Questo testo è incompleto.
Er Dottore somaro La povera Nunziata
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1834

ER BIJJETTO D'INVITO

     C-a-cà, r-i-rì, ccarì, n-a-nà, ccarina,
V-e-vè, n-i-nì, venì t-e-tè, venite
D-o-dò, m-a-mà, domà, n-i-ni...[*] ssentite?
Me disce1 c’ho dd’annacce2 domatina.3

     S-o-sò, l-a-là, sola. Capite?
Monziggnore me vò,4 zzi’5 Caterina,
Sola, come sciannava6 la spazzina7
Prima c’avess’er posto a le Pentite.8

     Lui m’averà dda dì cquarche pparola
Che nun avete da sentilla9 voi,
Epperò scrive che cce vadi10 sola.

      Lassàtemesce11 annà,12 zzia mia, chè ppoi
Si mm’arigala13 ar ritornà dda scòla14
Ce spartimo15 er rigalo tra de noi.

16 aprile 1834


Note[modifica]

* Vedesi a colpo d’occhio che alcuni fra’ primi versi di questo sonetto esprimono il metodo romano col quale si fa compitare le parole ai fanciulli, modo elementare di lettura adottato sovente per proprio disimpegno da persone di età più adulta, spezialmente del sesso gentile, non tutto versato assai addentro ne’ misteri del sillabario. Io però parlo del ceto, se non infimo affatto, neppur tuttavia primaio né secondario, ne’ quali due trovasi qualche coltura, almeno almeno dell’alfabeto e delle sue pertinenze. — Parendomi dunque opportuno il dir qualche parola sulla pronunzia di que’ versi, sì che ne risulti una connessione di suoni capaci di dar forma ad un verso, ecco qui appresso quel che ho immaginato di stabilire:

Misure JAMBO JAMBO JAMBO JAMBO JAMBO CESURA
Quantità ᵕ — ᵕ — ᵕ — ᵕ — ᵕ — +
Versi
scanditi
cecà er
vuevè en
deodò em
rirì
ninì
mamà
carì en
venì
doma en
nanà
teetè
ninì
cari
veni
doma
na,
te
ni.
v. 1
v. 2
v. 3
Sillabe 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.


N.B. — Le sillabe non soprassegnate di quantità si elidono colle precedenti, permettendolo ampiamente la musica che nasce dal contatto delle misure dissillabi, che sono sempre jambliche.


Misure ANFIMACRO ANFIMACRO DATTILO SPONDEO
Quantità — ᵕ — — ᵕ — — ᵕ ᵕ — +
Versi scanditi essosò ellalà sola. Ca pite? v. 5
Sillabe 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.


N.B. — In questo verso non abbiamo fra le due prime misure fatto nascere elisione, non troppo bene confacendosi all’indole delle combinazioni di misure trissillabi. Non si è al postutto preteso che il valore di quantità, attribuito a cadauna delle notate sillabe, sia quello a rigore che prosodiacamente dovesse lor convenire sempre ed ovunque: ma come nella poesia italiana il ritmo nasce spontaneo dalla potenza accentuale, cioè dalla varia collocazione degli accenti nella pronunzia delle parole, così abbiamo qui voluto cavare una norma peculiare di quantità prosodiache, le quali in altre circostanze potrebbero variare anche sulle stesse parole diversamente combinate.

  1. Mi dice.
  2. D’andarci.
  3. D’andarci.
  4. Mi vuole.
  5. Zia.
  6. Ci andava.
  7. Mercantessa di cianfrusaglie.
  8. Reclusorio di donne di ex-mercato, o simili.
  9. Sentirla, per “udirla.„
  10. Ci vada.
  11. Lasciatemici.
  12. Andare.
  13. Se mi regala.
  14. Le crestaie, sartrici, ecc., che stanno a lavoro presso maestre,
    Dicono: “andare a scuola.„
  15. Spartiamo: dividiamo, ci partiamo, ecc.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.