< Eraclidi
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Euripide - Eraclidi (430 a.C. / 427 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
Quarto episodio
Terzo stasimo Quarto stasimo

Giunge un servo d’Alcmena.

servo

O regina, notizie a te bellissime
a udirle reco, a dirle a me brevissime.
La battaglia abbiam vinta, e l’armi tutte
s’ammucchiano in trofei dei tuoi nemici.

alcmena

O mio diletto, questo dí ne adduce,
grazie al messaggio tuo, la libertà;
ma d’un timore non m’hai resa libera:
se coloro ch’io bramo ancora vivono.

servo

Certo, e son fra le schiere celeberrimi.

alcmena

E il vegliardo Iolao vive tuttora?


servo

Vive; e compié, grazie agli Dei, prodigi.

alcmena

Come? Compieva qualche arduo cimento?

servo

Tornò, da vecchio, nuovamente giovane.

alcmena

Prodigi narri; ma la prova prima
tu degli amici fortunata narrami.

servo

Dalla parola mia tutto saprai.
Poiché l’un contro l’altro allineammo
tutti gli opliti, a fronte a fronte, scese
Illo dalla quadriga, e nella lizza
schiusa fra le due schiere il pie’ sospinse,
e poi parlò: «Duce che d’Argo giungi,
ché non lasciamo questa terra? Danno
Micene non avrà, se d’un sol uomo
resterà priva. Orsú, da solo a solo
con me la lotta affronta; e se m’uccidi,
d’Ercole i figli prendi, e con te portali;
se invece muori, a me lascia gli onori
e le cose del padre». Ed approvarono

tutte le schiere, che le sue parole
eran ben dette, e pei travagli un termine
ed una prova pel valor ponevano.
Ma l’altro, senza pur badare a quanti
udite avean le sue parole, senza
la taccia di viltà schivare, ei duce,
della lancia affrontar non ardí l’impeto,
ma dimostrò viltà somma; e veniva,
ei cosí fatto, a far prigioni i figli
d’Ercole! Ed Illo, dunque, si ritrasse.
E gl’indovini, come ebbero visto
che col duello addivenire a tregua
non si poteva, il sacrificio offrirono
senza piú indugio, dall’umana gola1
sprizzar fecero sangue salutifero.
Sui carri poi questi saliron, quelli
sotto il fianco agli scudi il fianco ascosero.
E il re d’Atene, come a nobil duce,
conviene, ai suoi parlò: «Concittadini,
questa terra ciascun deve difendere
che l’ha nutrito, che l’ha partorito».
Quell’albo, invece, pregò gli alleati
che ad Argo onta o a Micene non recassero.
E poi ch’alta la búccina tirrena
il segno diede, e l’una contro l’altra
s’azzuffaron le schiere, or quale strepito
che si levasse dagli scudi immagini,
e quali grida insieme, e quali gemiti?
E il primo cozzo dell’Argiva lancia
spezzò le nostre schiere; e poi tornarono
alla riscossa, e al secondo urto, piede
piantato contro piede, uomo contr’uomo,
stavan saldi alla pugna; e assai cadevano,

e duplice era il grido: «O voi che d’Argo,
voi che d’Atene seminate i solchi,
alla vostra città l’onta schivate».
Ogni sforzo compiendo, alfine in fuga,
non senza molto travagliar, ponemmo
le schiere argive. E qui Iolao, vedendo
Illo lanciarsi, lo pregò d’accoglierlo
nel suo carro; ed in man tolte le redini,
d'Euristeo si lanciò contro i cavalli.
Fin qui, veduto ho con questi occhi: il resto
lo dirò per udita. Allor che il borgo
attraversava di Pallène, sacro
alla divina Atena, Iolào, visto
il carro d’Euristèo, volse una prece
súbito ad Ebe, che tornar potesse
per un sol giorno giovine, e riscotere
dagli inimici la vendetta. E adesso
un miracolo udir devi: ché due
stelle sui gioghi dei cavalli stettero,
e dentro un manto oscuro il carro ascosero:
il tuo figliuolo ed Ebe, i saggi dissero.
E da quella nebbiosa oscurità,
Iolao, con forma giovanil di braccio
emerse, e presso alle Scironie rupi
d'Euristèo prese la quadriga; e strette
di lacci a lui le mani, avanza, e reca,
bellissimo trofeo, prigione il duce
felice or ora. E con la sua sventura
chiaro bandisce a ogni uom che non invidii
chi felice gli par, se pria noi veda
spento: ché la fortuna un giorno dura.


coro

Giove, terror dell’inimico, libera,
dopo tanto terror, la luce io miro.

alcmena

Tardi sui mali miei l’occhio volgesti,
o Giove, e grata pure io te ne sono.
E il figlio mio, di certo or so che vive
fra i Numi: innanzi io nol credevo. O figli,
e dagli affanni voi, dalla minaccia
d’Euristèo maledetto or siete liberi,
e rivedrete la città del padre,
sopra i suoi beni avanzerete il piede,
vittime ai patrî Numi immolerete,
lungi dai quali vivevate un’esule
misera vita. Ma che saggio avviso
Iolao celava nella mente, quando
la mano astenne, e risparmiò la vita
d’Euristèo? Dillo: ch’è fra noi stoltezza
del nemico prigion non far vendetta.

servo

Per riguardo di te, ché tu vedessi
con gli occhi tuoi, servo in tua mano, quello
ch’era padrone; e con la forza qui
l’addusse, e non di suo buon grado: ch’egli
non volea venir vivo al tuo cospetto,
a scontare la pena. E adesso, addio,
vecchia, e di me serba memoria: quando

a parlar cominciai, tu d’affrancarmi
mi promettesti; e deve in tali casi
dei liberi la lingua esser veridica.
Parte.

  1. [p. 320 modifica]Dall’umana gola, dalla gola, cioè, di Macaria.

Note

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