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27. Perché ver me pur dispermenti invano
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Perché ver me pur dispermenti1 invano,
     Amor, ché più de’ tuoi2 esser non deggio?

     Altro mar ti conviene, altro pileggio3
     Cercar che ’l mio, da te fatto sì strano.
     Ben puo’ vedere ch’io son fatto sano,5
     Né tua mercé più non disio né chieggio;
     E quanto più ti sforzi a farmi peggio,
     Tanto da te più mi truovo lontano.
Spenta è la fiamma, che m’accese e arse,
     Fuggiti sono i mia giovini anni,10
     E tu co’ modi tuo’ m’à’ fatto saggio.
     Dunque le tue saette invano sparse
     Ricogli omai e servati l’inganni
     Ad uccel nuovo4, ch’io provati l’aggio5.

  1. «Ti provi.»
  2. Seguaci.
  3. La reminiscenza dantesca (Par., XXIII, 67), del pari che lo accenno alla fiamma del v. 9, sono indizi rivelatori della paternità del sonetto: pileggio, usato anche altrove (in prosa) dal nostro, significa «tragitto marino, traversata.»
  4. «Ad un inesperto.»
  5. Il poeta si congeda per sempre da Amore, dopo la lunga esperienza fatta di lui.


Note

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