< Antonio Rosmini
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Capitolo XXX
XXIX XXXI


Non senz’alta ragione però diede il peso il Rosmini al gran tema della coscienza, giacchè tutti i dubbi e le discordie del pensare e dell’operare, richiamano a quant’ha di splendidamente misterioso il libero arbitrio e di tremendamente evidente. La legge morale, ch’è cosa sì semplice, nelle profondità vorticose del cuore e negli andirivieni sinuosissimi della vita diventa, come Giobbe dice, molteplice; e le contese su questo argomento agitate specialmente tra i moderni, se attestano, secondo che nota il Rosmini, il progresso della coscienza, comprovano insieme quanto sia difficile cosa il determinare Quel che la mente può, quel ch’ella debbe[1]. Il Rosmini applicando qui il suo principio del congenito intuito dell’essere, e misurando co’ gradi dell’essere i gradi del bene, discerne e concilia quel che nell’anima è d’umano e quel ch’è divino, addita alla nostra maraviglia cognati semina coeli. L’esame di coscienza che il Cristiano faceva sopra sè stesso (raccomandatoci del resto da Seneca e da Orazio epicureo, più stoico di Seneca in fatti), quell’esame, con la ricerca de’ propri difetti e inclinazioni a’ difetti gli è certamente giovato a sentire i pregi dell’umana natura, a misurare le pendenze dell’umana libertà e coglierne l’equilibrio. Il suo delicato sentimento d’artista, affinato dagli abiti dell’ascetico contemplatore, gli è certamente giovato a quell’analisi così sottile, congiunta a sintesi tanto robusta, come grand’albero il cui tronco abbracciabile appena da molte braccia d’uomini tese, s’insinua nell’intimo della terra con radici gracilissime, e s’innalza in vette gentili e tremola in foglie docili a ogni alito. Dalla delicatezza contemperata al vigore gli venne l’austerità de’ principi e la liberale mitezza delle applicazioni; di che gli aveva dato esempio pe’ suoi tempi mirabile il grande d’Aquino. Quel ch’egli insegna del superare gli scrupoli è non meno sapiente che pio. E cotesta malattia dello spirito, parte della quale egli appone talvolta a mala disposizione di corpo, aveva il Rosmini ancor giovane osservata in un Roveretano a lui caro, l’abate Lorenzi, elegante scrittore di prosa latina, il quale negli scrupoli, com’altri ne’ deliri e tutti ne’ sogni, ritraeva l’indole dell’anima sua. Perchè, uscito un giorno di casa Rosmini, rifece le scale e dopo ansioso pensiero ritornò ad avvertire la famiglia come qualmente entro alla zuccheriera ricoperta fosse rimasta presa una povera mosca.

Ma la lassezza de’ principi al Rosmini non piace; e dall’autorità conceduta ai dottori del probabile teologico egli riconosce per una parte la pusillanimità delle coscienze che tenute sull’aculeo del dubbio fannosi inette al franco e civile operare, riconosce dall’altra il fomite di quella ribellione che ne seguì a ogni autorità di ragione e di fede dopo il secolo diciassettesimo per la insofferenza di quell’indebito giogo di meramente umane opinioni. Io però non amo credere che da questa cagione venissero le liti mossegli da più avversari, a’ quali e’ rispose vivacemente, scusatone da Gregorio XVI teologo e frate con queste parole: Bisognerebbe non aver sangue nelle vene. Se non che quando il papa impose silenzio ai litiganti, il Rosmini obbedì.

Note

  1. Verso d’una elegia d’Anonimo Fiorentino in morte d’Antonio Rosmini.
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