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Il Geri Cinque dialoghi dell'arte poetica


IL BAMBERINI

OVVERO

DEGLI ARDIMENTI DEL VERSEGGIARE


Postumo, e Domenico Bamberini.

B. Postumo, volete voi farmi un piacere?

P. Di buon grado.

B. Io sono in dubbio di alcune cose leggiere ma gentili intorno al poetare volgare o italiano o toscano o fiorentino che vogliamo chiamarlo, e non sapendo per me chiarirmi, pregovi a dire sopra ciò che cosa io debba credere; edio non vorrei da voi ragione delle vostre opinioni, ma il semplice vostro giudizio, ed in somma siate il mio Pitagora.

P. Con esso voi il posso essere, però che voi volete che io il sia, ma rimarrommi Pitagora di un solo scolare.

B. Facciamo fine, e piacciavi di rispondere.

P. Chiedete.

B. È egli errore in una canzone ritornare più di una volta alla medesima rima?

P. Deh per grazia, siate maestro del vostro Pitagora ed insegnatemi che cosa sia rima.

B. Parole terminate con le stesse lettere vocali, e consonanti allegate in fine del verso.

P. Perchè fu già preso a così verseggiare rimato?

B. Per dare diletto all’orecchia di chi ascolta; io così credo.

P. Se dunque l’orecchia non prendesse così fatto diletto, la rima sarebbe indarno?

B. Indarno.

P. Ma prenderebbe, ella quel diletto quando non sentisse e non si accorgesse di sentire la rima?

B. Per mia stima, nol prenderebbe.

P. Dunque rimandosi per rispetto dell’orecchio, nulla monta che in canzoni siano più rime, se elle dal lettore non sono osservate tanto o quanto.

B. Voi conchiudete, se io ben comprendo, che si possa replicare la rima sì veramente che l’uditore non se n’offenda; ma ciò come avverrà ?

P. Ponendole fra loro distanti sì che dal lettore sia dimenticata la prima allora che si abbatte nella seconda. Ditemi per vostra fè, se per entro il corpo d’un verso vien posta parola che rimi, sentite voi condennarsi per ciò il verseggiare?

P. Direstemi voi la ragione?

B. Forse è perciocchè il fine del verso è la parte maggiore ascoltata, ed all’avanzo non si attende cosi fortemente.

P. Egli, cioè dire, fassi conto che allora non ci sia la rima, perocchè l’orecchio non s’accorge che ella vi sia; ora, compiacendovi e favellando pitagoricamente, io non affermo che il replicare la rima sia ole, specialmente se essa rima fassi per parole già nella canzone rimate, ma nè anco vi affermo che il replicarla sia biasimo quando ella sì fattamente vien replicai i che all’ascoltare non reciti noia; e veramente gli antichi verseggiatori non si diedero quest'impaccio, e voi leggendo le rime lor, ve ne farete sincero. E sappiate, che Dante e Petrarca non ne presero guardia niuna, ed i più moderni similmente; ben vi dico che i poemi eroici, quanto alla forma di mettere i versi insieme, altro non sono che canzoni lunghissime; ora, in loro canto, non troverete che rima non abbia usata più d’una volta; e per verità molto sono minute queste osservanze, e da non prescrivere ad uomini i quali spirito abbiano di poesia: ed a costoro, tanto spaventosi d'intoppare in sì piccioli incontri, potrebbesi raccontare d’un motto di Michelangelo Bonarroti. Eragli mostrata una dipintura, ed a piedi era notato, ch’ella fatta fu senza oprarvi pennelli niuni, sorrise il grand’ uomo e disse: meglio era che il maestro adoperalo avesse i pennelli ed avessela falla bene. Alcuni sono i quali pregiansi di cose di niun pregio, e costoro malagevole la strada si fanno a camminar bene; pure per loro vaghezza sia la materia delle canzoni non esposta ad ingegni volgari, entrisi in lei per vie riposte, il poeta sappia fingere di partire ed a sua voglia tornare a lei, la sparga di belle sentenze, e siano ben sonori i versi e ben figurata la favella, e sempre lontana dal popolo ed acconcia a dar meraviglia; sia dico così fatta; che poi alcuna rima vi si legga raddoppiala non se ne metta affanno il compositore. Avete voi sentilo Pitagora? se voi ne riderete, io con essa voi sarò a ridere, perocché di cose piacevoli vuolsi favellare piacevolmente.

B. Sì tutti ragionamenti non hanno da far ridere nè da far piangere; sono materie di poco momento ed appartengono a poesia della quale può il mondo rimanere senza; non per tanto gli uomini, stati celebratissimi in terra, furono presi dalla vaghezza di questi studi e gli prezzarono; altri poi s’attennero a carte, a dadi, e di costoro, come di porci in brago, per parlare con note di Dante.....

P. Io non dico tanto; ma voi avete da chiedermi altro?

B. Ditemi, o mio Pitagora, le strofe che noi volgarmente chiamiamo stanze, nelle canzoni hannosi a far brevi ovvero lunghe?

P. Orazio brevi le fa leggere, Pindaro lunghe. Dietro ciascuno di costoro io non credo che possiamo fallire a buon porto; solamente io vi ammonirei che le canzoni, si come ne fa intendere il nome, si cantano, e però se il canto dovesse essere con quei passaggi di gorga e con quei modi eccellenti di artificio, io comporrei di strofe brevi, perchè le lunghe ammettersi in quella musica troppo più di tempo consumerebbono, che le orecchie dell’uditore comportassero con pazienza: ben è vero che per le lunghe potrebbesi canto ritrovare spedito e simigliante allo schietto favellare, ed io mi dò ad intendere che tale adoperassero i Greci nel recitare i cori della tragedia; ed in Firenze, nelle reali feste, sopra le scene comincia a farsi sentire, ma secondo me non ancora perfettamente. Ora voi potrete andare attorno e dire, cosi distògli: voi vi fate belle delle mie dimande, ma non per tanto a me son care le risposte datemi. E però qual consigliò dareste voi intorno all'usare gli idiomi d’Italia nei nostri scritti? appresso i Greci intendo che fossero usati.

Le provincie greche anticamente aveano alcune voci ed alcuni modi propri di parlare, o di più avea ciascuna alcuno scrittore; ed intendo dire che Teocrito scrisse doricamente, e Sofocle atticamente, e cosi esser dovea nelle altre provincie. Chi poi non voleva essere circonscritto dentro ad un paese, nè sola parlar quella lingua, usava di trascorrerle tutte, e di loro ogni vocabolo metteva ne’ suoi ragionamenti; e di sì fatta opinione odo dire che fosse Omero, il quale ed atticamente e doricamente e ionicamente e colciamente scrisse ne' suoi poemi. Così fatta era la Grecia nel suo favellare, ma oggidì non so se Italia le si assomigli: io veramente non ho letto scrittore milanese, né veneziano, nè bolognese che sia di pregio, ed il quale fosse bastante a porre in istato un linguaggio; e veramente chi traponesse un vocabolo lombardo o genovese in poesia milanesemente e genovesemente pronuncialo, forse lodalo non ne sarebbe.

B. Parrai d'affermare il vostro intendimento; ma chi pigliasse il vocabolo milanese, e poi in modo l'acconciasse ch'egli paresse toscano?

P. Ciò fare non sarebbe certo fare come fecero gli uomini greci, ma, secondo forse non errerebbe chi lo facesse. Di questa opinione parrai che volesse esser Dante, perciocché volendo egli chiedere nell’inferno uno che gli fosse scorta, disse:


La voce a provo quivi è senza dubbio genovese, ma egli, quanto all'atto di pronunziarla, toscaneggiolla in questa maniera. Poiché la lingua vive india bocca degli uomini, io darci il mio voto ch’ella si facesse copiosa; e se il Toscano non avesse fra sue voci alcuna necessaria al parlare, io loderei che alcuna straniera se ne accettasse; e quando pure ne avesse, ed io ne vedessi fra linguaggi stranieri delle più belle, io tuttavia loderei che le facesse sue. Dico, per meglio farmi intendere: latinamente dicesi diutunrnus; se in Toscana non si trova voce di questo valore e si trovasse in Lombardia, io darei consiglio allo scrittore che toscaneggiasse la voce lombarda, si veramente che ella riuscisse leggiadra e gentile alle orecchie degli uomini; ma senza alcuna di queste cagioni io rimarrei d’impacciarmi con le parole forestiere. Disse Dante una volta:

Quivi la parola continga latina esprime quanto avvegna volgare. Perchè dunque adoperarla? Certo essendo noi forniti di moneta nostra è nostro onore non far debito con l’altrui, e molto meno commendo Dante in quell'altro luogo, ove cantò:


e ciò io voglio che detto sia con quella umile riverenza la quale si dee a sì grande intelletto. E sopra a questa vostra dimanda fattami vi do lode, perciocché mi siete partito alquanto discosto dalle scole, non dico de’ pedanti, ma...

B. Basta, non dite più innanzi. Ma io seguiterò: fatemi dunque chiaro se è mal consiglio, verseggiando, dimezzare una parola, come fa Pindaro sovente, ed alcune volte anco Orazio? Ben vi dee ricordare di quei versi saffici:

Non gemmis, neque purpura venale, neque auro:


Dove la venale serve a due versi.

P. Bamberini, voi siete non meno d'ingegno gentile che di maniere; segni ne sono i pensamenti che voi fate: ma io, domesticamente rispondendo, vi affermo, che ogni cosa poetando, secondo me, si può fare, purché bene si faccia. Voi sapete, che l'Ariosto mirabilmente scavezzò il nome di Fiordiligi; ora se alcuno mirabilmente saprà scavezzare un'altra parola, egli andrà di paro di quel cigno singolarissimo. Voi vorreste che fosse lecito comporre alcuna volta in questa maniera:

Ma rispose di no;
poscia ch'ella non po-
-teva mai consentirlo; et ancora
Il farlo non è mai;
poscia che natural-
-mente si fa.

B. A punto così, a cotesto modo.

P. In queste deliberazioni conviene fornirsi di arditezza, e raccomandarsi alla ventura. Certa cosa è, che i linguaggi onorali il facciano, e che si verseggierebbe con maggiore agevolezza; diciamo dunque, che bella cosa sarebbe all’uomo il volare, ma chi vi di arrischia creda di poter dare nome al mare facilmente.

B. Io debbo dirvi, che io leggo con grandissimo diletto i versi latini qualora sono per entro loro vocaboli scompigliati; e panni quel parlare appunto lontano dal parlare famigliare degli uomini. Ecco Virgilio:

At pater omnipotens aliquem indignatus ab umbris
Mortalem infirmos ad lumina surgere vitae?

Mortalem infitmos ad lumina surgere vitac?

Deono gli scrittori volgari avventurarsi, e seguire i Dedali di Roma e di Grecia, ovvero unicamente disporsi a volo?

P. Udite:

I belli, onde mi struggo, occhi mi cela.


Questi sono di quelli scompigli de’ quali voi prendete diletto:

B. E in parte, ma, a mio talento, è quivi piccolo scompiglio è egli così?

P. Vera del figlio Genitrice eterno.


Cotesto è quello di che io dimando; quivi sono quattro parole fra loro disperse, eppure manifestamente vedete come esse deouo accoppiarsi:

Sole sub ardenti flaventia dimetit arva.

B. Così vorrei io scompigliare.

P. Questo è ornamento di favella, io stimerei opera bene impiegala se i poeti nostri se ne addobbassero, bene è vero che la lingua latina presta maggiore comodità per questi scompigli, perchè di lei i nominativi, i genitivi e dativi e singolare e plurale sono fra loro diversi, onde con quello scompiglio non si genera confusione nè oscurità di sentimento, tuttavia:

. . . Labor omnia vincit
Improbus, et duris urgens in rebus egestas


risponderemo lealmente. Prima che Virgilio poetasse, credete, voi che si credesse potersi far versi i quali pareggiassero e per poco soverchiassero quelli di Omero?

B. Io credo che ciò comunemente non fosse creduto.

P. E ciò nonostante io veggolo adempiuto; ed il medesimo affermo di Cicerone. Chi al tempo di Catone sperato averebbe vedere un oratore somigliante a Demostene? eppure udito fu, e forse maggiore. Adduco questi esempi per provare che i linguaggi possono ogni cosa e non possono nulla, ma che le loro eccellenze sorgono per l'ingegno degli uomini che gli maneggiano.

B. Io son sicuro che io v’annoio con vili domande, ma sostenete per grazia il mio desiderio di sapere cose non grandi. I Greci furono molto apparecchiati a comporre le voci insieme, e di due vocaboli farne uno; i Latini andarono per questa via più lentamente in Parnaso, ma pure ne andarono, ora a’ Volgari sarebbe egli conceduto provarsi a cosi fatto viaggio?

P. O Bamberini!

B. Voi state molto pensoso: che è ciò? debbo io pentirmi di avervi pregato?

P. Io non voglio che ve ne pentiate, ma se io vi faccio cortesia di rispondervi, qual fia mercede per me di avervi risposto?

B. Sarà abbastanza due fiaschi di verdea? e sia quella di Arcetri?

P. Dirò col Petrarca:

Ho servito a Signor crudele e scarso.

B. Accompagnate loro altrettanti di vernaccia di san Gemignano.

P. A mano a mano appagherommi. Ma voi ch’avete podere a Legnaia, ove nascono si buoni poponi, perchè non ne offerite? siete voi cotanto ghiotto che lutti gli vogliate per voi?

B. Siano vostri quanti ne nascono sul mio.

P. Queste vivande Pitagora non le rifiutava, egli solamente era schifo di legumi: e però io, con l’abito pitagorico indosso, accetterò i vostri doni, e risponderovvi.

B. Io ve ne faccio preghiera.

P. Ma voi non ascoltate me siccome uomo il quale ammaestri, ma come uno che discorra, nè dica quello ch’è vero ma quello che a lui pare, lasciando ai saggi determinare saldamente le questioni.

Ben vi confesso, che qualora io leggo in Pindaro quei vocaboli composti co’ quali egli pure con una parola chiama il fulmine infaticabile di più, e la pace ingranditrice delle città, e somigliantemente quando leggo in Omero, che Teti aveva il piede d’argento, e ciò dice in una parola, e che Giove è adunatore di nembi, e che Nettuno aveva chiome cerulee, e molti altri così composti vocaboli, io mi fermo in leggendo, e con maraviglia prendo a pensare quanto eccellenti fossero quei poeti, poichè tanto fannomi maravigliare. E siccome una vergine peregrina facendomisi incontra tirami a sè, così le poesie ricche di sì fatti ornamenti mi costringono a leggerle volentieri, e mi dilettano a maraviglia. E quale uomo non si sente commovere suavemente udire in Virgilio il mare vehiculum? e’ centauri bimembres, ed Esculapio febigermani? E di qui io di buon grado, anzi con desiderio aspetto che nelle volgari composizioni siano creati così fatti adornamenti. E poichè voi tacete, io dichiarerò quello che per voi stimo the si dimandi senza parlare, ed è: Qual modo dovrebbesi tenere a così comporre insieme le voci, acciocchè bene elle stessero? Primieramente io lascio a banda alcune parole composte, le quali a’ volgari scrittori sono venute già fatte da’ Latini, perciocchè odorifero, lucifero, e quelle di questa schiera noi le udiamo come un vocabolo per sua naturalezza così formato, e non per ingegno di scrittore: dico appresso, che si giungono alcune particelle ai verbi, e, per tal via riescono voci doppie, come da sovra montare sormontare, e sono gentili artificj, ma non sono tuttavia quelli in cui l’uditore fermasi con maraviglia. Ed ancora suolsi raddoppiare il vocabolo giungendo il nome al verbo, come il reo tagliaborse, che nell’ idioma italiano non ha leggiadria. Questa composizione di voci ne anco, per vero dire, molta fatica pare ch’ella voglia per farsi, direi pertanto che deesi giungere un nome ad un altro nome in modo che uno almeno si storpiasse nell’annestarsi insieme, e deesi fare in modo che, innestati e divenuti uno, il vocabolo chiaramente esprima, e disciogliendosi, non rimanga forma di bel parlare e nulla significhi. Ecco Virgilio chiamò i centauri bimembres; e subito noi intendiamo che essi hanno due maniere di membra, ma separando la voce di bi e membres niuna forma tengono d’idioma latino. Consentite che io dimessamente parli e come uomo di plebe, perciocchè meglio in tal modo mi faccio intendere, e non cresco esempi, bastando per uno per additarvi il concetto del mio animo.

B. Qui non siamo a trattare salvo per farvi chiaro de’ miei dubbi, nè questo ragionamento giammai giungerà alle altrui orecchie, e di qui non si vuole in alcun modo adornarlo, e per avventura questioni sottili di cose minute scacciano da sè ogni qualità di favellare, fuori che la chiarezza. Ma voi dovete dirmi per qual via in buon volgare possono bene innestarsi due voci sì che divengano una e chiaramente significhino, e come si dia loro uno storpio leggiadro e, disciolte che fossero, niente ragionevolmente esprimessero, e, ciò facendo, a gran ragione vi si dovranno la verdea, e la vernaccia ed i poponi.

P. Voi mi rinfrescate alla mente la mercede acciocchè io non schifi la fatica, dunque ingegnerommi di dire così. Giungerei un nome sostantivo ad un aggettivo, parlando come si parla in scola grammaticale da’ fanciulli: ma che volsi fare? miglior modo non ci è dato da dichiarare manifestamente queste materie. Giungerei , dico, quei nomi, e ad uno di loro o scemerei o cangerei alcuna sillaba o lettera, e sopra tutto io prenderei cura che, distaccati, i vocaboli non significassero secondo regola grammaticale. Dante intendendo di un grifone disse animale binato, e perchè questa bestia si rappresenta mezzo destriero e mezzo uccello lo nominò come s’egli fosse nato di due, e ciò manifestamente il comprende per chi leggo, ma disciogliendosi il bi e nato nulla comprenderebbesi per loro, e qui il bi non è parola intiera ma scema. Omero appellò Nettuno con un aggiunto di chiome cerulee, il quale volgarizzandosi si direbbe chiomazzurro: qui la lettera a della chioma vassene, e distaccandosi le voci Nettuno, azzurro, chioma non sarebbe volgare da scriversi, e tuttavia innestate quelle note fannosi ben intendere.

B. Mostra che questa maniera di favellare sia per quella figura da’grammatici nominata sineddoche.

P. Pensate meglio, e sì troverete che non è vero, perocchè a ben volgarmente parlare quivi vien meno l’articolo. Udite: Nettuno chiomazzurro, vien a dire che Nettuno ha le chiome azzurre, facendosene la figura sineddoche, conviene adoperare l’articolo, e dire Nettuno azzurro le chiome, e così leggiamo nei versi del Petrarca: Vergine bruna, i begli occhi, e le chiome. E riducendo la figura in parlare usitato si scriverebbe Nettuno ha le chiome azzurrate, ma dire Nettuno ha le chiome azzurre non suona bene, e se alcuna volta per forza di lingua, ciò che io vi dissi, favellasse, per lo più non fallirà. Dico più innanzi, che è da por mente che giungendo in comporre vocaboli con nome sostantivo ad un aggettivo, deesi prendere guardia ch’essi nomi siano varj fra loro, e mi dichiaro con esempio. Se alcuno volesse dire che la valle è adorna di rose, e dicesse valle rosadorna comporrebbe bene, ma perchè valle è voce femminile, e rosa pur voce femminile lascerebbe il lettore con oscurezza, ma se si scrivesse prato rosadorno, quella condizione di ornamento non può concedersi alla rosa, essendo ella voce femminile, e prato ed adorno maschile. Ed in tal guisa stimo io che forse potrebbesi ben congiungere un nome sostantivo ad uno aggettivo, ma se altri congiungesse due nomi, ed ambidue fossero sostantivi, sarebbe più ingegnosa la sua opera, e trovo in volgare italiano sì fatti esempj: calpestìo, cordoglio, verisimiglianza.

B. Questo discorso è come discendere a primi principi di questi studi.

P. Così è.

B. Ma quale intelletto sosterrà la molestia di condurvisi?

P. Quale? quello che sarà vago di condursi su la cima della poesia. Avete mai sentito dire, che nelle parole i grandi fanno sentire col suono delle lettere il concetto che essi trattano?

B. Non v’intendo.

P, Narrando, che un cavallo fosse in carriera, parrebbe egli ben fatto, che il verso fosse di piedi dattili, abbondanti di sillabe brevi?

B. A me parrebbe.

P. Così parve a Virgilio quando egli cantò:

Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum:

E narrando che un fiume grosso se n’andava risonando, compose col suo divino ingegno questi versi, per ciò ammirabili:

Quae rapidum flammis ambit, torrenlibus amnis.
Tartareus Flegeton, torquetque sonantia saxa.

Al fiore del vasto intelletto, o Bamberini, bastano poche parole, e per voi stesse poi leggendo osserverete i sublimi pensieri de’ poeti eccellenti. Ma non voglio tacere, che la lettera u è tra gli uomini di suono melanconico e dolente. Virgilio, accorgendosene, e trattando di materia lagrimosa disse una volta:

               Jacetque superbum
Ilion, et omnis humo fumat Neptunia Troia.

Ove per verità piange il verso, sì come udite. Ed altra volta, lagrimando per la morte di Dafni, scrisse:

Pro molli viola, pro purpureo narciso
Carduus, et spinis surgit Paliurus acutis.

Nè meno di Virgilio se nc accorse Cicerone, quando, difendendo Milone, disse querelando: Quid me reducent esse voluistis si distrahor ab his per quos restitutus sum? E pure difendendo Plancio, e chiamandolo dolorosamente a se: Cui ex urge tamen precor. Voi, direte, Bamberini a me dilettissimo, perchè ragioni io si fatte cose? Io ne ragiono acciocchè veggiate che, per divenire grandissimi, costoro posero la mente anco a cose piccolissime, benchè non sono piccoli nè da poco pregiarsi questi artifizj, e se il giungere parole in uno non generasse maraviglia nell’uditore, e non facesse la scrittura altiera oltremodo. Virgilio non se ne mostrerebbe sì vago. Ecco nel sesto libro, ove egli e eccelso se mai fu tanto:

               male suada fames......
                    centum geminus Briareus.

Che dico io? Tricorpons umbrae, longeva Sacerdos

latratu regna trifauci. Dice che le porte, horrisono strident sonitu, ed altri ardimenti felicissimi. E ditemi, per vostra fede, stimate voi che la favella del prosatore sia una stessa cosa con la favella del poeta?

B. Non io per certo.

P. Stimate voi dunque, ch’ella sia meno o più nobile?

B. Più nobile.

P. Di donde sorge la nobiltà della favella? dalle maniere del dire usitate, o dalle peregrine?

B. Dalle peregrine.

P. Ma le figure che chiamano i maestri del parlare, sono maniere peregrine?

B. Senza dubbio.

P. E comporre parole, dirassi egli figura della favella?

B. Dirassi.

P. Io ho per costante, che le vostre risposte sieno verissime, e però giungerò due parole, ed aspetterò i vostri doni, se io meritati gli avrò, io mi rammento che Petronio Arbitro, il quale scrisse sotto l’imperio di Tiberio, voglio dire in secolo non isciocco, mi rammento, dico, ch’egli lasciò scritto queste parole: Minus quam duabus horis mecum moraris, et saepius poetice, quam humane locutus es. Certamente la parola humane, per opinione di Petronio, si oppone alla parola poetice: ma se il favellare poetico non è umano, quale sarà egli? bestiale, o divino?

B. Dico divino, perciocchè leggiamo persone divine favellare poeticamente.

P. Ottimamente, e con voi ne viene Orazio là dove egli scrive:

Surge, et inhumanae tedium depone Camenae,

ove appella la Camena inhumana, cioè divina.

Dico più oltre. Cicerone, nel terzo libro delle Questioni Tusculane, nomina Accio il quale scrisse: quis nam liberum florem invidit meum? e poi giunge: male latine videtur, sed preclare Accius, ut enim videro, sic invidere florem rectius, quam flori dicimus: nos consuetudine prohibemur? Poeta ius suum retinuit, et dixit audacius. Eccovi dunque, che il poeta dee dire con arditezza. Ora, assumendo, io vi affermo che il poeta non dee essere dimesso, ma altiero, e, pensando allo spirito che lo riempie, andare volando e fare che chiunque volge lo sguardo in lui rimanga maravigliato, ma intendendo di far ciò, egli dee essere discreto e contenersi nei confini della ragione, nè amare tanto sua libertà, che all’arte non si sottoponga. Altro non ho che dire, e forse ho troppo detto, ma se io ho commesso errore, voi erraste che dolcemente mi costringeste a dire.

B. Forse similianti ammaestramenti oggidì si dovrebbero degnare da coloro i quali ascendono a poetare. Ma noi andiamo, se vi pare, a’ Marmi, ovvero a Santa Trinità.

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