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Questo testo fa parte della raccolta La coltivazione di Luigi Alamanni ed altre opere


BACCO IN TOSCANA.

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Dell’indico Orïente
     Domator glorïoso, il Dio del vino
     Fermato avea l’allegro suo soggiorno
     Ai colli etruschi intorno;
     5E colà dove imperïal palagio
     L’augusta fronte inver le nubi innalza,
     Su verdeggiante prato
     Colla vaga Arïanna un dì sedea;
     E bevendo e cantando,
     10Al bell’idolo suo così dicea:
Se dell’uve il sangue amabile
     Non rinfranca ognor le vene,
     Questa vita è troppo labile,
     Troppo breve, e sempre in pene.
15Sì bel sangue è un raggio acceso
     Di quel Sol che in ciel vedete;
     E rimase avvinto e preso
     Di più grappoli alla rete.
Su su, dunque, in questo sangue
     20Rinnoviam l’arterie e i musculi;

     E per chi s’invecchia e langue
     Prepariam vetri maiusculi:
     Ed in festa baldanzosa
     Tra gli scherzi e tra le risa
     25Lasciam pur, lasciam passare
     Lui, che in numeri e in misure
     Si ravvolge e si consuma,
     E quaggiù Tempo si chiama;
     E bevendo, e ribevendo
     30I pensier mandiamo in bando.
Benedetto
     Quel Claretto,
     Che si spilla in Avignone,
     Questo vasto bellicone
     35Io ne verso entro ’l mio petto;
     Ma di quel, che sì puretto
     Si vendemmia in Artimino,
     Vo’ trincarne più d’un tino;
     Ed in sì dolce, e nobile lavacro,
     40Mentre il polmone mio tutto s’abbevera,
     Arïanna, mio Nume, a te consacro
     Il tino, il fiasco, il botticin, la pevera.
Accusato,
     Tormentato,
     45Condannato
     Sia colui, che in pian di Lecore
     Prim’osò piantar le viti;

     Infiniti
     Capri e pecore
     50Si divorino quei tralci,
     E gli stralci
     Pioggia rea di ghiaccio asprissimo:
     Ma lodato,
     Celebrato,
     55Coronato
     Sia l’eroe che nelle vigne
     Di Petraja e di Castello
     Piantò prima il Moscadello.
Or che stiamo in festa e in giolito,
     60Bèi di questo bel crisolito,
     Ch’è figliuolo,
     D’un magliuolo
     Che fa viver più del solito:
     Se di questo tu berai,
     65Arïanna mia bellissima,
     Crescerà sì tua vaghezza,
     Che nel fior di giovinezza
     Parrai Venere stessissima.
Del leggiadretto,
     70Del sì divino
     Moscadelletto
     Di Montalcino
     Talor per scherzo
     Ne chieggio un nappo;

     75Ma non incappo
     A berne il terzo;
     Egli è un vin, ch’è tutto grazia,
     Ma però troppo mi sazia.
     Un tal vino
     80Lo destino
     Per stravizzo e per piacere
     Delle vergini severe,
     Che racchiuse in sacro loco
     Án di Vesta in cura il foco;
     85Un tal vino
     Lo destino
     Per le dame di Parigi,
     E per quelle,
     Che sì belle
     90Rallegrar fanno il Tamigi:
     Il Pisciancio del Cotone,
     Onde ricco è lo Scarlatti,
     Vo’ che il bevan le persone,
     Che non san fare i lor fatti.
     95Quel cotanto sdolcinato,
     Sì smaccato,
     Scolorito snervatello
     Pisciarello di Bracciano,
     Non è sano,
     100E il mio detto vo’ che approvi
     Ne’ suoi dotti scartabelli

     L’erudito Pignattelli;
     E se in Roma al volgo piace,
     Glielo lascio in santa pace.
     105E sebben Ciccio d’Andrea
     Con amabile fierezza,
     Con terribile dolcezza,
     Tra gran tuoni d’eloquenza,
     Nella propria mia presenza
     110Innalzare un dì volea
     Quel d’Aversa acido Asprino,
     Che non so s’è agresto, o vino;
     Egli a Napoli sel bea
     Del superbo Fasano in compagnia,
     115Che con lingua profana osò di dire
     Che del buon vino al par di me s’intende;
     Ed empio ormai bestemmiator pretende
     Delle tigri nisée sul carro aurato
     Gire in trïonfo al bel Sebeto intorno;
     120Ed a quei lauri, ond’àve il crine adorno,
     Anco intralciar la pampinosa vigna,
     Che lieta alligna in Posilippo e in Ischia;
     E più avanti s’inoltra, e infin s’arrischia
     Brandire il Tirso e minacciarmi altero:
     125Ma con esso azzuffarmi ora non chero;
     Perocchè lui dal mio furor preserva
     Febo e Minerva.
     Forse avverrà, che sul Sebeto io voglia

     Alzar un giorno di delizie un trono:
     130Allor vedrollo umilïato, e in dono
     Offerirmi devoto
     Di Posilippo e d’Ischia il nobil Greco;
     E forse allor rappattumarmi seco
     Non fia ch’io sdegni, e beveremo in tresca
     135All’usanza tedesca;
     E tra l’anfore vaste e l’inguistare
     Sarà di nostre gare
     Giudice illustre e spettator ben lieto
     Il Marchese gentil dell’Oliveto.
     140Ma frattanto qui sull’Arno
     Io di Pescia il Burïano,
     Il Trebbiano, il Colombano
     Mi tracanno a piena mano:
     Egli è il vero oro potabile,
     145Che mandar suole in esilio
     Ogni male inrimediabile;
     Egli è d’Elena il nepente,
     Che fa stare il mondo allegro,
     Dai pensieri
     150Foschi e neri
     Sempre sciolto, e sempre esente.
     Quindi avvien, che sempremai
     Tra la sua filosofia
     Lo teneva in compagnia
     155Il buon vecchio Rucellai;

     Ed al chiaror di lui ben comprendea
     Gli atomi tutti quanti e ogni corpusculo
     E molto ben distinguere sapea
     Dal mattutino il vespertin crepusculo,
     160Ed additava donde avesse origine
     La pigrizia degli astri e la vertigine.
     Quanto errando, oh quanto va
     Nel cercar la verità
     Chi dal vin lungi si sta!
     165Io stovvi appresso, ed or godendo accorgomi,
     Che in bel color di fragola matura
     La Barbarossa allettami,
     E cotanto dilettami,
     Che temprare amerei l’interna arsura,
     170Se il greco Ipocrate,
     Se il vecchio Andromaco
     Non me ’l vietassero,
     Nè mi sgridassero,
     Che suol talora infievolir lo stomaco;
     175Lo sconcerti quanto sa;
     Voglio berne almen due ciotole,
     Perchè so, mentre ch’io votole,
     Alla fin quel che ne va;
     Con un sorso
     180Di buon Corso,
     O di pretto antico Ispano,
     A quel mal porgo un soccorso

     Che non è da cerretano:
     Non sia già che il cioccolatte
     185V’adoprassi, ovvero il tè,
     Medicine così fatte
     Non saran giammai per me:
     Beverei prima il veleno
     Che un bicchier, che fosse pieno
     190Dell’amaro e reo caffè:
     Colà tra gli Arabi,
     E tra i Giannizzeri
     Liquor sì ostico,
     Sì nero e torbido
     195Gli schiavi ingollino.
     Giù nel Tartaro,
     Giù nell’Erebo
     L’empie Belidi l’inventarono,
     E Tesifone e l’altre Furïe
     200A Proserpina il ministrarono;
     E se in Asia il Musulmanno
     Se lo cionca a precipizio,
     Mostra aver poco giudizio.
Án giudizio, e non son gonzi,
     205Quei toscani bevitori,
     Che tracannano gli umori
     Della vaga e della bionda,
     Che di gioja i cuori inonda,
     Malvagìa di Montegonzi;

     210Allorchè per le fauci e per l’esofago
     Ella gorgoglia e mormora,
     Mi fa nascer nel petto
     Un indistinto incognito diletto,
     Che si può ben sentire,
     215Ma non si può ridire.
Io nol nego, è prezïosa,
     Odorosa
     L’Ambra liquida cretense;
     Ma tropp’alta ed orgogliosa
     220La mia sete mai non spense;
     Ed è vinta in leggiadria
     Dall’etrusca Malvagìa:
     Ma se fia mai che da cidonio scoglio
     Tolti i superbi e nobili rampolli
     225Ringentiliscan su i toscani colli,
     Depor vedransi il naturale orgoglio,
     E qui dove il ber s’apprezza
     Pregio avran di gentilezza.
Chi la squallida cervogia
     230Alle labbra sue congiugne
     Presto muore, o rado giugne
     All’età vecchia e barbogia:
     Beva il sidro d’Inghilterra
     Chi vuol gir presto sotterra;
     235Chi vuol gir presto alla morte
     Le bevande usi del Norte.

     Fanno i pazzi beveroni
     Quei Norvegi e quei Lapponi;
     Quei Lapponi son pur tangheri,
     240Son pur sozzi nel loro bere;
     Solamente nel vedere,
     Mi fariano uscir de’ gangheri.
     Ma si restin col mal díe
     Sì profane dicerie,
     245E il mio labbro profanato
     Si purifichi, s’immerga,
     Si sommerga
     Dentro un pecchero indorato,
     Colmo in giro di quel vino
     250Del vitigno
     Sì benigno,
     Che fiammeggia in Sansavino;
     O di quel che vermigliuzzo,
     Brillantuzzo
     255Fa superbo l’Aretino,
     Che lo alleva in Tregozzano,
     E tra’ sassi di Giggiano.
     Sarà forse più frizzante,
     Più razzente e più piccante,
     260O coppier, se tu richiedi
     Quell’Albano,
     Quel Vaiano,
     Che biondeggia,

     Che rosseggia
     265Là negli orti del mio Redi.
     Manna dal ciel su le tue trecce piova,
     Vigna gentil, che questa ambrosia infondi;
     Ogni tua vite in ogni tempo muova
     Nuovi fior, nuovi frutti e nuove frondi;
     270Un rio di latte in dolce foggia e nuova
     I sassi tuoi placidamente inondi;
     Nè pigro giel, nè tempestosa piova
     Ti perturbi giammai, nè mai ti sfrondi,
     E ’l tuo Signor nell’età sua più vecchia
     275Possa del vino tuo ber con la secchia.
     Se la druda di Titone
     Al canuto suo marito
     Con un vasto ciotolone
     Di tal vin facesse invito,
     280Quel buon vecchio colassù
     Tornerebbe in gioventù.
Torniam noi trattanto a bere:
     Ma con qual nuovo ristoro
     Coronar potrò ’l bicchiere
     285Per un brindisi canoro?
     Col Topazio pigiato in Lamporecchio,
     Ch’è famoso castel per quel Masetto,
     A inghirlandar le tazze or m’apparecchio,
     Purchè gelato sia e sia puretto,
     290Gelato, quale alla stagion del gielo

     Il più freddo Aquilon fischia pel cielo.
     Cantinette e cantimplore
     Stieno in pronto a tutte l’ore
     Con forbite bombolette
     295Chiuse e strette tra le brine
     Delle nevi cristalline.
     Son le nevi il quinto elemento,
     Che compongono il vero bevere:
     Ben è folle chi spera ricevere
     300Senza nevi nel bere un contento:
     Venga pur da Vallombrosa
     Neve a iosa:
     Venga pur da ogni bicocca
     Neve in chiocca;
     305E voi, Satiri, lasciate
     Tante frottole e tanti riboboli,
     E del ghiaccio mi portate
     Dalla grotta del monte di Boboli.
     Con alti picchi
     310De’ mazzapicchi
     Dirompetelo,
     Sgretolatelo,
     Infragnetelo,
     Stritolatelo,
     315Finchè tutto si possa risolvere
     In minuta freddissima polvere,
     Che mi renda il ber più fresco

     Per rinfresco del palato,
     Or ch’io son morto assetato.
     320Del vin caldo s’io ne insacco,
     Dite pur ch’io non son Bacco;
     Se giammai n’assaggio un gotto,
     Dite pure, e vel perdono,
     Ch’io mi sono un vero Arlotto:
     325E quei che in prima in leggiadretti versi
     Ebbe le Grazie lusinghiere al fianco,
     E poi pel suo gran cuore ardito e franco
     Vibrò suoi detti in fulmine conversi,
     Il grande anacreontico ammirabile
     330Menzin, che splende per febea ghirlanda,
     Di satirico fiele atra bevanda
     Mi porga ostica, acerba e inevitabile.
     Ma se vivo costantissimo
     Nel volerlo arcifreddissimo,
     335Quei che in Pindo è sovrano, e in Pindo gode
     Glorie immortali, e al par di Febo ha i vanti
     Quel gentil Filicaia inni di lode
     Su la cetera sua sempre mi canti;
     E altri cigni ebbrifestosi,
     340Che di lauro s’incoronino,
     Ne’ lor canti armonïosi,
     Il mio nome ognor risuonino,
     E rintuonino:
     Viva Bacco il nostro re!

     345Evöè,
     Evöè!
     Evöè replichi a gara
     Quella turba sì preclara,
     Anzi quel regio senato,
     350Che decide, in trono assiso,
     Ogni saggio e dotto piato
     Là ’ve l’etrusche voci e cribra e affina
     La gran Maestra, e del parlar Regina;
     Ed il Segni segretario
     355Scriva gli atti al Calendario,
     E spediscane courier
     À monsieur l’Abbé Regnier.
Che vino è quel colà,
     C’ha quel color dorè?
     360La Malvagìa sarà,
     Ch’al Trebbio onor già diè:
     Ell’è da vero, ell’è;
     Accostala un po’ in qua,
     E colmane per me
     365Quella gran coppa là:
     È buona per mia fè,
     E molto a grè mi va:
     Io bevo in sanità,
     Toscano Re, di te.
     370Pria ch’io parli di te, Re saggio e forte,
     Lavo la bocca mia con quest’umore,

     Umor, che dato al secol nostro in sorte,
     Spira gentil söavità d’odore.
     Gran Cosmo, ascolta. A tue virtudi il Cielo
     375Quaggiù promette eternità di gloria;
     E gli oracoli miei, senz’alcun velo
     Scritti già son nella immortale istoria.
     Sazio poi d’anni, e di grandi opre onusto,
     Volgendo il tergo a questa bassa mole
     380Per tornar colassù, donde scendesti,
     Splenderai luminoso intorno a Giove
     Tra le Medicee Stelle astro novello;
     E Giove stesso, dal tuo lume adorno,
     Girerà più lucente all’etra intorno.
385Al suon del cembalo,
     Al suon del crotalo,
     Cinte di Nebridi
     Snelle Bassaridi,
     Su su mescetemi
     390Di quella porpora,
     Che in Monterappoli
     Da’ neri grappoli
     Sì bella spremesi;
     E mentre annaffione
     395L’aride viscere
     Ch’ognor m’avvampano,
     Gli esperti Fäuni
     Al crin m’intreccino

     Serti di pampano;
     400Indi, allo strepito
     Di flauti e nacchere,
     Trescando intuonino
     Strambotti e frottole
     D’alto misterïo;
     405E l’ebbre Menadi,
     E i lieti Egipani
     A quel mistico lor rozzo sermone
     Tengan bordone.
     Turba villana intanto
     410Applauda al nostro canto,
     E dal poggio vicino accordi e suoni
     Talabalacchi, tamburacci e corni,
     E cornamuse e pifferi e sveglioni:
     E tra cento colascioni
     415Cento rozze forosette,
     Strimpellando il dabbudà,
     Cantino e ballino il bombababà.
     E se cantandolo,
     Arciballandolo,
     420Avvien che stanchinsi,
     E per grand’avida
     Sete trafelinsi;
     Tornando a bevere
     Sul prato asseggansi,
     425Canterellandovi

     Con rime sdrucciole
     Mottetti e cobbole,
     Sonetti e cantici;
     Poscia, dicendosi
     430Fiori scambievoli,
     Sempremai tornino
     Di nuovo a bevere
     L’altera porpora,
     Che in Monterappoli
     435Da’ neri grappoli
     Sì bella spremesi;
     E la maritino
     Col dolce Mammolo,
     Che colà imbottasi,
     440Dove salvatico
     Il Magalotti in mezzo al solleone
     Trova l’autunno a quella stessa fonte,
     Anzi a quel sasso, onde l’antico Esone
     Diè nome e fama al solitario monte.
445Questo nappo, che sembra una pozzanghera,
     Colmo è d’un vin sì forte e sì possente,
     Che per ischerzo baldanzosamente
     Sbarbica i denti e le mascelle sganghera:
     Quasi ben gonfio e rapido torrente
     450Urta il palato e il gorgozzule inonda,
     E precipita in giù tanto fremente,
     C’appena il cape l’una e l’altra sponda.

     Madre gli fu quella scoscesa balza,
     Dove l’annoso fiesolano Atlante,
     455Nel più fitto meriggio e più brillante
     Verso l’occhio del sole il fianco innalza.
     Fiesole viva, e seco viva il nome
     Del buon Salviati, ed il suo bel Maiano:
     Egli sovente con devota mano
     460Offre diademi alle mie sacre chiome,
     Ed io lui sano preservo
     Da ogni mal crudo e protervo;
     Ed intanto
     Per mia gioia tengo accanto
     465Quel grande onor di sua real cantina
     Vin di val di Marina.
     Ma del vin di val di Botte
     Voglio berne giorno e notte,
     Perchè so che in pregio l’hanno
     470Anco i maestri di color che sanno:
     Ei da un colmo bicchiere e traboccante
     In sì dolce contegno il cuor mi tocca,
     Che per ridirlo non saria bastante
     Il mio Salvin, c’à tante lingue in bocca.
     475Se per sorte avverrà, che un dì lo assaggi
     Dentro a’ Lombardi suoi grassi cenacoli,
     Colla ciotola in man farà miracoli
     Lo splendor di Milano, il savio Maggi.
     Il savio Maggi d’Ippocrene al fonte

     480Menzognero liquore unqua non bebbe,
     Nè sul Parnaso lusinghiero egli ebbe
     Serti profani all’onorata fronte:
     Altre strade egli corse; e un bel sentiero
     Rado, o non mai battuto, aprì vêr l’etra;
     485Solo ai numi e agli eroi nell’aurea cetra
     Offrir gli piacque il suo gran canto altero;
     E saria veramente un capitano,
     Se, tralasciando del suo Lesmo il vino,
     A trincar si mettesse il vin toscano:
     490Che tratto a forza dal possente odore,
     Post’in non cale i lodigiani armenti,
     Seco n’andrebbe in compagnia d’onore,
     Con le gote di mosto e tinte e piene,
     Il Pastor de Lemene;
     495Io dico lui, che, giovanetto, scrisse
     Nella scorza de’ faggi e degli allori
     Del paladino Macaron le risse,
     E di Narciso i forsennati amori;
     E le cose del ciel più sante e belle
     500Ora scrive a caratteri di stelle:
     Ma quando assidesi
     Sotto una rovere,
     Al suon del zufolo
     Cantando spippola
     505Egloghe, e celebra
     Il purpureo liquor del suo bel colle,

     Cui bacia il Lambro il piede,
     Ed a cui Colombano il nome diede,
     Ove le viti in lascivetti intrichi
     510Sposate sono, in vece d’olmi, a’ fichi.
Se vi è alcuno, a cui non piaccia
     La Vernaccia
     Vendemmiata in Pietrafitta,
     Interdetto
     515Maladetto
     Fugga via dal mio cospetto,
     E per pena sempre ingozzi
     Vin di Brozzi,
     Di Quaracchi e di Peretola,
     520E per onta e per ischerno
     In eterno
     Coronato sia di bietola;
     E sul destrier del vecchierel Sileno,
     Cavalcando a ritroso ed a bisdosso,
     525Da un insolente satiretto osceno
     Con infame flagel venga percosso:
     E poscia avvinto in vergognoso loco,
     Ai fanciulli plebei serva per gioco;
     E lo giunga di vendemmia
     530Questa orribile bestemmia.
Là d’Antinoro in su quei colli alteri,
     Ch’han dalle Rose il nome,
     Oh come lieto, oh come

     Dagli acini più neri
     535D’un canaiuol maturo
     Spremo un mosto sì puro,
     Che ne’ vetri zampilla,
     Salta, spumeggia e brilla!
     E quando in bel paraggio
     540D’ogni altro vin lo assaggio,
     Sveglia nel petto mio
     Un certo non so che,
     Che non so dir s’egli è
     O gioia, o pur desio:
     545Egli è un desio novello,
     Novel desio di bere,
     Che tanto più s’accresce,
     Quanto più vin si mesce.
     Mescete, o miei compagni,
     550E nella grande inondazion vinosa
     Si tuffi e ci accompagni
     Tutt’allegra e festosa
     Questa, che Pan somiglia
     Capribarbicornìpede famiglia.
     555Mescete, su, mescete:
     Tutti affoghiam la sete
     In qualche vin polputo,
     Qual è quel, ch’a diluvj oggi è venduto
     Dal Cavalier dell’Ambra,
     560Per ricomprarne poco muschio ed ambra.

     Ei s’è fitto in umore
     Di trovar un odore
     Sì delicato e fino,
     Che sia più grato dell’odor del vino:
     565Mille inventa odori eletti,
     Fa ventagli e guancialetti,
     Fa söavi profumiere,
     E ricchissime cunziere,
     Fa polvigli,
     570Fa borsigli,
     Che per certo son perfetti;
     Ma non trova il poverino
     Odor, che agguagli il grande odor del vino.
     Fin da’ gioghi del Perù
     575E da’ boschi del Tolù
     Fa venire,
     Sto per dire,
     Mille droghe, e forse più;
     Ma non trova il poverino
     580Odor, che agguagli il grande odor del vino.
     Fiuta, Arïanna, questo è il vin dell’Ambra:
     Oh che robusto, oh che vitale odore!
     Sol da questo nel core
     Si rifanno gli spirti e nel celábro,
     585Ma quel che è più, ne gode ancora il labro.
Quel gran vino
     Di Pumino

     Sente un po’ dell’affricogno;
     Tuttavía di mezzo agosto
     590Io ne voglio sempre accosto;
     E di ciò non mi vergogno,
     Perchè a berne sul popone
     Parmi proprio sua stagione.
     Ma non lice ad ogni vino
     595Di Pumino
     Stare a tavola ritonda;
     Solo ammetto alla mia mensa
     Quello che il nobil Albizi dispensa,
     E che fatto d’uve scelte
     600Fa le menti chiare e svelte.
Fa le menti chiare e svelte
     Anco quello,
     Ch’ora assaggio, e ne favello
     Per sentenza senza appello:
     605Ma ben pria di favellarne
     Vo’ gustarne un’altra volta.
     Tu, Sileno, intanto ascolta.
     Chi ’l crederia giammai? Nel bel giardino
     Ne’ bassi di Gualfonda inabissato,
     610Dove tiene il Riccardi alto domíno,
     In gran palagio e di grand’oro ornato,
     Ride un vermiglio, che può stare a fronte
     Al piropo gentil di Mezzomonte;
     Di Mezzomonte, ove talora io soglio

     615Render contenti i miei desiri appieno,
     Allorchè, assiso in verdeggiante soglio,
     Di quel molle piropo empiomi il seno,
     Di quel molle piropo, almo e giocondo,
     Gemma ben degna de’ Corsini eroi,
     620Gemma dell’Arno, ed allegria del mondo.
La rugiada di rubino,
     Che in Valdarno i colli onora,
     Tanto odora,
     Che per lei suo pregio perde
     625La brunetta
     Mammoletta
     Quando spunta dal suo verde;
     S’io ne bevo,
     Mi sollevo
     630Sovra i gioghi di Permesso,
     E nel canto sì m’accendo,
     Che pretendo, e mi do vanto
     Gareggiar con Febo istesso.
     Dammi dunque dal boccal d’oro
     635Quel rubino, ch’è il mio tesoro:
     Tutto pien d’alto furore,
     Canterò versi d’amore,
     Che saran viepiù söavi
     E più grati di quel che è
     640Il buon vin di Gersolè;
     Quindi, al suon d’una ghironda,

     O d’un’aurea cennamella,
     Arïanna idolo mio,
     Loderò tua chioma bionda,
     645Loderò tua bocca bella.
     Già s’avanza in me l’ardore,
     Già mi bolle dentro ’l seno
     Un veleno,
     Ch’è velen d’almo liquore:
     650Già Gradivo egidarmato
     Col fanciullo faretrato
     Infernifoca il mio core:
     Già nel bagno d’un bicchiere,
     Arïanna, idolo amato,
     655Mi vo’ far tuo cavaliere,
     Cavalier sempre bagnato.
     Per cagion di sì bell’ordine,
     Senza scandalo o disordine
     Su nel cielo in gloria immensa
     660Potrò seder col mio gran Padre a mensa:
     E tu, gentil consorte,
     Fatta meco immortal, verrai là dove
     I numi eccelsi fan corona a Giove.
     Altri beva il Falerno, altri la Tolfa,
     665Altri il sangue che lacrima il Vesuvio:
     Un gentil bevitor mai non s’ingolfa
     In quel fumoso e fervido diluvio:
     Oggi vogl’io che regni entro a i miei vetri

     La Verdea soavissima d’Arcetri:
     670Ma se chieggio
     Di Lappeggio
     La bevanda porporina,
     Si dia fondo alla cantina.
     Su trinchiam di sì buon päese
     675Mezzograppolo, e alla franzese;
     Su trinchiam rincappellato
     Con granella e Soleggiato:
     Tracanniamo a guerra rotta
     Vin Rullato e alla Scïotta;
     680E tra noi gozzovigliando,
     Gavazzando,
     Gareggiamo a chi più imbotta:
     Imbottiam senza paura,
     Senza regola o misura:
     685Quando il vino è gentilissimo,
     Digeriscesi prestissimo
     E per lui mai non molesta
     La spranghetta nella testa;
     E far fede ne potría
     690L’anatomico Bellini,
     Se dell’uve e se de’ vini
     Far volesse notomia:
     Egli almeno, o lingua mia,
     T’insegnò con sua bell’arte
     695In qual parte

     Di te stessa, e in qual vigore
     Puoi gustarne ogni sapore.
     Lingua mia già fatta scaltra,
     Gusta un po’, gusta quest’altro
     700Vin robusto, che si vanta
     D’esser nato in mezzo al Chianti;
     E tra’ sassi
     Lo produsse
     Per le genti più bevone
     705Vite bassa, e non broncone.
     Bramerei veder trafitto
     Da una serpe in mezzo al petto
     Quell’avaro villanzone,
     Che, per render la sua vite
     710Di più grappoli feconda,
     Là ne’ monti del buon Chianti,
     Veramente villanzone,
     Maritolla ad un broncone.
Del buon Chianti il vin decrepito
     715Mäestoso
     Imperioso
     Mi passeggia dentro il core,
     E ne scaccia, senza strepito,
     Ogni affanno e ogni dolore;
     720Ma se giara io prendo in mano
     Di brillante Carmignano,
     Così grato in sen mi piove,

     Ch’ambrosia e néttar non invidio a Giove.
     Or questo, che stillò dall’uve brune
     725Di vigne sassosissime toscane,
     Bevi, Arïanna, e tien da lui lontane
     Le chiomazzurre Naiadi importune:
     Chè saría
     Gran follía
     730E bruttissimo peccato,
     Bevere il Carmignan quando è innacquato.
Chi l’acqua beve,
     Mai non riceve
     Grazie da me.
     735Sia pur l’acqua o bianca o fresca,
     O ne’ tonfani sia bruna,
     Nel suo amor me non invesca
     Questa sciocca ed importuna,
     Questa sciocca, che sovente,
     740Fatta altiera e capricciosa,
     Rïottosa ed insolente,
     Con furor perfido e ladro
     Terra e ciel mette a soqquadro.
     Ella rompe i ponti e gli argini,
     745E con sue nembose aspergini,
     Su i fioriti e verdi margini
     Porta oltraggio ai fior più vergini;
     E l’ondose scaturigini
     Alle moli stabilissime,

     750Che sarian perpetüissime,
     Di rovina sono origini.
     Lodi pur l’acque del Nilo
     Il soldan de’ Mammalucchi,
     Nè l’Ispano mai si stucchi
     755D’innalzar quelle del Tago,
     Ch’io per me non ne son vago:
     E se a sorte alcun de’ miei
     Fosse mai cotanto ardito,
     Che bevessene un sol dito,
     760Di mia man lo strozzerei.
     Vadan pur, vadano a svellere
     La cicoria e i raperonzoli
     Certi magri mediconzoli,
     Che coll’acqua ogni mal pensan di espellere:
     765Io di lor non mi fido,
     Nè con essi mi affanno,
     Anzi di lor mi rido;
     Chè, con tanta lor acqua io so ch’egli ánno
     Un cervel così duro e così tondo,
     770Che quadrar nol potria nè meno in pratica,
     Del Vivïani il gran saper profondo
     Con tutta quanta la sua matematica.
     Da mia masnada
     Lungi sen vada
     775Ogni bigoncia,
     Che d’acqua acconcia

     Colma si sta:
     L’acqua cedrata
     Di Limoncello,
     780Sia sbandeggiata
     Dal nostro ostello:
     De’ gelsomini
     Non faccio bevande,
     Ma tesso ghirlande
     785Su questi miei crini:
     Dell’aloscia e del candiero
     Non ne bramo e non ne chero:
     I sorbetti, ancorchè ambrati,
     E mille altre acque odorose
     790Son bevande da svogliati,
     E da femmine leziose:
     Vino, vino a ciascun bever bisogna,
     Se fuggir vuole ogni danno;
     E non par mica vergogna
     795Tra i bicchier impazzir sei volte l’anno.
     Io per me sol nel caso,
     E sol per gentilezza
     Avallo questo e poi quest’altro vaso;
     E sì facendo, del nevoso cielo
     800Non temo il gielo,
     Nè mai nel più gran ghiado io m’imbacucco
     Nel zamberlucco,
     Come ognor vi s’imbacucca

     Dalla linda sua parrucca
     805Per infino a tutti i piedi
     Il segaligno e freddoloso Redi.
Quali strani capogiri
     D’improvviso mi fan guerra?
     Parmi proprio, che la terra
     810Sotto i piè mi si raggiri;
     Ma se la terra comincia a tremare
     E traballando minaccia disastri,
     Lascio la terra, mi salvo nel mare.
     Vara, vara quella gondola
     815Più capace e ben fornita,
     Ch’è la nostra favorita.
     Su questa nave,
     Che tempre ha di cristallo,
     E pur non pave
     820Di mar cruccioso il ballo,
     Io gir men voglio
     Per mio gentil diporto,
     Conforme io soglio,
     Di Brindisi nel porto,
     825Purchè sia carca
     Di brindisevol merce
     Questa mia barca.
     Su voghiamo,
     Navighiamo,
     830Navighiamo infino a Brindisi:

     Arïanna, Brindis, Brindisi.
     Oh bell’andare,
     Per barca in mare
     Verso la sera
     835Di primavera!
     Venticelli e fresche aurette,
     Dispiegando ali d’argento,
     Sull’azzurro pavimento
     Tesson danze amorosette,
     840E al mormorio de’ tremuli cristalli
     Sfidano ognora i naviganti ai balli.
     Su voghiamo,
     Navighiamo,
     Navighiamo infino a Brindisi:
     845Arïanna, Brindis, Brindisi.
     Passavoga arranca, arranca;
     Chè la ciurma non si stanca,
     Anzi lieta si rinfranca,
     Quando arranca verso Brindisi:
     850Arïanna, brindis, brindisi.
     E se a te brindisi io fo,
     Perchè a me faccia il buon pro,
     Arïannuccia,8 vaguccia, belluccia,
     Cantami un poco e ricantami tu
     855Sulla mandòla la cuccurucù,
     La cuccurucù,
     La cuccurucù,

     Sulla mandòla la cuccurucù,
     Passa.... vo’....
     860Passa.... vo’....
     Passavoga, arranca, arranca;
     Chè la ciurma non si stanca,
     Anzi lieta si rinfranca,
     Quando arranca
     865Quando arranca verso Brindisi:
     Arïanna, brindis, brindisi.
     E se a te,
     E se a te brindisi io fo,
     Perchè a me
     870Perchè a me
     Perchè a me faccia il buon pro,
     Il buon pro;
     Arïannuccia9 leggiadribelluccia,
     Cantami un po....
     875Cantami un po....
     Cantami un poco, e ricantami tu
     Su la vió...
     Sulla vïola la cuccurucù,
     La cuccurucù;
     880Sulla vïola la cuccurucù,
Or qual nera con fremiti orribili
     Scatenossi tempesta fierissima,
     Che, de’ tuoni fra gli orridi sibili,
     Sbuffa nembi di grandine asprissima?

     885Su, nocchiero, ardito e fiero,
     Su, nocchiero, adopra ogni arte
     Per fuggire il reo periglio:
     Ma già vinto ogni consiglio,
     Veggio rotti e remi e sarte,
     890E s’infurian tuttavía
     Venti e mare in traversia.
     Gitta spere omai per poppa,
     E rintoppa, o marangone,
     L’arcipoggia e l’artimone;
     895Chè la nave se ne va
     Colà dove è il finimondo,
     E forse anco un po’ più in là.
     Io non so quel ch’io mi dica,
     E nell’acque io non son pratico;
     900Parmi ben che il ciel predìca
     Un evento più rematico;
     Scendon Sïoni dall’aerea chiostra,
     Per rinforzar coll’onde un nuovo assalto,
     E, per la lizza del ceruleo smalto,
     905I cavalli del mare urtansi in giostra.
     Ecco, oimè! ch’io mi mareggio,
     E m’avveggio,
     Che noi siam tutti perduti:
     Ecco, oimè, ch’io faccio getto,
     910Con grandissimo rammarico
     Delle merci prezïose,

     Delle merci mie vinose,
     Ma mi sento un po’ più scarico.
     915Allegrezza, allegrezza: io già rimiro,
     Per apportar salute al legno infermo,
     Sull’antenna da prua muoversi in giro
     L’oricrinite stelle di Santermo.
     Ah! no, no; non sono stelle:
     920Son due belle
     Fiasche gravide di buon vini:
     I buon vini son quegli, che acquetano
     Le procelle sì fosche e rubelle,
     Che nel lago del cor l’anime inquïetano.
925Satirelli
     Ricciutelli,
     Satirelli, or chi di voi
     Porgerà più pronto a noi
     Qualche nuovo smisurato
     930Sterminato calicione,
     Sarà sempre il mio mignone;
     Nè m’importa, se un tal calice
     Sia d’avorio, o sia di salice,
     O sia d’oro arciricchissimo;
     935Purchè sia molto grandissimo.
     Chi s’arrisica di bere
     Ad un piccolo bicchiere,
     Fa la zuppa nel paniere:
     Quest’altiera, questa mia

     940Dïonea bottiglieria
     Non raccetta, non alloggia
     Bicchieretti fatti a foggia:
     Quei bicchieri arrovesciati,
     E quei gozzi strangolati
     945Sono arnesi da ammalati;
     Quelle tazze spase e piane
     Son da genti poco sane;
     Caraffini,
     Buffoncini,
     950Zampilletti e borbottini,
     Son trastulli da bambini,
     Son minuzie, che raccattole
     Per fregiarne in gran dovizia
     Le moderne scarabattole
     955Delle donne fiorentine;
     Voglio dir non delle dame
     Ma bensì delle pedine.
     In quel vetro, che chiamasi il tonfano
     Scherzan le Grazïe, e vi trionfano;
     960Ognun colmilo, ognun votilo;
     Ma di che si colmerà?
     Bella Arïanna con tua bianca mano
     Versa la manna di Montepulciano:
     Colmane il tonfano e porgilo a me.
     965Questo liquore, che sdrucciola al core,
     O come l’ugola e baciami e mordemi!

     O come in lacrime gli occhi disciogliemi!
     Me ne strasecolo, me ne strabilïo
     E fatto estatico vo in visibilïo.
     970Onde ognun, che di Lïeo
     Riverente il nome adora,
     Ascolti questo altissimo decreto,
     Che Bassareo pronunzia, e gli dia fè:
     Montepulciano d’ogni vino è il re.
975A così lieti accenti,
     D’edere e di corimbi il crine adorne
     Alternavano i canti
     Le festose Baccanti;
     Ma i Satiri, che avean bevuto a isonne,
     980Si sdraiaron sull’erbetta
     Tutti cotti come monne.




FINE.

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