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XXVII
LE CALAMITÀ D’ITALIA
Chi mi toglie a me stesso?
qual novello furor m’agita il petto?
chi mi rapisce? Io seguo ove mi traggi,
io seguo, o divo Apollo,
o vuoi per l’erte cime
del tessalico Pindo,
o su l’amene balze
del beato Elicona,
o lungo i puri gorghi
dell’arcado Ippocrene,
o presso i sacri fonti
di Permesso, Aganippe, Ascra e Libetro.
Ecco la cetra a cui marito i carmi,
che d’ogni legge sciolti
van con libero piede
a palesar d’un cor libero i sensi.
O de l’idalie selve
temuto nume, s’io rivolgo altrove
lo stil ch’a te sacrai, che d’altro a pena
seppe mai risuonar che de’ tuoi vanti
e di colei del cui bel ciglio altero
formasti l’arco a saettarmi il petto,
tu mi perdona ed ella;
le mie querule note
non parleran d’amore.
Lungi da me, deh, lungi
cosí tenero affetto;
un’orrida pietá mista di sdegno
tempri le corde al mio canoro legno.
Veggo da’ fonti uscite
del torbido Acheronte
errar crinite d’angui
per l’italico ciel le Furie ultrici.
L’una, pallida, asciutta,
l’ossa a pena ricopre
con pelle adusta, e le canine fauci
con radici satolla, ed a se stessa
i morsi non perdona,
e falce orrida stringe
con cui disperde l’immatura mèsse.
L’altra, tutta stillante
di caldo sangue, il nudo ferro impugna,
e lo sdegno ha negli occhi,
gli oltraggi nella lingua,
nella fronte il disprezzo, in man la morte.
La terza atro veneno
vomita da la gola,
ch’ovunque passa impallidisce il suolo
e d’orrido squallor l’aere ingombra;
e di vive ceraste
scuote una sferza, ai cui tremendi fischi
sbigottisce l’ardire, ed ella intanto
con orribil trïonfo
sui monti de’ cadaveri passeggia.
Perché il timor de’ numi
impari ogni mortale,
questo drappel feroce
quasi in un’ampia scena
negl’italici campi
fa di se stesso portentosa mostra.
Chi può con occhio asciutto
a spettacol sí fiero
rigido starsi, ha ben ricinto il core
del piú duro metallo, o chiude in seno
viscere adamantine.
Oh in quante strane guise
languir si mira il villanel digiuno,
chino in su quella terra
che menti le promesse
e la speme ingannò de l’anno intero,
chiederle almen la tomba,
se gli negò la mensa!
Altri alle sorde porte
dell’avaro crudele
sospira indarno e le preghiere vane
termina con la vita.
Altri, di strani cibi
né pur tocchi finora
dai ferini palati empiendo l’alvo,
per la morte fuggir la morte affretta.
Altri, mentre pur trova
chi con tarda pietate
la sospirata Cerere gli porge,
entro gli avidi morsi
lascia la vita. Altri, de l’empia parca
scorto il fatale irreparabil colpo,
cadavere spirante
porta se stesso a la vorace tomba.
Con qual orror s’ascolta,
con qual orror si mira,
da furor inuman barbara gente
spinta al sangue, a le prede,
mischiar stragi e ruine,
e per lieve cagione
l’armi dovute a vendicar gli oltraggi
del fèro usurpator dell’Orïente
volger contro a se stessi
quei che del vero Dio vantan la legge!
Duro a veder ne’ campi,
ove giá lieto il mietitor solea
di Cerere maturi
raccorre i doni e l’animate biade,
mieter la morte ed ingrassar col sangue,
spaventosa cultrice,
le zolle abbandonate.
Duro a veder l’ampie cittá, le ville,
fatte misera preda
del vincitore ingordo; indi gli avanzi
dati alle fiamme e le delizie amene
de’ bei palagi, antico
sudor degli avi, in breve ora consunti;
e le sacre a Lieo vigne feconde
potate in strane guise
da l’indiscreto ferro,
sí che mai piú non chieda
da lor, se non indarno,
o frondi il maggio o grappoli l’autunno.
Duro a veder su’ genïali letti,
prima di sangue aspersi,
le caste mogli violarsi; e duro
veder l’amate figlie
immature a le nozze
fatte ludibrio e scherno
piú che diletto di sfrenate voglie;
e per ischerzo barbaro, inumano,
a pena nati i pargoletti infanti
macchiar le cune d’innocente sangue.
Ma piú duro a veder ne’ sacri templi,
vano refugio ai miseri, trattarsi
i misfatti piú gravi,
e la votata al cielo
sacra verginitá ne’ sacri chiostri
a le celesti spose
con sacrileghi amori
rapire, e dispogliando
gli altari istessi, dagli stessi numi
non astener le scelerate destre.
Ahi, qual dall’altra parte
miserabil spettacolo mi tragge,
ove la peste orrenda
diserta le cittadi? A cento a cento
cadon gli egri mortali
d’ogni etá, d’ogni sesso e d’ogni grado,
cui nulla giova l’arte
del buon vecchio di Coo,
con quante man perita
svelle radici in Ponto,
e con quanti raccoglie
ricchi sudor dagli arbori di Saba;
anzi il medico stesso
cade nell’opra e i propri studi accusa,
sí che ognun fatto accorto
che nell’altrui soccorso è il proprio danno,
fugge, ma spesso indarno,
ché prevenuta è dal malor la fuga.
Non v’è nodo di fede
che con l’amico infermo
stringa l’amico, o col padrone il servo;
anzi all’estremo passo,
privo ognun di conforto,
non ha l’antico padre
pur un de’ figli a cui
dia gli ultimi ricordi,
o che gli serri con gli estremi uffizi
i moribondi lumi,
e la canuta madre
cerca indarno con gli occhi,
che dèe chiuder per sempre,
la sua diletta prole;
ma si fugge, s’aborre
dal figlio il genitore,
dal genitore il figlio;
e da la casta moglie
s’oblia l’ardor pudico
verso il caro marito,
parte giá di se stessa.
Solo spavento, invece
de’ giá sí dolci affetti
di caritá, d’amore,
entro le menti sbigottite alberga.
Son muti i fòri e sono
l’officine ozïose,
ogn’arte abbandonata;
la mèsse giá matura
entro i campi negletti
l’agricoltore oblia;
e sui tralci pendenti
del dolce ismenio nume
lascia invecchiare inutilmente i doni;
lascia senza custode
andar la greggia errando,
inerme preda ai fieri lupi ingordi.
Di ragunar tesori
la sollecita cura
oblia l’avaro; e l’iracondo oblia
gli antichi sdegni, e degli amati lumi
non apprezza il lascivo i dolci sguardi,
rivolgendo i sospiri a miglior uso.
Per le vie giá frequenti e per le piazze
giá strepitose alto silenzio intorno
e strana solitudine s’ammira,
se non se ’n quanto ad or ad or si scorge
senza pompa funèbre
portarsi in lunghe schiere
a sepellir gli estinti.
Sceglie le tombe il caso, onde ciascuno
fra ceneri straniere
nel sepolcro non suo confuso giace;
ma gran parte insepolta
ingombra i campi intorno,
o di rapido fiume
si raccomanda a l'onde,
ésca al pesce, alla fèra,
se i cadaveri infetti
non abborrisce ancor la fèra e ’l pesce.
Né pur con una sola
lacrima s’accompagna
il folto stuol de’ miseri defonti,
poscia che lo spavento
ha nelle luci istupidito il pianto.
O giá sí bella Italia e sí felice,
ah quanto, oimè, da quella
diversa sei! da quella che solea
con dilettosa invidia
vagheggiarsi dai popoli stranieri!
D’ogni miseria colma,
spettacolo doglioso a l’altrui vista
t’offri, a mostrar ch’in terra
ogni felicitá passa fugace.
Santi numi del cielo,
ch’onnipotenti e giusti
con providenza eterna
le vicende ordinate
de le cose mortali,
io non mi volgo a voi;
so ben che i nostri errori
son gravi sí ch’in paragon leggère
s’han da stimar le pene.
Ma ben mi volgo a voi, numi terreni,
a voi che de l’Europa il fren reggete,
e che dai seggi eccelsi
date le leggi al popolo ch’adora
con vero culto deitá non falsa.
Poscia che i vostri immoderati affetti
e quella poco giusta arte d’impero,
che voi chiamar solete
ragion di Stato e gelosia di regno,
sono, a chi il dritto mira,
in gran parte cagion di tanti mali.
Tu che sostieni il glorïoso scettro
dell’impero roman, tu che correggi
con la destra possente
la gran Germania, al cui valor sovrano
serva è fortuna, obbedïente il fato;
tu che a tanti rubelli
depor facesti il pertinace orgoglio,
tu che i santi disdegni
rivolti avevi a fulminar sugli empi,
che con rito profano
tolgon l’antico culto ai sacri altari;
perché tronchi nel mezzo
un’opra sí magnanima e sí giusta?
Qual di ministro infido
consiglio interessato
ti fa stimar piú degno
de l’ire tue sul Mincio un tuo vassallo,
che fuor che ’l regno avito,
per legge a lui dovuto e per natura,
altro non chiede? E se dimostra in questo
forse minor la riverenza in parte
che a te si deve, è tanta
però la colpa, che mandar convegna
cento barbare squadre
nei campi ausoni a comperar la morte
a prezzo di ben mille
stragi, ruine, vïolenze, furti,
rapine, incendi, sacrilegi e stupri?
e (quel che fa piú giusti
miei gridi) a seminar gli empi veneni
de l’idra di Lutero e di Calvino,
onde s’infetti (ah, nol permetta il cielo!)
la bella Italia, ch’è maestra e madre
de la religïon verace e santa?
E poi, se ’l turco infido
ti spezza la corona
degli ungarici regni in su la fronte,
e per sé ne ritien la miglior parte,
non par che te ne curi!
In contro lui t’adira;
è colá degno campo
a tua possanza, a tua fortuna augusta.
Che tardi a vendicar gli antichi oltraggi?
Non son, non son giganti
i traci, no. San paventar la morte
anch’essi, e san fuggendo
a vergognose piaghe esporre il tergo.
Tu che a la Francia imperi,
invitto re de’ bellicosi Galli;
tu cui fin nella culla
fanciulleschi trastulli
fûro i guerrieri arnesi,
nutrito all’ombra de’ paterni allori,
da la cui forte destra
se piantate non son, fiorir non sanno
le marzïali palme;
ben da giust’ira spinto
l'armi vittorïose
finor movesti, o se dall’empie tane
scacci il rubello o i profanati templi
ritorni al vero culto o se soccorri
l’amico oppresso. Ah, qui l’impeto affrena;
né d’italici acquisti
pensa a glorie, minori
del vasto animo tuo. Volgi la mente
de’ tuoi grand’avi alle famose imprese;
essi per simil opre
non salir de la gloria all’erte cime,
ma perché su l’Oronte e sul Giordano
trofei piantâro e glorïosi e santi,
e di palme idumee cinser le chiome.
Lá t’invitan gli esempi,
ti chiaman lá quei generosi spirti
che nutri in sen, di nobil fama ingordi.
Non sa sperar altronde
che dal franco valor giusta vendetta
da tanti oltraggi e tanti
la sacra tomba. A servitú profana
tolta due volte l’ha gallico ardire:
or serba a la tua fronte il terzo alloro.
Vanne e ’n quel sacro marmo
con la tua spada intaglia
il titolo di giusto,
se poscia vuoi che si registri in cielo.
Tu, gran monarca ispano,
che di cento corone
gravi la fronte, al cui possente scettro
piú d’un mondo s’inchina,
che, se dal ciel scendesse
teco a partir l’impero
della mole terrena il sommo Giove,
piú da lasciar che da pigliare avresti;
tu, che quando il Sol nasce e quando more,
a lui presti la cuna, a lui la tomba;
a che dar loco a cosí bassa cura,
fra i tuoi vasti pensieri,
di creder che t’importi
ch’un piú ch’un altro regga
ne’ lombardi confin poche castella,
sí che tutti i tuoi fulmini apparecchi
contro il signor di Manto
cui tu dovresti a pena
degnar de’ tuoi magnanimi disdegni?
Almen, se non ti preme
che il Belga ribellante
schernisca giá tant’anni
le tue giust’ire, a l’Africa ti volgi.
Ella ti siede a fronte
pur lungo tratto e teco
antichi odi professa e spesso ardisce
mandar pochi corsari
a depredar de’ regni tuoi le sponde.
Se colá volgi l’armi,
i tuoi guerrieri allori
ne la terra e nel cielo
germoglieran frutti di gloria eterni.
Tu, veneto Leon, tu che raffreni
con giusto impero i flutti
d’Adria, tu che fuggendo
delle spade barbariche l’oltraggio,
con pacifiche leggi
sovra l'onde incostanti
stabil sede fondasti a regno eterno,
ov’han fido ricovro i grandi avanzi
della famosa libertá latina;
deponi omai, deponi
l’antica gelosia. Forse non hanno
i possenti vicini
tanto le voglie ingorde
d’aggrandir co’ tuoi danni; o se pur l’hanno,
il ciel ch’ha di te cura,
renderá vani i loro ingiusti sforzi.
Mentre esser puoi delle tragedie altrui
spettator, non ti caglia
entrar in scena a recitar la parte;
riserba i tuoi tesori a miglior uso,
fin che tramonti l’ottomana luna,
che dal sublime punto
le rintuzzate corna
omai piega declive inver’ l’occaso;
allor ne’ greci regni
offriransi al tuo crin ben cento allori.
Intanto, giá che brama
teco l’aquila augusta
stringer nodo di pace,
tu ’l dèi gradir, ché forse
vuol ragion che congiunta
sia col re delle fère
la regina del popolo volante.
Tu, regnator dell’Alpi,
che quinci stendi nell’Italia e quindi
l’antico scettro ne la Francia, ah tanto
non t’alletti la pompa
de’ paterni trofei, che non raffreni
gli spiriti magnanimi e feroci
ch’altro apprezzar non sanno
che bellicose palme!
Deh, lascia che riposi,
dopo tanti travagli,
all’ombra sospirata
di pacifiche olive
il tuo popol divoto,
finché piú nobil tromba
a ricalcar ti chiami
l’orme de’ tuoi grand’avi in Orïente.
Ma tu, del Vatican pastor sublime,
padre comun che premi il trono santo
che piú d’ogni altro in terra al ciel s’appressa,
so ben ch’ogni tua cura
rivolgi all’util nostro;
so ben che i tuoi pensieri
altro oggetto non hanno
che ’l servigio di lui, che tra’ mortali
in sua vece t’ha posto;
e so che l’api tue,
per fabricar favi di pace in terra,
favi di gloria in cielo,
entro i prati fioriti
de le potenze umane
cercan diversi fiori,
né volan solo ai gigli,
com’altri pensa. Cosí il cielo ascolti
i santi voti tuoi, sí che tu scorga
la tua diletta greggia,
sommerso in Lete ogni privato sdegno,
passar con voglie unite
nell’Asia a racquistar gli antichi ovili,
e l’abbattuta croce
a raddrizzar sul Tauro e sul Carmelo.
Arresta, o cetra, i carmi;
troppo lungo è ’l mio canto; io qui t’appendo,
non come pria d’un verde mirto ai rami,
ma d’un secco cipresso,
per non toccarti fin che non si mostri
il cielo udir placato i voti nostri.