< Avventure di Robinson Crusoe
Questo testo è stato riletto e controllato.
Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Curiosità di conoscere il destino del marinaio smarrito. Atroce fine di quest’uomo; incendio; orride stragi che ne derivarono
92 94

Curiosità di conoscere il destino del marinaio smarrito. Atroce fine di quest’uomo; incendio; orride stragi che ne derivarono.



M
a io non poteva aver pace, se non mi rischiava una seconda volta su la spiaggia, per cercare di procurarmi qualche contezza sul piloto rimaso nell’isola. Nella sera terza dopo la strage degl’isolani, questa curiosità crebbe fortissima in me. Voleva conoscere, a qualunque costo, il danno recato a quella popolazione, e come stessero le cose su la costa indiana. Risolutamente pertanto mi accinsi all’opera con alcuni de’ nostri nell’ora buia, per timore d’un secondo assalto de’ nativi. Ma doveva almeno provvedere che fossero obbligati a dipendere dal mio comando quelli che mi seguivano, prima d’avventurarmi ad un’impresa tanto pericolosa e divenuta in appresso, senza ch’io ne avessi l’intenzione, tanto malvagia.

Toltimi in compagnia venti de’ più gagliardi del bastimento, oltre allo scrivano, sbarcammo due ore prima della mezzanotte nel luogo stesso, ove gl’Indiani si erano nella precedente notte schierati in battaglia. Io avea scelto questo luogo di sbarco siccome il più acconcio ai disegni che principalmente mi condussero quivi e che ho già detti: sapere cioè se gl’Indiani avevano abbandonato il campo della battaglia, e lasciate dietro di sè vestigia del danno portato loro dalla nostra artiglieria. Pensai in oltre, che se ne fosse riuscito di impadronirci di due o tre di costoro, avremmo forse potuto riavere in via di cambio il nostro piloto.

Scesi a terra senza strepito, ci dividemmo in due squadre, l’una delle quali era comandata dal nostro guardastiva, l’altra da me. Non avendo udito nè veduto muoversi a quell’ora nessuna creatura umana dell’isola, ci avviammo a dirittura in due corpi, ad una certa distanza l’uno dall’altro, verso il luogo della prima ostilità; ma essendo assai oscura la notte nulla vedemmo, sinchè il guardastiva, condottiero della seconda squadra, non intoppò cadendo sopra un cadavere.

Ciò indusse la squadra stessa ad una fermata; perchè, argomentando da tal circostanza che si trovava sul luogo cercato, il guardastiva stimò opportuno l’aspettare che la mia squadra si unisse alla sua, come accadde. Giudicammo espediente l’indugiare ivi sino all’alzarsi della luna che, secondo i nostri conti, non poteva tardare nemmeno di un’ora, per potere più facilmente discernere la strage fatta dalle nostre armi. Contammo fino a trenta cadaveri, due soli de’ quali non l’erano del tutto; perchè durava in essi qualche estremo segno di vita. Chi aveva un braccio, chi una gamba, chi la testa da un’altra parte; i feriti non morti gli avevano, a quanto supponemmo, trasportati seco i loro compagni.

Allorché sembrommi che tutte le possibili nostre indagini fossero esaurite, io mi disponeva per tornare a bordo, quando il guardastiva e quelli della sua squadra mi fecero conoscere la loro determinata intenzione di andare a far una visita alla città degl’Indiani ove s’immaginavano che dimorassero que’ cani, così li chiamavano, ed ove trovandoli aveano ferma speranza di un buon bottino. Mi sollecitavano ad essere di brigata con loro, aggiungendo la probabilità di rinvenire quivi Tommaso Jeffrey, chè tale era il nome del marinaio smarrito.

Se m’avessero chiesto licenza di andare per una spedizione così fatta, so bene che cosa avrei risposto; perchè avrei ordinato a costoro di tornar subito a bordo, vedendo troppo che non era questo un rischio da affrontarsi per noi: per noi mallevadori d’un vascello mercantile e del suo carico e della riuscita d’un viaggio, fondata in gran parte su le vite de’ nostri marinai. Ma poichè m’aveano spiegato un risoluto volere, e mi chiedevano unicamente in lor compagnia, questa si fu la sola cosa cui potei asseverantemente ricusar di prestarmi; onde, levatomi dalla zolla ove stava allora seduto, feci l’atto di tornarmene alla mia scialuppa. Uno o due di que’ mariuoli cominciarono ad importunarmi, ma vedutomi persistere nella mia negativa, un d’essi disse brontolando fra i denti:

— «In fine non siamo sotto al suo comando, e vogliamo andare. Vieni tu, Giacomo? (si volse allor risoluto ad uno de’ miei): io conosco uno che va, e sono io.

— Ancor io, rispose Giacomo.

— Anch’io,» disse un altro, poi un altro, e, per farla finita, mi piantarono tutti eccetto un solo, che persuasi io a non andare, e il mozzo che non era venuto a terra con noi.

Quest’uomo solo pertanto e lo scrivano tornarono addietro meco nella scialuppa, ove promisi agli altri di rimanere per prendermi cura di quelli che sopravviverebbero a sì matta spedizione; chè io certo non mancai di dipingerla ad essi tale.

— «M’aspetto, conclusi, che molti di voi vogliano correre la sorte di Tommaso Jeffrey.

— Eh! non abbiamo di queste paure noi, e, quant’è vero Iddio, torneremo indietro tutti sani e salvi,» e simili altri propositi spensierati da uomini appunto di mare.

Ebbi un bel pregarli e dir loro:

— «Figliuoli, pensate che le vostre vite in questo momento non sono vostre: sono, fino ad un certo segno, parte integrante del viaggio. Se pericolate voi altri, può pericolare anche il bastimento per mancanza del vostro aiuto, e dovreste renderne conto agli uomini e a Dio.»

Tanto sarebbe stato, se avessi parlato all’albero di maestra. S’erano incapricciati pazzamente di questa spedizione. Unicamente mi diedero buone parole, mi pregarono a non essere in collera con loro, mi promisero che senza fallo tra un’ora al più tardi sarebbero tornati addietro: al dir loro, la città degl’Indiani non era lontana un mezzo miglio, benchè vedessero poi in effetto, che dopo fatte due miglia non ci erano per anco arrivati.

In somma, fecero a lor modo. Conviene però rendere una giustizia a costoro, che, se bene questa spedizione loro fosse tale, che solo ad un vero matto potea saltar in mente d’intraprenderla, vi andarono con animo coraggioso e guerriero. Ben difesa la persona, ciascuno di essi aveva un archibugio con baionetta in canna ed una pistola; alcuni in oltre portavano larghi, enormi coltelli, altri draghinasse; il guardastiva e due altri si erano anche provveduti di scuri. Aggiugnete che portavano seco tredici granate. Non mai in questo mondo diabolica impresa fu condotta a termine da più gagliardi campioni nè più armati di tutto punto.

Per dir vero su le prime il disegno de’ malandrini era meno orrido di quanto divenne poi in effetto: pensavano soltanto a far bottino, mossi da una potentissima speranza di trovare in quel paese molto oro; ma un caso che non s’aspettavano eglino stessi, mise il fuoco della vendetta ne’ loro petti; indi si trasformarono tutti in altrettanti demoni.

Capitati in alcune case d’Indiani da essi prese da prima per la città, che era un mezzo miglio più oltre, s’accorsero presto non esser queste case più di dodici o tredici, il che li mise in grande imbarazzo, perchè non sapevano, nè dove fosse la vera città, nè a quanto ne ammontassero le abitazioni. Consigliatisi quindi fra loro sul partito cui appigliarsi, rimasero per qualche tempo senza risolvere nulla; perchè, se piombavano addosso a quegl’Indiani addormentati, è certo che potevano farne un macello o impadronirsi di quasi tutti; ma nell’oscurità della notte, sol rischiarata da un debole chiaro di luna, v’era da scommettere dieci contr’uno, che qualcuno sarebbe fuggito lor dalle mani; e se un solo fuggiva, correva certamente a svegliare gli abitanti della città, e si avrebbero tirati addosso un intero esercito. Per altra parte, se andavano avanti lasciando dormire quei che dormivano, non sapeano da qual parte voltarsi per trovar la città; pur giudicarono questo il consiglio migliore, onde risolvettero di non molestare gli uomini immersi nel sonno, e di cercar la città alla ventura e come potevano.

Dopo fatto un po’ di cammino s’abbatterono in una vacca legata ad un albero, il che suggerì a costoro il pensiere di farsi di questa bestia una guida, ed ecco qual fu il loro ragionamento: «La vacca deve appartenere a qualche cittadino, o la città sia più innanzi, o ce l’abbiamo lasciata addietro. Se la sleghiamo, vedremo che strada prende. Se torna addietro, già la vacca non parla, e siamo nell’imbroglio come prima; ma se va avanti, la seguiremo.» Tagliarono adunque la corda che era fatta di giunchi intrecciati, ed ecco che la vacca andò avanti prendendo la via della città, ed essi a seguire la vacca.

Questa città, come poscia narrarono, consisteva a un dipresso in dugento case o capanne, entro alcune delle quali convivevano unite diverse famiglie. Ivi trovarono tutto nel silenzio, e in quella sicurezza che il sonno concilia a chi dorme. Qui, tenuto nuovamente consiglio, decisero che si dividerebbero in tre corpi; che ciascun uomo d’essi si piglierebbe l’assunto di appiccare il fuoco a tre case in tre punti della città; che appostate le persone che naturalmente farebbero di fuggire dalle case incendiate, s’impadronirebbero a mano a mano di essi, e li legherebbero; se resistevano, non c’è bisogno di domandare come gl’incendiari si sarebbero regolati, e questo bel servigio lo avrebbero reso, una dopo l’altra, a tutte le case per poi saccheggiarsele in santa pace. Ma prima di dar mano all’opera pensarono di girare le strade di quella città o borgo che fosse, per conoscerne la dimensione, e vedere se potea pronosticarsi un buon esito al disegno che aveano concepito.

Così fecero, e presero la disperata risoluzione di mandare ad effetto il nero loro divisamento. Mentre stavano a ciò animandosi scambievolmente, udirono chiamarsi forte da tre de’ loro compagni andati un po’ più avanti degli altri, i quali esclamavano: «È trovato Tommaso Jeffrey!» Corsero tutti in grande fretta sul luogo, ove videro la salma ignuda di quel povero sgraziato impiccato per un braccio ad un albero con le canne della gola tagliate.

Presso a quell’albero appunto stava una casa indiana abitata da sedici o diciassette caporioni della contrada, di quelli stessi che avevano avuta maggior parte nella recente battaglia, e due o tre feriti dalla mitraglia del bastimento. I nostri poterono accorgersene, come s’accorsero, che erano svegliati, e che parlavano tra loro; ma il preciso numero nol seppero distinguere.

La vista del trucidato compagno gli accese di tanto furore, che si giurarono l’uno all’altro di farne orrenda vendetta, e di non dar quartiere di sorta alcuna a quanti Indiani capitassero lor nelle mani. Poi vennero tosto ai fatti, nè sì inconsideratamente come dalla rabbia che invadea costoro poteva aspettarsi.

Il primo loro pensiere fu quello di procurarsi buone materie incendiarie; ma presto s’avvidero che non bisognava faticar molto, nè andar lontano per questa ricerca. Quelle case erano basse la maggior parte e coperte da tetti di stoppia e di giunchi abbondantissimi nel paese. Fabbricatisi in fretta non so quanti di quelli che gl’Inglesi chiamano wildfire (fuoco salvatico), panetti di polvere inumidita e impastata sul palmo della mano, incendiarono col soccorso di questi la città in quattro parti, e soprattutto l’indicata casa di caporioni indiani, che non s’erano coricati.

Appena il fuoco cominciò a spandersi manifestamente, quelle povere spaventate creature si davano a correre per salvare le loro vite; ma questo tentativo li rendea più presto convinti dell’inesorabile fatalità del loro destino, perchè alla porta trovavano uomini spietati che li respingevano entro le fiamme.

Il guardastiva nè ammazzò due o tre con la scure alla porta della casa principale, donde per altro cercarono uscire più tardi per essere quella più spaziosa; ma ecco in qual modo il barbaro guardastiva li costrinse a mostrarsi. Senza prendersi egli il fastidio di entrar nella casa, lanciò una granata tra que’ poveretti che alla prima gli atterrì solamente. Ma quando scoppiò, fece tale strage fra essi, che gridavano come anime dannate, e quelli che si trovavano nella parte più aperta dell’abitazione, rimasero uccisi, eccetto due o tre: e furono quelli che affacciatisi alla porta trovarono la morte per mano del guardastiva e d’altri due che li finirono con le loro baionette in canna. Costoro spedivano quant’altri se ne presentavano nella stessa maniera.

Vi era poi nella medesima casa un’altro appartamento, ove dimoravano il principe, o re, o come meglio chiamavasi, e i suoi cortigiani. Questi sgraziati furono costretti a star lì al lento fuoco, sinchè finalmente, precipitando il tetto, rimasero soffocati tra le infiammate rovine.

Per tutto questo tempo i nostri ebbero l’avvertenza di non sparare un moschetto per non destare i proprietari delle case fin allora intatte, prima del tempo in cui avrebbero potuto assicurarsi di loro. Ma il fuoco principiò tanto a distendersi che già operava da sè; anzi i furfanti ebbero di grazia raccogliersi in un solo corpo, perchè le case essendo tutte d’una materia grandemente combustibile, non poteano più aprirsi strada tra l’una e l’altra; onde non rimase loro a far altro, che costeggiare l’incendio per esser pronti, se alcuni o fuggivano fuor delle abitazioni che ardevano, o lo spavento li traeva fuori di quelle che non ardevano, ad accopparli. S’incoraggiavano all’orrida fazione, gridando gli uni con gli altri: «Ricordatevi di Tommaso Jeffrey!»

Mentre queste cose seguivano, io me ne stava, potete immaginarvelo, assai malinconico nella mia scialuppa; e la malinconia crebbe in me al vedere le fiamme che in grazia della notte sembrava mi fossero lì da presso. Intanto mio nipote, il capitano, che aveva lasciato sul bastimento, fu destato dalla sua ciurma e, veduto quell’incendio, entrò egli pure in gravi perplessità non sapendo da che procedesse, o in qual pericolo fossero i suoi; e maggiore fu la sua inquietudine, quando udì lo sparo dei moschetti, chè i nostri malandrini, quando si credettero ben sicuri del fatto loro, principiarono a lavorare con l’armi da fuoco. Mille angosciosi pensieri opprimevano la sua mente su la sorte mia e dello scrivano, onde finalmente, se bene non avesse uomini d’avanzo pel bisogno della sua navigazione, pure, non sapendo a quali strette ci potessimo trovare, fe’ lanciare in acqua un’altra scialuppa, e venne a trovarmi scortato da tredici uomini.

Sorpreso al maggior segno nel veder lo scrivano e me con soli due uomini nella prima scialuppa, certo si rallegrò nell’udire che a noi non era intravenuto nulla di male; ma durava in lui la stessa ansietà di sapere come stessero le cose, perchè il frastuono continuava e la fiamma crescea. Volea ch’io ne lo informassi, nè io sapea dirgliene di più. L’impaziente sua curiosità divenne in ciò tanto forte, che sarebbe stato impossibile a verun uomo della terra il sedarla. Voleva risolutamente sapere, che cosa si facesse su la spiaggia, si affannava pe’ suoi uomini; per farla corta dichiarò di volere accorrere in aiuto della sua gente, che che dovesse succedere.

Gli ripetei le stesse rimostranze che aveva fatte agli uomini andati prima, vale a dire su i riguardi dovuti alla salvezza del bastimento, al pericolo di non terminare il nostro viaggio, all’interesse de’ proprietari del carico con cui ci eravamo obbligati, e simili cose.

— «Piuttosto, soggiunsi, mi trasferirò io con due uomini su la spiaggia per vedere di scoprire ad una certa distanza qualche cosa di quanto or succede, poi verrò a riferirvelo.»

Il parlare a mio nipote fu tutt’uno di quello col quale avea voluto dissuadere il guardastiva e gli uomini, che colui instigò. Solamente sospirava i dieci uomini che s’avea lasciati addietro nel bastimento.

— «Non posso reggere, diceva, all’idea che la mia gente soggiaccia, per averla io lasciata mancar di soccorsi. Vadano in malora il bastimento, il viaggio, la mia vita, tutto, ma li voglio salvare.» E fu questa l’ultima sua decisione.

Non potei togliermi dall’accompagnarlo come non avea potuto persuaderlo a non arrischiarsi a tale impresa. Anzi egli ordinò che due uomini della sua scialuppa, andando alla volta del bastimento, ne levassero altri dodici uomini e li conducessero lì entro la stessa scialuppa. Giunti che furono, sei vennero lasciati per far la guardia alla prima scialuppa e alla seconda rimessa all’âncora, in guisa che non rimaneano più di sedici uomini nel bastimento; perchè in tutti eravamo su le prime sessantacinque, e or mancavano i due che furono origine di tutto questo scompiglio.

Postici in cammino potete credere che non sentivamo la terra sotto i nostri piedi, e guidati dalla vampa dell’incendio non dovemmo titubare, onde arrivammo difilati al teatro di quel disastro. Se dianzi ne avea fatti attoniti lo strepito degli archibusi e delle granate, or ci empieva d’orrore un frastuono d’altra natura: i gemiti di quella misera popolazione. Devo confessare che non era mai stato


Non appena gli altri fuggitivi ci videro, credettero esser anche noi pure nemici.... onde misero le più disperate grida, massimamente le donne, due delle quali caddero per terra, già morte dallo spavento.



presente al saccheggio di una città o alla presa per assalto di una fortezza. Aveva bensì udito dire che Oliviero Cromwell nell’impadronirsi di Drogheda, città dell’Irlanda, avea sterminato uomini, donne e fanciulli, come aveva letto che il conte di Tilly nel saccheggio di Magdeburgo fece trucidare ventiduemila uomini d’entrambi i sessi; ma non ebbi mai idea prima d’allora di simile atrocità: onde mi è impossibile il descriverla, e il descrivere soprattutto l’abbrividire che feci io non meno di mio nipote e dello scrivano. Pure andammo avanti; tanto che giugnemmo innanzi alla città fattasi impenetrabile, perchè tutte le contrade erano padroneggiate dal fuoco.

Il primo oggetto che ne si presentò furono le rovine di una casa o capanna, o piuttosto le ceneri, perchè l’edifizio era affatto consunto; e innanzi ad essa visibilissimi alla luce del fuoco giaceano quattro donne e tre uomini uccisi e, come ne sembrò, un’altra o altre due creature spiranti in mezzo ai vortici delle fiamme. In somma, vedemmo tali vestigia d’un furore del tutto barbaro e posto fuor d’ogni confine della natura umana, che ne diveniva impossibile il credere autori di tanto misfatto i nostri uomini; o, se erano stati, giudicavamo ciascun d’essi meritevole del più atroce supplizio.

Ma qui non consisteva il tutto: in maggior distanza vedemmo aumentarsi la fiamma dinanzi a noi e da quella parte ne venivano ululati crescenti col crescere dell’incendio. Non vi so dire quanto rimanessimo attoniti. Facemmo alcuni passi di più; e ne fece attoniti il correre in verso a noi di tre donne ignude che pareva avessero l’ali e, dietro ad esse, sedici o diciassette uomini nativi, presi da uguale costernazione, inseguiti tutti alle spalle da tre di que’ nostri macellai inglesi, i quali vedendo di non poter più raggiugnere quegl’infelici fecero fuoco fra essi; e un di questi cadde morto dalle loro palle sotto ai nostr’occhi. Non appena gli altri fuggitivi ci videro, credettero esser noi pure loro nemici e venuti lì con intenzione non diversa da quella de’ lor persecutori; onde misero le più disperate grida, massimamente le donne, due delle quali caddero per terra, già morte dallo spavento.

Mi si serrò il cuore, mi si agghiacciò il sangue al veder ciò, e credo che se i tre Inglesi, da cui erano inseguiti quegli sfortunati, venivano innanzi di più, avrei fatto far fuoco sovr’essi da chi mi accompagnava. Cercammo dunque un qualche modo di dar a intendere ai fuggenti, che non volevamo far loro alcun male. Immantinente avvicinatisi a noi, si gittarono in ginocchio, prorompendo in dolenti preghiere, perchè li salvassimo, la qual cosa si diede a comprender loro, essere appunto ciò che cercavamo di fare. Poichè ne furono intesi, si aggrupparono alla rinfusa seguendoci, come se si ponessero sotto il manto della nostra protezione.

Raccolsi intorno a me gli uomini della mia squadra, ai quali comandai d’astenersi dal torcere un capello a veruno di quegli Indiani, poi di cercare qualcuno de’ nostri mariuoli, chiedere ad essi qual diavolo fosse saltato loro nel corpo, e che razza di disegno avessero, poi di farli dismettere, se non volevano prima del giorno vedersi investiti da un centinaio di migliaia di nativi.

Dato quest’ordine, mi staccai dalla mia squadra, tenendo sol due uomini meco nel recarmi in mezzo a que’ poveri fuggiaschi, e allora mi toccò vedere il più compassionevole spettacolo. Alcuni di essi avevano i piedi terribilmente arrostiti dal lungo camminar su le brage nel dover correre a traverso del fuoco; altri le mani abbruciate; una donna caduta nel centro della fiamma rimase deformata prima di giungere a riscattarsi; due o tre uomini portavano su le spalle e su le cosce le tacche fatte dalle sciabole dei nostri carnefici che gl’inseguivano; un altro finalmente che aveva il corpo trapassato da una palla finì di vivere in quell’istante.

Avrei voluto intendere da essi qual cosa avesse dato moto a tutto questo sconquasso. Ma, oltrechè non capiva una parola di quello che mi rispondevano, credei comprendere dai loro cenni che non lo sapevano nemmeno essi. L’animo mio era sì atterrito d’un così infame attentato, che non potei starmi dal tornare addietro dov’erano mio nipote e gli altri della nostra brigata, risolutissimo di entrare nel bel mezzo della città a malgrado del fuoco e di tutto ciò che potesse accadere. Giunto colà, comunicai ad essi il mio divisamento, e comandai a’ miei di seguirmi. Ma in quel momento vedemmo spuntar di lontano quattro dei nostri malandrini, in fronte dei quali veniva il guardastiva, intenti a correre su le salme delle morte loro vittime, tutti coperti di sangue e di cenere, e non sazi ancora d’ammazzar loro simili. Allora quelli della mia gente cominciarono a chiamarli con quanta voce avevano, e un de’ nostri si sfiatò tanto che fece capire a coloro chi fossimo, onde vennero a noi.

Appena il guardastiva ci fu da presso, mise un’esclamazione di trionfo, perchè in sua testa venivamo ad aiutarlo; poi senza lasciarmi parlare si volse a mio nipote.

— «Capitano, nobile capitano, son ben contento di vedervi qui. Abbiamo ora un rinforzo per meglio sbizzarrirci su questi cani dell’inferno. Vo’ ucciderne tanti, quanti capelli il povero Tommaso avea su la testa: abbiamo giurato di non ne risparmiare nessuno. Vogliamo estirpare dalla terra tutta quant’è questa maladetta nazione.»

E benchè sfiatato dalle sue scellerate fatiche, avrebbe continuato a parlare di questo stile senza lasciare il tempo a noi di rispondere. Ma finalmente, perduta io la pazienza, alzai tanto la voce che copersi la sua.

— «Ah cuor di tigre! esclamai. Che cosa state facendo! Non voglio che si dia più la menoma molestia a nessuno di questi infelici, pena la morte! V’intimo, se v’importa della vostra vita, di tenere in freno il vostro braccio e di star quieto; altrimenti siete morto di fatto.

— Signore, colui rispose, sapete voi che cosa state ora facendo voi stesso, o che cosa que’ cialtroni hanno fatto? Se vi bisogna una ragione di quello che abbiamo fatto noi, venite qui;» e mi mostrò quel povero suo camerata che pendeva da un albero col collo tagliato.

Confesso che tal vista crucciò me pure, nè so in altri tempi fin dove un tale cruccio m’avrebbe spinto. Ma pensai che avevano portato troppo al di là il loro sdegno, e mi fece venire a mente le parole di Giacobbe ai suoi figli, Simone e Levi: Maladetta la loro ira perchè fu feroce! maladetti gli effetti di essa perchè furono crudeli!

Allora sì ebbi una matassa intrigata e superiore al mio potere per svolgerla; perchè quando gli uomini che aveva sotto il mio comando in quella spedizione videro lo stesso miserando spettacolo, come lo vidi io, aveva già un bel che fare per rattenerli dall’unirsi con gli altri. Ma vi fu di peggio; lo stesso mio nipote, lasciatosi dominare da un medesimo sentimento, mi disse, e in loro presenza:

— «Mi rattiene la sola paura che i miei vengano sopraffatti da un troppo numero di questi scellerati isolani; ma per coloro che abbiamo qui alla mano, poichè si sono fatti colpevoli d’un assassinio, devono essere trattati come assassini, e un solo di loro non dee restar vivo.»

Non ci voleva altro. Subitamente otto dei miei andarono ad unirsi al guardastiva e alla sua ciurma per aiutarli a terminare quest’opera di distruzione. Io, vedendo allora l’affare portato a tal punto, che era fuori affatto delle mie facoltà l’impedirlo, mi tolsi di lì pensieroso e malinconico, perchè non mi sentiva capace di comportare l’aspetto di tanto scempio, molto meno di udire i gemiti e gli ululati delle povere novelle vittime che cadrebbero nelle mani di que’ furiosi.

Non potei avere altri compagni nella mia ritirata, che lo scrivano e due uomini che vennero con me alla scialuppa. Fu una grande spensierataggine la mia, devo dirlo, l’avventurarmi con sì misera scorta a tornare addietro, perchè cominciando quasi a far giorno, e la spaventosa voce di questa scorreria essendosi già divulgata per la contrada, quaranta nativi armati di lance e d’archi stavano già nel piccolo villaggio composto delle dodici o tredici case sopraddette. Per mero caso le evitai, onde giunsi senza incidenti sinistri all’estremità della spiaggia, donde mi aspettava nel mare la mia scialuppa. Quando v’entrai, essendosi affatto schiarito il giorno, tornai tosto con essa a bordo del bastimento, poi la rimisi addietro perchè assistesse in qual si fosse occorrenza ai rimasi.

Durante il mio ritorno alla scialuppa aveva notato che il fuoco era spento del tutto e minorato il tumulto; sol dopo una mezz’ora udii uno sparo d’armi da fuoco, e vidi un gran fumo. Seppi da poi come i nostri fossero piombati addosso ai quaranta uomini del piccolo villaggio lungo la via, stendendone morti in quello sparo sedici o diciassette e incendiando le case, senza per altro uccidere donne o fanciulli.

Quando gli uomini della scialuppa, che rimandai dopo essere tornato a bordo, toccavano la costa, cominciavano a comparire su la spiaggia i nostri che venivano a poco a poco e non in due corpi, come allorchè partirono, ma sbandati di qua e di là in tal guisa, che una piccola forza d’uomini risoluti avrebbe bastato a distruggerli. Per loro buona sorte, la paura che avevano ispirata s’era diffusa tanto per la contrada, e gl’Indiani erano rimasti sì sbalorditi, che un centinaio di loro sarebbe fuggito, cred’io, alla sola vista di quattro o cinque de’ nostri. In tutta la durata di questo terribile evento non fuvvi alcuna bella difesa da notarsi per parte degli Indiani; tra l’atterrimento recato dall’incendio e la novità niente aspettata di quell’assalto al buio, furono sopraffatti al segno, di non sapere da che parte voltarsi. Se fuggivano di qui, incontravano una squadra di nemici, se di là, ne trovavano un’altra, e da tutti i lati la morte; laonde nessuno de’ nostri riportò il menomo danno, eccetto due che s’erano fatto male da sè medesimi, uno dislogandosi una gamba, l’altro scottandosi seriamente una mano.

Mi durava tuttavia la stizza contra mio nipote, contra tutti per vero dire, ma più specialmente contra lui, perchè a mio avviso aveva mancato al suo dovere di capitano di nave, e nel mettere così a repentaglio un carico di cui si era fatto mallevadore, e nell’aver gettato fuoco anzichè acqua su la cieca rabbia della sua gente, ostinata in un’impresa tanto sanguinolenta e crudele. Alle rimostranze che glie ne feci, rispose con molto rispetto:

— «Che volete! Al vedere il cadavere di quel povero mio piloto trucidato in sì crudele e barbaro modo, non sono stato padrone di me medesimo, nè potei domare la mia ira. Capisco che, come comandante di un bastimento, non avrei dovuto regolarmi così; ma come uomo, quello spettacolo mi commosse, e non lo potei sopportare.»

Quanto agli altri, non erano miei subordinati nè poco nè molto; e lo sapevano anche troppo. In fatti non si presero nessun fastidio dell’avermi dato disgusto.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.