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Er padre suprïore Le miffe de li Ggiacubbini
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1834

ER PAPA MICCHELACCIO1

     Sai che ddisce2 sta perzica-durasce?3
“Ho fatto tanto pe’ arrivà ar Papato,
Che mmó a la fine che cce sò arrivato
Io me lo vojjo gode4 in zanta pasce.

     Vojjo bbeve5 e mmaggnà ssino c’ho ffato:
Vojjo dormì cquanto me pare e ppiasce;
E ar Governo sce penzi chi è ccapasce,
Perch’io nun ce n’ho spicci6 e ssò Ppilato.„7

     Lui nun l’ha un cazzo8 er maledetto vizzio
De crede9 che cquer bon Spiritossanto
J’abbi dato le chiave pe’ un zupprizzio.

     E le cose accusì vvanno d’incanto.10
Mó la pacchia11 è la sua: poi chi ha ggiudizzio
Quanno ch’è ppapa lui facci antrettanto.12

14 marzo 1834

  1. Maggnà, bbeve e annà a spasso: Ecco l’arte der Micchelaccio. Questi sono due versi rimati che rinchiudono una sentenza romanesca.
  2. Dice.
  3. Pèsca-duràcina: dicesi di coloro che hanno robusta complessione. Tale è infatti quella del nostro sommo Pontefice Gregorio XVI, che Iddio guardi nella sua santa custodia.
  4. Voglio godere.
  5. Bere.
  6. Non averne spicci (spicciolati) è metafora presa dalla moneta, quasi volesse dirsi: “io non ne ho per questo mercato.„
  7. Sono Pilato, cioè: “me ne lavo le mani.„
  8. Non l’ha affatto.
  9. Di credere.
  10. Vanno a maraviglia bene.
  11. Pacchia è “tutto ciò che di comodo ed utile ci derivi dalla fortuna.„ Potrebbe servir di sinonimo a cuccagna.
  12. Faccia altrettanto.

Note

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