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Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1831
CAINO
Nun difenno Caino io, sor dottore,1
Ché lo so ppiù dde voi chi ffu Ccaino:
Dico pe’ ddì che cquarche vvorta er vino
Pò accecà l’omo e sbarattajje er core.
Capisch’io puro che agguantà un tortóre2
E accoppàcce un fratello piccinino,
Pare una bbonagrazia da bburrino,3
Un carcio-farzo4 de cattiv’odore.
Ma cquer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
E a le su’ rape je sputava addosso,
E nno’ ar latte e a le pecore d’Abbele,
A un omo com’e nnoi de carne e dd’osso
Aveva assai da inacidijje er fèle:5
E allora, amico mio, tajja ch’è rrosso.6
Terni, 6 ottobre 1831
- ↑ [È detto per stizza ironicamente.]
- ↑ Pezzo di ramo di albero. [V. la nota 8 del sonetto: Una lingua ecc., 2 dic. 82.]
- ↑ Contadino romagnolo. [Non sempre. V. la nota 4 del sonetto:
Le lingue ecc., 16 dic. 82.] - ↑ Calcio falso: tradimento.
- ↑ [Inacidirgli il fiele: cagionargli un profondo e feroce rancore.]
- ↑ Frase usata per esprimere l’abbandono di ogni riguardo od esitazione. È metafora presa dal tagliare i cocomeri. [O meglio, dal grido di coloro che li vendono, il quale è appunto: Tajja ch’è rrosso!, ovvero: È rosso, pijja e ttajja!]
Note
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