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V. 1816: Risveglio letterario
IV. 1815: Gl'«Idillii» di Mosco VI. 1817: L'«Eneide»

V

1816


RISVEGLIO LETTERARIO

Qui entra nuova materia di studio, l’Epistolario, fonte preziosissima di materiali, perché lo scrittore vi è colto ne’ più intimi secreti della sua anima, talvolta sorpreso in veste da camera, anche nelle debolezze e nelle negligenze proprie dell’uomo. Di questo anno appunto sono le prime lettere.

Una è al Cancellieri in Roma; altre quattro al Mai, all’Acerbi, allo Stella in Milano. Roma e Milano erano i due primi centri della coltura italiana.

Roma era covo di fervori religiosi e di odii reazionarii, massime verso la Francia; ed era altresì la patria dell’archeologia e della filologia illustrata dal Visconti, dal Mai, dal Mezzofanti, e convegno dei più dotti stranieri.

Visibile è l’influsso di Roma sulle opinioni e sugli studi del giovanetto cresciuto cattolico, antifrancese ed erudito, che scrive latino e fa commenti a modo antico e segue come modello Visconti e Mai, le due stelle che brillavano nel suo firmamento. Quella sua lettera al Cancellieri tratta dei codici che erano nella Vaticana, cercando egli nuovi testi di Giulio Africano, sul quale aveva scritto un commentario. Sotto apparenza modesta vi è sfoggio e quasi vanità della sua dottrina.

Milano, che si sentiva capitale d’Italia, con fresca memoria di Parini e di Foscolo, centro di novatori e di liberali, sede gradita di Monti e di Giordani, i due principi delle lettere, campo chiuso di passioni e di lotte letterarie, raccoglieva in sé la parte viva della nostra coltura. In Roma dominava la filologia, in Milano la letteratura, quel non solo intendere e commentare gli autori, ma gustarli e goderli.

Leopardi studiava come filologo. Giulio Africano era a lui così importante, come Omero o Dante. Giunsegli la Biblioteca italiana dell’Acerbi, ove spuntavano le prime lotte tra classici e romantici, con articoli di Monti e di Giordani, e gli si aprì un altro cielo, e mirò a Milano, Mandò lui pure qualche articolo all’Acerbi, cortesemente rifiutato. E il giovane non se ne sdegna, anzi lo ringrazia dell’«obbligante maniera»; e se qualche suo scritto poteva recare un minimo giovamento al giornale, farebbe quanto era in lui «per mostrargli più chiara l’ossequiosa sua servitù». Così scriveva l’ignoto Leopardi al notissimo Acerbi.

Allora si volge allo Spettatore dello Stella, e manda a costui i suoi manoscritti letterarii, come aveva mandato a Roma i suoi manoscritti filologici. Manda il Saggio sugli errori popolari degli antichi, e i Discorsi intorno a Mosco e alla Batracomiomachia con le due traduzioni.

E non ebbero miglior sorte. Quelli rimasero presso il De Sinner, e questi presso allo Stella, dimenticati.

Questo non lo scoraggia, anzi lo stimola, e volge in mente qualche cosa di grosso. — Monti ha tradotto l’Iliade, non potrei io tradurre l’Odissea? — Affaticare intorno a scrittori oscuri non è valso neppure al Monti, prova il suo Persio, E mette mano al primo libro dell’Odissea, e lo manda caldo allo Stella, che voleva invece una traduzione dell’Apollonio Rodio. Leggete le due lettere allo Stella.

Ed ecco il giovane in istampa, ecco uscir sullo Spettatore il suo saggio sull’Odissea con alcune sue parole al pubblico. Per tradurre l’Odissea ci vuol dottrina, e il giovane, che non si sente ancora un letterato, parla della sua dottrina in tuono di sfida, sicuro com’è del fatto suo. E a proposito di una parola greca cita a piè di pagina Pindaro, Euripide, Sofocle, Cicerone, Strabone, Pausania, Plutarco, e fino, Dio mi perdoni, un Agathemerus autore di un compendio di geografia, e tutto con titolo, pagina e verso. Accanto a questa boria di dotto è l’incerta coscienza del letterato.

M’inginocchio a tutti i letterati d’Italia per supplicarli a comunicarmi il loro parere sopra questo saggio, pubblicamente o privatamente, come piacerà loro.

I milanesi accolsero quel «m’inginocchio» come Parigi farebbe a un provinciale, con un tono tra il compatimento e lo scherno. E quando intopparono in quel «quai detti uscirti dalla chiostra de’ denti?», scoppiarono le risa e il saggio fu sepolto.

Il giovane, che non aveva potuto stampare nessun manoscritto, ma che d’ogni manoscritto avea avuto lode, fu trafitto. E fece serie riflessioni sull’indirizzo dei suoi studi.

L’influsso di Milano fu salutare. Fino a quel tempo sua patria era stata la biblioteca, casa dei morti. Ora gli giunge un soffio della vita contemporanea. Il «vir eruditissimus» si rifà scolare, e studia i classici non solo per intenderli, ma per assaporarli; e chi trascriveva e illustrava testi, comentatore e traduttore, ora passeggia, declamando a gran voce, mutando tuono ed accento e appassionandosi, fino alle lacrime. Mezzo francese nella prosa, si mette allo studio de’ classici, e s’incorpora trecento e cinquecento, i due grandi secoli del classicismo italiano. Si vien formando in lui un nuovo uomo, il letterato alla classica, a modo di Monti e Giordani. Non è già che questo nuovo uomo sia in contradizione coll’antico. Non è una ribellione, è un complemento. Si riempiono le lacune della sua educazione.

Di questo rivolgimento negli studi e nelle opinioni dà subito segno il saggio sulla fama di Orazio presso gli antichi, un discorso che seguí nello Spettatore all’infelice saggio sull’Odissea.

Il prosatore mezzo infranciosato, qui abbattutosi in un vocabolo francese, ne chiede scusa. «Dirò alla francese per nol saper dire altramente». E gitta un frizzo agli «spiriti forti» in letteratura, ed in quelle lotte letterarie piglia posto accanto a Giordani e a Monti. Si affaticò tanto attorno a Porfirio, a Plotino, ad Aristide, a tanti grammatici e retori oscuri, citati così spesso; e ora ha in disdegno le loro «ciarle», e motteggia gli «eterni» misteri di Plotino, e i già tanto studiati e citati mette in un fascio coll’immensa «marmaglia» di libri manoscritti, che «non si stampano perché non si leggerebbero».

È già mutato il suo modo di scrivere. A quel tempo era in voga un curioso innesto di cinquecento e di trecento: sposare il periodo del cinquecento alla purità del trecento, matrimonio mostruoso davvero. Qui spunta nella prosa del giovane la maniera, uno scrivere convenzionale, secondo la scuola classica. Vedi quei lunghi periodi architettati in forma solenne, con molta copia di epiteti e di trasposizioni, anche a dir le cose più comuni. Vuol dire che Gellio citò Orazio una volta sola, ma molte volte Virgilio; e gira il periodo a questo modo: «Non citò Orazio che transitoriamente una volta, ma Virgilio sì bene assai volte allegò». Accanto a questa artificiata architettura di periodo copioso e sonante, che ricorda Boccaccio e monsignor della Casa, trovi «il manifesta cosa è», e «meco ho deplorato», «opinion sua», «il gran critico di Longino» e «la gran donna di Saffo», ed «avvegnaché» in luogo di «perché», e «come» in luogo di «che», e «ragguardare» e «nominanza», e «difformità» per «divario», e «anco» per «anche», e troncamenti e ripieni e riboboli. Questo è il risultato dei primi nuovi studi, il nostro giovane in abito di purista, più vicino all’abate Cesari che a Pietro Giordani.

Si disputa in quale anno sia cominciata questa, che chiamano conversione letteraria. Il Giordani afferma che nel 1817 Leopardi non avesse ancora letto gl’italiani. Il Cugnoni pone la conversione nell’anno 1813, com’era ben noto al Giordani. Il Leopardi parla di questo in molte sue lettere con tanta precisione, che non ci cape equivoco. Nel 1817, 30 maggio, scrive così al Giordani:


Io sono andato un pezzo in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai tredici anni ai diciassette ho dato dentro a questo studio profondamente, tanto che ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra cose erudite (la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato); e qualche letterato straniero che è in Roma e che io non conosco, veduto alcuno degli scritti miei, non li disapprovava, e mi facea esortare a divenire, diceva egli, gran filologo. È un anno e mezzo che io quasi senza avvedermene mi son dato alle lettere belle, che prima non curava; e tutte le cose mie che ella ha vedute, e altre che non ha vedute, sono state fatte in questo tempo, sì che avendo sempre badato ai rami non ho fatto come la quercia che A vieppiú radicarsi il succo gira. Per poi schernir d’Austro e di Borea l’onte; a fare il che mi sono adesso rivolto tutto.

Questo brano è scritto così bene, che mostra già la sua grande perizia e pratica di lingua e di stile nelle cose italiane. È chiaro che nell’anno 1816 egli si diede alle lettere belle, che prima non curava. Oggi è venuta in moda una critica che chiamano storica, ed è appena una cronaca, la quale entra nelle più insignificanti minuterie, e cerca l’anno, il mese, il giorno quasi di molti fatti psicologici. Le evoluzioni non avvengono a data fissa; e quando si mostrano in qualche fatto importante, c’è stata già innanzi la preparazione. Nella sua prima età scolastica il giovane aveva dovuto già leggere molti autori italiani antichi, e de’ recenti quelli ch’erano più in voga, poeti moltissimi, e non pochi prosatori, specialmente cinquecentisti. Letture superficiali, ma letture. Poneva grande studio nel latino e nel greco; l’italiano curava poco, rimasto in quell’italiano di uso, che allora correva. Non c’era ancora per lui una lingua buona e cattiva. Del trecento aveva dovuto leggere Dante, Boccaccio, Petrarca; ignorava tutto il resto, messo in evidenza dal purismo. Leggeva affastellatamente, accomunando buoni, mediocri e pessimi, di questo di quel secolo, senza regola e senza indirizzo. Faceva quello che abbiamo fatto tutti nel tempo che il purismo non era ancora in voga. Datosi all’erudizione, «uno de’ rami», a diciotto anni si svegliò in lui il letterato, «quasi senza avvedersene». E in verità l’uomo non coglie i passaggi del suo spirito, se non a evoluzione compiuta, ed è inconsapevole negl’intervalli tra vecchio e nuovo. A diciotto anni il giovane sentì che l’erudizione era un ramo della quercia, e che a esser quercia gli occorrevano altri studi, e vi si mise con ardore. A quella età la sua anima impressionabile, aperta all’amore e all’entusiasmo, avviluppata dal nuovo ambiente letterario sorto sotto nome di purismo, dominata da’ grandi nomi di Giordani e di Monti, non è maraviglia che sia salita alla letteratura, come sua naturale vocazione, anzi la maraviglia è che sia durata così lungo tempo negli aridi studi dell’erudito. Ma non è a credere che proprio nel diciottesimo anno sia succeduto il miracolo: ché nella natura non ci sono miracoli, né salti. Il Saggio e l’Orazione agl’italiani pronunzia già la sua vocazione letteraria. E neppure è a credere che il miracolo fosse tutto compiuto in quell’anno. Ci è un inizio di conversione, nella sua forma più pedantesca e affettata, e non è cancellata ancora la vecchia consuetudine.

Leggete il suo discorso sopra Frontone, dedicato al Mai, scopritore appunto delle lettere di Frontone. La dedica è scritta con ricerca di eleganza, con belle frasi stereotipate, con copia e finezza di pensieri; è una vera gemma, ove si paragoni col vecchio scrivere. Il difetto è che troppo lo studio vi è manifesto. Ci è moto di cervello, non c’è moto di cuore. Nel Discorso, dopo di aver citato il suo commentario latino sopra Frontone, racconta la viva impressione prodottagli dalla scoperta delle sue opere, e la chiama un’epoca nella storia della letteratura, come sarebbe quella di Tacito, se fosse avvenuta a’ nostri tempi. Narra che avuti appena i volumi sospirati, prese a volgarizzarli, e come prefazione scrisse la vita di lui, ch’è appunto il Discorso. La sua ammirazione per Frontone, ch’egli giudica il primo oratore romano, dopo Tullio, sale sino all’entusiasmo, e mostra già la caldezza del suo sentimento letterario. Il giudizio che dà della sua eloquenza è caratteristico, ricco di riflessioni e di forme originali, giovenilmente splendido. Il neonato purista, con l’ardore del novizio, loda massimamente la sua riforma letteraria, quel suo ritorno ad Ennio e agli altri antichi, a quel modo che i nostri ritornarono a’ trecentisti. Per la prima volta senti nominare il trecento, e ricordare Passavanti. Dallo stile gonfio e barbaro e pretensioso de’ tempi suoi, Frontone tornò all’antica semplicità e proprietà del dire, «spargendo i suoi scritti della luce, non della polvere che si trovava nelle vecchie opere», e gli uscì uno stile che a torto chiamarono secco, non mancando gli ornamenti che sono nelle cose, innestati nel soggetto, e che non risaltano certamente, come quelli di Seneca e di Plinio. «Questi lampeggiano e Frontone risplende; essi saziano e Frontone contenta; essi piacciono più al primo che al secondo istante, e Frontone più al secondo che al primo». Qualità del suo stile è la sodezza e la forza che non esclude la semplicità e la leggiadria, ma serbando sempre la solidità e il vigore, che formano il carattere delle sue opere. Modello degli scrittori epistolari, come storico, sta al fianco di Sallustio, e come oratore, non cede che a Tullio. Questo giudizio simile a un inno, o per dir meglio a un panegirico, ti mostra già il letterato di diciotto anni, fiorito, superficiale, di poca misura e di molta presunzione, ingegnoso più che preciso, che guarda alla scorza e non giunge al midollo. Epiteti a due a due, studio di antitesi, generalità vaghe, ripetizioni e amplificazioni, un po’ di confusione, come là dove descrive lo stile di Frontone «maschio e robusto», che dopo qualche periodo diviene «semplice e leggiadro», mostrano immaturità e abbondanza giovanile, poca serietà. Se avesse guardato più addentro, avrebbe visto che le buone qualità da lui attribuite a Frontone, posto pure che sieno vere, riguardano l’esteriorità dello scrivere, e bastano appena a fare di lui un grammatico, un pedagogo, un retore, ciò ch’egli era effettivamente. A essere oratore o storico si richiede un’altezza d’intelletto, una squisitezza di sentire, una pienezza di vita interiore, che manca affatto a Frontone. Nelle sue lettere non c’è spontaneità, non sincerità, non dignità; c’è la boria del pedagogo che monta in cattedra, dicendo cose comunissime, come se le avesse scoperte lui. Spesso è raffinato, e a un motto amichevole risponde con una dissertazione, come all’imperatore che gli esprime il suo affetto risponde con un discorso manierato e sottile sulla natura dell’affetto. Nessuno meglio di lui è segno della decadenza romana, politica, morale e letteraria. Brav’omo, e assai colto, in lui, come nel suo secolo, era spenta quella vita fresca e giovanile che generava Ennio, Plauto, Lucrezio, e non somiglia a loro e altri antichi, che per le parole. Leggendo il panegirico di Leopardi, ti par ch’egli abbia innanzi un ente di ragione, idealizzato nella giovanile fantasia, anzi che persona viva. La sua ammirazione gli è dovuta in gran parte venire da’ giudizii laudativi di Macrobio, san Girolamo, Sidonio e tanti altri di quegli ultimi tempi, ripetitori gli uni degli altri, che rimasero come eco fedele, senza esame, nel suo spirito.

Scrive come purista, giudica come purista.

E sembra che anche gl’Inni manzoniani lasciassero qualche vestigio nel suo spirito, essendosi trovati fra i suoi schizzi un progetto d’inni cristiani, a Maria, al Redentore, agli Apostoli, al Creatore. Nelle poche frasi rimasteci, troviamo idee melanconiche, un grido d’angoscia che invoca pietà:

Tu hai provata questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l’infelicità dell’esser nostro. Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua... Tempo verrà ch’io non restandomi altra luce di speranza, porrò tutta la mia speranza nella morte, e allora ricorrerò a te.

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