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DELLO STILE POETICO
......Nugae! ast hae nugae seria ducunt |
Indizio di ben disposto ingegno si è, che entrato
a scuola di umane lettere tenti volentieri le corde
della cetra, della quale ogni anima gentile s’invaga
non altrimenti, che delle soavità della musica,
di cui parte nobilissima siede in cima la poesia. L’armonia di nostra favella il facile metro
invitano da sè la lieta età giovanile a leggiadro
esercizio, che destando la virtù dell’intelletto e
del senso lo adusa all’abito dello attendere, principio
a via di progressi in acquisto di qualsivoglia
generazione di scienza. Che se animo ingenuo
vorrà stare contento non ad altro, che al diletto
di amene dottrine, beneficio non lieve riceverà da
modo, che lo scampi dal rischio di marcire nella
lentezza e nella solitudine. Quanto di tali abbonda
il numero, tanto è da congratulare all’abbondanza
di nazionale civiltà. Frutto di questi studi
sono domesticare l’indole, reggere i costumi, piace
voi conversare, e valore di scrivere in prosa, o,
se più vuoi, in poesia. Questa da quella primamente
si divide per via del ritmo, che dal grammatico Diomede fa detto modulata imagine del verso. Quale il canto verso la semplice proferenza, tale è la poesia verso la prosa; e come senza misura di tempo non è canto, così nè manco poesia senza metro. Chi lo stimò non ad ella necessario avrebbe colto nel vero dicendo, che metro non fa poesia. Da quali norme sia retta quest’arte disputarono letterati e filosofi d’ogni nazione, tra’ quali capo di schiera appare quel di Stagira. Egli dirittamente apprezzando i probatissimi esempi pose leggi, che niuna posterità ebbe trovato ove emendare. Meglio per chi tutte quante bene le osserva. Che se i macchinosi drammi del Sofocle Inglese sono venuti a dimostrare in effetto, che taluna delle publicate leggi, la unità di luogo, di tempo e di azione, senza molto patimento dell’arte trasgredir si potea, è notevole che quella legge fu dettata ai teatri di Atene, ed osservata in Roma, ove sovente la frequenza degli spettatori perveniva al numero di ottanta mila. Alla chiarezza della favola era colà bisogno una legge, che non è domandata da i nostri teatri, ove ogni lunga e varia istoria in foggia drammatica rappresentata può da popolo numerabile essere bene udita e compresa. Se non da foggia di architettura propria ai luoghi, ma da poetica intrinseca ragione fosse nata e posta quella legge, valore qualunque di poeta non l’avrebbe impunemente violata.
Non è mio proposito ragionare di tale foggia di poesia, nè di quella, che mettendo a campo terrestri e celesti volontà risolve in esiti di parlamenti e di battaglie i destini di regi e di popoli. Ivi tale si richiede una beata e ricca vena, che florida del più nobile idioma, e di tutta la pompa di retoriche figure in ugual modo si diparte dal l’uso della prosa, e di que’ tropi imaginosi arditi, che sono anima e luce di poesia comica e ditirambica, ossia didattica e lirica.
Ogni nazione amò sì il canto e sì la poesia, l’uno e l’altra fiore di umanità, letizia della vita. Se quale è della scienza tal fosse il bello della poesia, la piacente qualità sarebbe ovunque tutt’una. Ma poichè non uno il clima, non una la favella, non uno il senso, non una l’aria della faccia de’ viventi nell’universo, gusto in poesia non può essere ovunque tutt’uno. Innumerevole è il numero di arabe poesie, che l’inglese Jones invano tentò di fare aggradire alla culta Europa. Fu lodato l’ingegno, l’effetto no di chi volle aggiungere a nostre poetiche dovizie le fantasie del Bardo di Calidonia proprie al nubiloso aspetto di quelle spere, non all’azzurro zaffiro dell’italico cielo. Ora nuova sì mostra a noi una foggia di lettere, che rifuggendo quel mezzo, in cui si contiene il bello ossia il vero, troppo rade la terra, o negli eterei spazi della psicologia sorvola in guisa, che sovente ad ogni veduta si nasconde a ritroso di ciò, che vuole un’arte usata e fatta a nobilitare, e a tragittare le idee dalla ragione alla fantasia, dall’intelletto al senso. Si abbattono altari, a’ quali da tanti secoli non fumano incensi, si vuole abolito un codice poetico, spenta una tradizione, tolta una eredità, che giovò e giova al bello delle Arti. A chi farà noia, od inganno leggere?
L’acqua che io prendo, giammai non si corse,
Minerva spira, e conducemi Apollo,
E nove Muse mi dimostran l’orse.
Chi non vede in questa sintesi, e in somiglianti, quante idee si chiudono? Minerva è l’ingegno, Apollo la fantasia, le nove Muse la varia erudizione sacra e profana; vento piloto, bussola per sorgere a porto dopo felice navigazione. Non credo che con romantici strumenti si possano condurre a fine sì bei lavori. Insomma dispiaccia a chi non piace quello, che secondo indole e gusto non può piacere; piaccia a noi quella foggia di lettere, che per lo spazio di ben cinque secoli riverberata a nostre menti, appresa a nostri sensi divenne abito e natura, che per nuove dottrine per esempi nuovi non tosto non tutta potrà tornare in bastarda; e sempre sospinta ricorrerà vincitrice della vittoria, della quale è vaghezza ed usanza mandare suo linguaggio e suoi gusti appresso alle armi. La nostra poesia è quella, che in crescere lento ed occulto pervenne a piena età nella divina mente di Omero, quella, che i Latini presero da lui a prestanza, quando osarono di abbandonare orme straniere, e celebrare domestiche gesta; quella infine, che non qual nipote ma figlia derivata a noi consanguinei de’ Latini in tutta la materna pompa sfavillò rediviva nella mente sovrana dell’epico tragico didattico lirico Dante Alighieri. Questi è quel Genio, che surto come etereo Sole all’Italia fu, quale Omero alla Grecia, primo istorico padre di erudizione fondatore di umanità. Virgilio, che tanta parte di Omerica luce da sè riflette, gli fu guida, argomento i casi del secolo, Musa la generosa splendida bile commossa da genti, che parteggiando volsero a ruina l’amata sua patria Italia. Se invano tentò ricomporne secondo suo concetto i publici costumi, non invano pose quelle fondamenta, su le quali drizzò la patria letteratura in sì nobile stato, che ogni lodato scrittore dovea e deve con animo grato e riverente accostare a questo avello, appendere a parete la penna, e a Musa non favolosa ringraziare con questa scritta:
“Si placeo, quod placeo, tuum est”.
Se piaccio, perchè piaccio, è tuo dono.
Ecco la nostra estetica, la nostra scienza del bello poetico, che ne ha fatti gloriosi, e contener ne debbe dallo spirito di anelare, o dar biasmo e disciplina alla estetica di altre genti. Che più? Nel compreso di una stessa nazione non è indifferente il poetico gusto. A taluni fra noi più, che il modo tenuto dall’Alighieri, piace per avventura quello, che si legge nel Riciardetto, dove al precetto si aggiusta l’esempio in questa metrica prosa:
E merita il poeta allor gran lode,
Che l’arte sua ricopre con natura,
E chi legge i suoi versi ugna non rode
Per indagar qualche sentenza oscura,
Ma li capisce subito che gli ode,
E crede l’opra sì piana e sicura,
Che può sperar, che quelle cose istesse
Ei le potrebbe dir quando volesse.
Veramente perfetta è l’arte allora, che ben si nasconde, allora che semplice non rozza, nitida e piana corre la sentenza. Non è da negare, che nei sommi scrittori s’incontra talvolta oscurità; ma più sovente è negli occhi de’ leggitori, in cuor de’ quali assai mi dubito, che speranza facile del pari possa nascere leggendo nell’Alighieri, e nel Carteromaco. A chi tale fiducia entrasse nell’animo saria tolta la pena, che Orazio volle dare a poeta cousigliando a studiar sì, che:
Saepe caput scaberet, vivos et sole ungues.
Ora, per quanto la esperienza lo mi consente, dirò del modo, pel quale penso, che ogni concetto, ed anche il più vulgare possa inalzarsi a quella poetica forma, che è meraviglia di ciò, che si legge nelle odi di Pindaro e di Orazio, nelle Georgiche di Virgilio, e nella Divina Commedia. Parmi, che a tanto si arrivi col buon uso delle figure grammaticali. I tropi e le metafore, che in sè ricevono la retorica figura della similitudine, raccolgono nel minor possibile volume di segni il maggiore possibile numero d’idee a guisa di specchio, che adunando fascicoli di raggi Solari riscalda e accende gli obietti. Nè qui vorrò notare sinecdochi, e metonimie, ed altre figure conosciute a quelli, che dalla soglia cominciano a salutare le Muse; dirò, come ogni semplice idea scritta naturalmente in ogni intelletto, in ogni cuore s’inalzi a poetica ragione, con adunare cumulo di altre a quella circostanti. E poichè il fatto rischiara il detto, farò di mostrarlo con esempi. Il nome di Adamo diviene poesia in questi versi:
......Il petto onde la costa
Si trasse per formar la bella guancia,
Lo cui palato a tutto il mondo costa,
. . . . . . . . . . . . . Il Padre antico,
A cui ciascuna sposa è figlia e nuora.
Pier delle Vigne fu quasi solo grazioso a Federico secondo, gli fu ministro diligente e fedele; per invidia de’ cortigiani ne incontrò la disgrazia sì, che disperato nel dolore a sè innocente diede la morte. Il racconto diviene poetico nel modo seguente:
Io son colui, che tenni ambe le chiavi
Del cor di Federico, e che le vuolsi
Serrando e disserrando sì soavi,
Che dal secreto suo quasi ogni uom tolsi
Fede portai al glorioso uffizio
Tanto, che ne perdei lo sonno e i polsi.
La meretrice, che mai dall’ospizio
Di Cesare non torse gli occhi putti,
Morte comune e delle corti vizio,
Infiammò contro me gli animi tutti,
E gl’infiammati infiammar sì Augusto,
Che i lieti onor tornaro in tristi lutti!
L’animo mio per disdegnoso gusto
Credendo col morir fuggir disdegno
Ingiusto fece me contro me giusto.
Talvolta con definire o dimostrare il significato di una voce, con indicare in alcun caso famoso un’epoca qualunque, con animare di affetto si fa poetica ogni semplice e vulgare idea; come dire il centro della terra:”
. . . . . . . . . Il mezzo,
Al quale ogni gravezza si raduna,
. . . . . . Coloro,
Che questo tempo chiameranno antico.
. . . . . . Dal mal delle Sabine
Al dolor di Lucrezia;
Era quell’ora, che volge il desio
A naviganti, e intenerisce il core
Lo dì, che han detto a dolci amici addio,
E che lo novo peregrin di amore
Punge, se ode squilla di lontano,
Che paia il giorno pianger che si muore.
Nata la poesia innanzi che il Fenicio Cadmo avesse trovato modo di arrestare in carte le volubili parole, innanzi che filosofi avessero scoperto il vero delle cose, e i segni possibilmente singolari a singule idee, la poesia, dissi, fu dall’inopia costretta a valersi di metafore e di tropi, cioè di trasporti e d’inversioni, La povertà divenne in fatti ricchezza sì, che consacrata ne’ responsi degli oracoli e imitante l’armonia delle sfere fu tenuta favella degli Dei sola degna di celebrarne le lodi, Essa, dirò così, ricordevole degli umili suoi natali sdegna la pompa de’ dotti parlari, e contenta a tenuità di suo sapere antepone l’apparenza alla realtà; lascia correre il Sole in sua quadriga, fa fuggire le isole, i lidi, i porti, e fa nascere l’Espero dalla cima del monte Eta. Ciò ben vide chi essendo in dire come l’angolo di riflessione è uguale a quello d’incidenza non usò termine di scuola
Come quando dall’acqua, o dallo specchio
Salta lo raggio all’opposita parte
Salendo su per lo modo parecchio
A quel, che scende, e tanto si diparte
Dal cader della pietra in ugual tratta,
Siccome insegna esperienza ed arte.
E qui non so tenermi dal dire, che non parmi probabile la sentenza di quelli, che dicono trovarsi Dante nella Cantica dell’Inferno più che nelle altre. Io sono tanto di contrario avviso quanto le pure intelligenze, le teologiche e filosofiche dottrine più, che gli oggetti visibili, sono ritrose a lasciarsi sommettere al dominio de’ sensi, e quindi a poetica forma. A prova del mio dire uopo sarebbe qui trasferire tutta quanta la Cantica seconda e terza.
Dice l’Ecclesiaste, che le opere fatte immediatamente dalla divina bontà non soggiaciono ad alcuna corruzione, e durano in perpetuo, ed ecco come è espressa la sentenza:
Ciò, che da Lei senza mezzo distilla,
Non ha poi fine, perchè non si move
La sua impronte, quand’ella sigilla,
Ciò, che da essa senza mezzo piove
Libero è tutto, perchè non soggiace
Alla virtute delle cose nove.
Questi ed altri senza fine esempi, sono lampi e scintille, che sospingono gli occhi di sperto lettore, il quale mentre si ammira a quelle inaspettate e leggiadre foggie di locuzione, si piace di scoprire quasi per indovinamento concetti, che ascosi in velame si mostrano a lui, che in ciò si accorge di essere intromesso a misteri negati al vulgo de’ profani. Nè già la fatica lodevole di comico e lirico poeta consiste nell’informare, e nudrire perpetuamente lo stile di questi modi figurati (ciò sarebbe scambiare il condimento con l’alimento), ma con fiorirlo, e rallegrarlo a quando a quando come un bel drappo di trapunti e di ricami. Opera è questa di vivida fantasia, retta da freno di sottile criterio educato a scuola di buoni esemplari; se no per vaghezza di ammirabile novità interverrà, che il pensiero si rimanga celato, o si incorra nelle tumide intemperanze dell’obliato e deriso secento. Senza tale criterio ogni buono ingegno, ogni fervida fantasia non potrà ritrarre in sè altra imagine, che quella del sonno o del delirio. La capacità di mente giovanile non può talvolta in sè ricevere l’ampiezza di precetti profittevoli a quelli, che nella difficile carriera si avanzarono sino all’avere imparato che l’essere della poesia consiste nella veste. Della intrinseca sostanza sono fonti comuni al dire la dottrina delle cose, la dritta logica, il lucido ordine, gli affetti, il numero, in somma la eloquenza e quel senno, che Orazio indicò dicendo:
Scribendi recte sapere est et principium fons.
Se gli esempi hanno prevenuti i precetti, quale necessità degli uni e degli altri? Chi fu maestro a colui, che primo trovò il bello dell’arte poetica? La nostra matura, che non si muta per multar di tempi e di costumi, che amica e maestra di libera creazione sdegna servitù furace di concetti e di frasi registrate, e popola d’imitatori il territorio della Republica delle lettere; per lo che, avuto riguardo alla eccellenza dell’arte e alla imperfezione degli artefici, fu chi disse: La poesia essere la dolcezza, e i poeti la noia del genere umano.
Non nacquero le arti, né le scienze come Minerva dal capo di Giove matura ed armata. Uso ed esperienza nel credibile spazio di anni cinquecento murò quell’edificio, che Omero il primo trasse a perfezione. Or che ne vieta di apporre a lucro privato publici tesori, redati dagli antichi sì, che per’ vià più corta e più sicura si giunga a meta desiderata? Non si stringono con ciò que’ confini, in cui la natura possa stendere la sua ragione, e mostrare gli effetti di sua nobile virtù, mentre per altrui insegnamento, per altrui esempio s’impara a discernere e ad amare il bello, o sia il vero dì arte e di scienza, che trovato una volta non è lecito cercare altrove; di qua, e di là stassi l’errore e la deformità. La nobile illustre favella è patrimonio comune, e divien proprio a chiunque sappia coglierne il fiore, e il seme, che germina in tanti colori, quante sono le indoli degl’ingegni e degli animi, de’ quali è specchio lo stile. Mirabile tanto, quanto rara è l’arte di chi sappia dire in modo a sè proprio e singolare, cose dette comunemente per altri. Orazio la notò nel verso:
Difficile est proprie communia dicere.
Chiunque sia nato al destino di spandere il nome col potere della divina arte della poesia coglierà miglior messe dietro la luce di queste vecchie dottrine, anzi che dalle novelle di chi si avvisò d’insegnare le arti belle con dettami non dissimili a quelli, che sono usati a scuola di scienze e di mestieri. Se questa, che si nomina filosofia delle arti, chiami a sindacato i più celebrati in ciascheduna, niuno abbia speranza di andare assolto. Omero, Catullo, Dante, Raffaele non torneranno pienamente lodati. Quello fa dire a Crise parole disconvenevoli al debito amor della patria, questi in carme introduce episodio più lungo del proposto argomento, e fa il contenuto maggiore del continente; l’altro confonde la storia con la favola, il sacro col profano; un quarto pone Papa Clemente spettatore nel Tempio di Gerusalemme; l’arte si risente, quando la ragione è offesa. Sì veramente, ma non quella della pittura, e della poesia, delle quali accade il giudizio. Omero dipinge l’indole umana quale la scopre in effetto. Natura pose in cima di tutti l’affetto a’ figli. Crise pensoso della figlia, non cura di regie ambizioni da saziare, di onte da vendicare nel sangue, di popoli innocenti e inconsapevoli. Egli Troiano dice al Greco re de’ re: Rendete a me la mia figlia, e prendetevi Troia, che io ve l’auguro. Era questo il più possente di tutti gli scongiuri. Se nostra natura non è più sublime, se umana veramente non divina, la colpa non è del poeta. Catullo lascia ire la fantasia dove più largo si apre il campo a belle imagini, e a caldi affetti; e se pare scordevole dell’argomento, non ne duole al lettore, che non altro brama, che di essere dilettato. Dante si giova di mitologici velami, entro i quali è facile discernere il falso, che fa più risplendere il vero. Raffaele pone il pensiero di Clemente nel Tempio di Gerusalemme; nè lo potea per altro modo, che per quello, che dall’arte gli era proferto. Questa filosofia confonde la ragione delle belle Arti con la universale, in che veramente si contiene, ma con sue proprie condizioni. Qualunque il termine sia, al quale possa aggiungere chi dietro le dette scorte si pone in via, non avrà causa ad attristarsi di essere ito invano; è questo di tutti il caso più misero a curioso discepolo. Non sia chi stimi arte da trastullo il poetico stile. L’arte del dire, strumento efficace ad assalire e vincere le alte non che le comuni imprese, si deriva massimamente da leggere e studiare ne’ poeti sì per la piacevolezza del numero e del ritmo, che vie più dilettando ai sensi aiuta la reminiscenza, e sì pel calore degli affetti, che sono il nerbo e la vita di ogni eloquenza. Quindi il principio del tirocinio e la regola delle classi. Omero fu padre degli oratori non che de’ poeti greci e latini, Dante di tutti gl’italiani scrittori. Penso, che fosse grande ventura dello Storico dell’Asia l’essere nato là dove ebbe la cuna e la maggior fama dapprima Lodovico Ariosto. Galileo Galilei a chi celebrava la bellezza e la evidenza del dire, che splende nelle opere di lui, era usato rispondere, che la riconosceva dalla lettura dell’Orlando Furioso. A nostri dì Carlo Botta coltivò dapprima la poesia. Le schiette e sempre amabili prose del conte Giulio Perticari sono sparse qua e là di fiori raccolti nella Divina Commedia. Il Longino de’ tempi moderni G. Vincenzo Gravina dovendo proporre una regola di buoni studi, mette soli in ischiera davanti agli occhi quanti furono da Omero sino a Teofilo Folengo Greci, Latini, Italo-Latini, Italiani poeti. In somma conviene porre il segno della eloquenza nel punto il più sublime, a cui mirando se fia che non arrivi l’acume dell’ingegno si terrà assai nobilmente nella schiera degli autori di bei dettati sciolti da numero. E se avverrà, che buon criterio non si accampi a buona fantasia, vi sono da tenere con onore le parti di giudice; e sì che nè comune, nè ignobile, nè inutile è l’ufficio di Longino e di Quintiliano; ed in questo numero più d’uno ho conosciuto degnissimo di onoranza. Chi a mal grado delle Muse, o sia della natura e dell’arte vorrà salire il monte Pimpleo, incorrerà le sorti del Mentula Catulliano, nè gli gioverà dire: piaccio a me, se non altrui; che si udrà rispondere: Amatevi adunque senza rivale; e dovrà sperimentare per verissimo il detto:
. . . . . . . . . . . . Hae nugae seria ducunt
In mala derisum semel, acceptumque sinistre.