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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XXV.
Delle strane cose avvenute in Sierra Morena al valoroso cavaliere della Mancia e come egli imitasse la penitenza di Beltenebro.
Con questi ragionamenti giunsero appiè di un’alta montagna, che, quasi masso tagliato, sorgeva isolata fra le molte altre che la circondavano. Scorreva d’intorno alle sue falde un ruscello piacevole per un prato sì verde e fiorito che rendeva più vaga l’amenità del luogo coperto tutto di alberi silvestri e di piante e di fiori. Scelse questo sito il cavaliere dalla Trista Figura per fare la sua penitenza, e perciò volgendo attorno lo sguardo, cominciò a dire ad alta voce, come se fosse uscito di senno: — È questo il luogo, o cieli, ch’io deputo e scelgo per piangere la disavventura in cui voi medesimi mi avete posto: è questo il sito ove le mie lagrime accresceranno le acque di questo ruscello, ed i miei profondi ed incessanti sospiri agiteranno continuamente le frondi di questi montani alberi in testimonio della pena che soffre l’affannato mio cuore! O voi, qualunque vi siate, silvestri numi, che tenete la vostra sede in questo inimitabile luogo, udite le querele di uno sventurato amante, cui lunga assenza e timore d’immaginate gelosie hanno tratto a lamentarsi fra sì selvaggi recessi, ed a dolersi del crudele stato a cui lo condusse quella ingrata e vezzosa che in sè raccoglie le perfezioni tutte della bellezza! O voi Napee e Driadi, che siete accostumate ad abitare tra le catene di questi monti, piaccia al cielo che la tranquillità vostra non sia turbata giammai da Satiri leggeri e petulanti, affinchè mi ajutiate a deplorare la mia disavventura, o non isdegniate almeno di udirla! O Dulcinea del Toboso, giorno della mia notte, gloria della mia pena, tramontana dei miei viaggi, stella della mia ventura, (così secondi il cielo ogni tua brama), ti prego di considerare il luogo e lo stato cui mi ha condotto la tua lontananza, e di pietosamente concedermi quanto si dee alla mia fede! O arbori solitari che sarete compagni del mio ritiro, date segno col susurrare dei vostri rami che non vi è discara la mia presenza! O tu, scudiere mio, dolce compagno nei miei avventurosi e contrari eventi, imprimi bene nella tua mente ciò che qui mi vedrai operare, affinchè tu possa poi farne racconto esatto e fedele alla sola cagione del mio soffrire2!„ Detto questo, smontò da Ronzinante, e in un momento gli tolse il freno e la sella, e dandogli una spalmata in sulle groppe gli disse: “Libertà ti concede colui che l’ha perduta, o destriero tanto celebre per le opere tue, quanto sventurato pel tuo destino: vattene ove più ti aggrada, chè già porti scritto nella fronte che non ti superò in agilità l’Ippogrifo di Astolfo, nè il rinomato Frontino che tanto caro costò a Bradamante3„. Sancio, vedendo tutto questo, disse: — Sia benedetto adesso chi mi ha tolto la briga di levare la bardella al leardo, chè certo non gli saria mancato il bastone, in vece di lodi per magnificarlo; ma se qua si trovasse, io non avrei acconsentito che alcuno lo sbardellasse, nè ciò sarebbe occorso perchè a lui non toccavano le regole generali d’innamorato nè di disperato, mentre io, suo padrone, non mi sarei trovato a sì tristo partito per essere amante. In verità, signor cavaliere dalla Trista Figura, che se sono certe la mia partenza e la pazzia di vossignoria, sarebbe cosa ben fatta metter di nuovo la sella a Ronzinante, perchè supplisse alla mancanza del mio leardo; e così io affretterei la mia partenza e il ritorno. Se debbo viaggiare a piedi non so quando potrò arrivare, nè quando ritornerò; poichè, a dir vero, io sono un cattivo camminatore. — Sia come si voglia, disse don Chisciotte, non mi dispiace, Sancio, di approvare il tuo consiglio, e soggiungo che partirai di qui a tre giorni: perchè intanto potrai essere testimonio di tutto quello ch’io farò e dirò rispetto alla mia diva, alla quale ne darai un’esatta relazione. — E che più mi resta a vedere, disse Sancio, oltre a ciò che ho veduto? — Questo è appena il principio, rispose don Chisciotte, ed ora vedrai quello che mi resta a fare: lacererò i vestiti, disperderò l’arme qua e là, batterò la testa per questi massi, con altre simili cose che ti faranno trasecolare. — Per amore di Dio, disse Sancio, guardi bene la signoria vostra quello che fa nel dare la testa tra questi massi, perchè potrebbe essere che ella urtasse in tal masso e in tal punto, che con la prima botta finisse la macchina di questa sua penitenza. Io sarei piuttosto di parere che se vossignoria giudica indispensabile il dare della testa per queste pietre, e senza di ciò non sarebbe compita la sua opera, si contentasse, (poichè tutto è finzione e cosa contraffatta e da burla) si contentasse, ripeto, di batterla nell’acqua od in altra cosa morbida come la bambagia, e lasciasse a me il carico di far sapere alla sua signora che vossignoria la batteva nella punta di un sasso più duro di un diamante. — Son grato, amico Sancio, alla tua buona intenzione, rispose don Chisciotte; ma devi sapere che quanto mi accingo a fare qui non è cosa da burla ma vera, perchè in altro modo sarebbe contravvenire agli ordini di cavalleria che ci comandano di non mentire a verun patto sotto pena di ripulsa; e il fare una cosa per un’altra è lo stesso che mentire. Le testate ch’io darò per queste balze debbono essere vere, stabili ed efficaci, senza contrassegno veruno di sofisticheria o di fantasticheria; e perciò sarà necessario che tu qui mi lasci delle fila per curarmi, giacchè ora appunto vuol la mia disdetta che ci manchi il balsamo da noi perduto. — E peggio è stato, soggiunse Sancio, il rubamento del mio asino, perchè con esso si sono smarrite anche le fila e tante altre cose; prego poi vossignoria a non volersi ricordare di quel maledetto beverone, chè al solo sentirlo rammemorare mi viene da recere quanto ho nello stomaco; e più di tutto la supplico a considerare come passati i tre giorni che mi ha prescritti per veder le sue pazzie, che già le do per vedute e giudicate; e ne dirò maraviglie alla sua signora. Ora ella scriva pure la lettera, e si sbrighi sollecitamente perchè ardo d’impazienza di ritornare a trarre vossignoria da questo purgatorio in cui la lascio. — Purgatorio lo chiami, Sancio? disse don Chisciotte; meglio faresti a chiamarlo inferno; e peggio ancora, se vi ha cosa di peggio. — Chi è all’inferno, rispose Sancio, nulla est retentio, per quanto ho inteso dire. — Non arrivo a comprendere che cosa significhi retentio, disse don Chisciotte. — Retentio vuol dire, soggiunse Sancio, che chi va all’inferno più non può uscirne; ma per vossignoria andrà a rovescio la cosa; e l’anderebbe così anche per me se non portassi gli sproni per tener desto Ronzinante; ma purchè io arrivi al Toboso, mi farò innanzi alla signora Dulcinea, e le darò tal ragguaglio delle prodezze e delle pazzie che vossignoria ha fatte, e delle altre che starà facendo, che la renderò più pieghevole di un guanto se pur la trovassi più consistente di un sughero; volerò poi come uno stregone con una risposta dolce e melliflua, e trarrò la signoria vostra da questo purgatorio, che sembra inferno e non lo è, perchè vi è la speranza, come ho detto, che manca a chi sta nell’inferno: nè crederò di trovare in ciò opposizione. — Questo è vero, disse il cavaliere dalla Trista Figura; ma come faremo a scrivere la lettera? — Ed anche la cambiale per avere gli asini? soggiunse Sancio. — Non mancherà nulla, disse don Chisciotte: e saria ben fatto, mancandoci carta, che la scrivessi alla maniera degli antichi sopra foglie d’alberi o sopra una tavoletta di cera, benchè anche questa, come la carta, sarà qui difficile a ritrovare. Ma ora mi sovviene... e si potrà bene e più che bene scriverla nel libricciuolo di memorie che fu di Cardenio, e tu poi ti piglierai pensiero di farla trascrivere sopra un foglio di carta con buon carattere nel primo villaggio dove siavi un maestro di scuola; o te la copierà in ogni caso un qualche segrestano; ma non farla trascrivere da alcun notajo, chè costoro hanno tutti un carattere indiavolato, sicchè non la potrebbe poi leggere Satanasso. — E chi la firmerà? disse Sancio. — Le lettere scritte da Amadigi di Gaula non furono mai sottoscritte, rispose don Chisciotte. — Va tutto bene, soggiunse Sancio; — ma il mandato risguardante gli asini bisognerà pure che sia firmato per forza: e se questo viene trascritto d’altra mano, diranno che falsa è la firma, ed io resterò un balordo e non avrò nulla. — Il mandato avrà la sua firma nel detto libricciuolo, e mia nipote che conosce la mia mano non metterà difficoltà di sorte ad eseguirlo: e rispetto alla lettera amorosa la sottoscriverai in questo modo: Vostro insino alla morte il cavaliere dalla Trista Figura: e poco importerà che sia di mio pugno, perchè mi risovviene che Dulcinea non sa nè leggere nè scrivere, nè in tutto il corso della sua vita ha veduto giammai caratteri o lettere mie: i miei amori ed i suoi sono stati sempre platonici, non andarono mai al di là di semplici occhiate, ed anche queste assai di rado; ed oserei giurare con verità che in dodici anni ch’io l’amo più che la luce di questi miei occhi, che hanno da ridursi polvere, non l’ho veduta quattro volte, e potrebb’esser anche che in queste quattro volte ella non siasi meco incontrata cogli occhi una volta sola: sì grande è la riservatezza e la custodia con cui Lorenzo Corucuelo suo genitore e sua madre Aldonza Nogale se l’hanno educata!
— Come, come, disse Sancio, la figlia di Lorenzo Corucuelo è la signora Dulcinea, chiamata con altro nome Aldonza Lorenzo?
— È dessa appunto, replicò don Chisciotte; ed è quella che merita di essere signora dell’universo intero. — La conosco pienamente, disse Sancio, e so dire ch’ella lavora così bene con un palo di ferro come ogni più robusto bifolco del nostro paese: oh! è una donna di merito grande e grossa, senza paura di chicchessia, e tale da cavare i peli tutti della barba ad ogni cavaliere errante o che sia per errare, e che la tenga per sua signora! Corpo di mia nonna! che bocca che ha, che voce! Le so dire che si è posta un giorno in cima al campanile del villaggio a chiamare certi suoi famigli che se ne stavano in un maggese di suo padre, e sebbene si trovassero più di una mezza lega discosti la sentirono così bene come se fossero stati a’ piedi del campanile; e dopo tutto questo ha la prerogativa di non essere schizzinosa, anzi scherza con tutti, è di affabilità straordinaria, ed ogni cosa le serve di trastullo e passatempo. Ora concludo, signor cavaliere dalla Trista Figura, che non pure vossignoria può e deve fare delle pazzie per lei, ma con ogni ragione può disperarsi altresì ed impiccarsi; chè non vi sarà certamente chi sapendolo non approvi ogni cosa che ella farà per quanto strana possa essere; oh! io non veggo l’ora di trovarmi in viaggio, solo per aver il piacere di risalutarla; chè sono ormai moltissimi giorni che non la vedo, e potrebbe anche esser accaduta qualche alterazione nelle sue faltezze; cosa tanto facile in una donna che si espone al sole e all’aria senza riguardi. Confesso poi a vossignoria, signor don Chisciotte, una verità, ed è che io sono vissuto finora in un grande errore, figurandomi di buona fede che la signora Dulcinea dovesse esser qualche principessa di cui foss’ella amante, o qualche persona tale da meritarsi i ricchi donativi che vossignoria le ha inviati, come sarebbe a dire, quello del vinto Biscaino, dei galeotti, e quegli altri molti numerosi come le vittorie da vossignoria guadagnate sino da quando io non era ancora suo scudiere: metto in fine tutta la mia attenzione a riflettere che quando tutti i prigionieri ed i vinti che vossignoria ha mandati e posti ginocchione dinanzi Aldonza Lorenzo, cioè la signora Dulcinea del Toboso, o che le manderà in avvenire, potessero ritrovarla che pettinasse del lino, o trebbiasse del grano in sull’aja, io non vorrei che prendessero vergogna di loro stessi nel vederla, o ch’ella si facesse beffe e disprezzasse il dono. — Io ti ho già detto prima d’ora molte e molte volte, o Sancio, replicò don Chisciotte, che sei un gran ciarlone; e benchè il tuo ingegno sia ottuso, pure di quando in quando ti fai acuto e satirico. Affinchè però tu conosca quanto sei ignorante e quanto io sia ragionevole, voglio che tu ponga attenzione ad un breve racconto che sono per farti. Tu dèi sapere che una vedova bella, giovane, libera, ricca e soprattutto di umore allegro, s’invaghì una volta di un garzone garzone gagliardo e corpacciuto. Venne il suo padrone a sapere la tresca, e disse un giorno alla vedova a modo di amichevole riprensione: Sono maravigliato, o signora, e non senza molta ragione che una donna di tante qualità come voi siasi innamorata in un giovane di vile estrazione ed ignorante come una bestia, quando sono in questa città tanti giovani belli, ricchi e garbati, fra i quali potreste scegliere a pieno vostro talento, come da un paniere le pere, e dire liberamente: voglio questo e non quello. Rispose la vedova con bel garbo e disinvoltura: Vossignoria va molto errato e pensa molto all’antica se crede che la mia scelta sia caduta sopra un idiota ed un immeritevole, mentre per ciò che abbisogna a me egli è meritevolissimo e ne sa più assai di Aristotele. Lo stesso si può dire di me, o Sancio: tanto vale per quello che io mi sono prefisso Dulcinea del Toboso, quanto la più alta principessa del mondo, mentre io trovo in essa raccolte le qualità e i meriti tutti che vengono celebrati da’ poeti nelle cospicue signore che sono il soggetto delle loro lodi. Credi tu che le Amarilli, le Fillidi, le Silvie, le Diane, le Galatee, le Alicide, ed altre delle quali sono zeppi i libri, i romanzi, le botteghe de’ barbieri e i teatri delle commedie, fossero veramente in carne ed ossa, dame di coloro che le celebrarono? No certamente: ma i più se le fingono per materia alle loro poetiche composizioni, e per essere creduti innamorati od uomini che meritano di esserlo; ed a me basta credere che la buona Aldonza Lorenzo sia bella ed onesta, poco importandomi del lignaggio; perchè a giudicare i meriti della donna amata questa considerazione non c’entra, e in conseguenza io la tengo in conto della più gran principessa del mondo. Devi sapere, Sancio, se lo ignori, che due sole cose muovono più che le altre ad amare, e sono la molta bellezza e la buona riputazione; ed ambedue queste si trovano unite perfettamente in Dulcinea, perchè non ha chi la uguagli nell’essere formosa, e poche le stanno a paro nella riputazione. Per dir breve in somma io me la immagino tale che nulla le manchi; e me la dipinge la mia fantasia quale la bramo in bellezza e in fama: sicchè Elena non le si avvicina, nè le sta a petto Lucrezia, nè verun’altra delle donne celebrate dall’antichità, greche, barbare o latine. Dica ognuno ciò che gli pare, chè se venissi ripreso dagli ignoranti non verrò condannato dagli assennati. — Io dico che vossignoria ha ragione, rispose Sancio, e ch’io sono un asino: benchè non so perchè la mia bocca nomini asino quando non istà bene ricordare la fune in casa dell’impiccato: ma lasciamo questi discorsi, e vossignoria scriva la sua lettera„. Don Chisciotte trasse il libro delle memorie, e fattosi in disparte si pose a scrivere; poi nel terminare la lettera chiamò Sancio, e gli disse che gliela volea leggere perchè la ritenesse a memoria se per caso la perdesse nel viaggio, avendo ragione di temere tutto dalla sua disdetta. Cui Sancio rispose: — La scriva vossignoria due o tre volte nel libro, e mi dia quello ch’io lo porterò con tutte le cautele, ed egli è propriamente pazzia il solo immaginare ch’io possa tenere cosa alcuna nella memoria, la quale è così debole, che mi dimentico talvolta sino il mio nome; con tutto ciò me la legga pure, che me ne compiacerò assai, perchè mi figuro che sarà come stampata. — Ascolta, disse don Chisciotte; ella dice così:
Lettera di don Chisciotte a Dulcinea del Toboso.
- “Sovrana ed alta signora!
“Il ferito di punta d’assenza, ed il piagato nelle tele del cuore, dolcissima Dulcinea del Toboso, t’invia quella salute che affatto a lui manca. Se mi dispregia la tua bellezza, se il tuo merito non si rivolge a favorirmi, se gli sdegni tuoi sono il mio annichilamento ad onta che sia esemplare la mia sofferenza, non mi prometto di sostenermi più a lungo in questa infelicità; chè oltre all’essere aspra fuor di misura, minaccia di essere di una intollerabile lunghezza. Sancio mio fedele scudiere ti darà piena relazione, o bella ingrata, o adorata nemica mia, dello stato in cui per tua colpa mi trovo. Se ti piacerà di porgermi aiuto sarò tuo; se no, fa tu pure quanto ti è a grado, chè col terminare di mia vita io avrò soddisfatto alla tua crudeltà e al mio desiderio.
Tuo fino alla morte |
— Per l’anima di mio padre, disse Sancio udendo la lettera, che questa è la più gran lettera ch’io abbia mai intesa. Oh corpo di Bacco! come la signoria vostra chiaramente dice ciò che desidera, e come ci affibbia maravigliosamente nella sottoscrizione Il cavaliere dalla Trista Figura! Dico il vero: vossignoria è lo stesso diavolo in persona, nè vi ha cosa ch’ella non sappia. — Tutto questo è necessario, replicò don Chisciotte, per adempiere compiutamente il carico che mi sono imposto. — Su via, disse Sancio, scriva in quest’altra carta l’ordine per i tre asini, e lo firmi nettamente sicchè non succedano difficoltà. — Ben volentieri, disse don Chisciotte: e quando ebbe finito di scrivere lesse quanto segue:
“Piacerà a vossignoria per questa prima di asini, signora nipote, di consegnare a Sancio Panza mio scudiere, tre dei cinque che ho lasciati in mia casa affidati alle sue cure; i quali tre asini gli si daranno per altrettanti qua ricevuti di contante, e ritirandone la ricevuta saranno ben consegnati.
“Fatta nelle viscere di Sierra Morena nel giorno 17 di agosto dell’anno corrente„.
— Va bene, disse Sancio, ed ora la sottoscriva vostra signoria. — Non occorre, disse don Chisciotte; basta soltanto ch’io vi apponga la mia cifra, che per tre asini e per trecento ancora è bastante. — Io mi rimetto a lei, rispose Sancio, ed ora mi permetta che vada a sellare Ronzinante, e vossignoria si apparecchi a darmi la sua benedizione che ho divisato di partire subito subito senza vedere le pazzie ch’ella ha da fare, ma dirò di averne veduto a far tante che nulla più. — Almeno, o Sancio, io desidero, ed anzi è necessario che tu mi vegga ignudo fare una o due dozzine di pazzie; chè le farò in meno di una mezz’ora; perchè avendole tu vedute cogli occhi tuoi potrai nelle altre che vorrai aggiungere di più giurare in buona coscienza; e posso assicurarti che non ne dirai tante quante sono quelle che penso di mandare ad effetto. — Per amore di Dio, mio signore, non faccia ch’io la vegga ignudo, perchè non potrei per gran compassione trattenermi dal piangere; e dopo il pianto che ho sparso nella scorsa notte pel mio asino, ho ancora sì gran male alla testa, che non mi trovo ora in grado di sgorgare nuove lagrime. Se vuole vossignoria ch’io vegga alcuna delle sue pazzie le faccia bello e vestito, sien brevi, e come più le torna a comodo; ma già non occorrono con me queste cerimonie: e tanto più che questo farebbe ritardare il mio ritorno a lei, che dovrà seguire col recarle nuove quali le brama e le merita. Io la prevengo che se mai la signora Dulcinea non mi rispondesse a dovere, giuro per tutti i miei santi avvocati che le caverò dallo stomaco una buona risposta a calci e a pugna; perchè come si può tollerare che un cavaliere errante tanto celebre come la signoria vostra impazzisca senza verun motivo, e non per altro che per una?.. Non me lo lasci dire la signora... ch’io son da tale da non tenerla fra i denti, tuttochè ciò non sia molto prudente. Ella non mi conosce bene: che se sapesse chi io mi sia, tremerebbe a sentirmi nominare.
— Affè, Sancio, disse don Chisciotte, tu non sei troppo più savio di me. — Non sono tanto pazzo, bensì più iracondo: ma lasciamo a parte queste cose, e mi dica di grazia: di che si ciberà ella fino al mio ritorno? pensa forse di andare alla strada come Cardenio? — Non ti pigliare siffatte brighe, rispose don Chisciotte, perchè quand’anche fossi fornito di vettovaglie non mangerei se non erbe e frutta di questi prati e di questi alberi: giacchè il merito della mia risoluzione non consiste nel pascere il ventre, ma nel patire„. A questo rispose Sancio: — Sa ella, vossignoria, di che temo io? temo di non saper trovare la via da tornarmene a lei per essere questo un luogo troppo fuori dell’abitato e deserto! — Poni mente a’ segnali; chè io avrò cura di non allontanarmi da questi contorni, disse don Chisciotte, ed anzi procurerò di mettermi nelle alture di queste balze per veder se ti scopro quando ritornerai: e poi, la più diritta sarà, affinchè tu non erri e non ti scosti dal cammino, che io ti fornisca di queste ginestre, che, come vedi, qua non ne mancano, e tu le spargerai come segnali ad ogni tanti passi, finchè ti troverai in campagna aperta, ed esse ti serviranno di guida al ritorno, a guisa del filo usato da Perseo nel labirinto. — Così farò, rispose Sancio„; e tagliandone alcune e domandata la benedizione al suo signore, prese da lui licenza non senza sparger molte lagrime l’uno e l’altro. Montò Sancio su Ronzinante, che gli fu raccomandato dal padrone come un altro sè stesso, e si pose subito in viaggio spargendo di tanto in tanto i rami delle ginestre, a tenore del consiglio datogli dal suo signore; e così se n’andò benchè don Chisciotte lo pregasse da capo che stesse a vedere qualche sua segnalata pazzia.
Non si era Sancio scostato cento passi, che tornato indietro disse a don Chisciotte: “Capisco, o signore, ch’ella disse benissimo che per poter giurare senza aggravio della coscienza di averla veduta a fare delle pazzie, sarà bene che gliene vegga far una, quantunque una potesse dirsi anche quella della sua risoluzione di restarsene qua solitario. — Non tel diss’io? soggiunse don Chisciotte: attendi, o Sancio, che in un momento te la farò vedere„. E trattisi immantinente gli abiti diede due sgambettate, e fece due capriole colle gambe per aria, e Sancio, volte le redini a Ronzinante, si mostrò contento e soddisfatto di poter giurare che avea veduto di fatto una delle pazzie del padrone. Noi lo lasceremo adesso andare per la sua strada, fino al suo ritorno che sarà in breve.
- ↑ Nel capo XXIII si racconta che Gines di Passamonte se ne menò l’asino di Sancio Panza. Pare che quel capitolo fosse aggiunto quando il libro era già compiuto, perchè in più luoghi trovasi ancora menzione dell’asino come se fosse stato sempre con Sancio. L’autore nella seconda edizione corresse, ma non pienamente, questa inavvertenza, della quale egli medesimo ride in qualche parte del suo lavoro.
- ↑ Parodia della seconda egloga di Garcilaso de Vega.
- ↑ Ariosto, C. 4.
Note