< Commedia (Buti) < Inferno
Questo testo è stato riletto e controllato.
Inferno - Canto XXXI Inferno - Canto XXXIII

C A N T O   XXXII.





1S’io avessi le rime aspre e chiocce,
      Come si converrebbe al tristo buco,
      Sopra il qual pontan tutte l’altre rocce,
4Io premerei di mio concetto il suco
      Più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
      Non sanza tema a dicer mi conduco:
7Chè non è impresa da pigliar a gabbo1
      Descriver fondo a tutto l’universo,2
      Nè da lingua che chiami mamma o babbo.
10Ma quelle Donne aiutino il mio verso,
      Ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
      Sì che dal fatto il dir non sia diverso.3
13Oh sopra tutti mal creata plebe,4
      Che stai in luogo onde il parlar m’è duro,
      Mei foste state qui pecore o zebe!
16Come noi fummo giù nel pozzo oscuro
      Sotto i piè del gigante, assai più bassi,
      Et io mirava ancora all’alto muro,
19Dicer udimmo: Guarda come passi;
      Va sì, che tu non calchi con le piante
      Le teste de’ fratei miseri, lassi.

22Perch’io mi volsi, e vidimi davante,
      E sotto i piedi un lago, che per gelo
      Avea di vetro, e non d’acqua sembiante.
25Non fece al corso suo sì grosso velo
      Di verno la Danoia in Ostericchi,56
      Nè Tanai là sotto il freddo cielo,
28Com’era quivi: chè, se Tabernicchi
      Vi fosse su caduto, o Pietra Pana,7
      Non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
31E come a gracidar si sta la rana
      Col muso fuor dell’acqua, quando sogna
      Di spigolar sovente la villana;
34Livide in fin là dove appar vergogna,
      Eran l’ombre dolenti nella ghiaccia,
      Mettendo i denti in nota di cicogna.8
37Ognuna in giù tenea volta la faccia;9
      Da bocca il freddo, e dalli occhi il cuor tristo
      Tra lor testimonanza si procaccia.
40Quand’io ebbi d’intorno alquanto visto,
      Volsimi a’ piedi e vidi due sì stretti,
      Che il pel del capo avieno insieme misto.
43Ditemi voi, che sì strignete i petti,
      Diss’io, chi siete? E quei piegaro i colli,
      E poi ch’ebber li visi a me eretti,
46Li occhi lor ch’eran pria pur dentro molli,
      Gocciar su per le labra, e il gielo strinse
      Le lagrime tra essi, e riserolli.

49Con legno legno spranga mai non cinse
      Forte così; ond’ei, come due becchi,
      Cozzaro insieme: tanta ira li vinse.
52Et un, che avea perduto ambo li orecchi10
      Per la freddura, pur col viso in giue
      Disse: Perchè mai tanto in noi ti specchi?11
55Se vuoi saper chi son cotesti due,
      La valle, onde Bisenzio si dichina,
      Del padre loro Alberto e di lor fue.
58D’un corpo usciro; e tutta la Caina
      Potrai cercare, e non troverai ombra
      Degna più d’esser fitta in gelatina:12
61Non quelli, a cui fu rotto il petto e l’ombra
      Con esso un colpo per le man d’Artù,13
      Non Focaccia, non questi che m’ingombra
64Col capo sì, ch’io non veggio oltre più,
      E fu nomato Sassol Mascheroni:
      Se Tosco se’, ben sai omai chi fu.
67E perchè non mi metti in più sermoni,
      Sappi ch’io sono il Camiscion de’ Pazzi,14
      Et aspetto Carlin che mi scagioni.
70Poscia vid’io mille visi cagnazzi
      Fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
      E verrà sempre, de’ gelati guazzi.
73E mentre ch’ andavamo in ver lo mezzo,
      Al quale ogni gravezza si raguna,
      Et io tremava nell'eterno rezzo;15

76Se voler fu, o destino, o fortuna,
      Non so; ma passeggiando fra le teste,
      Forte percossi il piè nel capo ad una.16
79Piangendo mi sgridò: Perchè mi peste?17
      Se tu non vieni a crescer la vendetta
      Di Mont’Aperti, perchè mi moleste?
82Et io: Maestro mio, or qui m’aspetta,
      Sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
      Poi mi farai, quantunque vorrai, fretta.
85Lo Duca stette; et io dissi a colui
      Che biastemiava duramente ancora:18
      Qual se’ tu, che così rampogni altrui?
88Or tu chi se’, che vai per l’Antenora
      Percotendo, rispose, altrui le gote,
      Sì che, se fosse vivo, troppo fora?19
91Vivo son io, e caro esser ti puote,
      Fu mia risposta, se domandi fama,
      Ch’io metta il nome tuo tra l’altre note.
94Et elli a me: Del contrario ò io brama;
      Levati quinci, e non mi dar più lagna:
      Chè mal sai lusingar per questa lama.
97Allor lo presi per la coticagna,
      E dissi: El converrà, che tu ti nomi,
      O che qui su capel non ti rimagna;
100Ond’egli a me: Perchè tu mi dischiomi,
      Non ti dirò ch’io sia, nè mosterrolti,
      Se mille fiate in sul capo mi tomi.
103Io già avea i capelli in mano avvolti,20
      E tratti glien avea più d’una ciocca,
      Latrando lui con li occhi in giù raccolti;

106Quand’un altro gridò: Che ài tu, Bocca?
      Non ti basta sonar con le mascelle,
      Se tu non latri? Qual diavol ti tocca?
109Omai, diss’io, non vo’ che tu favelle,
      Malvagio traditor, ch’alla tua onta
      Io porterò di te vere novelle.
112Va via, rispuose, e ciò che tu vuoi conta;
      Ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
      Di quei ch’ebbe or così la lingua pronta.21
115El piange qui l’argento de’ Franceschi:
      Io vidi, potrai dir, quel da Duera
      Là, dove i peccatori stanno freschi.
118Se fossi domandato altri chi v’era,
      Tu ài dal lato quel di Beccheria,22
      Di cui segò Fiorenza la gorgiera.
121Gianni de’ Soldanier credo che sia23
      Più là con Ganellone, e Tribaldello
      Ch’aprì Faenza quando si dormia.
124Noi eravam partiti già da ello,
      Ch’io vidi due ghiacciati in una buca
      Sì, che l’un capo all’altro era cappello;
127E come il pan per fame si manduca,
      Così il sovran li denti all’altro pose
      Là, ove il cervel s’aggiugne con la nuca.
130Non altrimenti Tideo si rose
      Le tempie a Menailppo per disdegno,
      Che quei facea il teschio e l’altre cose.24
133O tu, che mostri per sì bestial segno
      Odio sopra colui cui tu ti mangi,
      Dimmi il perchè, diss’io, per tal convegno;

136Che se tu a ragion di lui ti piangi,
      Sappiendo chi voi siete, e la sua pecca,
      Nel mondo suso ancor io te ne cangi,
139Se questa, con ch’io parlo, non sia secca.25

  1. v. 7. C. M. di pigliar
  2. v. 8. Di scriver fondo
  3. v. 12. C. M. Sì che il fatto dal dir non fia
  4. v. 13. O sopra tutte
  5. v. 26. C. M. Lo verno
  6. v. 26. C. M. Osterlicchi,
  7. v. 29. Pana; Pania, con la consueta fognatura dell’i, come più sotto testimonanza. E.
  8. v. 36. C. M. a nota di
  9. v. 37. C. M. Ognuna tenea in giù
  10. v. 52. C. M. ambe l’orecchi
  11. v. 54. C. M. Perchè cotanto in noi ti
  12. v. 60. C. M. geladina:
  13. v. 62. C. M. con la man
  14. v. 68. C. M. io fui il Camicion
  15. v. 75. C. M. orezzo;
  16. v. 78. C. M. nel viso ad una.
  17. v. 79. C. M. mi gridò:
  18. v. 86. C. M. biastimava
  19. v. 90. C. M. se fossi
  20. v. 103. C. M. Io avea già i capelli
  21. v. 114. C. M. Di quel ch’ebbe or
  22. v. 119. C. M. Beccaria,
  23. v. 121. C. M. del Soldanier
  24. v. 132. C. M. al teschio e l’altre cose.
  25. v. 139. Se quella,

___________


C O M M E N T O


S’io avessi le rime ec. In questo xxxii canto l’autor comincia a trattare del nono cerchio, nel quale finge sè esser disceso; e fa principalmente due cose, perchè prima pone quel che truova nel primo girone del nono cerchio; nella seconda, come attraversò e passò nel secondo girone, lo quale chiama Antenora, quivi: E mentre ch’andavamo ec. La prima parte, che sarà la prima lezione, si divide in sette parti: imperò che prima fa come uno preambulo al nono cerchio, del quale incomincia a trattare in questo canto; nella seconda fa una sua invocazione et esecrazione, quivi: Ma quelle Donne ec.; nella terza incomincia a trattar del luogo, quivi: Come noi fummo ec.; nella quarta pone alla sua narrazione alcune similitudini, quivi: Non fece al corso ec.; nella quinta incomincia a domandar di quelli che vi truova, quivi: Quand’io ebbi d’intorno ec.; nella sesta pone come uno rispose per loro, quivi: Et un, che avea perduto ec.; nella settima pone come colui narrò poi di sè medesimo, quivi: E perchè non mi metti ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
     Poi che l’autore à finto ch’elli e Virgilio furono posti da Anteo nel fondo dell’inferno, fa alcuno preambulo alla materia, mostrando di dubitar di poter dire convenientemente alla materia, dicendo: S’io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo piccolo luogo, del quale io ò a trattare, dove tutti i pesi discendono, io premerei il sugo del mio concetto più pienamente, ch’io non farò; ma perch’io non abbo questo, m’induco a dire non sanza paura di potere satisfare alla materia. Ma quelle Donne; cioè le Muse, aiutino me a questo poema, ch’aiutarono Anfione a far la rocca di Tebe sì, che le parole non sieno diverse dalla materia. E fatta questa invocazione, grida sopra quelli dannati, dicendo: O mal creato popolo, che stai nel luogo, del quale è duro a parlare, meglio saresti stati nel mondo pecore o capre. Et appresso comincia a parlare, anzi a narrare, dicendo che, come fu giù nel fondo del pozzo e guardava il muro che era d’intorno, dice che udì dire d’intorno: Guarda come tu vai, che tu non scalpiti1 co’ piedi le teste de’ miseri dolenti. E per questo parlare dice che si volse, e videsi dinanzi e sotto i piedi uno lago agghiacciato che parea vetro; e fa alcuna similitudine, che nella Magna non ghiaccia così il Danubio nè ’l Tanai sotto il settentrione: e dice come stanno li ranocchi fuor dell’acqua col muso a guardare la state; così stavano l’anime fitte2 nella ghiaccia, livide infino al volto tutto l’altro, i quali dibatteano i denti per lo freddo, e teneano li volti volti in giù. E quando ebbe ragguardato intorno, vide che si stavano sì stretti a’ piedi suoi, che i capelli del capo erano insieme mescolati; onde li cominciò a domandare chi fossono, e quelli piegarono li colli, per vedere chi era colui che li dimandò. E poi che l’ebbono veduto, si ritornarono come erano: et uno ch’avea meno li orecchi per lo freddo, tenendo pur lo volto basso, disse a Dante: Perchè pur ti specchi in noi? E manifestolli chi erano quelli due detti di sopra, et ancora delli altri d’intorno da sè, et alfine sè medesimo. E qui finisce la lezione prima: ora è da vedere’ il testo con l’allegorie.

C. XXXII — v. 1-9. In questi tre ternari primi l’autore fa uno principio escusatorio alla materia, dicendo: S’io avessi le rime aspre e chiocce; cioè che venissono aspre e mal resonanti, Come si converrebbe al tristo buco; cioè al centro della terra, che è forato come uno buco, come apparirà quando si dirà di sotto, ove porrà che Lucifero sia messo, Sopra il qual pontan tutte l’altre rocce: roccia si può intendere che sia sasso, et allora si piglia per li pesi: imperò che tutti i pesi pontano e pingono in sul centro della terra; e roccia si può intendere de’ vizi e de’ peccati, o vero bruttura, come quando la feccia secca intorno ad alcuno sasso; e così si può intendere dei vizi e dei peccati: imperò che tutti pontano e poggiano al buco tristo; cioè allo Lucifero che è nel tristo buco del centro della terra, e così si pone lo continente per lo contento3. Degna cosa è che sopra colui pontino li vizi e li peccati, dal quale ànno avuto principio. Da Lucifero venne il vizio e il peccato, et elli seminò prima la fraude nel mondo; e perchè la seminò, prima contra Idio che non può essere maggiore, però l’autore fìnge ch’elli sia nel buco del centro della terra; e dice tristo, perchè dà tristizia. Io premerei di mio concetto il suco; cioè io esprimerei la sentenzia del mio concetto, Più pienamente; ch’io non farò: come lo sugo esce della cosa umida, quando è premuta; così le parole escono formate a pronunziare la sentenzia che l’uomo à conceputo, ma perch’io non l’abbo; queste rime aspre e chiocce, come si converrebbe alla materia: imperò che all’oratore et al poeta si conviene di dire convenientemente alla materia, e però dice: Non sanza tema; cioè paura, a dicer mi conduco. Rende la cagione, dicendo: Chè non è impresa da pigliar a gabbo; cioè a beffe; cioè questo, Descriver fondo a tutto l’universo: quanto a la lettera, fondo è del mondo lo centro della terra; e descriver fondo a tanta cosa, quanto è il mondo non n’è impresa da beffe, Nè da lingua che chiami mamma o babbo; mostra che come non n’è impresa da essere presa da beffe; così non n’è da esser presa da fanciullo, e da chi abbi ingegno fanciullesco: imperò che i fanciulli sono quelli che chiamano mamma e babbo, quando vogliono chiamare lo padre e la madre: mamma è nome preso dalla popola4 che si chiama mamma: babbo è nome preso dalle nutrici che dicono, quando insegnano favellare al fanciullo, ba, ba; e però dimostra che si dè pigliare da perfetto5 ingegno e con diligenzia, e questo à detto a sua escusazione, se non dicesse così propriamente.

C. XXXII — v. 10-15. In questi due ternari l’autor nostro fa una invuocazione et esclamazione, poi ch’à premesso la sua scusa; et invoca le Muse, delle quale è stato detto di sopra, come chiamare dee ciascuno poeta, e dice così: Ma quelle Donne aiutino il mio verso; cioè le Muse aiutino il mio poema, Ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe; qui è da sapere che Zeto et Anfione fratelli rimasono signori di Tebe, e non avea ancora Tebe fatte le mura d’ogni intorno, sì che Anfione che sapea molto bene sonare la chitarra, sonandola facea muovere li sassi e venire l’uno sopra l’altro, e così fece lo muro intorno intorno. E benchè questa sia fizione poetica, l’autor dimostra quello che se ne dee intendere, che già Anfione con la chitarra non fe muovere i sassi; ma con la sua eloquenzia si mossono li uomini duri come sassi, parlando convenientemente al fatto; la qual cosa avea dalle Muse che sono scienzie dei poeti; e queste chiama l’autore in suo aiutorio, e dimostra il fine perchè le chiama, dicendo: Sì che dal fatto il dir non sia diverso: al poeta s’appartiene d’accordare i fatti ai detti. Aggiunge dopo la invocazione la esclamazione finta contra i dannati nel nono cerchio, dicendo: Oh sopra tutti mal creata plebe; se tutti i dannati si possono dire mal creati, ancora si possono dire mal creati sopra tutti quelli del nono cerchio: imperò che sono di più grave peccato che gli altri, e così di maggior pena, Che stai in luogo onde il parlar m’è duro; cioè che stai nel fondo dell’inferno, del quale m’è duro a parlare, secondo la sua convenienzia, Mei foste state qui pecore o zebe; cioè in questo mondo meglio seresti6 stati pecore o capre o altri animali bruti, che moiono insieme l’anima col corpo, che non saresti stati dannati!

C. XXXII — v. 16-24. In questi tre ternari l’autor nostro comincia a trattare del luogo e della materia sua, dicendo: Come noi fummo già nel pozzo oscuro; cioè Virgilio et io; e chiamalo pozzo e per la strettezza e per la profondità, et era vi oscurità, Sotto i piè del gigante; cioè d’Anteo, assai più bassi; che li piedi suoi, Et io; cioè Dante, mirava ancora all’alto muro; del pozzo, Dicer udimmo: Guarda come passi; da alcuno ch’era sotto i piè nostri, Va sì, che tu non calchi con le piante Le teste de’ fratei miseri, lassi; appellan sè medesimi fratelli, quanto alla generazione colui che parla; ma non quanto alla carità dell’animo, che non ebbono punto l’uno verso l’altro; e però aggiugne miseri, lassi. Perch’io mi volsi; cioè per questa voce, e vidimi davante, E sotto i piedi un lago; e questo era lo Cocito, del quale fu detto di sopra et ancora si dirà qui appresso, che per gelo Avea di vetro, e non d’acqua sembiante. E perchè le cose che si diranno di sotto sieno più chiare, è da porre in questo luogo la disposizione di questo nono cerchio, el peccato che finge l’autore che qui si punisce, e le sue spezie, compagne e figliuole e li rimedi contra esso e le pene che l’autor fìnge a tal peccato. E prima doviamo attendere che l’autor finge che questo cerchio abbi dentro da sè quattro cerchi, l’uno dentro all’altro sì, che il primo è al lato alla ripa che circunda il pozzo, e più largo di tutti, e questo si chiama la Caina; e perchè si chiami così, si dirà nel suo luogo. L’altro è dentro da questo, minore e chiamasi l’Antenora. Lo terzo è dentro al secondo, minore ancora e chiamasi la Tolomea. Lo quarto è dentro a questo, minore di tutti, a lato al centro nel quale è Lucifero, e chiamasi la7 Giudecca; e tutti questi quattro cerchi pendono in verso il centro sì, che benchè non vi sia distinzione, nè discenso, tutti pendono in verso lo centro, e l’uno è più basso che l’altro. Ora è da sapere che in questo nono cerchio radicalmente si punisce la superbia e la invidia, come si mosterrà in ciascuno luogo; e perchè della superbia fu detto di sopra cap. ix, quando si trattò del sesto cerchio, assai abondantemente, diremo ora qui della invidia che è sua figliuola, della quale si dice: Tolte matrem, et peribit filia; la quale si definisce così: Invidia è odio dell’altrui felicità, o vero: Invidia è tristizia nata dentro nell’animo d’alcuno per l’altrui felicità. E come detto fu di sopra cap. xiii, la invidia è figliuola della superbia, e però va sempre inanzi la superbia: imperò che da superbia viene non essere contento del bene altrui. E sono le spezie della invidia tre: imperò che l’una è invidia per zelo, come quando l’uomo desidera d’aggiungere et ancora d’avanzare chi è inanzi a lui in virtù et onore, et in questo si sforza; e non nocendo per questo ad altrui, e non essendo dolente del bene altrui, non sarebbe peccato. Et è un’altra spezie la quale odia chi è inanzi a lui e nuoce, se può; e questo è gravissimo peccato. Et è un’altra spezie quando l’uomo s’attrista del bene altrui, non nocendo però; e questo è ancora grave peccato, e di questo peccato dice Orazio: Invidus alterius macrescit rebus opimis; Invidia Siculi non invenere tyranni Majus tormentum. Et anno queste due spezie per sue compagne: Stultizia, odio, viltà, oscurità, pallore, malinconia, lagrime, sospiri, pigrizia, veleno in pensieri, veleno in fatti, veleno in detti; e sue figliuole sono tradimento, omicidio, diffamazione, offensione in ogni modo, allegrezze del male, e riso, schernimento e derisione. Li rimedi contra sì fatto peccato sono amare Idio, amare lo prossimo, conoscimento di Dio e di sè medesimo, pacienzia, vilipensione e considerazione delle pene che si convengono a sì fatto peccato e che sono con esso, le quali sono queste, secondo che finge l’autore; imprima si è bassezza: imperò che la pone nel pozzo al centro della terra, in che si nota la sua viltà; poi è oscurità, in quanto pone che quivi è scuro, come appare nel testo; appresso è Cocito che significa pianto che si conviene all’invidioso, che s’attrista del bene altrui e lagrima e piangene; freddura, perchè nell’invidioso è spenta ogni carità; pallore, perchè l’invidiosi sono paurosi; col capo fuor della ghiaccia, a notificare la loro infamia; chinati in giuso, a notificare8 la lor vergogna; col capo rovesciato9, a denotare la sfacciatezza d’alquanti; e tutti coperti, a denotare che al tutto è spenta in loro ogni carità. E benchè queste cose convenientemente finga l’autore essere nell’inferno; allegoricamente sono nelli invidiosi del mondo, come chiaro appare a chi discretamente ciò considera. E perchè questa invidia viene da superbia, el primo superbo et invidioso fu lo Lucifero, e più profondo in questi peccati, però finge l’autore che sia in questo pozzo nel centro della terra fitto. E perchè la fraude si può commettere in chi non si fida, che non v’è data cagione, et allora semplicemente si chiama fraude, e di questa è detto di sopra cap. xviii, e delle sue spezie nell’ottavo cerchio; e puossi commettere in chi si fida, che n’è data cagione per alcuno de’ quattro modi che si dirà di sotto, et allora si chiama tradimento, e di questa si tratta qui nel nono cerchio; e l’una e l’altra è sottoposta, et è delle figliuole della superbia e della invidia; ma più lo tradimento è della invidia, che della superbia. E questo si distingue in quattro modi: imperò che o elli si commette contra li parenti tra’ quali è fede naturale di parentado; cioè di carne, come tra fratelli; et allora è lo primo grado, che si punisce nel primo giro, che si chiama Caina per l’autore da Cain, che uccise Abel suo fratello per invidia. O elli si commette contra la patria10 tra’ quali è fede naturale di generazione; et allora è lo secondo grado piggiore che il primo: chè nel primo s’offende uno, e nel secondo molti, e però si punisce nel secondo giro che si chiama Antenora da Antenore troiano, che per invidia ch’ebbe contra lo re Priamo tradì Troia sua città. O elli si commette contra l’amico speciale11, e questo è in due modi, o contra colui che l’uomo à sedutto a darsi fede con benefici; et allora è lo terzo grado piggiore che il secondo: imperò che nel terzo si rompe maggior fede: imperò che non solamente fede data, ma meritata; e però si punisce nel terzo, come è detto, che si chiama Tolomea da Tolomeo, che invitò li sacerdoti a mangiare, e poi li uccise per invidia nel convito. O elli si commette contra l’amico benefattore; et allora è lo quarto grado piggior che il terzo: con ciò sia cosa che sia obbligato a gratitudine e carità, e però si punisce nel quarto, che si chiama Giudecca da Giuda, che tradì lo suo Maestro e benefattore Cristo; ove si punisce lo Lucifero nel centro della terra, perchè fece contra il suo Creatore in quanto potè. E per questo apparirà più chiaro il testo, et ancora si dichiarerà meglio là ovunque occorrerà.

C. XXXII — v. 25-39. In questi cinque ternari lo nostro autore, seguitando la sua materia, per similitudine dimostra come era ghiacciato quel lago del nono cerchio, et appresso narra il modo come stavano l’anime de’ traditori in quel lago a deducere12 la lor pena, dicendo: Non fece al corso suo sì grosso velo Di verno la Danoia in Ostericchi: la Danoia è uno fiume che si chiama Danubio et Istro, et è nel principio della Magna, fiume grandissimo tanto, che riceve in sè fiumi 60, e per sette bocche entra in mare e corre verso l’oriente. E perchè è nelle parti fredde sotto la tramontana, ghiaccia il verno, sicchè vi vanno su li carri e li cavalli e li altri animali; e però ne fa l’autore comperazione, dicendo che non fece lo Danubio al suo corso lo verno sì grosso velo di ghiaccio in quella contrada che si chiama Ostericchi, et in Gramatica13 si chiama Austria; e fa menzione di questa contrada, perchè quivi è maggior freddo che nell’altre parti della Magna, Nè Tanai là sotto il freddo cielo: Tanai è uno fiume che esce de’ monti Rifei et entra in mare Mediterraneo, e genera la palude Meotide e divide l’Asia dall’Europa; e il mare ov’elli entra si chiama il mare della Tana, quasi di Tanai. E perchè in quelle parti fredde ghiaccia il verno sì, che vi vanno su li carri, e così quelle palude ghiacciono sì, che vi vanno su e li animali e li uomini, e però l’autore ne fa comparazione dicendo che non fece il verno Tanai sotto il freddo cielo sì grosso velo di ghiaccia, come avea quel lago14 di Cocito: chè se Tabernicchi: questo è uno monte altissimo nell’Armenia, Vi fosse su caduto; cioè in su quel lago ghiacciato, che si vide inanzi, o Pietra Pana: questo è uno monte in Toscana in Carfagnana15 sopra Lucca: s’intende vi fosse su caduto; in su quel lago, Non avria pur da l’orlo fatto cricchi; non che la ghiaccia fosse rotta; ma non sarebbe pure sgrossato dalle sponde, nè fatto suono cri cri: sì era grossa la ghiaccia. E questo dice l’autore, per mostrare la gran freddura ch’elli finge che quivi fosse, la quale è degna pena a coloro che sono stati privati di carità, come sono li traditori mossi da superbia e da invidia; la qual freddura allegoricamente si truova essere in quelli del mondo, avendo il cuore aperto ad ogni crudeltà. Ora pone il modo, com’elli finge che stessono quelle misere anime, dicendo: E come a gracidar si sta la rana Col muso fuor dell’acqua, quando sogna Di spigolar; cioè di coglier le spighe rimase, che si chiama ristoppiare, sovente; cioè spesse volte, la villana; cioè la femina della villa: spesse volte l’uomo sogna la notte quello che l’uomo fa il di’; e però vuol dire che di giugno e di luglio, quando è segato il grano, che’ ranocchi stanno alle ripe dell’acque col capo fuori a gracidare, Livide in fin là dove appar vergogna Eran l’ombre dolenti nella ghiaccia; qui dimostra che l’anime erano livide nella ghiaccia, salvo che il capo col volto ch’era di fuori, e quello era ancora livido per lo freddo; e però dice che l’ombre dolenti erano nella ghiaccia livide tutte, infin dove appar vergogna; cioè infino al volto; e questo si manifesterà di sotto, quando dirà: Poscia vid’io mille visi cagnazzi, ove si mostra chiaramente che intese de’ volti: imperò che il volto è quella parte del corpo che dimostra la vergogna, come è stato altra volta detto. Mettendo i denti in nota di cicogna; cioè tremando a dente a dente, e percotendo li denti l’uno con l’altro come fa la cicogna, quando percuote lo becco di sotto con quel di sopra. Et è qui da notare che l’autore fìnge che ad uno medesimo modo sieno puniti quelli che tradiscono li parenti, e quelli che tradiscono la patria, e quelli che tradiscono li amici16, e questo è ragionevole: imperò che questi parimente rompono fede; ma lo romper dell’uno è inverso maggiore fede che in quel dell’altro, e però merita più freddo perchè è stato più crudele: maggior crudeltà è a disfare una città che uno uomo; e così maggior rompimento è di fede, quando si rompe mostrando d’amare l’amico, che quando non si mostra: e maggior rompimento è quando si rompe al signore, onde sono proceduti smisurati benifici, che quando si rompe ad altrui; e però sono tutti puniti ad un modo nella ghiaccia, se non che ci è alcuna differenzia, che quelli del terzo giro stanno con la faccia rovesciata, e quelli del primo e del secondo stanno con la faccia in giù: e quelli del quarto sono tutti sotto il giaccio sì, che oltre all’avere più freddo ci è questa differenzia, la quale l’autore non pone sanza cagione; ma con questo respetto, che colui che è stato ingrato de’ benefici ricevuti, à mostrato maggior freddezza, che colui che non à ricevuti li benefici, e però merita essere tutto nella ghiaccia. Li altri che non ànno avuta questa ingratitudine, non ànno avuta tanta freddezza, e però sono scoperti il capo; ma quelli che sono, o vero ch’ànno mostrato qualche volta benifìcio, mostrano lo volto; come quelli che mai non ànno mostrato nulla, il tengono appiattato in giù. La lividezza denota la sozzezza di tali peccati, lo freddo il privamento della carità, lo friemito de’ denti l’abominazione e diffamazione che ànno fatto, le lagrime la tristizia del bene altrui, li volti bassi non aver mai avuto rispetto d’amore et essere con meno infamia quasi meno detestabili, li volti rivesciati avere avuto almeno in vista alcuno respetto d’amore per potere meglio ingannare; e per tanto è maggiore la loro infamia l’esser tutti sotto, e l’esser tutti privati d’ogni apparenzia di carità e d’ogni vista, sì come questo apparirà meglio nel processo. E come queste cose si convengono per pena; così allegoricamente si truovano in quelli del mondo, come appare a chi bene considera sottilmente. Seguita: Ognuna in giù tenea volta la faccia; di quest’anime ch’erano nella ghiaccia; e questo si convenia per pena, perchè mai non aveano fatto bene ad alcuno, che si vergognassono d’essere conosciuti; et allegoricamente così fanno quelli traditori del mondo, che mai non guardano alcuno a diritto. Da bocca il freddo, e dalli occhi il cuor tristo Tra lor testimonanza si procaccia; questo dice, per mostrare la lor pena, che è per la freddura la qual si manifesta per la bocca, e per la tristizia del cuore che si manifesta per li occhi. E questo dice ch’era tra loro, cioè tra quelli dannati; ma allegoricamente s’intende di quelli del mondo che, il freddo della invidia, ch’ànno dentro nel cuore, lo dimostra la bocca, diffamando e dicendo mal d’altrui; e li occhi, piangendo del bene del prossimo, mostrano la tristizia del cuore invidioso.

C. XXXII — v. 40-51. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come vide di quelli dannati, e come domandò di loro, e dice così: Quand’io ebbi d’intorno alquanto visto, Volsimi a’ piedi; miei, e vidi due sì stretti, Che il pel del capo avieno insieme misto: però che stavano stretti insieme, e l’uno capo appoggiato con l’altro. Ditemi voi, che sì strignete i petti, Diss’io; cioè Dante, chi siete? E quei piegaro i colli; a dietro, per veder colui che domandava, E poi ch’ebber li visi a me eretti; cioè poi ch’ebbono alzati alti li volti a me, Li occhi lor ch’eran pria pur dentro molli, Gocciar su per le labra, e il gielo strinse Le lagrime tra essi; questo dice, a denotare che le lagrime agghiacciassono tra li occhi, e riserolli; questo finge l’autore, a dimostrare la pena del loro cuore per le lagrime, e la pena del freddo che sosteneano; ma allegoricamente intende di quelli del mondo, che invidiosi lagrimano del bene che veggono altrui, e la freddura aggiela le lagrime, e riserra li occhi: imperò che per carità di miseria ch’elli veggano ad altrui, non che piangano, anzi ridono. Con legno legno spranga mai non cinse Forte così; qui fa una similitudine che legno non si aggiunse con legno così per mezzo d’una spranga, come si giunsono li occhi insieme per lo freddo; ond’ei, come due becchi, Cozzaro insieme; pcrcotendo l’uno il capo all’altro, ritornandosi insieme com’erano prima: tanta ira li vinse; perchè non aveano potuto veder Dante.

C. XXXII — v. 52-66. In questi cinque ternari l’autor nostro finge che un’anima li manifestasse chi era quivi, e chi furono quelli due, e di molti altri ch’erano d’intorno, dicendo: Et un, che avea perduto ambo li orecchi Per la freddura; qui descrive com’era fatto, che per la freddura gli erano cascati, pur col viso in giue; cioè chinato al modo che detto è, Disse: Perchè mai tanto in noi ti specchi; cioè disse a Dante: Perchè tanto ci riguardi? Se vuoi saper chi son cotesti due; de’ quali fu detto di sopra, che stavano sì stretti insieme, La valle, onde Bisenzio si dichina: Bisenzio è uno fiume, che discende e va per la valle che si chiama Falterona, et è de’ conti da Modigliana, onde fu il conte Alberto, ch’era de’ detti conti et ebbe due figliuoli che l’uno ebbe nome Alessandro e l’altro Napoleone, i quali, cercando d’uccidere l’un l’altro a tradimento, s’uccisono insieme; e però dice: Del padre loro Alberto e di lor fue; quella valle. D’un corpo usciro; perchè erano fratelli, e tutta la Caina Potrai cercare: chiama l’autore lo primo giro del nono cerchio Caina da Cain, come detto fu di sopra; lo qual Caino fu figliuolo d’Adamo primo uomo, e fu lavoratore, e per invidia uccise Abel suo fratello ch’era pastore, perchè a lui, che sacrificava con buono cuore a Dio de’ migliori agnelli che avea, ogni cosa prosperava; et a Cain, che sacrificava le più triste spighe ch’avea nel campo per avarizia17, ogni cosa andava di male in peggio, e perciò un di’ mosso da invidia l’uccise a tradimento; e perch’elli fu lo primo che rompesse la fede speciale che nasce del parentado, però nomina da lui questo luogo Caina, Potrai cercare, e non troverai ombra Degna più d’esser fitta in gelatina; cioè nella ghiaccia di Cocito, ove stanno l’anime fitte nella ghiaccia, come li polli nella gelatina: Non quelli, a cui fu rotto il petto e l’ombra; cioè lo petto e le spalle; e questo dice sotto figura: imperò stando l’uomo col petto al sole, di retro mostra l’ombra, et essendo rotto il petto sì, che passasse di là, verrebbe ancora rotta l’ombra; e sotto questa fizione parla lo autore, a mostrare che il colpo passò da l’uno lato all’altro, Con esso un colpo per le man d’Artù; cioè del re Artù, che fu capo della Tavola Ritonda e fu re di Brettagna. Questi si fu Modite suo figliuolo lo quale si ribellò dal padre, e cercava d’ucciderlo a tradimento sì che il detto re Artù, avendolo compreso nell’aguato, lo passò con una lancia dal petto alle spalle; unde fa mensione18 de quelli due, che costui ponendo che coloro sono più degni di quella pena, che Madite ne fosse assai degno: imperò che coloro usarono tradimenti ad altri loro parenti, Non Focaccia: questo Focaccia fu de’ Rinieri da Pistoia, uomo scelerato, et a tradimento uccise uno suo zio; e però fa comperazione di costui ancora a’ detti conti, dicendo: Ancora sono essi qui19 degni di questa pena che Focaccia, non questi, che m’ingombra Col capo sì, ch’io non veggio oltre più; fa ora la terza comperazione di Sassol Mascheroni, che fu de’ Tosci da Fiorenza; lo quale, scelerata persona, ancora uccise uno suo zio a tradimento, dicendo che ancora li detti conti ne sono più degni; or dice ch’elli è sì allato al capo suo, ch’elli non potea vedere più là delli altri, e nominalo, dicendo: E fu nomato Sassol Mascheroni; questo del quale ti parlo, Se Tosco se’; tu, con cui io parlo, ben sai omai chi fu; questo Sassolo: imperò che fu fiorentino.

C. XXXII — v. 67-72. In questi due ternari finge l’autore che, manifestatoli alquanti di quelli del primo giro, manifesti sè medesimo; et oltre di ciò, dice che ne vide molti di quella condizione, e però dice: E perchè non mi metti in più sermoni; parla colui ch’à parlato in fino qui, e dice a Dante: Acciò che non mi domandi più, et io non t’abbia più a rispondere, Sappi ch’io sono il Camiscion de’ Pazzi; ora si nomina costui, secondo che finge l’autore, e dice che fu messer Alberto, vocato Camiscion de’ Pazzi da Fiorenza, il quale uccise messer Ubertino suo zio a tradimento, intanto che per parentado non si guardava da lui, Et aspetto Carlin che mi scagioni: questo Carlino fu ancora de’ Pazzi di Fiorenza, e fu cavalliere, et ancora uccise uno suo zio, e però dice ch’aspetta lui che con la sua nuova infamia cuopra la sua infamia antica; o forse che fu più scelerato tradimento quello di messer Carlino: le circustanzie del peccato sono quelle che aggravano il peccato, e però scagionerà lui, perchè il più grave fa dimenticare lo men grave. Poscia vid’io mille visi cagnazzi; dice Dante che poi ragguardando più oltre20, e vide in quel primo giro più di mille volti lividi, e questo dichiara quel che detto fu di sopra: Livide in fin là dove appar vergogna ec.-, Fatti per freddo; ecco che lo dichiara; onde mi vien riprezzo; cioè arricciamento di freddo a ricordarmene, E verrà sempre, de’ gelati guazzi; quandunque me ne ricorderò. E qui finisce lo primo giro, e la prima lezione.

E mentre ch’ andavamo ec. Questa è la seconda lezione di questo xxxii canto, nella quale incomincia a trattare del secondo giro, e trattane in fino al mezzo dell’altro canto o più; e dividesi in sette parti: imperò che prima pone lo passamento del primo giro nel secondo, e come li venne percosso uno di quelli del secondo giro sì, che lo rampognò; nella seconda e come chiede attenzione a Virgilio per dichiararsi, e com’ebbe parlamento con lui, quivi: Et io: Maestro ec.; nella terza, come per forza lo volle far nominare, quivi: Allor lo presi per la coticagna ec.; nella quarta finge ch’un altro lo nomina, riprendendolo, quivi: Quand’un altro gridò ec.; nella quinta induce lo nominato a nominare quelli che nominò lui, et ancora delli altri, quivi: El piange qui l’argento ec.; nella sesta finge che trovassono il conte Ugolino da Pisa, quivi: Noi eravam partiti ec.; nella settima finge come Dante lo domanda, quivi: O tu, che mostri ec. Divisa adunque la lezione, è ora da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

Poichè messer Camiscione de’ Pazzi ebbe parlato, dice Dante ch’elli e Virgilio passarono su per la ghiaccia, attraversando discendendo in verso il mezzo; e così passeggiando, dice che li venne percosso nel capo d’una di quelle teste ch’apparivano fuor della giaccia, perch’ella gridò forte: Se tu non vieni a crescer la vendetta di Monte Aperti, perchè mi molesti? Allora dice l’autore che disse a Virgilio: Ora m’aspetta qui, sì ch’io mi dichiari da costui, e poi fammi fretta quanto vuoi; et allora dice che andò e disse a colui: Chi se’ tu, che sì rampogni altrui duramente? Et elli rispose: Ma tu chi se’, che vai per l’Antenora, percotendo le gote altrui, sì che sarebbe troppo se fossi vivo? Allora Dante rispose ch’era vivo e che li potea ancora essere caro, s’elli dimandava d’aver fama; e quelli rispose che volea il contrario, e ch’elli si levasse quindi, che poco li varrebbono le lusinghe. Allora dice l’autore che lo prese per li capelli della cottola21, e che conveniva che si nomasse, o elli li trarrebbe tutti li capelli del capo; et elli rispose che, se tu gliel traesse, non si moverebbe22, eziandio se mille volte li tomasse in sul capo. Dice poi l’autore ch’elli avea li capelli in mano, e tratti glien’avea già una presa, et elli gridava forte. Allora un altro ch’era presso, gridò: Che ài tu, Bocca? Non ti basta sonare con le mascelle, se tu non latri ancora? Chi ti tocca? Allora disse l’autore: Oggimai non favellar, traditore, che o vogli tu, o no, io porterò novelle di te. Allora rispose: Va, e dì ciò che ti piace; ma non tacere di colui che ora fu così pronto: quello piange qui l’argento de’ Franceschi; tu potrai dire che vedesti quello da Duera in Cocito, ove li peccatori stanno freddi: se fossi domandato da altrui: Altri chi v’era; tu ài dallato quello di Beccheria, che li fu tagliato il capo a Fiorenza; e più là è Gianni de’ Soldanieri e Ganellone e Tribaldello, che tradirono di notte Faenza. E dice l’autore ch’era già partito da lui, quando elli vide due in uno buco della ghiaccia, ghiacciati tanto l’uno sopra l’altro, che il capo dell’uno veniva sotto l’altro; e quel di sopra mangiava lo cervello all’altro, come Tideo rose le tempie a Menalippo. Allora dice l’autor che disse a colui che così rodea: O tu, che mostri per sì bestial segno odio sopra colui che tu rodi, dimmi per qual cagione, acciò che se tu ài ragione di così fare, io te ne meriti, se io non perda la lingua e ’l parlare. E qui finisce la sentenzia della seconda lezione, o vero lo testo di questo canto: ora è da vedere le sposizioni allegoriche e morali.

C. XXXII — v. 73-81. In questi tre ternari finge l’autor nostro lo suo processo del primo giro nel secondo, e finge che percotesse uno di quelli del secondo giro nel volto col piè, ond’elli si lamentò, e dice così: E mentre ch’andavamo in ver lo mezzo; cioè Virgilio et io, partendoci dal primo giro, per andare nel secondo in verso lo centro della terra, Al quale ogni gravezza si raguna: però che ogni carico pende al centro della terra, Et io; cioè Dante, tremava nell’eterno rezzo: cioè nell’eterno freddo: impossibile sarebbe essere nel freddo, e non sentirlo; Se voler fu, o destino, o fortuna; qui tocca tre cagioni, da che procedono tutti li nostri affetti23; cioè da volontà di proprio arbitrio, o da giudicio universale delle costellazioni che si chiama destino, o da giudicio particulare di alcuna costellazione che si chiama fortuna, Non so; dice che non sa qual si fosse di queste tre cagioni, ma passeggiando fra le teste; di quelli ch’erano fitti nella ghiaccia, Forte percossi il piè nel capo ad una; di quelle anime del secondo giro. Piangendo mi sgridò; quell’anima a me Dante: Perchè mi peste; cioè mi percuoti col piè? Se tu non vieni a crescer la vendetta Di Mont’Aperti, perchè mi moleste? Et è qui da sapere che costui, cui l’autor finge aver percosso per una di quelle tre cagioni, fosse messer Bocca delli Abbati da Fiorenza, il quale essendo nello esercito de’ Fiorentini e de’ guelfi di Toscana, tradì il detto esercito quando combatterono co’ Sanesi, co’ quali erano li ghibellini usciti di Firenze e altri ghibellini di Toscana a Monte Aperti, che è in quel di Siena: imperò che il detto messer Bocca occultamente teneva con loro, ove fu sconfitto l’esercito de’ Fiorentini. Se tu non vieni a crescer la vendetta Di Mont’Aperti: imperò che in quel luogo si facea vendetta di sì fatto peccato, perchè darli col piè nel capo era accrescimento di pena. E benchè l’autore finga poeticamente; intende per modo di poesi dimostrare, come li occorse nella mente, per una di quelle tre cagioni di trattare in questo luogo di costui; e questo fu la percuotitura del piè nel capo suo; cioè l’affetto che venne a Dante di dire del tradimento suo. E per mostrare che colui che fa il male si dà l’infamia elli stessi, finge che lo sforzi a nominarsi; e non nominandosi elli, che altri lo nomini; e ch’elli abbi per male d’esser nominato è verisimile: imperò che questi traditori ànno per male d’essere conosciuti e chiamati traditori, e però allegoricamente intese di quelli del mondo.

C. XXXII — v. 82-96. In questi cinque ternari finge l’autore che, presa la licenzia da Virgilio, elli andò a parlamentare con colui che aveva percosso, dicendo così: Et io; cioè Dante dissi a Virgilio: Maestro mio, or qui m’aspetta, Sì ch’io esca d’un dubbio per costui; fìnge che dubitasse che costui fosse altri che non era sì, che si volea dichiarare, Poi mi farai, quantunque vorrai, fretta; ch’io sarò apparecchiato a venire. Lo duca stette; cioè Virgilio; et io dissi a colui Che biastemiava duramente ancora; perch’era stato percosso: Qual se’ tu, che così rampogni altrui? Domandò Dante chi elli era, et elli riaddomandò lui chi elli fosse; et in questo si nota che fosse superbo, dicendo: Or tu chi se’; disse colui a Dante, che vai per l’Antenora; cioè per questo secondo giro, che finge l’autore che si chiami l’Antenora da Antenore troiano che, come scrive messer Guido della Colonna nel suo trattato, anzi Troiano, tradì e diede Troia a’ Greci; onde scritto è in sulla sua sepoltura, secondo che si dice e che si vede: Hic jacet Antenor paduanae conditor urbis: Proditor ille fuit, et qui sequuntur eum — . Percotendo, rispose, altrui le gote; come detto fu di sopra, Sì che, se fosse vivo, troppo fora; cioè sarebbe troppo? Vivo son io; rispose Dante, e caro esser ti puote; ch’io sia vivo, Fu mia risposta; dice Dante, se domandi fama; la quale domandano li altri, Ch’io metta; cioè acciò ch’io metta, il nome tuo tra l’altre note; cioè persone, ch’io ò messe in questa Comedia. Et elli a me; rispuose, s’intende: Del contrario ò io brama; cioè di non esser nominato ò io desiderio: Levati quinci, e non mi dar più lagna; cioè più angoscia: Chè mal sai lusingar per questa lama; cioè per questo luogo pendente: imperò che tutto pende inver lo centro: lama è luogo pendente e non pari, com’era quello; e questo dice, perchè in quel luogo non sono genti che vogliono essere nominate: imperò che al traditore è infamia d’esser nominato, e non vorrebbe essere nominato.

C. XXXII — v. 97-105. In questi tre ternari l’autor nostro finge che strignesse con istimolazione24 e forza colui, che è detto di sopra, a nominarsi, e com’elli perciò non si palesò, dicendo: Allor lo presi per la coticagna; cioè per la chioma de’ capelli, che è nella collottola25, E dissi; a lui: El converrà, che tu ti nomi; cioè che tu dichi il nome tuo, O che qui su capel non ti rimagna; cioè ch’io te li tragga tutti del capo; Ond’egli a me; rispose, s’intende: Perchè tu mi dischiomi; cioè mi lievi la chioma de’capelli, Non ti dirò ch’io sia, nè mosterrolti, Se mille fiate, anzi volte, in sul capo mi tomi; cioè se ancora oltre alli capelli tratti, mi tomassi in sul capo mille volte. Io già avea i capelli in mano avvolti; cioè avvolta la mano in essi, E tratti glien avea più d’una ciocca; cioè d’una manata o d’una tirata, Latrando lui; cioè abbaiando e gridando, con li occhi in giù raccolti; per non esser conosciuto, o per la consuetudine de’ traditori, che non ànno ardimento di guardare26 altrui nel volto. Et è da notare che in questo luogo si può fare obiezione all’autore: imperò che qui pone che l’ombre sieno palpabili, in quanto dice che lo prese pe’ capelli; e nella seconda cantica dice nel secondo canto: O ombre vane, fuor che nell’aspetto! Tre volte a lei dietro le mani avvinsi, E tante mi trovai con esse al petto, e nel canto xxi della detta seconda cantica dice: Già s’inchinava ad abbracciar li piedi Al mio Dottor; ma elli disse: Frate, Non far, che tu se’ ombra, et ombra vedi; ecco che qui dimostra che siano impalpabili e così contradice a sè medesimo; e questo sarebbe grande difetto del poeta, se fosse fatto sanza cagione. A che si può rispondere che in questa prima cantica è necessario che ponga che l’anime sieno palpabili a ricevere li tormenti, i quali sostengono contra loro voglia per Divina Giustizia, et in questo atto tanto le finge palpabili; altrimenti, no. Nella seconda cantica l’anime si purgano volonterosamente, e non è mestieri che d’altrui sieno costrette; e però le pone impalpabili in ogni modo, e però non si contradice: imperò ch’elli intende che, secondo ragione di natura, in ogni luogo, in ogni modo sono impalpabili; ma miracolosamente sopra natura nell’inferno, quanto alli tormenti sono palpabili.

C. XXXII — v. 106-114. In questi tre ternari finge l’autor nostro che un altro nominasse quel traditore ch’elli volea conoscere, e però dice: Quand’un altro gridò; quasi dica: Colui latrava, come detto fu di sopra, quand’un altro gridò di quelli dannati; chi elli fosse si dirà di sotto: Che ài tu, Bocca? E così lo nominò: costui era messer Bocca delli Abbati da Fiorenza, del quale fu detto di sopra. Non ti basta sonar con le mascelle; questo dice, perchè quivi era solamente stridore dei denti, Se tu non latri; ancora? Qual diavol ti tocca? Pensava colui che qualche demonio lo tormentasse, e per ciò di ciò il domanda. Omai, diss’io; cioè Dante oggi mai, non vo’ che tu favelle, Malvagio traditor, ch’alla tua onta; cioè o vogli tu o no, Io porterò di te vere novelle; cioè io dirò veramente chi tu se’. Va via, rispuose; messer Bocca, e ciò che tu vuoi conta; Ma non tacer, se tu di qua entro eschi, Di quei ch’ebbe or così la lingua pronta; a nominarmi; cioè fa che tu dica ancora di lui.

C. XXXII — v. 115-123. In questi tre ternari l’autor finge che messer Bocca faccia sua vendetta: imperò che nomina colui che nominò lui, et ancor delli altri, e però dice: El; cioè colui che nominò me, piange qui l’argento de’ Franceschi; cioè l’argento e li danari ch’ebbe dal re Carlo vecchio di Francia, quando venne in Italia: questi fu messer Bosio27 da Duera da Cremona, il quale tradì la sua città al re Carlo per danari, quando venne di Francia; e però dice che piagne quivi; cioè nel secondo giro patisce pene de’ danari che ebbe da’ Franceschi, quando passò il detto re; dice messer Bocca a Dante: Io vidi, potrai dir; tu, Dante, quel da Duera; cioè il detto messer Bosio, Là, dove i peccatori stanno freschi; cioè nel Cocito, nel secondo giro, e nella ghiaccia. Se fossi domandato; tu, Dante, altri chi v’era; nel detto luogo, Tu ài dal lato quel di Beccheria; cioè l’abbate di Valembrosa28 di quelli di Beccheria da Pavia, lo quale andò per la chiesa a Firenze; et essendo in Firenze per la chiesa volle tradir Fiorenza e levarla de mano de’ guelfi e darla a’ ghibellini, onde venuto a notizia questo de’ guelfi che reggeano la terra, lo presono e tagliarongli la testa; e però dice: Di cui segò Fiorenza la gorgiera; cioè li segò il collo e dicapitollo. Gianni de’ Soldanier credo che sia Più là: questi fu uno gentiluomo da Firenze lo quale, quando i gentiluomini reggevano e signoreggiavano in Firenze, li tradie et accostassi col popolo e fece cacciare e disporre li gentili uomini sì, che per uno tempo furono disfatti, con Ganellone: questi fu tedesco della casa di Maganza, e tradì la santa gesta de’ paladini, come si leggie in quelli cantari e nelle croniche de’ Franceschi, e Tribaldello29: questi fu cittadino di Faenza il quale di notte, avendo le chiavi d’alcuna porta, mise dentro i nimici, e diede la terra ai Bolognesi; e però dice: Ch’aprì Faenza quando si dormia; cioè di notte.

C. XXXII — v. 124-132. In questi tre ternari passa l’autore a dire del conte Ugolino da Pisa e dell’arcivescovo Ruggieri, e dice così: Noi eravam partiti già; cioè Virgilio et io, da ello; cioè da messer Bocca, Ch’io; Dante, vidi due ghiacciati in una buca; cioè in uno foro di ghiaccia: tanto erano stretti insieme, che stavano in uno buco di ghiaccia, Sì, che l’un capo all’altro era cappello: però che il capo del conte Ugolino stava sopra il capo dell’arcivescovo Ruggieri, e rodevali il cervello per vendetta; e però dice: E come il pan per fame si manduca, Così il sovran; cioè quel ch’era di sopra, li denti all’altro pose Là, ove il cervel s’aggiugne con la nuca; cioè nella cicottola30 di rietro: la nuca è lo schenale delle reni, et aggiugnesi nella cottola col cervello e quindi piglia suo nutrimento e sentimento, e dà sentimento a tutti li nervi; e quando l’uomo è offeso nella nuca, da indi in giù perde il sentimento. Non altrimenti; qui fa una comperazione, a provare quel ch’à detto di sopra, cap. xiv, di Tideo e Menalippo, i quali furono fratelli; et essendo re in una parte di Grezia, patteggiarono che ciascuno dovesse tenere la signoria uno anno e cominciò a Menalippo, e Tideo andò al re Adrasto, come Polinice et Etiocle, de’ quali fu detto di sopra cap. xxvi, et ebbe per moglie l’una delle figliuole del re Adrasto, come Polinice ebbe l’altra. E quando Polinice andò a racquistare il regno, Etiocle non gliele volle restituire, onde fece suo sforzo e convocò sette re di Grezia et andò contra il fratello tra’ quali fu Tideo suo cognato. Etiocle similmente fece suo sforzo, e con lui fu Menalippo fratello di Tideo, lo quale ancora non volea rendere lo regno al fratello; et essendo poi nella battaglia, Menalippo saettò Tideo, onde Tideo mosso contra lui l’abbattè e tagliolli la testa e recossela in mano, e per ira la rosicchiava intorno intorno e mordevali le tempie et ancora l’altre parti, e massimamente le tempie perchè quelle s’adornava con la corona del regno31; e però dice: Tideo si rose Le tempie a Menalippo; suo fratello, per disdegno, Che quei; cui io vidi, facea il teschio; cioè l’osso del capo, e l’altre cose; che v’erano.

C. XXXII — v. 133-139. In questi due ternari e un verso finge l’autore ch’elli addimandasse chi erano quelli due, dicendo così: O tu, che mostri per sì bestial segno: segno bestiale è mangiare e rodere la carne umana, Odio sopra colui cui tu ti mangi, Dimmi il perchè, diss’io: cioè Dante, fai questo, per tal convegno; cioè per cotal patto; Che se tu a ragion di lui ti piangi; cioè se ragionevolmente tu ti duoli di lui, Sappiendo chi voi siete; cioè che tu mel manifesti, e la sua pecca; cioè e il suo peccato, ch’à fatto verso di te, Nel mondo suso ancor io te ne cangi; cioè io te ne meriti, dandoti fama, Se questa, con ch’io parlo, non sia secca: afferma con esecrazione; cioè se non mi secchi la lingua. E qui finisce il xxxii canto.

  1. C. M. non scalchi co’
  2. C. M. fioche nella
  3. C. M. per lo contenuto.
  4. C. M. pupola
  5. C. M. da provetto ingegno
  6. Seresti stati. Gli antichi nel principio di nostra favella terminarono in i la seconda plurale, per conformarsi ai Latini. Seresti viene dall’infinito sere. E.
  7. Da - Tolomea a Giudecca - è correzione secondo il Cod. Magliab. E.
  8. C. M. denotare la
  9. C. M. capo riverto, a
  10. C. M. contra la prima tra i quali
  11. C. M. l’amico temporale, e questo
  12. C. M. a ricever la lor pena,
  13. Grammatica vale qui letteratura. E.
  14. C. M. quel lago che si vidde dinanti, che nasce del fiume Cocito:
  15. C. M. Garfagnana
  16. C. M. li amici, se non che sono in maggior freddo, perchè sono più inverso ’l centro, e questo
  17. C. M. nel campo per avere, ogni cosa
  18. C. M. menzione di
  19. C. M. sono più degni ellino di
  20. C. M. più oltra, vide
  21. C. M. cottula,
  22. C. M. non si nominerebbe, eziandio se
  23. C. M. effetti;
  24. C. M. simulazione
  25. C. M. cottula,
  26. C. M. d’avvisare altrui per lo volto.
  27. C. M. Buoso
  28. C. M. di Vallembrosa
  29. Questi, che da Dante è chiamato Tribaldello, da Giachetto Malespini è nominato Tibaldo de’ Manfredi. E.
  30. C. M. cottula
  31. C. M. regno, et in esse pare essere la sedia dello ingegno; e

Note

    Altri progetti


    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.