Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
La povera mojje La Serenata
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1835

ER PADRE E LA FIJJA.1

     Sì, è stata una commedia troppa corta,
Ma è stata una commedia accusì bbella,
Ch’io pe’ ssentilla ar monno un’antra vorta
Me sce farebbe2 strascinà in barella.

     C’era una fijja d’una madre morta,
Bbona e ggrazziosa, e sse3 chiamava Stella.
Poi sc’era un padre, una testaccia storta,
Che strepitava:4 “È cquella e nun è cquella.„

     La parte de sta fijja tanta cara,
Senti, la rescitò ’na scerta5 Amalia,
Un angelo de Ddio, ’na cosa rara.

     Che pparlate! che mmosse! tutte fatte
Da intontì.6 Bbenedetta quela bbalia
Che ll’ha infassciata e cche jj’ha ddato er latte!7

25 settembre 1835

  1. Estella, ossia Il padre e la figlia, commedia di Scribe, tradotta liberamente e ridotta all’uso della scena italiana dal nostro amico Giacomo Ferretti. Fu rappresentata al Teatro della Valle dalla drammatica Compagnia Mascherpa; e i caratteri de’ due protagonisti vennero sostenuti dai sommi artisti Luigi Domeniconi e Amalia Bettini.
  2. Mi ci farei.
  3. E si.
  4. Che gridava strepitando.
  5. Una certa.
  6. Da incantare.
  7. [Sulla Bettini si vedano anche i sonetti: Amalia ecc., 6 ott. 35; La matta ecc., 27 ott. 35; e La Lettricia, 12 nov. 35.- Per lei il Belli scrisse pure un gran numero di versi italiani, che ho trovato tra le sue carte, e de’ quali ecco qui un sonetto e tre sestine, molto graziosi. A intendere il sesto verso del sonetto, è necessario sapere che la Bettini, dovendo farsi ritrattare in miniatura dal pittore Rondoni, aveva voluto che il Belli fosse presente, per distrarle la noia e farle un po’ il matto, e lo aveva perciò dichiarato aiutante o vicario del pittore.

    ALLA SIGNORA A. BETTINI.

         Poi che a la Valle omai taccion l’orchestra,
    La prosa e ogn’altro teatral negozio,
    E può restarvi qualche oretta d’ozio
    Da gittame, diciam, dalla finestra,

         A voi ne vengo, o mia donna e maestra,
    Io del vostro pittor vicario e sozio,
    A pregarvi per l’anima di Grozio
    Di voler mangiar meco una minestra.

    E Grozio appunto d’interpor mi piace,
    Perchè fra noi per questo invito mio
    Si tratta della guerra e della pace.

    Un rifiuto da un Belli non si tollera.
    Se mi dite di si, pago son io:
    Se mi dite di no, mi prendo collera.

    Per il dì 8 dicembre 1835.


         De jure belli et pacis: ecco l’opra
    Che Ugone Grozio fé’ immortale in terra;
    E si spiega, voltata sotto sopra,
    "Del dritto della pace e della guerra.„
    Or notate quel belli che son io.
    Dunque Grozio parlò del dritto mio.

         E se il mio dritto è tal, che il grande Ugone
    Per dichiararlo caricò un volume,
    Ch’io m’abbia, amica mia, sempre ragione
    È cosa che si vede senza lume.
    Perciò di dritto avendone d’avanzo,
    Io non v’invito più, vi voglio a pranzo.

         Vi voglio insomma a pranzo pel dì otto,
    E ve l’avviso innanzi un ottavario.
    Onde intanto mangiate a capo-sotto.
    Vale a dire un po’ più del necessario;
    E possiate ammannir l’azzimatura,
    Per presentarvi in abito e tonsura.]

Note

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