< Antonio Rosmini
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Capitolo II
I III


Una singolare consonanza della vita del Rosmini con quella di Dante, e che aiuta ad intendere come il Manzoni sentisse sotto a quel suolo di scienza gorgogliare le acque vive della poesia cioè dell’affetto, si è che il Rosmini provò, come l’Allighieri, dell’età circa di nov’anni l’amore, il che gli è giovato a indovinare senza pericoli e senza dolori certi segreti dell’anima che non si colgono per mera osservazione priva d’ogni esperienza, giacchè l’osservazione stessa per condurre ad un termine deve da qualche esperienza essere illuminata. E così gli anni suoi giovanili, non che gli anni maturi, gli furono sgombri da quelle nuvole di passione che, gaiamente colorate qua e là, nondimeno tolgono della piena distesa serenità della mente. Egli prese per tempo non solamente ad amare il verso di Dante, ma a penetrare nelle dottrine di lui, delle quali tanti suoi lodatori d’allora vissero e morirono digiuni, declamando intorno a quel poema e inzeppandone i modi in rima e in prosa senza intenderne il vero significato. Lo intendeva il Rosmini giovinetto, perchè già erudito nel linguaggio delle antiche scuole e de’ Padri; e non solo i filosofi e religiosi concetti ne comprendeva, ma i civili altresì; e scrisse allora ragionamenti ne’ quali comentare il poema col libro della Monarchia e con gli altri di Dante; cosa per quel tempo nuova. Ammirava egli il verso di Dante; e a me, assorto ne’ grandi Latini, ne raccomandava lo studio, non già con aridi o superbi o importuni consigli, da’ quali e nelle lettere e nella vita per modestia e per senno s’asteneva; ma leggendomene qualche tratto con voce che gli usciva dal petto profondo, quella voce contemperata di forza e di soavità, la quale egli conservò, come l’anima giovane e vergine, per infino a’ giorni dell’estrema agonia. E quand’egli, già rifinito di vita e già col pensiero al di là della terra stendendo al mio collo le braccia, e interrogandomi della salute mia più sollecito di me che di se stesso, profferiva parole d’affetto semplici e non dimenticabili mai; nella voce del morente io sentivo la voce che trentasette anni fa mi diceva:

Tu lascerai ogni cosa diletta
Più caramente; e questo è quello strale
Che l’arco dell’esilio pria saetta.

Nè a quel vaticinio pensavo io quando nel 1835 lo rifacevo a me stesso ne’ versi scritti da me in valle d’Arno:

Fia mercè d’un pio consiglio,
D’un gentil ardir fia pena
La franchigia dell’esilio
O l’onor della catena.
Forse un giorno andrai mendico
Senza ingegno e senza amico
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il Petrarca egli amava; e me ne leggeva non sole le rime di ravvedimento, e quella parte del Trionfo d’Amore ch’è dei Trionfi una delle più felici e ne descrive le ambascie e gl’inganni, ma delle rime d’amore stesse, sciegliendone le più pure, tra le pure, e tra le artifiziate le più schiette e più delicate. E, andato in Arquà come a pellegrinaggio non d’accademico o di viaggiatore, ci scrisse un sonetto il cui verso ultimo che dice: S’io fossi vissuto vivente te:

Vien, detto avresti, ch’io ti stringa al seno;

ritraeva la famigliarità che collega insieme le anime gentili divise da’ mari e da’ secoli; e prenunziava la famigliarità che doveva poi stringerlo al Poeta che con più puro e ispirato cantico dell’amatore di Laura cantò Maria. E mi ricordo un giorno quando in Milano, ridicendo io i versi sì nuovi d’alta semplicità

La mira Madre in poveri
Panni il figliuol compose,
E nell’umil presepio
Soavemente il pose,
E l’adorò, beata;

il Rosmini preso da subito commovimento, per celarlo come le anime forti fanno degli affetti modesti, mi si tolse d’innanzi e uscì in altra stanza. E tali impeti di esultazione sacra nel Bello e nel Vero, gli erano non infrequenti; e anco nel cospetto de’ suoi più cari se ne conteneva. Più volte messosi a leggere in quell’età e meditare il Vangelo di Giovanni, l’Apostolo della carità, del quale cominciò più tardi il commento rimasto incompiuto, più volte dovette smettere dalla troppa commozione dell’anima. Non è maraviglia se, conscio degli estri del cuore, e’ sapesse indovinarli in altrui, e paresse naturale a lui quel che ad altri pareva strano, e nella stranezza stessa discernere l’istinto del vero e del bello. Narravano le gazzette del ventuno le ore ultime di Napoleone in Sant’Elena, e que’ particolari ci leggeva un giovane buono al modo che avrebbe letta una lista di promozioni a gradi di Accademico o di Caporale. Io fremente di quella freddezza, dato un picchio sul tavolino esco senza far motto; il giovane buono si volge attonito al Rosmini. Egli sorride e lo lascia seguitare; egli che sapeva me non adoratore di Napoleone, e non l’adorava egli stesso; ma intendeva e la mia impazienza e anche la freddezza del giovane buono.

Fra i versi che scrisse è un’epistola a me, dov’egli, tanto incomparabilmente maggiore per tanti rispetti, si raccomandava quasi all’affezione mia non per altro che guadagnarmi all’affetto del bene:

Non somme cose. - Ma se aperto al Bello,
Se sensitivo all’opre di virtute,
Dell’amabil virtù, ti basta un cuore;
Credi, anco a me nel tenue petto il mise
Dio non mendace;

dove è meglio che imitato, ricompiuto di verità quel d’Orazio: Spiritum Graiæ tenuem Camœenæ Parca non mendax dedit; senza soggiungervi et malignum spernere vulgus; ricopiato e fatto ancor più pagano e incivile in quel di Labindo Disprezzar la vile turba maligna[1]:

 
Ancora in mente il serbo: io ti promisi
O dell’anima mia diletto e speme
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E ’l tempo è già. La Padovana state
Che quasi piombo mi premeva, ormai
Cangiata ho co’ più miti ilari giorni
Roveretani, e colla sciolta villa
La città che di cure avvinchia. Il core
Qui si rallarga, e me medesimo chiamo
Più volte al dì beato, o sia che l’ore
Del mattin rugiadoso insiem col rozzo
Agricoltore e col vivace augello,
Desto dal sonno lievemente, io fuori
Me n’esca al campo, e libero vagando
Pel largo verde, senza norma a questo
O a quell’oggetto di natura io volga,
A cui pensosa Maraviglia e puro
Piacer mi chiami: o già commosso e pieno
D’un sacro ardor, che in me la sparsa in tutta
L’ampia natura, Sapienza, infuse,
Soletto io torni, infervorando il Sole,
Pel più fresco sentiero . . . . . . . .
O sia che io sieda a dolce mensa, lieta
Non di pruriginosi estranei cibi,
Ma di congiunti che d’un cor son tutti
E di rari non compri amici illustri,
Onde al colloquio famigliar si mescano
Gravi parlari e saggi detti, e parco
Tutto condisca amabilmente il sale:
O finalmente allor ch’il Sole obliquo
La costa oriental sol mezza inaura,
Spente del piano ormai le accese tinte,
Anche allora il cor mio fine non trova
Di beato chiamarmi. Ecco mi cinge
Drappel di fidi amici, e insiem m’adducono
Per erma parte al vespertin passeggio.
Si ragiona e contende in sulle lette
Fra ’l dì varie dottrine.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Che non il vago della conscia luna
Lucente globo al sommo giunto in Cielo
Già, pria che sciolto il gruppo amico, ognuno
Alcun po’ lasso del piacer, non sazio
Delle dolcezze, in suo quieto albergo
Pur ricolga . . . . . . . . .
. . . La vita mia tranquilla scorre
Qual zeffiretto che sul fior trapassi:
Acre d’auro pensier non la intristisce,
Nè il sospetto . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nè ovunque serïosa l’accompagna
Con verga in man di disciplina. Or dunque
Chi vieta a’ moti, irregolari è vero,
Ma non men saggi, della mente, il varco
In proni carmi aprir, che scendon facili
Dall’animo sereno? E’ sembra, amico.
Sappi però che curïoso ingegno
A me scherzosa fe’ Natura. A tutto
Pronto e’ mi s’offre; e poi dov’io l’invito,
Vien meno, e volge meno ov’io lo sprono,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . Or poi che incauto a caso
Ti scoversi mia mente e a me detrassi,
Forz’è, che un po’, ma sol col ver, m’aggiunga.
Tu non darmi alla mente un cor simile:
La Natura, se toglie, anco compensa.
Non somme cose.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E quando la Canicola già bolle
Amo ombre e gelid’acque . . .
Del bruno agricoltor spossato e molle
Vera compassion mi tocca, cui
La messe aleggia e ’l colmo Autun vicino,
Mercè di cui nel verno avaro immemore
Al domestico foco ei favoleggia
Colla nutrita famigliuola allegra.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Se dura pelle il cuor mi vesta o viva
Carne il circondi, e dentro e fuori il tessa
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Se poi sostieni che di te guardingo,
Poco favelli, oh! dubbio il volto e mesti
Alquanto gli occhi, e taciturno il labbro
No non terresti ove mirarmi in fondo
Dato ti fosse e di contra quante ore
Dolci cancelli a me furtivo il senso
Dell’odiata lontananza. Or teco
Più nè rido nè scherzo, e non ragiono
Di Lei che agli occhi de’ mortai dischiude
Gli eterni semi delle cose e i primi
Inconcussi elementi; e te non miro
Immoto, o che tu m’esca in l’alta mente
Le idee divine, o sia che alcun de’ molti
Genìi latini ti discenda in petto.
Oh quanti il core uman, quanti mai sempre
Nel più ridente d’esta aerea vita
Nel contristan quaggiù vermi nascosti!
Ma allor che ’n Cielo io miro, ivi m’acqueto.
 
Poichè gli eventi de’ mortali ignari
Legge occulta d’amor tempra e corregge;
Non fu certo per sciocco o rio destino
Che dalla patria dalmatina spiaggia
Desti la proda verso Italia, e ’l vento
Affrettò ’l corso dell’antiche antenne.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qual forse si prepara al bel paese.
Serie per te di gravi opre Romane,
O dell’Italia ormai figlio diletto!
Quai giorni a me, quali ore! A te quai sorti,
O vate amico. Questi campi e queste
Docili selve e questi monti e ’l piano
Sanno il tuo nome ormai; e l’aere intorno
Mesto ti chiama, oh quante volte al Sole!
Quante alla Luna! E la tua musa invoca.
Pur tu non l’odi, o non l’ascolti? Ah piega
La rigidezza del tuo core alfine;
Vola fra noi. Suolo vedrai sassoso,
Ma a nutrir molli cuori avvezzo; angusto,
Ma larghe menti a contener capace.
 
Scritto parmi nel Ciel, che questo estremo
Lembo d’Italia, non dissimil forse
All’alpestre tua terra, ambo ci chiuda.
Certo scolpito in mezzo al petto il porto.

Note

  1. Questi versi, nel 1819 scritti e stampati nel venti, documento dell’ingegno e dell’animo, non mi s’imputi a vanità riferirli, giacchè le lodi qui date a me, non son che speranze, e le speranze consigli, i quali suonano rimprovero a chi non le ha sapute avverare.
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