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Aveva egli già, per scansare scandali, interrotta la stampa d’un discorso sullo scadimento degli studi ecclesiastici, scadimento confessato fin da papa Pio VIII. Non diede in luce una lunga e dotta risposta a chi riprese il suo libro delle Piaghe della Chiesa, ma domandò all’autorità dove stesse l’errore per poter ritrattarlo; e non avendo risposta altra che generica, si sottomise puramente e semplicemente. I timorati intanto, al timore di condanne, sbigottivano e s’astenevano dal leggere anco que’ libri del Rosmini che tutti debbono confessare essere di pro’ e onore alla Chiesa, e, non leggendo, condannavano più comodamente e con più sicurezza. Venne da ultimo il Dimittantur ad acquetarli; e il dimittantur dopo tanta guerra, dopo un severo esame d’uomini dotti e taluni mal disposti innanzi d’esaminare, è trionfo. Ma il Rosmini che intendeva di voler appartenere, egli e i suoi, alla Chiesa discente non alla insegnante, sottomettendosi acquistò tanto più merito quanto più meditate erano le sue parole e con grande amore educate, quanto più pure egli sentiva le proprie intenzioni, e passionate e deboli le obbiezioni mossegli. Doveva il Rosmini sottomettersi non solo per non si aggregare a que’ preti, che, scuotendo il giogo volontariamente impostosi, se lo trovano però sempre sul collo, se non colpevoli, infelici e impotenti e sospetti ad ambe le parti; doveva non solo perchè dalla sorte sua dipendeva la sorte di una società diletta al suo cuore, la quale altrimenti si sarebbe spersa e divisa in sè medesima, e data rea gioia ai falsi zelanti, e vile disperazione ai timidi d’ogni bene; doveva non solo per non contraddire alla professione altamente fatta d’intera docilità; ma doveva per dare un esempio di quella fortezza di mansuetudine ch’è più difficile di ogni forza di resistenza, e da ultimo più efficace; doveva per confermare co’ fatti la sua fede nel vero, e nel tempo che del vero è ministro. Illustrabit, mihi crede, tuam amplitudinem, hominum iniuria[1].