allo statuto de’ pontefici, fatto sotto Augusto, che si lesse, cioè:» Ammalando il flamine di Giove42 possa star fuori più di due notti43, quanto parrà al pontefice massimo; ma non in giorni di pubblico sacrificio, nè più di due volte l’anno.» Che mostrò chiaro, l’assenza d’un anno, e l’andare in province, a flamine non si concedere; e s’allegò Lucio Metello potefice massimo, che ritenne Aulo Postumio. Così fu data l’Asia al più anziano consolare dopo il Malugincse.

LXXII. In que’ giorni Lepido domandò al senato di potere a sue spese racconciare e ornare la Basilica di Paolo, memoria di casa Emilia; usandosi per ancora la magnificenza pubblica ne’ privati; nè Augusto vietò a Tauro, Filippo e Balbo, lo spender le spoglie dei nimici e le soverchie ricchezze in ornamenti della città e memorie gloriose; col qual esempio Lepido, benché scarso di moneta, ravvivò lo splendore de’ suoi maggiori. E Tiberio prese a rifare il teatro44 di Pompeo, per caso arso; non essendo in quella famiglia chi avesse il modo, mantenendogli il nome di Pompeo; e celebrò Seiano45, che per sua fatica e diligenza, cotanto fuoco non fece danno maggiore. Laonde i Padri posero in esso la statua di Seiano. E in onore di Seiano, nato d'una sorella di Bleso, disse Cesare, che alzava alle trionfali esso Bleso viceconsolo in Affrica. LXXIII. Ma egli le si era meritate nelle cose di Tacfarinata. Il quale, benché più volte rotto; rifatto con aiuti dal centro dell’Àffrica, prosunse chiedere per ambasciadori a Tiberio paese per sè e suo esercito, o gli farebbe guerra immortale. Dicono che Tiberio non si scandalezzò 46 unque d’ingiuria fatta a lui o al popolo romano, quanto che questo truffatore e assassino procedesse da nimico: »Non volemmo a patti Spartaco, che, datoci tante grosse sconfitte, correva per sua, e abbruciava l’Italia, quando nelle gran guerre di Sertorio e di Mitridate affogavamo; e ora in tanto fiore, comporremo, se tu lo credi, con pace e terreni, un ladroncello? «Ordina a Bleso che induca gli altri, col perdonare a posar l’armi, e vegga d’aver vivo o morto Tacfarinata.

LXXIV. Molti se n’acquistaron per questa via; e guerreggiossi seco con le sue arti; perchè essendo egli di esercito inferiore, ma più destro a rubare, scorrere in masnade, dar gangheri e porre agguati, tre schiere si fecero per tre bande. Andarono, con una Cornelio Scipione Legato, a impedirgli le prede nei Leptini, e la ritirata ne’ Garamanti; con la sua propria Bleso il giovane a difender dall’altra banda i villaggi di Cirta; nel mezzo esso Bleso co’ migliori, ponendo forti e guardie ove era uopo, dava in ogni cosa storpi e danni al nimico, che si trovava, dovunque si volgesse. Romani a fronte, a lato, a tergo. Così essendone molti morti e presi, ridivise le tre schiere in più masnade, sotto centurioni di prova; e finita la state, non le ritirò alle stanze solite per la provincia; ma come in principio di guerra, provveduti i luoghi forti, con cavalleggieri e pratichi in quei deserti dava la caccia a Tacfarinata, che or qua, or là s’attendeva. Finalmente ebbe prigione il fratello, e tornossene, prima che a’ nostri confederati non bisognava, lasciandovi chi rifar guerra. Ma Tiberio tenendola per finita, anche volle che le legioni gridassero Bleso imperadore; onore antico, che l’esercito faceva al generale comandatole per qualche fatto egregio nell’impeto dell’allegrezza: e più imperadori in un tempo, erano privati, come gli altri. Augusto concedette questo titolo a pochi; e allora Tiberio a Bleso per l’ultimo47.

LXXV. In quell'anno morirono due grandi: Asinio Salonino, nipote M. Agrippa e d’Asinio Pollione, fratello di Druso, destinato marito d’una nipote di Cesare: e Ateio Capitone, lo primo giurista di Roma, come dissi; Sullano avol suo fu centurione, il padre, pretore. Augusto il fece tosto consolo, per farlo per tal dignità sovrastare a Labeone Antistio non meno eccellente; avendo prodotto quella età questi due lumi della pace. Ma Labeone fu schietto e libero48, e perciò più celebrato: Capitone, cortigiano, e piaceva più a’ padroni. Quegli, che non passò la pretura, fu, per lo torto ricevuto, dappiù stimato; questi che fu consolo, per invidia odiato.

LXXVII. Quest’anno, sessantaquattresimo dopo la Rotta Filippica, mori anche Giunia, nata d’una sorella di Catone, moglie di C. Cassio, e sorella di Bruto. Il suo testamento diè molto da dire; avendo onorato di sua gran facultade quasi tutti i principali, e lasciato Cesare; il quale la prese civilmente: e lasciò lodarla in ringhiera, e le sue essequie d’ogni solennità onorare. Eranvi portate le immagini di venti famiglie chiarissime, Manlj, Quinzj, e sì fatti nomi sublimi; ma quelle di Bruto e di Cassio, più di tutte vi lampeggiavano col non v’essere.


Fine del libro terzo

  1. Non di Giulj, perchè questo Druso, fratello di Tiberio, non entrò mai in casa Giulia, nè gli convenivano l’immagini Giulie, ma le Claudie e Livie del padre e della madre.
  2. Ancor oggi nel regno di Napoli si dicon fare il tribolo certe donnicciuole, che sopra ’l corpo del morto prezzolate piangono, stridono, si graffiano il viso, stracciano i capelli, contano le sue virtù, e la perdite che fatta di lui ha quella casa amara. Questo forse vuol dire, doloris imitamenta.
  3. Ciò sono quelle lagrime e triboli e altro. Gentilissimamente il Picchena, segretario, studiosissimo di questo autore, corregge cosi: Non enim eadem decora principibus viris, et imperatori populo, quae modicis domibus aut civitatibus. Solamente dittonga e relativizza la copula que, la quale il Lipsio leva: e leva i bei contrari, principibus viris, e modicis domibus: imperatori populo, e civitatibus. E vuole che Tiberio, principibus viris, intenda di sé, che quelle indegnità non faceva, anzi le riprendeva. Nel testo de’ Medici s’è visto poi scritto, quae.
  4. Per la guerra di Tacfarinata, ove ne stava una sola per l’ordinario; richiamata poi nominata la nona.
  5. Meglio è leggere come il testo de’ Medici, Satin’ cohiberet ac promeret sensus suos Tiberius; his haud alias intentior; populus, plus sibi, etc. E dice: „Se Tiberio sapeva nascondere quello che fatto avea; che mai non vi durò più fatica; nè più il popolo del principe bisbigliò; o, tacendo, ne sospicò; „ cioè d’aver commesso a Pisone che avvelenasse Germanico. Quel promeret, era contrario, superchio, cosa non da Tacito, e senza grazia.
  6. Di stupenda prudenza, da notare sommamente.
  7. Leggevasi, novi principis, male; fu racconcio, non principis, non male; ora veggo, non vi principis benissimo, e correggomi, Non da principe con la forza.
  8. Cum super eum Piso discumberet: Come può essere essendo inferiore? erano tre, e Germanico in mezzo, dice il Lipsio. Non prova, non mi quieta.
  9. Senza le parole, Scripsissent expostulantes, torna benissimo il sentimento. Io le ho lasciate; o elle vi sono frammesse per errore, o altre parole vi mancano che con quelle faceano sentimento. Il Merceri legge submisse expostulantes. Il sentimento torna bene, ma il mutamento è ardito.
  10. (Dargli cento venticinque (*) mila fiorini d’oro, e mandarlo via). Di colpa sì grave, da prìncipe sì crudo fu scusato, e datogli da vivere da Romano: tanto rispettata, era la nobiltà.
    (*) Mila non è nel Testo: e qui mancava d’oro.
  11. Augusto le divolgò, e n’ebbe biasimo. Domiziano, Aminta, Filippo e altri con loda le tennero in seno. Lorenzo dei Medici a uno che voleva dar nel sangue, ricordò che gli agiamenti a Firenze si votano di notte.
  12. Vi s’intende, animo; così dicevano gli antichi gentilmente; noi diciamo apposta, impruova, sgraziatamente.
  13. Costui per troppo conficcar Pisone e Plancina, come poco disopra ò detto, gli mise in compassione e liberò.
  14. All’entrare in Roma forniva il grado, e senza grado non si trionfava.
  15. Non si cerca la ventura de’ principi per ben nessuno.
  16. Più larga. Vedi la postilla del sesto libro, §. III.
  17. Pronunziasi l’una e l’altra s come esito, uso, esilio, esalo; E significa Esoso proprissimamante un cittadino mal visto, e in disgrazia dello stato che regge, che non ha cagioni di punirlo; ma non lo può vedere, e non gli dà onori.
  18. Incitandis caelibum poenis. È un tacitismo, secondo il quale si può dire, Per accrescere agli smogliati le pene. E forse ci ha scorrezione. Morirono nella guerra civile ottantamila da portar arme. Giulio Cesare fece forti leggi perchè la gente si maritasse. Augusto tutte le ridusse a una, e la fece dire, non sua, ma Papia Poppea, da’ nomi de’ consoli di quell’anno 762, per li molti lacci e oncini aggiuntivi alle facoltà de’ privati; tali, che Severo imperadore, e li seguenti giureconsulti, tutte queste, e simili inique leggi Papie annullarono.
  19. Questa era l’intenzion principale e l’anima della legge. Andavano dottoretti storcileggi, messi al terzo o alla metà del guadagno, a cercar le case e levar le scritture, per trovare chi godesse lasci o redità contro alla legge, la quale storcendo per modi iniquissimi, erano con loro sicarie armi legali delli stati d’ognuno ammazzatori.
  20. Contano gli scrittori del Mondo Nuovo come nella costa, a mezzo dì dell’isola spagnuola, viveano gli uomini in questo vero secolo d’oro. Non v’era mio nè tuo; cagione di tutti i mali: non fossi, non mura o siepe gli divideva; la terra era comune con l’acqua e il sole; e ogni cosa (di sì poco eran contenti) loro avanzava; e amando il giusto per natura, e gl’ingiuriosi, come i Canibali odiando, nè leggi nè giudici conosceano, nè signorie. Quinci si può argumentare, vedendo i paesi rozzi e salvatichi, per la venuta de’ forestieri perdere la loro beata semplicitade, e acquistare lumi e splendore di nuove arti, scienze e costumi, ma con essi misera servitù, guerre, disolazioni: e ritornare la primaia salvatichezza dopo lungo giro di secoli; che se il mondo durasse tanto, tutta la terra participerebbe egualmente di tutte le umane oscurìtà, e di tutti gli splendori a vicenda, come delle tenebre e della luce del sole.
  21. In camera dell’infermo, quando peggiora, gli alberelli e l’ampolle moltiplicano, e l’appuzzano, e lui aggravano e finiscono.
  22. Tale era Zanobi Bartolini, potente e savio nostro cittadino, e molto grasso, il quale dando a un beccaio udienza con gli occhi chiusi, Dormite voi? rispose, Sì, e sognava di farti mozzar gli orecchi: dì su.
  23. Nel quarto dice che pur la mantenne M. Lepido, e discorre, tra il fato e la prudenza, quale ha più potere.
  24. Leggo, come il Lipsio, editionibus, idest ludorum.
  25. Rema dicevano i nostri antichi con greco vocabolo la scesa che cade del celabro. Vedi il Maestro Aldobrandino. A noi è rimasa la voce derivata; e diciamo rematiche le cose malagevoli e fastidiose, che per fisso pensare smuovon rema e catarro della testa affaticata. Non viene da’ aromati, che sono utili e non dispiacevoli.
  26. Armi poco meno ridicole usava la milizia sforzesca, braccesca, e di Niccolò Piccinino, nella cui rotta d’Anghiari morì uno nella calca. Nel primo delle Storie simile armadura dice usare i Sarmati.
  27. Tutto questo sdegnoso parlare di popolo irato, è, secondo Aristotile, nel terzo della Rettorica. Troppo fiorentino pareva a qualcuno. Io non l’ho saputo moderare; ma ci ho aggiunto la cagione di quel che il testo dice miseram pacem vel bello bene mutari. Forse quinci tratta da Seneca nelle Controversie: An non praestat cervicem semel incidi. quam semper premi? Quis tam timidus est ut malit semper pendere, quam semel cadere?
  28. Avrei detto, scaraventatevi, ma, cappita! il Muzio ci grida.
  29. Neente dicevano gli antichi più accosto al ne ens latino, e in qualche acconcio luogo non è da schifare.
  30. Qual fosse, vedi la Postilla del 2 libro, §. XXXII.
  31. Scelse il tempo di sì gran cosa chiedere ai Padri quando gli aveva addolciti col non fare questa legge suntuaria; perchè ogni legge è un podere del principe, e pasciona delle spie.
  32. Davasi allo eletto imperadore. L’eleggere innanzi il successore, e dargli il governo, è prudentissimo consiglio. L’uno s’assicura e sgrava; l’altro impara, governa con rispetto, succede senza alteramento.
  33. La decise poi contro al Maluginese, che il flamine risedesse.
  34. Il Bembo nel Culice, con l’autorità di questo luogo, corregge quel verso di Catullo, Quae sanctum Idalium, Aeriosque apertos, cioè quei di Pafo in Cipri in su’l mare aprico, detti da questo Aeria fondatore. Leggevasi Uriosque, che non si sa che tali popoli al mondo fossono, non che Venere adorassono. Dell’origine di questo tempio narra Tacito nel secondo delle Storie la corrente fama e l’antica.
  35. Non ci maravigliamo che gli storici di tutti i tempi scrivano delle cose contrarie. Suetonio, di Cornelio amicissimo, dice delle qualità del corpo di Tiberio cose direttamente contrarie a quelle che dice Tacito. E nel cap. 37 dice che Tiberio levò via per tutto il mondo queste franchige, dette Asili. Trovaronle prima i nipoti d’Ercole, i quali per difendersi da’ nemici dell’avolo, consagrarono altare alla Misericordia in Atena; ove ninno potesse esser preso, come suona la voce greca ασυλος. Ogni ribaldo poscia si salvava in qualche Asilo. Onde troppo crebbero di numero: e con tanta religione erano riguardati, che alcuni fuggitisi alla statua di Minerva, ardirono con un filo in mano appiccato a quella comparire in giudizio a difendersi. Ma il filo per isciagura si ruppe.
  36. Il testo de’ Medici dice, fiere aera. Il Beroaldo, che prima lo stampò, racconciò facere aras. Con altra accortezza, il segretario Picchena con una lettera sola tramessa, legge figere aera; essendo antico costume scrivere memorie e leggi in tavole di bronzo affisse in luoghi pubblici, come dice Tacito nostro nell’undecimo. Et formae literis latinis, quae veterrimis Graecorum; sed nobis quoque paucae primum fuere; deinde additae sunt. Quo exemplo Claudius tres litteras adiecit, quae usui imperitante eo; post oblitteratae aspiciuntur etiam nunc in aere publicandis plebiscitis per fora ac tempia fixo. Correggo dunque il mio volgare così: „Fatti ne furono i privilegi a grande onore; postovi però regola, e comandato in essi tempj affiggerne in bronzi sagrata memoria, acciò la religione non trascorresse in ambizione.„ Una delle tre lettere di Claudio si vede in questo marmo in Roma; TI. CLAVDIUS DRVSI. F. CAESAR AVG. GERMANICVS PONT. MAX. TRIB. POT. VIIII. IMPERATOR. XVI. COS. IIII. CENSOR. P. P. AVCTIS POPULI ROMANI FINIBUS. POMERIVM AMPLIAVIT TERMINA ITQ. E in quest’altro: ANTONIAI. AVGVSTAI. DRUSI. SACERDOTI. DIVI. AVGVSTI. TI. CLAVDII. CAESARIS AVG. F. F. Quando e dove le lettere si trovassero, vedi Tacito nel soprallegato luogo.
  37. Intendo io aver Livia dedicato ad Augusto la immagine di lui presso al teatro di Marcello, e non la immagine di Marcello ad Augusto, perchè alli Iddii si consagravano le immagini loro (al divino Augusto in Bovile) e non le altrui, come dice il Lipsio, con l’autorità sola d’un marmo, non so se bastevole.
  38. Di minor qualità; dal consolo non richiesti di parlare. Così detti (dice Agellio) non dal rizzarsi e accostarsi a chi gli paresse aver meglio parlato, perchè si rizzavano anche tutti, e andavano in altra parte quando si deliberava per discussione, quasi come quando i pontefici si creano per adorazione; ma perchè andavano in senato a piedi, e non in carro, come i seduti di magistrati maggiori, e per ciò detti Curuli. Non poteva più anticamente, dice Cornelio nel 12, andare in Campidoglio in carretta, se non i sacerdoti e le cose sante. Agrippina, madre di Nerone, per gran superbia v’andò. Le donne nostre oggi son più che Agrippine e senatoresse, non mica pedarie, ma curuli e trionfanti della scacciata modestia e cura della famiglia, che già teneano le venerande antiche, celebrate da Dante nel quindicesimo del Paradiso; che dopo l’averle dipinte con maravigliosa evidenza, esclama: O fortunate, ec.
  39. Della libertà della patria, e non della deità e maestà tirannesca erano difenditori ferocissimi.
  40. (2) Poiché Dante dice:

    „... tra li lazzi sorbi
    Si disconvien fruttare il dolce fico„

    e altrove:

    E l'un’e l'altra parte avranno fame
    ,, Di te; ma lungi fia dal becco l’erba „

    e altri altrove di questi detti popolari. Io non mi posso astenere dalla sua imitazione in questa materia, grave sì, ma non sacra come la sua: la cui autorità ogni bassezza ha innalzata.

  41. Dovrebbesi nel plurale dir sonno a differenza del singolare; ma l’uso fugge l’equivoco di somnus, e più tosto vuole quello di sum. E non vuole accettare il buon rimedio del Trissino a queste difficoltà dell’o piccolo e dell’o grande.
  42. Voleva il popol romano che alla guerra d’Aristonico andasse L. Valerio Fiacco consolo, e flamine ancora di Marte; M. Licinio Crasso l’altro consolo, e ancora pontefice, nol permise. Cic. Filippica seconda. Similmente Metello pontefice non lasciò ire in Affrica Postumio consolo e flamine. Val. Mass., l. i, cap. 2. Cedette il sommo imperio de’ consoli ai pontefici, che volevano anche allora la risedenza. Cosi Tiberio pronunziò contro al Maluginese.
  43. Il testo de’ Medici, che si può dire originale, non ha quel dum ne, che dava nelli stampati fastidio. E veramente i malati dovevano per due notti potere star fuori senza licenza.
  44. Vespasiano fu meno liberale, quando ristaurò con quel d’altri la città disfatta per le passate arsioni e rovine. Donò i casolari a chi volesse murarvi, mancandone i padroni; ai quali volle anzi fare ingiustizia, che potersi domandare in Roma, Dov’è Roma?
  45. Per lo contrario accusati furono e dannati M. Milizio, Gneo Lolio, e L. Sestilio, i tre uffiziali di notte, perchè non corsero a tempo con gli stromenti a spegnere il fuoco in Via Sacra. Valerio Mass., l. 8, cap. i.
  46. Questo scandalezzamento di Tiberio par detto con più energia qui che nel latino.
  47. Dottamente considera il Lipsio, e punta così Blaeso postrenum Obiere eo anno; e che dopo Bleso niuno più conseguisse titolo d’imperadore d’eserciti; forse non piaciuto alli seguenti imperadori di Roma.
  48. Non voleva che Augusto nè Tiberio si pigliassero più autorità di quella che gli davano le parole della legge Regia, fatta quando Augusto si prese il tutto; e spesse volle n’ebbe con loro di gran quistioni onde era tenuto pazzo, come mostra Orazio: Labeone insanior inter sanos dicatur.


Note

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