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Inferno - Canto XXX Inferno - Canto XXXII

C A N T O   XXXI.





1Una medesma lingua pria mi morse,
      Sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
      E poi la medicina mi riporse.
4Così od’io che solea far la lancia
      D’Achille e del suo padre; esser cagione1
      Prima di trista e poi di buona mancia.
7Noi demmo il dosso al misero vallone,
      Su per la ripa, che ’l cinge d’intorno,2
      Attraversando sanza alcun sermone.
10Quivi era men che notte e men che giorno,
      Sì che il viso m’andava inanzi poco;
      Ma io senti’ sonare un altro corno,3
13Tanto ch’avrebbe ogni tuon fatto fioco,
      Che, contra sè la sua via seguitando,
      Dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
16Dopo la dolorosa rotta, quando
      Carlo Magno perdè la santa gesta,
      Non sonò sì terribilmente Orlando.
19Poco portai in là volta la testa,
      Che me parve veder molte alte torri;4
      Ond’io: Maestro, dì, che terra è questa?

22Et elli a me: Però che tu trascorri
      Per le tenebre troppo dalla lungi,
      Avvien che poi nel maginare aborri.5
25Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
      Quanto il senso s’inganna di lontano;
      Però alquanto più te stesso pungi.6
28Poi caramente mi prese per mano,
      E disse: Prima che noi siam più avanti,
      Acciò che il fatto men ti paia strano,
31Sappi che non son torri; ma giganti,
      E son nel pozzo intorno dalla ripa
      Dall’ombellico in giuso tutti quanti.
34Come, quando la nebbia si dissipa,
      Lo sguardo a poco a poco raffigura
      Ciò che cela il vapor che l’aere stipa;
37Così, forando l’aere grossa e scura,
      Più e più appressando in ver la sponda,
      Fuggemi errore, e crescemi paura.
40Però che come in su la cerchia tonda7
      Montereggion di torri si incorona;
      Così la proda, che il pozzo circonda,
43Torreggiavan di mezza la persona
      Li orribili giganti, cui minaccia
      Giove del Cielo ancora, quando tuona.
46Et io scorgea già d’alcun la faccia,
      Le spalle e il petto, e del ventre gran parte,8
      E per le coste giù ambo le braccia.

49Natura certo, quando lasciò l’arte
      Di sì fatti animali, assai fe bene,
      Per torre tali esecutori a Marte.9
52E s’ella d’elefanti e di balene
      Non si pentè, chi guarda sottilmente,
      Più giusta e più discreta la ne tiene:10
55Chè dove l’argomento della mente
      S’aggiugne al mal volere, et à la possa,
      Nessun riparo vi può far la gente.
58La faccia sua mi parea lunga e grossa,
      Come la pina di San Piero a Roma,11
      Et a sua proporzion eran l’altre ossa;
61Sì che la ripa, ch’era perizoma
      Dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto12
      Di sopra, che di giugnere alla chioma
64Tre Frison s’averien dato mal vanto:13
      Però ch’io ne vedea trenta gran palmi
      Dal luogo in giù, dov’uom s’affibbia il manto.
67Raphel may ameth zabi almy,14
      Cominciò a gridar la fiera bocca,
      Cui non si convenia più dolci salmi.
70E il Duca mio ver lui: Anima sciocca,
      Tienti col corno, e con quel ti disfoga,
      Quand’ira o altra passion ti tocca.
73Cercati il collo, e troverai la soga
      Che il tien legato, o anima confusa,
      E vedi lui che il gran petto ti toga.15

76Poi disse a me: Elli stesso s’accusa:
      Questi è Nembrotto, per lo cui mal voto16
      Pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
79Lascianlo stare, e non parliamo a voto:17
      Chè così è a lui ciascun linguaggio,
      Come il suo ad altrui, che a nullo è noto.
82Facemmo adunque più lungo viaggio,
      Volti a sinistra; et al trar d’un balestro
      Trovammo l’altro assai più fiero e maggio.18
85A cigner lui, qual che fosse il maestro,
      Non so io dire; ma el tenea soccinto
      Dinanzi l’altro, e dietro il braccio destro,
88D’una catena, che il teneva avvinto
      Dal collo in giù, sì che in su lo scoperto
      Si ravvolgea infìno al giro quinto.
91Questo superbo voll’essere esperto
      Di sua potenzia contra il sommo Giove,
      Disse il mio Duca, ond’elli à cotal merto.
94Fialte à nome, e fece le gran prove,
      Quando i giganti fer paura a’ Dei:
      Le braccia, ch’el menò, giammai non muove.
97Et io a lui: Se esser puote, io vorrei
      Che dello smisurato Briareo
      Esperienzia avesser li occhi miei.
100Ond’ei rispose: Tu vedrai Anteo
      Presso di qui, che parla et è disciolto,19
      Che ne porrà nel fondo d’ogni reo.

103Quel che tu vuoi veder, più là è molto,
      Et è legato e fatto come questo,
      Salvo che più feroce par nel volto.
106Non fu tremuoto mai tanto rubesto,20
      Che scotesse una torre così forte,
      Come Fialte a scuotersi fu presto.
109Allor temett’io più che mai la morte;
      E non era mestier più che la dotta,
      S’io non avessi viste le ritorte.
112Noi procedemmo più avanti allotta,
      E venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
      Sanza la testa, uscia fuor della grotta.
115O tu, che nella fortunata valle,
      Che fece Scipion di gloria reda,21
      Quando Annibal co’ suoi diede le spalle,
118Recasti già mille leon per preda,
      E che, se fossi stato all’alta guerra
      De’ tuoi fratelli, ancor par che si creda,
121Che avrebbon vinto i figli della terra;
      Mettine giù (e non ten vegna schifo)22
      Dove Cocito la freddura serra.
124Non ci far ire nè a Tizio, nè a Tifo:23
      Questi può dar di quel che qui si brama;
      Però ti china, e non torcer lo grifo.
127Ancor ti può nel mondo render fama;
      Ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta,24
      Se innanzi tempo grazia a sè nol chiama.

130Così disse il Maestro; e quelli in fretta
      La man distese, e prese il Duca mio,
      Ond’Ercole sentì già grande stretta.
133Virgilio, quando prender si sentio,
      Disse a me: Fatti in qua, sì ch’io ti prenda;
      Poi fece sì, ch’un fascio era elli et io.
136Qual pare a riguardar la Garisenda
      Sotto il chinato, quando un nuvol vada
      Sovressa sì, che ella in contro penda;
139Tal parve Anteo a me, che stava a bada
      Di vederlo chinare, e fu tal’ora
      Ch’io avrei voluto ir per altra strada:
142Ma lievemente al fondo, che divora
      Lucifero con Giuda, ci posò;25
      Nè sì chinato lì fece dimora,
145E come albero in nave si levò.26

  1. v. 5. C. M. di suo
  2. v. 8. C. M. che il cinghia d’intorno,
  3. v. 12. C. M. sonar un alto corno,
  4. v. 20. C. M. Che mi parve
  5. v. 24. Aborri; aberri, cambiata in o l’e ad esempio de’ Latini i quali dissero vortit, voster per vertit, vester. Leggesi presso Ennio «Avorsabuntur semper vos, vostraque volta». E.
  6. v. 27. C. M. Però te stesso alquanto più pungi.
  7. v. 40. C. M. come su la cerchia
  8. v. 47. C. M. e il ventre, e del petto
  9. v. 51. C. M. torrer
  10. v. 54. C. M. ne la tene:
  11. v. 59. C. M. la pigna
  12. v. 62. C. M. in giù, non mostava
  13. v. 64. C. M. Tre Fregion s’avren dato
  14. v. 67. C. M. bay
  15. v. 75. E vedi lei
  16. v. 77. mal coto
  17. v. 79. C. M. Lasciallo stare,
  18. v. 84. Maggio; maggiore, dal majus latino, cambiata la j in gg, come pure da pejus; peggio. E.
  19. v. 101. C. M. da qui,
  20. v. 106. C. M. già tanto rubesto,
  21. v. 116. Reda, ereda; ne’ Classici nostri si truova di genere comune in ambidue i numeri. E.
  22. v. 122. C. M. non ti vegna
  23. v. 124. C. M. ire a Tizio,
  24. v. 128. C. M. Ch’el viene,
  25. v. 143. C. M. sposoe,
  26. v. 145. C. M. E come alboro in nave si levoe.




C O M M E N T O


     Una medesma lingua ec. Questo è lo xxxi canto, nel quale l’autor pone lo suo processo dallo viii cerchio nel ix; e prima pone quel che trovò in su la ripa, ove è il discenso nel ix cerchio; nella seconda pone il modo come discesono, quivi: Facemmo adunque ec. La prima, che è la prima lezione, si divide in vii parti: però che prima dimostra con una similitudine quel, che Virgilio avea fatto in verso di lui nel precedente canto; nella seconda manifesta la via che presono, poi che si partirono della decima bolgia, che è l’ultima dell’viii cerchio, quivi: Noi demmo il dosso ec.; nella terza pone come domandò Virgilio, per dichiararsi di quel che li parea vedere, e la dichiaragione che Virgilio li fece in generale, quivi: Poco portai in là ec.; nella quarta pone la dichiaragione, che Virgilio li fa, speziale, quivi: Poi caramente ec.; nella quinta pone come, certificato da Virgilio, incominciò a comprendere da per sè medesimo, e pone sentenzie molto notabili, quivi: Et io scorgea ec.; nella sesta pone come, approssimato alla ripa del nono cerchio, vide tra li altri un gran gigante, quivi: La faccia sua ec.; nella settima et ultima manifesta Virgilio a Dante chi è quel gigante, quivi: E il Duca mio ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

Poi che Virgilio nella fine del precedente canto crucciosamente prima, e poi benignamente riprese Dante, incomincia l’autor questo seguente canto da quello, dicendo che una medesima lingua; cioè quella di Virgilio, prima lo morse riprendendolo irosamente sì, che lo fece vergognare; e poi li riporse la medicina, riprendendolo dolcemente come solea fare la lancia d’Achille e del padre suo, che prima dava mortal ferita, e poi, se un’altra volta si mettea nella ferita, la facea sanabile. Poi comincia a narrare lo suo processo, dicendo che volsono le spalle alla bolgia, et andarono su per la ripa che la cigne d’intorno, verso lo nono cerchio attraversando la ripa; e dice ch’andando sanza parlare, ragguardando poco inanzi: però che poco vi potea la vista, perchè v’era oscuro, udì sonare1 uno corno, tanto che soperchiava ogni tuono; e dice che Orlando, quando furono rotti i paladini, non sonò sì terribilmente; et a questo suono dirizzò Dante la vista, per udire2 se vedea alcuna cosa. Et andando poco ragguardando in là, dice che li parve vedere molte torri; onde domandò Virgilio che città era quella. Allora Virgilio li risponde generalmente che per le tenebre elli non potea scorgere, e però s’ingannava parendoli vedere quel che non vedeva; e però affrettati che quando sarai presso, vedrai bene quanto t’inganni del tuo pensieri per la vista da lungi. E poi dice che il prese per mano, e disseli: Acciò che non ti maravigli, innanzi che andiamo più oltre, ti voglio certificare che quelle, che ti paiono torri: sono giganti; e sono intorno a questa ripa nel pozzo, ove è lo cerchio nono, dal bellico in giù. Et approssimandosi dice che, come quando la nebbia si disfà, a poco a poco s’affigura quel che cela il vapore; così, andando raffigurando ch’erano giganti, certifìcavasi et impauriva. E fa una similitudine che, come Montereggioni à molte torri intorno, su per le mura; così li giganti stavano intorno alla ripa, dentro del cerchio ottavo fitti dal bellico in giù, nel nono cerchio che il pone in modo d’un pozzo; e dice che già scorgeva la faccia d’alcuno, le spalle e il ventre e gran parte del petto, e le braccia. Et aggiugne notabili sentenzie che, veramente la natura quando si rimase di producere giganti, le bene per torre via li combattitori, et infestatori della pace. E se altri opponesse, perchè non s’è rimasa delli elefanti e delle balene che avanzano tanto ed infestano li altri animali, dice che non era bisogno: imperò che, ben ch’abbino la possanza, non ànno il mal voler, nè lo ingegno a mal fare, come gli uomini, a’ quali non si potrebbe riparare come si può riparare alli animali bruti. E ritornando alla narrazione di quel ch’elli vedea, dice che la faccia sua li parea lunga e grossa, come la pina di San Piero a Roma, e l’altre membra rispondeano alla faccia; e tanto usciva fuor della ripa dal mezzo in su, che tre Frisoni, l’uno sopra l’altro, non li sarebbono aggiunti alla capellatura: imperò ch’elli era trenta grandi palmi, dal petto ove s’annoda il mantello, in fino alla ripa che fasciava e velava dal mezzo in giù; e come fumo presso, questo gigante incominciò a parlare in suo linguaggio parole d’ira. A che Virgilio risponde ch’elli sfoghi l’ira sua col corno, e che si cerchi il collo e lui vedrà legato pendere al petto; e poi si rivolse a Dante, dicendogli che quelli era Nembrot, che fece la torre di Babel ove si confusono le lingue; e dice a Dante: Lascialo stare, non parliamo invano con lui, che così male intenderebbe elli noi, come noi lui, che il suo linguaggio a niuno è noto, nè li altri sono noti a lui. E qui finisce la lezione prima: ora è da vedere il testo con l’allegorie et esposizioni.

C. XXXI — v. 1-6. In questi due primi ternari l’autor nostro fa menzione della riprensione avuta da Virgilio, prima irosamente, e poi benignamente, come di sopra appare nella fine del precedente canto, adducendovi poi per similitudine una poetica fizione della lancia d’Achille, e dice così: Una medesma lingua; cioè di Virgilio, pria mi morse; quando mi riprese crucciatamente, Sì che mi tinse l’una e l’altra guancia; di rossore: imperò che mi fece vergognare, perchè la vergogna arreca rossore nella faccia, come detto fu di sopra altra volta, E poi la medicina mi riporse: cioè poi, quando benignamente mi riprese, dandomi conforto, come appare nella fine del canto precedente. Così od’io; dice Dante, che solea far la lancia D’Achille e del suo padre; cioè di Pelleo; esser cagione Prima di trista e poi di buona mancia; dicesi appo li poeti che la lancia d’Achille, che fu prima di Pelleo suo padre, avea questa virtù che dava ferita non sanabile, se non si mettea un’altra volta nella ferita, et allora diventava la ferita sanabile; e però dice l’autore che così fece Virgilio, che prima ferì Dante riprendendolo aspramente, e la medicina gli porse poi confortandolo, come la lancia d’Achille che, messa la seconda volta nella ferita, la facea sanabile. Et è da notare qui che l’uomo savio in due modi riprende l’errante; o crucciatamente quando l’errore è grande, e il corrigibile è minore del correttore, e quando è malagevole a correggere; o dolcemente quando l’errore è piccolo, e il corrigibile è maggiore et agevole a correggere. Ma Virgilio, secondo l’autore, tenne l’uno e l’altro modo, a denotare l’une e l’altre condizioni essere in Dante, non perchè l’errore fosse grande, nè perchè Dante fosse maggiore; ma perch’era agevole e malagevole a correggere per diversi respetti: la sensualità di Dante, non sottomessa alla ragione, nè obbediente è malagevole a correggere; ma sottomessa et obbediente è agevole; e però prima pone l’una correzione e poi l’altra.

C. XXXI— v. 7-18. In questi quattro ternari l’autor nostro pone lo processo suo nella materia sua, posta la similitudine di sopra detta, dicendo come si partirono della x bolgia, et attraversando su per la ripa, che chiudeva e finiva l’ottavo cerchio, andarono alla circunferenzia sua che finiva l’ottavo cerchio, come detto è, et incominciava lo nono; e però dice: Noi; cioè Virgilio et io Dante, demmo il dosso al misero vallone; cioè volgemmo le spalle alla x bolgia, Su per la ripa che ’l cinge d’intorno; cioè quella bolgia, Attraversando sanza alcun sermone; cioè andando a traverso, per ritto e non in giro, sanza parlare. L’andare in giro fìnge l’autore, quando vuole significare d’avere a vedere d’alcuna spezie di peccato; ma attraversare, quando vuole significare passare dell’una spezie nell’altra, come ora. Quivi era men che notte e men che giorno; descrive qui lo tempo, cioè la sua qualità, ponendo che non v’era chiarezza al tutto, nè oscurità al tutto, Sì che il viso m’andava inanzi poco. A che fine à descritto la qualità del tempo? A significare che poco potea vedere inanzi. Ma io senti’ sonare un altro corno; quasi dica: Bench’io non potessi molto vedere, io potea udire, e però senti’ sonare un altro corno, Tanto ch’avrebbe ogni tuon fatto fioco; fa comperazione del sono del corno al tuono; e dice che tanto era maggiore lo suono del corno che quel del tuono, che il tuono sarebbe paruto fioco; e qui usa l’autore la figura iperbole, della quale è stato detto, eccedendo il modo del dire la verità, Che; cioè lo qual sono, Dirizzò li occhi miei tutti ad un loco, contra sè seguitando la sua via; cioè andando contra il suono. Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdè la santa gesta, Non sonò sì terribilmente Orlando. Qui fa una similitudine et introduce la storia, quando Carlo Magno combattè contra l’infedeli, che furono morti li paladini, Orlando sonò lo suo corno sì terribilmente, che il corno si fesse et elli crepò, e morì: e benchè sonasse smisuratamente tanto, che fu udito da lungi molte miglia; niente di meno non sonò sì terribilmente, come questo corno ch’udì Dante. Chi sonasse questo corno, e qual si fosse si dirà di sotto.

C. XXXI — v. 19-27. In questi tre ternari l’autor nostro finge come, ragguardando inanzi, li parve vedere torri; e però domanda Virgilio che città fosse quella che li parea vedere. A che Virgilio risponde in generale e dice così: Poco portai; io Dante, in là; cioè in verso lo suono, volta la testa, Che me parve veder molte alte torri; la qual cosa non era così, Ond’io: Maestro, dì, che terra è questa? Pone com’egli domanda Virgilio qual fosse quella città, che li parea vedere. Et elli a me; pone come Virgilio li rispose in generale, dicendo: Et elli; cioè Virgilio, a me; cioè Dante, disse cioè s’intende: Però che tu trascorri Per le tenebre troppo dalla lungi; quasi dica: Perchè t’è troppo di lungi la vista, conviene correre più che non può nel luogo tenebroso: imperò che cosa potrebbe la vista nel luogo chiaro, che non può nel luogo tenebroso? Avvien che poi nel maginare3 aborri; cioè addivien che tu erri nello immaginare, per lo stendere la vista più che non può. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi; cioè quando tu t’approssimerai, tu vedrai bene, Quanto il senso; cioè lo sentimento, s’inganna di lontano; cioè di lungi stando, Però alquanto più te stesso pungi; cioè sollicita più te medesimo, per certificarti. Et è qui da notare che nella prospettiva si richeggono4 proporzioni, come nell’altre cose: imperò che conviene che alla virtù visiva risponda, secondo la sua potenzia, la distanzia del luogo e la quantità dell’obietto, e la chiarezza della luce; e per questo addiviene che una medesima cosa in una medesima distanzia altrimenti si comprende da uno occhio, altrimenti da un’altro, secondo che la virtù visiva è maggiore in uno che in un altro; e così da uno medesimo occhio altrimenti si comprende la cosa di di’, altrimenti di notte, altrimenti da presso, altrimenti da lungi.

C. XXXI — v. 28-39. In questi quattro ternari l’autor nostro finge che Virgilio specialmente li manifesti quanto s’inganna da lungi la vista, dimostrando quel che sono quelli che gli erano parute torri, dicendo così: Poi caramente mi prese per mano; cioè Virgilio me Dante, E disse: Prima che noi siam più avanti; cioè che noi ci appressiamo più, Acciò che il fatto men ti paia strano; cioè acciò che meno ne dubiti, Sappi che non son torri; ma giganti; quelli che tu vedi, E son nel pozzo; cioè nel nono cerchio, intorno dalla ripa; di questo ottavo cerchio: l’autor chiama lo nono cerchio pozzo: imperò che strignendo tuttavia li cerchi, come dimostrato è di sopra, era di venire ad uno tondo stretto, per rispetto delli altri come uno pozzo, Dall’ombellico in giuso tutti quanti; sì ch’erano fitti nella giaccia5 infino al bellico, e da indi in su erano fuori; et erano sì grandi, che parean torri. Come, quando la nebbia si dissipa; fa qui una similitudine che, come quando la nebbia si dirada, Lo sguardo a poco a poco raffigura; cioè la vista a poco a poco viene scorgendo, Ciò che cela il vapor che l’aere stipa; cioè ciò che nasconde lo vapore umido, che si leva dall’umido de’ paduli e de’ fiumi e de’ luoghi umidi della terra; lo qual vapore denso toglie la vista, e diradato dal caldo si risolve e rende la vista; Così, forando l’aere grossa e scura; ora adatta la similitudine che, così andando per quello aere grosso, et oscuro, Più e più appressando in ver la sponda; cioè approssimandosi più e più in ver la sponda ultima de l’ottavo cerchio, che è ripa al nono, Fuggemi errore; perchè mi certifico quello ch’era la cagione, perchè prima mi pareano torri, e crescemi paura; perchè veggo che sono giganti. E per non avere a dire ogni cosa in uno luogo, doviamo notare qui la narrazione fitta che fanno i poeti de’ giganti, oltra quello che ne dice la Santa Scrittura, che pone che fossono al tempo che venne dopo Noè, dopo lo diluvio, et allora fu Nembrot del quale si dirà di sotto. Questi giganti furono uomini potentissimi ch’avanzavano li altri in statura et in potenzia; e furono detti giganti; cioè figliuoli della terra: imperò che erano uomini dati pure alle cose della terra e dispregiavano Idio; ma Idio li disfece quando li piacque, come fu degno. E questo medesimo intese la fìzione poetica, che finge che li giganti nascessono pur della terra la quale, crucciata contra li dii, produsse tale spezie la quale fu contra li dii; e combatterono e puosono monte sopra monte per voler pigliare lo cielo; ma fulminati da Giove morirono tutti, come pone Ovidio, Metamorfoseos libro primo. E perchè furono tanto superbi, che vollono pigliare il cielo, per questo furono fulminati; per tanto l’autore finge che sieno posti, come mostrò, nel nono cerchio ove si punisce radicalmente lo peccato della superbia. E sono posti in figura di coloro che insurgono per superbia contro a Dio, i quali sono pur figliuoli della terra, perchè non sanno se non cose terrene: e pongono monte sopra monte; cioè facultà sopra facultà, per volere avere in terra lo stato celeste; ma elli sono fulminati, quando sono abbattuti dalla felicità nella miseria, e quando moiono e vanno all’inferno. Del peccato della superbia fu detto di sopra, capitolo xvi, e però niente se ne dice qui, se non quel che tocca il testo.

C. XXXI — v. 40-45. In questi due ternari fìnge l’autor nostro primamente una similitudine, per mostrare la grandezza de’ detti giganti e il modo come stavano, e dice così: Però che come in su la cerchia tonda Montereggion di torri si incorona: Montereggion è uno castello in quel di Siena, ch’à molte torri in su le mura intorno; e però fa questa similitudine che, come in sulle mura Montereggioni s’incorona di torri, Così la proda, che il pozzo circonda; chiama pozzo lo nono cerchio, perchè a rispetto delli altri tanto venia stretto, che parea uno pozzo; et in su la proda, ch’era d’intorno, Torreggiavan; cioè rappresentavano torri, di mazza la persona: imperò che dalla proda in su si vedea pur lo mezzo del gigante e non più, sì che faceano torri del mezzo, Li orribili giganti; cioè tali che spaventavano altrui, cui; cioè li quali, minaccia Giove del Cielo ancora, quando tuona. Ragguarda qui alle fìzioni poetiche, che fingono che fossono fulminati da Giove e posti sotto li monti sì, che ancor finge che sieno minacciati da Dio quando tuona, per dare ad intendere che i superbi per li tuoni e per le saette dovrebbono temere Idio, e conoscere lo suo errore e vedere la potenzia di Dio.

C. XXXI — v. 46-57. In questi quattro ternari l’autor nostro, seguitando la materia de’ giganti, pone come si certificò approssimato, chi egli erano; et aggiugne alcuna sentenzia notabile, dicendo: Et io; cioè Dante, scorgea già d’alcun la faccia; di quelli giganti, Le spalle e il petto, e del ventre gran parte; che prima da lungi non le scorgea; e dice gran parte del ventre, perchè alcuna parte n’era coperta con le braccia, che erano legate dinanzi; e però dice: E per le coste giù ambo le braccia; cioè per le coste del ventre giù legate: e non finge che tutti fossono legati; ma solamente quelli che furono contro a Giove, come appare nel testo. Et aggiugne sentenzia notabile, dicendo: Natura certo, quando lasciò l’arte Di sì fatti animali, assai fe bene; quasi dica: Quando la natura si rimase di producere li giganti, fece molto bene e discretamente, Per torre tali esecutori a Marte: Marte, secondo li pagani, si diceva esecutore et ancora idio delle battaglie, e significa la superbia: però che per superbia questi giganti combatteano, sottomettendosi li meno potenti; e però si chiamano esecutori di Marte; cioè della superbia, o vogliamo dire, della fortezza corporale: però che tali uomini sono operatori della fortezza. E s’ella d’elefanti e di balene Non si pentè; cioè s’ella non si rimase di producere elefanti e balene: elefanti sono in terra grandissimi animali, sanza giuntura nelle gambe e truovansi in India, et ancora anticamente in Africa; e dell’ossa sue si è l’avorio, e quello delli denti è il migliore, et ànno la promuscida6 come uno budello alla bocca, la quale stendono, o vero lo quale scendono, a pigliare lo cipo7 e tiranlo a sè, et ànnovi tanta forza che ogni cosa tirerebbono; e sono di tanta fortezza che portano la torre del legname a dosso dove stanno li uomini a combattere; e vivono gran tempo e vanno in mandria: però che stanno volentieri acompagnati; e tengono molta industria nelle battaglie quelli, che sono dimesticati in andare piano e ratto; come fa bisogno in tirare a terra li uomini, paiono avere intendimento, in tanto che quando Annibale d’Africa li volle menare di qua in Italia, non li potea fare entrare nel viaggio8, se non che prima promise loro con giuramento di rimenarli in Africa. Congiugnesi lo maschio con la femina, volgendo la groppa l’uno all’altro; non partorisce se non uno per parto, e portalo uno anno e fallo nell’acqua, acciò che si possa levare9. Pigliansi dagli uomini con inganni, tagliando li arbori ove si sogliono appoggiare a dormire sì, che quando vi s’appoggiono, caggiono in terra; et è molto grato animale a chi li fa bene: imperò che ubidisce poi chi lo rileva. Ànno nimicizia con li dragoni, e però li dragoni si lanciano al fianco loro, a succhiare il sangue loro che ne sono molto vaghi; et essi si gittano in terra, e col peso uccidono lo dragone. La balena è uno pesce grandissimo in mare e di grandissima forza e gitta l’acqua grandissimamente, o vero altissimamente, per due fori che à nella testa, al lato alle nari del naso, tra li occhi e la bocca, et in grande abondanzia; e farebbe pericolare molti legni, se non che à sopra li occhi come falcie grandissime, appiccate l’una all’altra, digradando incominciando dal lato men grandi, e poi più infino al mezzo dell’occhio, sicchè come cava lo capo, queste lappole caggiono in giù e non può vedere lume, e nell’acqua, sì che l’acqua le galleggia come uno tetto levatoio, chi guarda sottilmente, Più giusta e più discreta la ne tiene; cioè la natura, che non à lasciato di producere li elefanti e le balene, come a lasciato di producere li giganti; et assegna la cagione: Chè dove l’argomento della mente S’aggiugne al mal volere, et à la possa; queste tre cose erano nelli giganti; ma nelli elefanti no, nè nelle balene che, benchè vi fosse la possa, non v’era il mal volere, nè lo ingegno; e se pur vi fosse il mal volere, che ragionevolmente non si può dire, se non in quelli animali ov’è lo libero arbitrio, non vi può essere lo ingegno come nell’uomo, che è animale ragionevole et intellettuale, Nessun riparo vi può far la gente; e però la natura lasciò di producere li giganti, perch’era male inreparabile.

C. XXXI — v. 58-69. In questi quattro ternari lo nostro autore descrive quel gigante lo quale elli scorgeva, e finge che fosse Nembrot, del quale si dirà di sotto, e dice così: La faccia sua; cioè di quel gigante10 scorgea, mi parea lunga e grossa, Come la pina di San Piero a Roma; fa qui la similitudine che, come è lunga e grossa la pina di San Piero a Roma; così la faccia di quel gigante; cioè Nembrot: questa pina è a Roma nella chiesa di san Piero11, et è di rame, Et a sua proporzion eran l’altre ossa; cioè tutta l’altra persona rispondea proporzionatamente alla testa; e così dimostra la sua grossezza, Sì che la ripa, ch’era perizoma: è vestimento che cuopre le parti vergognose del corpo; sì che vuol dire che la ripa copria le parti vergognose di sotto del gigante, Dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto Di sopra; cioè di sopra dalla ripa, che di giugnere alla chioma; cioè alla capellatura di rietro, Tre Frison s’averien dato mal vanto: Frisoni sono popoli posti in Asia nella contrada chiamata Frigia, e sono uomini grandi più che tutti li altri, e però dice che tre Frison, l’uno sopra l’altro, s’averien dato mal vanto d’aggiugnersi alla chioma; cioè che non sarebbono aggiuntoli pure alla capellatura sua: tant’era grande: Però ch’io ne vedea trenta gran palmi; ora assegna la cagion, dicendo che quel che vedea dal mezzo in su in fino al petto, ove l’uomo s’affibbia il mantello, era trenta gran palmi; e li Frisoni sono grandi dieci palmi, li maggiori che vi sono, Dal luogo in giù, dov’uom s’affibbia il manto; infin al mezzo che si vedea fuori della ripa. Raphel may ameth zabi almy: queste sono voci sanza significazione: altrimenti, chi ci volesse dare significazione, mosterrebbe che l’autore avesse contradetto a sè medesimo, come apparirà di sotto. Queste voci finge l’autore che parlasse Nembrot nella prima lingua che parlò Adam; ma l’autore la sapeva così mal, com’io, come appare nel testo; e però finse queste voci, che non sapea che in alcuna lingua significassono alcuna cosa. Potrebbe essere che in alcuna lingua avrebbono significazione; ma non ch’elli lo sapesse, nè che fosse di sua intenzione. Cominciò a gridar la fiera bocca; di Nembrot, Cui; cioè alla quale, non si convenia più dolci salmi: salmi sono quelli del salterio che si cantano; ma qui si chiama per lo contrario le parole di Nembrot salmi, perchè aspra et orribile pronunciazione ànno; et intende l’autore quanto alla pronunciazione, non quanto alla significazione che nulla è.

C. XXXI — v. 70-81. In questi quattro ternari l’autor nostro finge che Virgilio rampognasse Nembrot, e manifestasse a lui chi elli era, dicendo: E il Duca mio; cioè Virgilio, ver lui; cioè verso Nembrot, disse s’intende: Anima sciocca: imperò che parlava a voto, et ancora perch’avea cercato di contrastare alla Potenzia divina, come si dirà di sotto: stolto è chi vuole contrastare a Dio, Tienti col corno12; e suona con quello, che è suono che si fa nelle selve da’ cacciatori, perchè li cani li traghino al suono, ch’altro tuo suono non n’è inteso. E questo fu lo corno terribile, che l’autore finse di sopra che sonasse, quando andava verso lo cerchio nono, a significare a Lucifero la sua venuta, per fare alcuna fizione poetica, secondo la lettera, la quale è conveniente; e per dare ad intendere allegoricamente che in quel cerchio, ove finisce la capitale superbia, non si conveniva altro stormento che il corno, che è membro d’animale crudele e fiero; e significa la superbia, e propiamente lo gridare e le superbe parole che fa lo superbo. Et attribuiscelo pure a Nembrot, e non alli altri: imperciò che Nembrot fu re, et alli re si conviene il corno, come appare nella Bibbia, quando Davit fu fatto re; et ancora, perchè la superbia sua sonò più altamente che niun’altra umana, in quanto è notato13 più che tutte l’altre; e però dice l’autore che si sfoghi col corno; cioè con la sua nota superbia, e però dice: e con quel ti disfoga; tu, anima sciocca, Quand’ira o altra passion ti tocca; cioè quando ài ira, o altra passione. Cercati il collo; ora insegna, o vero il rampogna del luogo ove è legato quel corno, che è legato al collo per similitudine che, come li animali feroci si legano per lo collo; così questi era legato al collo, e pendevali dal collo lo peso del suo peccato; cioè della superbia, che lo tene suggetto, come animale quando è legato per lo collo; e però dice: e troverai la soga; cioè la coreggia del soatto piena, come si fa a’ muli che portano le some, Che il tien legato; cioè lo corno al tuo collo, o la qual correggia tiene legato lo tuo collo, o anima confusa: ben lo chiamò anima confusa: imperò che non intendea altrui, nè elli era inteso; et ancora in lui si confusono le lingue, che si lasciò lo suo linguaggio e trovaronsi 72 linguaggi che sono nel mondo, E vedi lui; cioè lo corno, che il gran petto ti toga; cioè cuopre e veste: questo dice, per significare che il corno era grande, e che la superbia sua fu grandissima; e finge che li penda in sul petto, perchè la sua superbia stette nel cuore, che è posto nel petto. Poi; Virgilio, disse a me; Dante: Elli stesso s’accusa; cioè Nembrot che, volendo parlare, mostra chi elli è: imperò che, s’elli parlasse in alcuno noto linguaggio, non si conoscerebbe che fosse Nembrot. Questi è Nembrotto: discese di Cam figliuole di Noè; lo quale Noè, secondo che pone la Bibbia nel Genesi, ebbe tre figliuoli; cioè Cam, Sem et Iafet; e di Sem discese Ioctan, e di Iafet discese Iavan, e ciascuno di costoro signoreggiò tutta la sua schiatta; e Nembrot cominciò prima, come lo manifesta lo nome, che tanto viene a dire quanto tiranno. Questi erano divisi nelle parti del mondo: imperò che Cam abitò l’Asia, Sem l’Europia14, et Iafet l’Africa; e poi che il seme di costoro fu molto multiplicato, e fatti questi tre re, si convennono insieme, secondo lo pensiere di Nembrot, e trovando ch’al tempo dell’antico loro; cioè Noè, era stato il diluvio, mise inanzi alli altri di fare una torre sì alta, che se mai più venisse lo diluvio, che tutti li uomini vi potessero ricoverare; e dierono ordine di fare la torre, e posono ogni di’ al lavoro venti migliaia d’uomini, e facevanla a gironi, et a ogni girone ponevano terra sì, che potessono seminare e lavorare per avere da vivere; e quando questa torre fu inalzata quanto piacque a Dio, venne la confusione delle lingue tra loro sì, che l’uno non intendeva l’altro, e perdessi il linguaggio primo, et allora furono divise le lingue in 72; e per non intendersi insieme, lasciarono l’edificio incominciato sì come volle Idio, e però dice: per lo cui mal voto; cioè mal desiderio, che desiderava di fare quella torre per contrastare alla potenzia di Dio. E forse l’autore piglia secondo che suona la fama ch’elli desiderasse con quella torre montare in cielo; e perchè fu di tanta superbia, per ciò finge l’autore che sia posto in questo luogo, Pur un linguaggio nel mondo non s’usa; come s’usava inanzi. Lascianlo stare; dice Virgilio a Dante, e non parliamo a voto; che non ci intenderebbe, e sarebbe parlare in vano: Chè così è a lui ciascun linguaggio; non intelligibile, Come il suo ad altrui; ora lo dichiara, che a nullo è noto; cioè manifesto; e così appare che lo primo linguaggio a niuno rimanesse, e però l’autore non dovea intenderlo. E qui finisce la prima lezione di questo canto: seguita la seconda.

Facemmo adunque ec. Questa è la seconda lezione del canto xxxi, nel quale l’autore pone lo suo discenso nel nono circulo; e dividesi in sette parti, perchè prima pone come, girando a man sinistra lo nono circulo, trovarono Fialte; nella seconda pone come domanda Virgilio del gigante Briareo, quivi: Et io a lui ec.; nella terza pone come Fialte si scosse, et ebbe paura, e come pervennono ad Anteo, quivi: Non fu tremuoto ec.; nella quarta pone come Virgilio parla ad Anteo, e domanda d’esser posto giù nel fondo del nono cerchio, quivi: O tu, che nella fortunata ec.; nella quinta, come Anteo prese Virgilio; e Virgilio, Dante, quivi: Così disse il Maestro ec.; nella sesta pone una similitudine, quivi: Qual pare a riguardar ec.; nella settima pone come Anteo si posò nel fondo, quivi: Ma lievemente ec. Divisa la lezione, è da vedere la sentenzia litterale, secondo la nostra usanza.

Poi che Virgilio prese consiglio e deliberazione di non parlare a Nembrot, al quale erano prima giunti, dice che girarono più oltre verso mano sinistra, come tuttavia à detto l’autore, per tutto l’inferno; e di lungi una balestrata, trovarono l’altro gigante più fiero e maggiore che Nembrot, il quale era incatenato con una grossa catena al collo, et intorno cinque volte, e l’uno braccio incatenato d’inanzi, e l’altro di rietro. E Virgilio manifesta a Dante chi elli era, dicendo ch’elli combattee contra il sommo Giove; e però è così punito, et à nome Fialte, e fece grandi pruove quando li giganti vollono prendere il cielo; e però le braccia, che allora menò, non può muovere più. Onde Dante dice a Virgilio: Se essere potesse, io vorrei vedere lo smisurato Briareo; e Virgilio rispose: Tu vedrai Anteo presso di qui, che ci poserà nel fondo dell’inferno: quello che tu vuoi sapere è molto più là et è fatto come questo, se non che par più feroce che questo nel volto. E mentre che Virgilio dicea così, dice che Fialte scosse e tremò, come trema una torre quando è tremuoto; onde Dante dice che ebbe gran paura di morte più che mai, e non era mestieri se non lo spazio, che Fialte fosse ito verso lui, ch’elli sarebbe morto; ma elli vide le ritorte delle catene star ferme, e però si rassicurò. E poi passarono oltre e pervennono ad Anteo che usciva fuori della grotta, il quale era cinque alle sanza il capo. Allora Virgilio parlò, pregandolo che li dovesse porre giù nel fondo, considerando che quivi era Dante che li potea dare fama, la quale si desidera dall’infernali. Et allora Anteo distese il braccio e prese Virgilio, e Virgilio prese Dante, e chinossi giù al fondo dell’inferno, e quivi leggermente li posò; e poi si rilevò su, come si leva l’arbore nella nave. E qui finisce la sentenzia litterale: ora è da vedere lo testo con le esposizioni morali, o vero allegoriche.

C. XXXI — v. 82-96. In questi cinque ternari l’autor nostro finge che, poi che Virgilio confortò Dante e diliberò di non parlare a Nembrot assegnando la cagione, dice che volsono intorno al pozzo a man sinistra; e però dice: Facemmo adunque più lungo viaggio; io e Virgilio, Volti a sinistra: l’autore à sempre tenuto quest’ordine che, quando à significato di volgersi, sempre à finto di volgersi a man sinistra, perchè la via sinistra mena allo inferno, e la via destra al paradiso, et al trar d’un balestro; cioè di lungi una balistrata, Trovammo l’altro; gigante, assai più fiero e maggio; che non era Nembrot. A cigner lui, qual che fosse il maestro, Non so io dire; dice Dante che non sa qual fosse il maestro, ad incatenar questo gigante che trovarono poi; ma el tenea soccinto; cioè legato di sotto, Dinanzi l’altro; cioè lo manco, e dietro il braccio destro; cioè il ritto. Questo finge l’autore, per dare ad intendere che l’opere spirituali, diritte e buone ebbe di rietro, cioè che le pospose; e le sinistre, cioè le ree corporali ebbe d’inanzi che le elesse e seguitolle; e però ebbe così legate le braccia, D’una catena, che il teneva avvinto Dal collo in giù, sì che in su lo scoperto; cioè dal collo infino al mezzo, che si vedea fuori della ripa, Si ravvolgea infino al giro quinto; cioè che cinque volte li dava intorno: questa catena era la coscienzia del suo peccato, che il tenea legato. E finge l’autore cinque ritorte, perchè come ebbe li cinque sentimenti a far contra Dio sciolti; così abbia cinque legamenti di coscienzia di ciascun sentimento: e come l’opere corporali e spirituali furono tutte sciolte contra Idio; così sono ora legate, significate per le braccia, dalla catena della coscienzia: e come tutta sua forza mise in far contro a Dio; così tutta sua forza è ora legata per lo collo, ov’è la fortezza di portare li carchi. Questo superbo voll’essere esperto; cioè questo gigante, del quale è detto, volle pigliare esperienzia, Di sua potenzia contra il sommo Giove; cioè contra Dio volle provare la sua potenzia. Disse il mio Duca; cioè Virgilio a me Dante, ond’elli à cotal merto; qual tu dì, o ver vedi. Fialte à nome; or lo nomina, dicendo ch’à nome Fialte. Li poeti lo chiamano Efialte e fu uno di quelli Titani, ch’elli fingevano che combattessono contra li dii, de’ quali si trovano nominati Encelado, Ceo, Tizio, Tifeo o ver Tifo, Briareo e Fialte15 e fece le gran prove, Quando i giganti fer paura a’ Dei: imperò che impuosono monte sopra monte in Tessaglia, e presono le armi contra loro: Le braccia, ch’el menò; contra li dii, giammai non muove; più: imperò che sone legate.

C. XXXI — v. 97-105. In questi tre ternari l’autor nostro, per fare menzione d’un altro gigante, finge ch’elli ne domandasse Virgilio di volerlo vedere; e però dice: Et io a lui; cioè io Dante dissi a lui, cioè a Virgilio: Se esser puote, io vorrei: onesta è la domanda, ch’addomanda quel ch’è possibile, Che dello smisurato Briareo Esperienzia avesser li occhi miei; cioè di quel gigante Briareo, che fingono i poeti ch’avesse cento mani, ch’ancora si dice aver combattuto contra li dii. Ond’ei rispose; cioè Virgilio: Tu vedrai Anteo; di questo Anteo si dirà di sotto, Presso di qui, che parla et è disciolto: questi non parla et è legato come tu vedi; ma Anteo è disciolto e parla, Che ne porrà; cioè noi, me Virgilio e te Dante, nel fondo d’ogni reo; cioè d’ogni retà, cioè nel fondo dell’inferno. Quel che tu vuoi veder; cioè Briareo, più là è molto; che Anteo sì, che troppo sarebbe lungo il cammino, Et è legato e fatto come questo; sì, che invano s’andrebbe a lui, Salvo che più feroce par nel volto; che non è Fialte. E notantemente pone che questi non parlino: però che poco si truova di loro appo li poeti; e pone che sieno legati, per mostrare che la violenzia che mostrarono contra Dio, sia punita in quel modo; Anteo pone che parli: imperò che di lui molto dice Lucano, e pone che sia sciolto, perchè non fece contro alli idii; ma rubava in Libia, come si dirà di sotto.

C. XXXI — v. 106-114. In questi tre ternari finge l’autore come ebbe gran paura per la scossa di Fialte, e come pervenne poi ad Anteo, e dice così: Non fu tremuoto mai tanto rubesto, Che scotesse una torre così forte, Come Fialte a scuotersi fu presto; quando vide noi. Allor temett’io più che mai la morte; perchè mi parea esservi più presso, E non era mestier più che la dotta; cioè non era bisogno al morire, più che l’indugio poco di vederlo muovere, S’io non avessi viste le ritorte; cioè s’io non avessi veduto star ferme le legature. Noi procedemmo più avanti allotta; Virgilio et io, E venimmo ad Anteo; cioè all’altro gigante nominato ancora di sopra, che ben cinque alle: alla è una misura che s’usa in ponente; cioè in Inghilterra et in Fiandra, o in quelli paesi, la quale è lunga, Sanza la testa uscia fuor della grotta; sì che il mezzo busto era, sanza il capo, cinque alle.

C. XXXI — v. 115-129. In questi cinque ternari finge l’autor nostro che Virgilio pregasse Anteo che li dovesse por giuso nel fondo dello inferno, proferendoli che Dante li può dar fama; e però dice: O tu; parla ad Anteo, che nella fortunata valle, Che fece Scipion di gloria reda; perchè fu poi chiamato Scipione Africano, Quando Annibal; che fu duce de’ Cartaginesi, co’ suoi; cioè coi Cartaginesi, diede le spalle; cioè che fu vinto da’ Romani in quella valle, ove stette Anteo presso a Cartagine, Recasti già mille leon per preda; questo dice, perchè Anteo cacciava ai leoni, come cacciano li uomini all’altre fiere; e dice che già ne recò mille per preda in quella valle, e questo dice a loda di lui; et aggiugne ancora a sua loda: E che, se fossi stato all’alta guerra; cioè alla gran guerra; ma perchè fu contra alli dii, la chiama alta — , De’ tuoi fratelli; cioè di giganti figliuoli della terra, come tu, ancor par che si creda, Che avrebbon vinto i figli della terra; cioè li giganti. Questo dice l’autore, per seguitare Lucano che pone nel iv simile sentenzia; onde è da sapere che, come dice Lucano nel detto luogo, presso a Cartagine era una valle che si chiamava prima la valle d’Anteo; ma poi che Scipione, secondo nipote del grande Scipione che fece patto coi Cartaginesi, preso lo consolato, menò l’esercito in Affrica et accampossi in quella valle; nella quale valle sconfisse Asdrubale fratello d’Annibale et ucciselo, e vinse i Cartaginesi e constrinse a tornare Annibale ch’era stato più di xvi anni in Italia a molestare i Romani, fu chiamata la valle di Scipione, perchè quivi saccampò et ebbe vittoria, e fu poi chiamato Scipione Africano. Era Cartagine in Barberia, ove ora è Tunisi. Questo Anteo, secondo che pone Lucano, fu gigante grandissimo, figliuolo della terra come li altri, e fu dopo la battaglia di Flegra, et abitava nella detta valle e rubava le vicinanze d’intorno. Onde la fama andò a Ercole, e però passò il mare et andò a toglierlo via, perch’era domatore delli uomini viziosi, e combatteo con lui alle braccia; et accortosi Ercole che Anteo si lasciava cadere in terra studiosamente, perchè si rilevava più forte pigliando le forze dalla terra, sel levò in sul petto, e tanto lo strinse sanza lasciarlo toccare terra, che alla terza volta lo fece crepare; e così ebbe Ercole vittoria d’Anteo. Poi che Virgilio à cattato benivolenzia, domanda Anteo che li metta giù, dicendo: Mettine giù; noi, (e non ten vegna schifo; di farci questo servigio) Dove Cocito; cioè quel fiume che è nel fondo della terra, la freddura serra; questo dice, perchè quivi finge l’autore che si16 agghiacciato. Non ci far ire nè a Tizio, nè a Tifo; e per questo mostra che questi due lo potrebbono fare, come elli: Questi; cioè Dante, può dar di quel che qui si brama; cioè fama, come dirà di sotto; Però ti china; a pigliarci, e non torcer lo grifo; per disdegno. Ancor ti può nel mondo render fama; ecco che manifesta quel che si brama dall’infernali, Ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta; sì che ben ti potrà dar fama, Se innanzi tempo grazia a sè nol chiama: et intende qui del tempo naturale che è novanta anni, o al più cento venti. E notantemente dice grazia: imperò grazia è quandunque17 l’uomo è chiamato: imperò ch’esce delle brighe di questo mondo.

C. XXXI — v. 130-135. In questi due ternari l’autor nostro pone come Virgilio fu preso da Anteo; et elli da Virgilio, dicendo: Così disse il Maestro; cioè Virgilio; e quelli; cioè Anteo, in fretta La man distese, e prese il Duca mio; cioè Virgilio, Ond’Ercole sentì già grande stretta; quando feciono alle braccia, come detto è di sopra. Virgilio, quando prender si sentio; da Anteo, Disse a me: Fatti in qua; cioè accostati a me, sì ch’io ti prenda; cioè ch’io ti pigli, come Anteo à preso me, Poi fece sì, ch’un fascio era elli et io: come l’autore à fìnto che Virgilio, che significa la ragione, lo guidi; così finge ancora che nelli luoghi dubbiosi lo porti: però che nelle cose d’intendimento è conveniente che la ragione guidi e porti la sensualità; e non la sensualità la ragione. Et ancora si conviene, secondo l’allegoria, che Anteo metta costoro nel fondo dell’inferno, ove si punisce lo radicale peccato della superbia: imperò che lo superbo fa discendere la ragione a considerare lo peccato della superbia e le sue pene; e secondo la poesia, fu bella fizione, poichè non finge che v’avesse alcuna scala; e questo fece, per mostrare che lo superbo fosse conveniente scala.

C. XXXI — v. 136-141. In questi due ternari l’autor nostro pone una bella similitudine, dicendo che tale li parve Anteo quando si chinava, qual pare la Garisenda che è una torre in Bologna ensù18 una piazza, da Porta Ravignana, grossa e non troppo alta; ma è piegata verso un’altra torre più sottile, molto più lunga, che si chiama l’Asinella, perchè è d’uno casato che si chiamano li Asinelli; come la Garisenda, del casato de’ Garisendi. Chi stesse al piè della torre dal lato ch’ella china, e li nuvoli andassono per l’aere verso l’opposita parte, gli parrebbe che la torre si chinasse giù per cadere a terra; e così dice che Anteo, quando si chinava, li parea tale, quale quella torre: sì era grande; e però dice: Qual pare a riguardar la Garisenda; cioè quella torre, Sotto il chinato; cioè dal lato ove ella pende, quando un nuvol vada Sovressa: imperò che per lo moto del nuvolo pare ch’ella si muova, sì, che ella in contro penda; cioè sì, che il nuvol vada in verso l’altra parte, et ella penda incontro l’andamento del nuvolo, che per quello parrà che si chini e che vegna giù; Tal parve Anteo a me; Dante; e fa qui una similitudine, secondo la grandezza, non secondo l’atto, che stava a bada Di vederlo chinare; giuso, poi che fumo presi dalla sua mano, e fu tal’ora Ch’io avrei voluto ir per altra strada: tal paura ebbi.

C. XXXI — v. 142-145. In questo ternario et uno verso dimostra Dante come furono posati nel fondo da Anteo, dicendo: Ma lievemente: io avea paura, Ma; Anteo, lievemente ci posò al fondo, che divora Lucifero con Giuda; li quali sono nel fondo al centro, come si mosterrà nell’altro canto esser ragionevole, Nè sì chinato lì fece dimora; cioè nel fondo Anteo, E come albero in nave si levò; cioè si levò grande, come si leva grande l’albero della nave, e con gravezza. E qui finisce lo xxxi canto.

  1. C. M. sonare terribilmente un corno,
  2. C. M. per vedere se vedea
  3. I nostri antichi aveano in uso di togliere l’i dal principio d’alcune parole: maginare, nimico, niquità, stigato ec. E.
  4. C. M. richiedeno
  5. Giaccia; ghiaccia, fognata l’h siccome in biece, fisice, piage per bieche, fisiche, piaghe adoperate dallo stesso Allighieri. E.
  6. C. M. la promustida
  7. C. M. lo cibo
  8. C. M. nel navilio, se non che
  9. — lavare? E.
  10. Nel nostro codice è tralasciato il relativo che; che scorgea, come non di rado s’incontra presso i Classici. E.
  11. C. M. di san Piero, in su li gradi della chiesa di fuora, et è di bronzo, o vero metallo, voita di dentro, et era in sul campanile di San Piero in su la cupula, e percossa dalla saetta ne cadde giuso, e mai poi non vi si puose, Et a sua
  12. C. M. col corno; cioè trastullati col corno e suona
  13. C. M. è nota più
  14. Europia; Europa. Gli antichi trammischiavano facilmente l’i in alcune parole, come contradia, brieve, gielo ec. E.
  15. C. M. Briareo et Efialte.
  16. Si; sia, come non di rado s’incontra appresso gli antichi. E.
  17. Quandunque; quando. E.
  18. Ensù, insù, dove scorgesi il facile scambio dell’i in e, come in enfiato, enemico, vertù ec. E.

Note

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