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Questo testo fa parte della raccolta Scritti (Serra)



Se ci chiedessero, chi è costui?, ognuno di noi pensa che non sarebbe troppo imbarazzato a rispondere. Abbiamo letto i suoi libri e conosciamo di lui tutto quello che è possibile conoscere di un uomo: i casi della vita e le qualità dello spirito, le abitudini, i gusti, gli affetti, i sogni, quello che accade giorno per giorno nella sua piccola casa e quel che gli passa ad ora ad ora per il capo. Pare che di pochi soggetti sapremmo parlare così copiosamente e così famigliarmente, come di questo.

Ma se chi ci aveva domandato, dopo tante nostre parole e notizie, ancora non fosse contento e volesse una risposta netta, di quelle che definiscono un uomo e fermano una volta per tutte il suo profilo, il carattere, la famiglia di spiriti a cui appartiene, allora, io credo che pochi saprebbero rispondere in modo da soddisfare se stessi e chi li sta a sentire.

Perchè, in quanto al Pascoli, c’è chi lo ama molto, e chi non lo può soffrire, c’è chi partecipando dell’un sentimento e dell’altro, resta combattuto e sospeso; e corrono anche intorno a lui molti giudizi e formule che rappresentano più o meno vivamente queste disposizioni varie degli animi; ma, se si guarda bene, una che sciolga interamente il nodo di tante contraddizioni e dubbi che dividono la gente, una che ci dia conto chiaro del fatto suo, non si trova.

Però io non intendo di fare una descrizione minuta dell’uomo e dell’opera; che sarebbe un ripetere quello che tutti sanno e che di per sè non importa altro che poco; ma come se a me avessero indirizzata quella domanda, chi è?, cercherò di rispondere. E porrò mente non alla persona di lui, sì all’arte.

Giudicarne a primo aspetto non è facile.

Per esempio, a tener conto dell’apparenza e delle abitudini, si vorrebbe dire che il Pascoli è uno spirito classico e un umanista; egli che ha scritto i Poemi Conviviali, cosa, fu detto, tutta greca, e ha insegnato tanti anni latino e greco, ha ordinati commentati tradotti i poeti classici, ha composto per avventura i più bei versi latini che ai nostri dì si conoscano.1

Ha fatto tutto questo; ma non è un umanista. Nulla è così lontano dal suo spirito come la religione delle lettere umane. La quale a noi ora non tocca cercare che cosa sia, e se consista più propriamente nel culto dell’arte della parola o nel rispetto delle tradizioni; se abbia più d’entusiasmo ingenuo, di venerazione per tutte le belle grandi cose che sono state dette o di sottilità squisita e un poco scettica; se sia meglio un abito di eleganza e quasi buona educazione dello spirito, o una temperanza di saggezza pacata e di innocenti manie e dulcia vitia; o non forse un poco tutte queste cose insieme e altre ancora, coltivate con alcun senso di dolcezza epicurea.

Sia di ciò come si vuole: questo pure è certo, che tutto quel che si dice dell’umanista può convenire al Pascoli solo come una definizione, diciamo così, negativa. Nel mondo spirituale egli è al polo opposto.

Guardatelo, per non cercar d’altro, quando ha che fare con un libro. Per un umanista quello è il momento più bello; e nessuna altra cosa al mondo può rendere un’immagine della saporita dolcezza con che egli legge, o per dir meglio, rilegge i suoi autori.

Ora, del Pascoli, non si può nemmen dire che egli legga propriamente dei libri; quel mondo fatto di parole e di sentenze e di versi, da citare o da assaporare, non esiste per lui. Innanzi a un libro, tutto l’interesse della sua anima è posto fuori delle parole e della lettura; è fisso negli oggetti, che la fantasia calda come di fanciullo gli offre pieni e sensibili; è nelle cose, nei fatti ch’egli sente quasi parte della sua propria vita.

A intender questo, basta dare un’occhiata a una di quelle raccolte che egli ha messo insieme per gli scolari; a quella che s’intitola Sul limitare. Confrontatela con la antologia del Carducci, per pigliar uno che ci rappresenti la nostra tradizione letteraria nella sua schiettezza; e sentirete meglio che per ogni discorso la differenza dei gusti e della cultura; sentirete sopra tutto quel che c’è nel Pascoli di nuovo, di singolare, di ribelle a tutte le nostre consuetudini mentali.

Nel libro del Carducci tu riconosci, sì, anche l’uomo e a grandi linee il suo sentire, l’italianità, la dirittura, il vigore disdegnoso dell’animo; ma lo scopo vero del libro non è in ciò; è in esercitare e svolgere e affinare il gusto letterario dei suoi lettori adolescenti. Lo spirito del Carducci vi è rappresentato essenzialmente nell’atto che rilegge degli autori assai cari e si rende conto, come filologo e umanista, delle qualità e dei modi delle loro scritture. Questa è opera propria del letterato.

Ma il Pascoli, anche quando fa un’antologia, vuol fare opera di poeta. Non crede egli che la cosidetta arte dello scrivere possa avere, nella sua tradizione e nelle sue consuetudini, qualche cosa di indipendente, di cui l’uso e il gusto si acquista, come quello delle buone creanze nel quotidiano commercio degli uomini; di cui il sentimento porta qualità proprie e gioie particolari. Tutto questo suppone una certa intelligenza della letteratura, considerata come un’arte e come un’esperienza che l’uomo possa fare dello spirito altrui nelle sue espressioni; una certa attenzione agli effetti, agli echi, alla efficacia che il parlare di uno esercita su chi gli sta intorno.

Ma egli non conosce nel vasto universo altri che se stesso; non fa nulla che non sia inteso alla piena soddisfazione dei suoi bisogni spirituali, soli e puri. Dice che ha fatto il libro ch’egli avrebbe voluto aver tra le mani quando era fanciullo a scuola; e l’ha fatto solo per sè. Il libro ci dà il suo mondo poetico; le cose ch’egli stima poetiche, il modo come le sente. È la sua stessa poesia, soltanto, se volete, abbassata d’un tono; in un momento in cui a esprimerla gli bastano le parole degli altri. È ben vero che sulla sua bocca nessuno più le riconosce.

Nella parte antica per esempio si trova meglio che metà dei Conviviali; ma sotto una forma anche più interessante. Poichè si vede a nudo quel ch’egli sente dei classici. Si vede quel ch’egli ama di Omero; cioè la materia in se stessa, in ciò che ha di fantastico e di favoloso, in ciò che arieggia le fole che si contano ai bimbi.

La poesia è nelle cose stesse, nei fatti: sì che la parte essenziale del poema è la figura d’Achille, inteso come l’eroe del dolore; o di Odisseo, l’eroe dell’odio. Dai casi loro si cavano lezioni morali; del dovere, della grandezza, dell’animo sereno, della forza tenace che mantiene la vita; ma sopra tutto si cavano simboli e sensi del vivere umano, dell’errore, del sogno.

Nella lettura poi si trova una serie di pezzi, dove il punto, sul quale lo spirito del raccoglitore vuole insistere, si rivela nei titoli; che son come questi: — la madre, il pianto dell’amico, il dovere dell’eroe, il momento eroico, il cuore d’Achille, il supremo rimpianto, il supremo conforto. — Quel punto è fuori dei versi, è nell’argomento, nel motivo, nella cosa.

Lo stesso intendimento si mostra al tradurre. Sono esametri o cascanti o aspri che per se stessi non hanno alcuna consistenza nè di ritmo nè di stile; lo scrittore li ha lasciati andare senza studio e si è compiaciuto di lasciarli andare così, perchè in essi fosse la cosa che Omero aveva detto e nulla altro. Vi cade bene in mezzo qualche oh!, qualche sì!, come i piccoli gridi di fanciullo meravigliante e sazievole.... ma questo è un altro discorso.

Per tornare al libro, troppe cose si vorrebbero notare: che il Pascoli non vuole citare mai autori, non vuole mostrare scrittori, ma piuttosto quelle cose che di per se stesse, al suo parere, riescono poetiche; i pezzi in cui lo scrittore non appare — e all’occasione egli provvede a non farlo apparire, togliendo perfino la firma di lui, e ponendo titoli, dichiarando, sottolineando a modo suo — il motivo, il fatto, è come nudo; pezzi popolari dunque o anonimi, canti greci, brettoni, parabole, allegorie, leggende; la Chanson de Roland, in una versione che la rende anche più popolare ingenua trasognata che il vero non sia, meglio che l’Orlando Furioso. Se glie ne chiedessero il perchè, credo direbbe che ivi la materia epica è più pura.

Ma dopo i tratti epici e storici viene una raccolta di pensieri, affetti, ironie, anche esse staccate dal loro autore; infine quadri e suoni, scelti con cura speciale a esprimere la particolarità poetica delle cose, delle stagioni, delle ore, della natura. Rispetto alle descrizioni usate delle antologie, queste s’avrebbero a chiamare impressioni; ma per il Pascoli ogni oggetto pare che abbia un senso poetico fisso, come una idea platonica, che può essere rivelato solo in un modo e da una certa parola. Egli prende da un naturalista toscano i ritratti dei nostri uccelli campagnuoli, ma anche codesto non esce dal suo genere, poichè un uccello, col suo nome toscano, osservato sul vero, è per lui una di quelle cose essenzialmente poetiche. Ma cose poetiche, dello stesso ordine, sono le sensazioni; e accanto alla sterpazzolina e alla vigna abbandonata si trova l’infinito, e il canto notturno della domenica. Così l’angoscia di fanciullo insonne, che è nel Leopardi, come l’uccellino della macchia, sono per il Pascoli oggetti comuni a tutti gli uomini; se non che al volgo sfugge il nome di essi, il poeta lo dice.

Questo dunque è il mondo poetico del Pascoli; il quale si trova, se così si può dire, al di fuori della letteratura, e consiste tutto di cose, o esterne o interne, che di per sè sono naturalmente poetiche; chi a questo mondo aggiunga alcuna o cosa o sensazione o nome, che riesca nuova, egli è poeta.

Sulla stessa idea si fonda tutto quanto il Pascoli sente di critica o di estetica, a cominciare dai saggi, che sono i più luminosi, sul Leopardi;2 nè poi è idea che solo per sè valga, come astratta; ma egli vi si rappresenta intero, nelle qualità del pensiero come in quelle della poesia. Poichè la teoria è una espressione della sua natura poetica, non meno adeguata, o almeno non sentita meno profondamente dei versi: è la stessa natura, per dir così, ridotta a sistema.

Qualcuno potrà dubitare se il sistema possa convenire molto o poco alla poesia in genere; ma c’è ben pochi, io credo, che dubitino di applicarlo alla poesia del Pascoli. E se si guarda bene in fondo alla più gran parte dei giudizi e delle definizioni, si trova che muovono da questo punto di vista, e cercano in lui proprio una aggiunta di qualche cosa di nuovo al mondo poetico; quasi come una vena pullulante da sorgenti non ancora conosciute nella nostra vecchia letteratura.

Si suol segnare a grandi tratti il campo della sua poesia; tra la vita di campagna e la vita domestica, tra il culto del dolore e il culto della tenerezza universale, tra l’amore di tutte le cose piccole umili tenui e l’analisi di tutte le sensazioni ignorate e dimenticate o fuggitive....

Ma dentro questi limiti generali quante cose, quanti particolari vivi, nuovi! E chi pensa ai dialoghi dei passeri con le rondini o con l’uomo che getta loro le briciole, o di cincie con re di macchia, o di rosignolo con le ranocchie, o col chiù, o al vecchio castagno che parla così discreto a una pastorella intenta; e chi invece a quel sussurro di morti nel camposanto alla pioggia, a quell’andare e venire senza rumore di dolci ombre fra viventi pallidi, a quella tovaglia presso cui siedono i morti, a quella voce che viene da una bocca piena di terra; l’uno ha in mente la semina e il desinare e il bucato, l’altro la granata e il girarrosto; ma altri cita tutt’insieme, come il cuore pieno lo incalza, il sogno della vergine e la cavallina storna, lo stornello della bella figlia e l’aquilone e il torello; parla di formiche cui brucia la casa nel ciocco, e d’un ragazzo tra’ suoi vocabolari, del canto dei sogni nel cuore, dell’odor dell’erba e delle gemme di pioppo, degli occhi che perdonano e domandano pietà, di colei che si strinse invisibilmente sulla panchetta, della cetra d’Achille, del canto di Saffo, dell’ultimo viaggio d’Ulisse, del canto delle Sirene e dei figli di Mirrine non nati.... quanto altro ancora, se un poco ci abbandoniamo alla dolcezza del ricordare!

Notate cosa, che pare strana, ma che, se ci pensate bene, è la più naturale del mondo. Noi non avremmo finito così presto di enumerare il tesoro di cose e di sensazioni che egli ci ha donato; ma, in quanto a versi di lui, pare che non ne sapremmo citare molti. I suoi versi non si citano; non passano in proverbio. Sebbene non sia difficile mandarli alla memoria; ma come facilmente e naturalmente ivi si stampano, così si dileguano; e sopra tutto è difficile che vengano spontanei sulla bocca: è difficile citarli. Si cita, se mai, qualche ritornello, qualche bizzarria: uno solo è venuto in fama («Romagna solatia, dolce paese....»), che veramente è un bello e dolce verso: ma esso dà al pubblico, che ha bisogno di mettere a posto le sue conoscenze, quasi la fede di nascita del poeta; e D’Annunzio lo cantava, come tutti sanno, entrando, cavalleggero ventenne, le nostre terre; e poi, ci deve entrare il Passatore!

Il fatto è che il Pascoli non ci ha dato mai uno di quei versi perfetti, rilevati e scolpiti e compiuti, che si impongono allo spirito come una cosa definitiva, e che sono la propria ricchezza dei classici.

E se noi, richiesti, dovessimo offrire in uno o pochi versi rappresentata quasi in iscorcio la virtù propria di lui, ci rifiuteremmo; per quanti ce ne potessero passare innanzi, sappiamo bene che di nessuno saremmo contenti a pieno. Anzi, dicendone o mostrandone ad altri, mi par che sempre si senta il bisogno di soggiungere a ogni tratto: A questo non badar troppo, non ti fermare su quel particolare; che il poeta non è lì.

A che torna in fine anche questo discorso, se non a quello che s’era detto prima? La poesia del Pascoli consiste in qualche cosa che è fuori della letteratura, fuori dei versi presi a uno a uno; essa è di cose, è nel cuore stesso delle cose.

Non disse forse egli una volta, con questo sentimento, di possedere due poesie; una brutta che concede al pubblico, una bella che non scrive, ma solo si gode in seno? E pure egli a proposito di certi canti ben noti, scrisse: «quelle poesie non le ho fatte io: io ho fatto (e non sempre bene) i versi».

Proprio come se una cosa fosse la poesia, e un’altra i versi: di cui egli poi meno si cura!3



Ma questo già non vuol dire che i versi del Pascoli manchino di carattere proprio; anzi l’uno se ne discernerebbe in mezzo a mille, a una certa sua risonanza, che qual sia non si sa sempre dire bene, ma che non si può mai confondere con altra.

Certo è che le parole più comuni in un verso di lui rendono un suono nuovo; pare che la sua voce nel profferire le faccia vibrare lungamente e tragga dai loro seni riposti echi non conosciuti.

Provate a leggerne qualcuno a caso:

O stolti, quelle trombe erano terra
concava donde il vento occidentale
traeva ansando strepiti di guerra

oppure

Salpava l’eternale àncora e mosse

o ancora

i fili di metallo a quando a quando
squillano, immensa arpa sonora al vento
e negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie dimenticate.

Son versi che possono contentare qual più qual meno; alcuno è veramente stupendo; ma tutti hanno qualche cosa di comune e di particolare, il suono, l’indefinibile aura pascoliana.

Pare che il loro effetto maggiore nasca dalla intensità del ritmo che li fa spaziosi e vibranti; tutta la loro consistenza è negli accenti che spiccano una battuta dall’altra, che creano fra le parole come un vuoto in cui ognuna si prolunga con vasta eco sonora. Rileggete quello che ho sottolineato, e vedrete se è vero.

In termini tecnici, la loro ragione è meramente quantitativa; il verso è sentito come un accordo di tesi profondamente calcate e di arsi vibranti, come musica pura.

Ma intendiamoci bene; musicali, si dice, non melodiosi; poichè a considerare le sillabe e i suoni in se stessi, quanti ce n’è invece duri aspri spezzati difficili!

E vorrei dire che la loro melodia non nasce semplicemente e materialmente dai suoni: nasce da ciò che egli, facendoli, li ha cantati; se li è cantati.

Ma non è già la voce intonata caldamente a piena gola sulla lira, modulata e variata nella ricchezza della melodia; è una voce bianca che lascia cadere il verso come cosa venuta di lontano, da un invisibile mondo; voce piana, uguale, un poco stanca d’uomo a cui le parole non importano, poichè la sua anima è assorta: e gli basta che in quell’abbandono monotono di cantilena duri la muta eco dei sogni.

In quanto a fattura e struttura, il verso del Pascoli è cosa molto semplice, le parole per solito seguono l’una l’altra secondo la legge dell’uso più comune. Non c’è discorso, non c’è disegno, non c’è composizione; e la frase è la frase usuale, che si trova su tutte le bocche. Voi potete scriverne di seguito quanti volete, senza che nessuno s’accorga mai, almeno alla disposizione e alla composizione delle parole, di avere innanzi dei versi. Da questo punto di vista non sono altro che prosa, la più povera delle prose («O madre il cielo si riversa in pianto, oscuramente, sopra il camposanto. È mezzanotte, nevica. A la pieve suonano a doppio, suonano l’entrata. Ti splende su l’umile testa la sera d’autunno, Maria. Uomini nella truce ora dei lupi pensate all’ombra del destino ignoto che ne circonda»).

In somma, son versi senza forma; ma — perdonatemi l’orribile bisticcio — in quella mancanza di forma è la loro forma propria. In quell’indefinibile contrasto fra la intensità del ritmo e la povertà del suono, fra la profondità delle intenzioni e il languore dell’espressione, in quella musica vaga di risonanze e di echi, di suggestioni e di accentuazioni il poeta ha sentito se stesso; ha creato la qualità ultima della sua poesia.

Io non saprei descriverla meglio che con le parole di lui; chè veramente i suoi versi, secondo egli disse,

cantano come non sanno
cantare che i sogni nel cuore,
che cantano forte e non fanno
rumore.

Cantano forte e non fanno rumore: proprio così.

Ora, se spazio e luogo consentissero, mi piacerebbe fare più curiosa ricerca: e sorprendere nelle Myricae, pur in quella elocuzione sostenuta e di un così grato sapor classico, almeno in principio,4 i primi versi, dove si sente, a un certo vibrare lungo e quasi cristallino, il poeta che se li è cantati e ha goduto in sentirli cantare; e seguitare poi via via, nella facilità calma e sonora dei Poemetti, nella mobilità vivissima fremente dei Canti, nella esasperazione degli Inni, nella monotonia delle Canzoni, gli atteggiamenti successivi e il pieno svolgimento della maniera.

Ma dovrò pur dire qualche cosa dello sciolto dei Poemi Conviviali. Certo non è lo sciolto del Parini nè del Foscolo: e neanche quello del Leopardi, sebbene può parere che se ne allontani meno; e ne rammenta un poco la purità così liquida, ma è poi troppo diverso e nel tono e nel moto. Ma insomma, quando è bello, cioè quando non è trito, quando non stona, quando non offende in nulla, lo sciolto del Pascoli è pure una delle belle cose che possano occorrere a chi ha questa dolce mania delle lettere.

E già quella uguaglianza del metro in molti canti seguitati, che è anche fino a un certo segno uguaglianza di ispirazione e di animo, esclude certi eccessi, certe sottilità, certi abbandoni e subite vertigini. E poi il poeta dalla stessa materia trae un qualche senso buono e savio e chiaro, che risuona nei versi come una musica serena. Sono essi un poco monotoni; il loro canto è riposato e uguale; ma così dolce!

Crea intorno a sè come un senso di pace, e pare allora che le parole risuonino come in un grande silenzio, e che cantino nel silenzio lungamente con una eco nei cuori di infinita tacita melodia.

— Diceva, e nella notte alta e serena
dormiva il vento, e vi sorgea la falce,
su macchie e selve, della bianca luna
già presso al fine, e s’effondea l’olezzo
di grandi aperti calici di fiori....

Oppure....

E insonne udivo uno stormir di selve,
un correr d’acque, un mormorio di fonti.
E si esalava un infinito odore
dai molli prati; e tutto era silenzio
e tutto voce; ed era tutto un canto.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    

E troppi altri ne potrei ricordare; i quali a qualcuno pare perfino che rendano qualche immagine della sacra armonia virgiliana. E tornano alla mente certi versi del poeta divino, dove le cose e le parole più semplici cantano con dolcezza così nuova («humida solstitia atque hiemes orate serenas»!). Se non che al Pascoli troppo manca della dolcezza vera, pensata e quasi lentamente maturata che è in Virgilio.

Del resto certi apprezzamenti forse sono fuori di luogo: poichè in fine in fine i versi del Pascoli non li possiamo ragionevolmente chiamare nè belli nè brutti, nè buoni nè cattivi. Essi si trovano quasi al di fuori di tutte le leggi e di tutte le consuetudini; e questa è la loro qualità propria essenziale.

Poichè bisogna mettersi bene in mente questo: che il poeta fa i suoi versi solo per sè, in un mondo dove il valore di tutte le cose è cambiato. E tutti i versi sono buoni per lui: quali che siano, egli sente in essi la voce della sua anima pura, ingenua, intera, e se ne compiace infinitamente; non perchè gli riescano belli, ma perchè sono suoi. Così mentre dall’una parte pare che egli non ne prenda nessuna cura, e come nascono così li lasci andare, inteso in una poesia di cose troppo più alte e più profonde che non la esterna forma di un verso; dall’altra egli presta al loro suono una attenzione infinita. Nel mondo ch’egli abita non c’è norma nè convenienza, nè rispetto d’altri che del poeta; egli vi è solo e quando parla non c’è nell’universo altra voce che la sua. Si può comprendere com’essa prenda per lui, in ogni accenno e moto più lieve, un rilievo indicibile; e come egli possa porre nelle sfumature più sottili una intenzione o un significato che trascendono ogni potere del parlare comune. Nella ingenuità assoluta del suo spirito egli trae partito di tutto; di quel che per altri sarebbe virtù, e di quel che meglio parrebbe vizio; di quel che è compiuto e di quel che è imperfetto, di ogni contrasto, di ogni atto, di ogni moto.

Quel suo verso che passa per tutti i modi, dalla facilità abbandonata corrente al moto rotto saltellante singhiozzante; che è tutto canto e musica e poi tutto sfumature e sospensioni e riflessioni e interrogazioni; pieno di slanci improvvisi e di cadute subitanee, sottolineato da tutte le intenzioni che sono possibili e anche da quelle che non sono, non s’intenderebbe altrimenti se non così; come una voce che risuona in un gran silenzio, di un uomo che si ascolta intentissimo.

Così si spiegano tante stranezze; per es. di quei versi che si reggono appena, quasi sul filo di un rasoio: che a leggerli semplicemente sono un accozzo di parole rotte e discordi; ma pur c’è un modo di leggerli appoggiando la voce su certi punti, svelando certi accenti nascosti e lasciandone cadere altri, che dà loro qualche misura e ritmo di verso.

Anche qui, troppo si vorrebbe citare; dai primi accenni quasi inavvertiti delle Myricae («lontana come di stornellatrice») fino alla varietà sottile e consapevole dei Canti e dei Poemetti ultimi, fino alla esasperazione degli Inni.

Ma con lo stesso sentimento bisogna rendersi ragione dell’oscillare vertiginoso dei metri: che dalla melopea cantante uguale delle serie di endecasillabi fondati sullo stesso sistema di accenti, degli ottonari puri (Fate piano! piano! piano!) dei settenari a cadenza (Che hanno le campane Che ronzano lontane Che squillano vicine), dei quinari accoppiati (Suono che uguale, che blando cade Come una voce, che persuade), passano al singulto rotto e alle impuntature dei novenari (Il treno nel partir vacilla, Casina che sorridi al sole), dei decasillabi travestiti (Dunque, rondini rondini, addio! Dunque andate, dunque ci lasciate Per paesi tanto a noi lontani), degli endecasillabi frantumati (Ben fa, chi fa: sol chi non fa, fa male), e via via, in un infinito di stonature e di contrasti.

Se non che noi possiamo notare i termini di questi contrasti, come opposti poli: ma chi può descrivere fra l’uno e l’altro l’ondeggiare del suo spirito? Esso trema e vacilla come l’ago di una bussola folle.

Pare che in ogni qual cosa gli esca dalla bocca egli voglia sentir se stesso a pieno, tutto e solo; ma pur si compiace di sentirsi in quell’atto, e vi insiste, e vi fruga con quel raffinamento di sensitività, che è come un fascio dei raggi del sole attraverso una camera buia: le minuzie della impalpabile polvere vi si rivelano dentro e danzano splendide come le fila dell’oro.

Egli sogna e canta; ma quando più pare che al sogno s’abbandoni con tutta la ingenuità dell’anima, e già ceda alla voluttà piena del canto, ecco in quel punto egli è più vigile e cauto e accorto a discernere con la incredibile sottilità ogni variare del sogno, è fermo su se stesso a considerare una per una le modulazioni della sua voce e a meravigliarsi e a compiacersi....

Io penso alcuna volta la sua poesia come una nota sola dolce lunga pura moltiplicata e rifranta con mille stridule inafferrabili fioriture dal capriccio di una sottilissima eco. Ma questo si vede meglio nella prosa: dove poi manca la parte cantante, melodica, suggestiva, e il gioco del pensiero è nudo. È un ghirigoro che dà la vertigine.

Il suo pensiero non si svolge nel discorso; è tutto, come si direbbe, nei punti d’arrivo, nelle intenzioni estreme. E passando dall’una all’altra, non si tramuta con moto lento a gradi, ma d’un colpo brusco, come caleidoscopio. Se non che di questo moto a lanci a scatti a sussulti egli è consapevole perfettamente e sullo sforzo di rendere il formarsi di un moto dentro un altro s’innesta lo sforzo di rendere la consapevolezza.... finchè tutto ciò si rompe, come si spezza un getto d’acqua e ricade su se stesso in una spruzzaglia minuta.

Questo è il tritume della prosa del Pascoli. Nel punto che egli scrive una parola egli è tutto in quella e solo su quella insiste con tutta la forza del suo spirito; ma subito dopo, quando scrive l’altra, è poi tutto nell’altra; non solo, che quando le riguarda insieme, la differenza fra i due momenti gli si impone acutissima, sì che egli è già tutto alla prova di rilevare essa la differenza.... come un girare e rigirare di sè sopra sè entro sè....

Nessuna prosa è rotta da tante parentesi, nessuna conosce tante restrizioni e recriminazioni e sottintesi, nessuna si trova sottolineata da tante interiezioni e particelle o asseverative (e sì!) o attenuative, distinta da tante intenzioni e così minute come quella sua!

Dico della prosa in genere, e in ciò che ritrae dell’abito primo dell’arte di lui; chè a volerla considerare sola in sè, ci sarebbe altro da dire.

Ma quanto all’arte, a tutto quello che qui se n’è fino ad ora discorso manca un tratto essenziale. Abbiamo accennato alla sua complicazione, alla varietà contraddittoria dei modi, al partito ch’essa trae dai contrasti, dai chiaroscuri, perfino dalle stonature; tutto questo sarà vano finchè non avremo soggiunto che l’artificio è ingenuo.

Il Pascoli non si serve della sua arte come di uno strumento per giocare colle anime dei lettori. Ripetiamolo pure, in ogni cosa sua egli si abbandona intero, con tutta la pienezza del suo essere; se artifizio v’ha, egli n’è il primo illuso.

Egli è perpetuamente inebbriato e assorto nel mondo fittizio che la sua propria parola gli ha creato dintorno. Egli vive nei suoi propri versi con tutta l’anima; e in quel che gli par grande consuma tutto l’ardore della sua forza morale, e in quel che gli riesce pietoso piange tutte le lacrime dei suoi occhi.

Questa è la sua gran forza e la sua gran debolezza. Secondo che l’uomo accetti la poesia di lui per quello che è o per quello che vuole essere. Poichè se io accetto la poesia di lui, col significato ch’essa ebbe per lui quando la fece, se mi trasporto, come altri direbbe, nel suo punto di vista, allora il valore ne diviene incommensurabile: non è valore di cosa d’arte, ma di cosa viva. Le parole non sono più moneta usuale corrente, ma suonano tutte vergini e nuove; in ognuna può essere l’anima del poeta, cioè il pregio di un mondo: il più povero dei versi mi può rappresentare una lagrima, un fremito, un moto del suo vivo cuore.

Questo è il fatto dei pascoliani; nei quali opera sopra ogni altra cosa una simpatia non ragionabile, onde vedono quasi con gli occhi suoi stessi e sentono con le sue viscere; tutto quello che viene da lui, a loro è caro ugualmente, poiché essi amano d'un solo amore il poeta e l’uomo e la sua vita disgraziata e la sua anima piena di dolcezza e i suoi ochhi pieni di pianto.

Ma se io riguardo freddo e curioso, quell’uomo che così inerme mi si abbandona e si scopre, quel poeta che dà la stessa importanza alle sue lagrime e ai suoi versi, mi riesce la più strana cosa del mondo: è probabile che l’uomo non mi piaccia e che con uno stesso moto io mi allontani anche dall’artista: poichè l’uno e l’altro son troppo stretti nella medesima persona.

Se non che questo fa nascere non solo nel pubblico due schiere di pascoliani e di antipascoliani, tutti e due più obbedienti a un istinto del loro sentire che a un giudizio sull’arte: ma anche in una persona, e innanzi a una stessa cosa, genera gli effetti più singolari.

A un medesimo lettore una poesia del Pascoli non è mai identica: ma trascolora ai suoi occhi come al sole il collo della colomba. Leggo, e tutto mi riesce bello, nuovo, caro; e il mio cuore si gonfia di un affetto intenso e nella pienezza del consentimento pare che il petto mi scoppi. Giro l’occhio un istante dietro una rondine che vola, e quando torno a fermarlo sopra la pagina, trovo tutto raffreddato vuotato inaridito: spento il fuoco e la cenere sparsa.

Per un momento avevo abitato ingenuamente il mondo del poeta: poi, son tornato in quello degli uomini.

Ma, fra queste due disposizioni contrarie del nostro spirito, si può ben capire come anche la fisonomia di lui esiti e, quasi per gioco di opposte luci, si tramuti in vista a ogni batter di ciglia; cavarne un ritratto pacato e compiuto, è presso che impossibile. Bisogna contentarsi di segni, di scorci, di tocchi colti quasi a volo e fermati un dopo l’altro, come si può, sulla carta; già n’abbiamo accennato qualcuno, qualche altro proveremo ancora di accennare.


Ma dove mi volgerò? qual punto potrà fermare l’analisi inquieta? quale, fra tante pagine che mi stanno aperte e fredde dinanzi, avrà virtù di svelarmi il segreto del poeta? E vien voglia di uscire da quella selva trita di segni così minuti e così infidi, di gettare i libri e aprir la finestra e guardare.... Come beatamente l’occhio si riposa su questa dolce terra di Romagna! Ella è ancora intorno a me tutta bruna e nuda in una chiara aria d’inverno; ma l’orizzonte è spazzato fino agli ultimi confini dal vento aspro di marzo e nella pianura pulita le case paiono più bianche, gli alberi e le siepi più nere; la striscia del mare turchino ride al sole nuovo.

Il colore di queste cose nuove parla al mio cuore.

Io ne cerco il senso e vago con l’occhio sul gran ventaglio aperto del piano; guardo i colli magri e puri, le terre lavorate che spiccano nel fulvo crudo dell’ombra, e il dolce vecchio verde delle coste piene di luce; guardo i monti che s’affollano più lontani, ondeggiando come vapori, e in fondo alte e sole, quasi ritagliate sul cielo le tre punte celestine. Il noto profilo pare che renda a tutte le linee dei monti e del piano il senso delle cose domestiche e care. Non è questo dunque il paese del mio poeta,

il paese ove andando ci accompagna
l’azzurra visïon di San Marino?

Ecco l’Emilia, bianca dura e pulita fra le sue gracili siepi, co’ suoi ponticelli, sotto cui passano i rii dal bel nome romano, e mormora l’acqua che oggi è così trasparente e lucente tra le ripe calve sul fondo terroso: la vecchia grande strada ci invita alle ville ben conosciute, a Savignano dalle cui selci sonanti fino alla Torre e al Cimitero di San Mauro è così breve il cammino.... Ma da ogni sasso e da ogni siepe lungo quel cammino pare che le canzoni del poeta debbano volar via con frullo rapido e vario, come uccelli dal nido.

Dalle punte di San Marino fino al mar di Bellaria e alla pineta di Ravenna, dal Rubicone alla Marecchia, in ogni angolo di questa terra e in ogni aspetto e in ogni forma, dove ch’io mi volga e riguardi, ivi io vedo presente il poeta: in tutte le cose sento le sue memorie cantare.

Sarà forse quel picchiare in cadenza di un pennato sulle cortecce? Laggiù tra’ pioppi del mio viale, che pare forino il cielo così brulli e rimondi, un vecchiettino ha poggiato la sua scala a un tronco grigio; e così ritto a mezz’aria batte e sfronda e rinetta; cadono intorno a lui e s’ammonticchiano sulla sabbia battuta del viale rami secchi, schegge, e vermene novelle, che lasciano alle sue dita un così buono odore di gemme...

O forse è il grido lungo dei galli che nel vasto silenzio risponde alla cantilena aspra e strascicata delle venditrici di insalatina campagnuola; o la festa dei passeri tra le zolle, che sembrano ancor gocciolare dell’ultima neve; è questo bianco di tele, che dalla terra screpolata e scolorita rigettano contro i miei occhi il sole con crudezza tagliente, e domani porteranno dentro le case odore d’erba nascente e di viole; è il fruscìo degli aquiloni che salgono e brandiscono al vento sonoro; o forse anche è una fanciulla che mi viene incontro lenta lenta pel viale, come abbandonata a questa dolcezza; risplende la faccia bianca sotto i bruni capelli pieni di sole e nuotano i limpidi occhi nello splendore del giorno (liquidi e limpidi occhi, che

ridon, così.... con gli angioli. Perché?)

Tutto intorno a me sente del Pascoli; e qualcuno mi consiglia che basterà volgere quietamente gli occhi intorno sulle cose, per trovare la via facile e piana della sua anima poetica.

Bene: io a questo non credo.

Mi pare che valga per la Romagna quel che s’è detto per l’antichità classica, quel che si potrebbe dire per la Toscana; il Pascoli ha passata la sua vita in quella consuetudine, e in ogni sua parola o atto ne rappresenta a ogni momento l’immagine; ma, per quanto è dello spirito della sua poesia, egli n’è lontano, a distanza infinita.5

Egli è pure nella persona fisica e nel parlare e nei modi, e fino nella casa e nelle abitudini, un romagnolo schietto; più prende dalla Romagna dolce copia e grande di ricordi e di paesi, prende dall’idioma nostro novità di scorci sintattici e quei movimenti dell’espressione,6 che son tanta parte nell’aria viva, parlata, del suo discorso, sì di prosa che di versi.

Ma tutto ciò ha un valore meramente superficiale: il Pascoli si è servito del dialetto in quanto vi si sentiva dentro più schietto, più solo, più puro d’ogni impronta letteraria; in quanto quelle voci gli sonavano sul labbro più immediate, come eco dell’anima nuda.

E a questo gli sarebbe bastato ogni altro dialetto del mezzogiorno o del settentrione; così come a rendere il carattere del vivo, del vero, del particolare domestico e intimo, ogni sfondo di campagna e di usanze native avrebbe potuto, in una poesia simile alla sua, supplir la Romagna. Il Romagnolo è l’accidente; ma l’essenziale è l’intenzione.

A questa bisogna guardare. Tutti gli aneddoti e gli episodi, fra gentili e curiosi e bizzarri, che la gente ama raccogliere intorno alla persona del Pascoli, intorno ai suoi gusti semplici e alle sue abitudini singolari, intorno alla sua casa, ai suoi fiori, al suo Gulì; intorno a tutta la sua vita infine, dalle memorie tristi della giovinezza fino alla ricetta del risotto romagnolesco, che gli fa Mariù, non valgono a rivelarci dell’anima sua se non poco o nulla. Questi particolari, nei quali alcuno crede di trovare il segreto della poesia, sono per se stessi vani e insignificanti; essi prendono qualità dal suo spirito, che li trasfigura.

Vorrei dire che l’attitudine di questo spirito in faccia all’universo, è doppia e nella duplicità identica. Pensate a uno che parlando s’abbandoni ingenuamente al moto dei muscoli che forman la parola sul labbro; ma pensate che in quel punto stesso egli senta la parola suonare quasi nel vuoto, astratta da ogni uomo e da ogni senso; sì ch’ei debba cercare con inquietudine un valore in quell’accozzo di sillabe vane, e, fin che non ha potuto trovarlo e appropriarselo, non sia contento.

Così il Pascoli. Uomo che ad ogni istante si ritira dal fiume della vita, e ne contempla le mobili forme col suo occhio nuovo: questo è mio, egli dice, ma perchè è mio? e perchè è questo, e non altra cosa? e che vale per me, per la mia vita? Sì che la sua inquietudine è perenne. Ma perenne è pur la sua gioia, contemplando, nell’accettare: a tutto quello che la vita gli offre, egli dice di sì, — anzi: e sì! — e si esalta in ciò e si inebria. In ogni cosa, su ogni parola egli insiste come se quella sola ci fosse nel mondo; ma vi insiste tanto fin che ella abbia parlato e recato al suo cuore la buona novella, fin ch’ella sia fatta come simbolo, da cui possa esprimersi un senso di vita e di felicità.

V’è mai accaduto di fissare il pensiero sopra una piccola cosa futile, il numero dei passi che si contano per giungere a una porta, o l’accender del lume col primo fiammifero, e di sentire improvvisamente che a quella piccola cosa è legato qualche significato grave e quasi fatale per il vostro destino; sì che, se l’avvenimento non secondi l’aspettare, l’animo è colmo d’agitazione; e solo quando ha potuto immaginando accomodare le cose in un modo che dia buon augurio, allora ritrova la quiete e il buon sapore del vivere? Pensate bene a questo; e poi pensate al Pascoli: pensate che la quiete può esser trovata anche nella voluttà del pieno dolore, nel naufragio del nulla.

Ecco, il poeta legge; l’occhio è fermo su tre versi dell’Ascreo

(Non di perenni fiumi passar l’onda
che tu non preghi volto alla corrente
pura, e le mani tuffi nella monda
acqua lucente).

Ma la parola antica sotto quell’occhio fisso si stacca dal foglio; si anima, si allarga, acquista un valore che investe tutta la vita degli uomini; ossia la vita del poeta.

(.... così guarda, o saggio
tu nel dolore, cupo fiume errante:
passa e le mani reca dal passaggio
sempre più sante.)

Oppure egli corre colla memoria il passato,

(Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto);

e si fissa su quel pensiero, su quella parola; sul pianto, sul sorriso; e tanto vi resta, fin che la parola sembri quella stessa e insieme anche un’altra; fin che in quella trasfigurazione semplice e senza materiale mutamento il mistero del passato gli sembri risolto in un nuovo e consolante senso:

(un sorriso mi sembra ora quel pianto.
Rivedo i luoghi dove ho già sorriso....
Oh! come lacrimoso quel sorriso!)

La gente del suo paese dice per uso un proverbio, quando alcuno si risenta con brivido improvviso, «È passata la morte»: ma all’orecchio di lui il breve motto suona lungo, e passa fra sillaba e sillaba un soffio di mistero e di eternità:

(Veduta vanita
com’ombra di mosca:
ma ombra infinita
di nuvola fosca
che tutto fa sera:
la morte....
                  com’era?)

Dovrò io riprendere tutta l’opera sua punto per punto? Mostrare le parvenze fuggitive, le immagini, i fantasmi, le parole che la sua mente compie in piccoli miti, e i miti che si tramutano in simboli, e i simboli che riportano tutte le voci della sua poesia e i moti della sua anima a una intenzione sola; alla vita e al destino? Dovrò illustrare tutta quella gran parte dei suoi canti che è fiorita sul margine dei libri altrui come una trasfigurazione fantastica e simbolica? Poichè questo e non altro sono molti ramoscelli delle Myricae, e tutto, o quasi, il gruppo dei Conviviali.

Ch’io non vorrei però fosser confusi, al mio cenno fugace, con quella serie pur così ricca di dilettazioni fantastiche e ingegnose, che da non molti anni in qua si sogliono iscrivere, come appunto fu detto, en marge des vieux livres: dilettazioni di umanisti attardati, di spiriti ornati e squisiti, di poeti puri e di artisti, da Anatole France a J. M. de Hérédia, da A. Chénier a Leconte de Lisle e anche (intendendosi con discrezione) a Giosuè Carducci.

Il Pascoli non si contenta di alluminare, in qualche spazio vuoto del libro vetusto, una figurina come spiritello balzato sulla traccia della poesia ritrovata; non si gode di fermarsi su un punto sbiadito a rallegrare il colore e a ricalcare le linee del vecchio disegno; non si muove a mescolare con impeto lirico tra i fantasmi suscitati dalla lenta lettura la passione e il calore della sua anima nuova: egli non è un umanista.

Egli non s’interessa al libro, non si ferma sui luoghi consacrati dall’ammirazione dei secoli; trova in una frase, in una figura, in un’immaginazione qualche cosa che attira il suo sguardo, ed eccola nella sua fantasia rifiorir tutta nuova, mito e simbolo e parte viva della sua vita stessa. Ha letto il Fedone: d’un tratto egli s’è trovato nella piccola camera della prigione a parlare e a bere e a morire col vecchio sileno, ha riso e sogguardato collo stormo dei fanciulli ignari fra i sassi dell’Acropoli, ha espresso dalla scena tradizionale un senso di mistero, di cui si pasce e consola non l’anima dell’antico Socrate o la nostra, ma solo la sua. Allo stesso modo ha ripreso e rifatto, per sè, Omero ed Esiodo, Bacchilide e Platone e Apuleio; esaltando, in ciò che di loro accettava, solo se stesso; ponendo e sciogliendo, nel dramma di Ulisse o in quello di Mirrine o di Psiche, il dramma di se stesso e il simbolo della propria vita.

Se avessi voglia a parlar di simboli e di trasfigurazioni potrei voltarmi agli Inni e alle Canzoni; e, infine, a tutto quello che gli è uscito dalle mani. Non c’è qualche punto di confessione autobiografica anche nei commenti danteschi?

Ma poi egli ha creato la sua vita con lo stesso animo che la poesia. Le circostanze han portato ch’egli fosse uno dei vinti, o almeno uno degli afflitti, degli oscuri, nel mondo: che i suoi giorni, dominati da un’ombra tragica, trascorressero fra il dolore grande e le angustie piccine, in povera casa, fra povere cose. Il suo travaglio fu per lunghi anni difficile e buio; egli dovette affaticarsi per campare, per avere il pane e il tetto, per farsi a poco a poco in un angolo del mondo tumultuoso un piccolo nido, in cui raccogliere le reliquie della sua vita dispersa dalla sciagura; dovè sentire il peso e il pregio di ogni pagliuzza, di ogni festuca, il valore che il poco prende per chi non aveva nulla, l’importanza di tante umili cose pur sospirate e sudate, i mobili della casa, il cibo cotto nei modi paesani sul proprio focolare, un po’ di respiro e di pace. Era stato battuto, ferito, schiantato; assassinato il padre, morta la madre in mezzo ai figli smarriti, distrutta la famiglia; aveva assaporato il trionfo di chi ha fatto il male, e l’indifferenza mortale della gente, per cui gli orfani dolorosi non esistevano: ma la vita non gli concedeva, verso tutto questo, altro compenso, altra vendetta, altra riscossa che nutrirsi il proprio dolore nel cuore e cambiare la consuetudine degli uomini con quella del pianto e delle memorie. Egli accettò. Esaltò se stesso, non contro le circostanze, ma nelle circostanze. Si appropriò il dolore, le angustie, le piccole cose che aveva intorno, le briciole di cui era condotto a far tesoro e vi insistette con l’acume e col fervore del suo spirito, così forte, che ne fu inebriato; vi trovò dentro la ragione di cantare e di vivere.

Il povero diavolo del Voltaire.... «chantait d’un gosier sec Le vin mousseux, le frontignan, le grec En buvant de l’ean dans un vieux pot-à-bière»: il Pascoli al suo posto avrebbe cantato l’acqua, che è così pura, così buona a chi ha sete.... Quel suo sentimento, che chiamano idillico, la poesia delle piccole cose e delle voci sottili, la filosofia del dolore che è fonte di gioia e di fraternità; la filosofia insomma e la poesia delle Myricae e dei Poemetti, per nominarla nel suo momento più schietto, nasce di qui; nasce dalla stessa facoltà, che ha fatto fiorire la gioia nell’umile vaso di coccio, che sul davanzale della sua finestra educava il basilico e l’erba luisa.



Ma, quanto a filosofia, il Pascoli si è vantato positivista. Che non fu soltanto una botta ad hominem, contro il suo critico idealista: è una nota del suo animo, degna di essere considerata con attenzione e con discrezione.

Prima di tutto, il suo positivismo ha ben poco di comune con quella pseudofilosofia che ha signoreggiato fino a ieri tante scuole d’Italia: esso è sentimentale, se così posso dire, e non razionale: ignora gli universali e il problema della conoscenza. Il suo interesse è riposto tutto nell’uomo e nella vita.

Egli contempla le cose con l’occhio di Mimnermo, o del Leopardi. In tutto l’universo solo una si trova che importi: l’uomo oggi è vivo, ma domani sarà vecchio, sarà morto. Come si può vivere ed esser felici sapendo questo?

La religione scioglieva il problema eterno, togliendo via uno dei termini: sopprimeva la morte. Ma il Pascoli sa e sente che la morte non si può togliere via; e tutto è vano, tutto è fumo e nebula fuggitiva e illusione di bimbi, fuor che questo solo; io che vivo e mi muovo, io pur debbo morire. Questo è il suo positivismo: e non ha poca parte nella sua poesia, in quel soffio d’ansia e d’angoscia quasi religiosa, in quella morale di uguaglianza fra gli uomini e di amore che ne avvicina le teste fraterne, quasi di bimbi che s’addormono insieme, aspettando la morte che chini non vista su loro la sua lampada accesa.

Ma alla veduta chiara della morte s’accompagna invincibile l’illusione; religione o speranza. Il Pascoli, nella sua ingenuità raffinata, se ne rende conto mirabilmente: vede la illusione quanto è dolce, e sente in quella dolcezza la prova della vanità: ama, come uomo, la sua illusione, senza lasciarsene ingannare; e in quella tristezza del disperato amore trova una voluttà, di cui si inebria il suo animo.

Se non che l’illusione non nasce soltanto in faccia alla morte; non è solo religione, ma è più universalmente sogno, speranza, poesia che consola gli uomini ad ogni ora. Il Pascoli legge gli antichi poeti; e sente l’aura in sè di quelle grandi fantasie, degli eroi e degli dèi che popolarono l’Ellade beata. Ma ecco egli, uomo moderno e che sa di filologia, capisce troppo bene che quelle sono favole. Non solo, ma capisce anche come son nate; per certe abitudini della mente umana, per certe figure e abusi del linguaggio, che operano ora e che sono infine la cosa più naturale del mondo. Il linguaggio di quei primi navigatori non poteva significare il vulcano, se non come un gigante, con un occhio rosso di fuoco sul cucuzzolo, che scaglia sassi e rupi sul mare; non poteva dimostrare le onde se non come fanciulle candide che sorgono a una a una alla riva, corteggio dell’argentea Teti.

Nell’anima di chi sa questo (o crede di saperlo), favole e sogni sono morti troppo più che nell’anima di ogni altro: poichè il sogno, pur escluso dalla realtà materiale, vive in un altro ordine di realtà; ma la scienza, che lo riporta in mezzo a noi e mostra come è nato, essa sola lo uccide.

Allo stesso modo la religione non è ben morta se non per chi l’ha vista nascere naturalmente dalle disposizioni più comuni; se non per chi ha capito che l’anima, misteriosa e immortale, consiste solo del soffio, che si vedeva vaporare dalla bocca dell’uomo e che dalle labbra agghiacciate per la morte era partito; per chi si è reso conto che gli dèi si rappresentano alla fantasia della smarrita umanità vagabonda, non altrimenti che i mostri e le gigantesse, accennanti fra le nuvole del cielo agli occhi della piccola gente brulicante nel ciocco: delle formiche, a cui brucian le case e che vedono, per gli spiragli del legno ardente, la veglia dei contadini intorno al focolare, come un concilio di divinità. E forse il rapporto dell’essere infinito e misericordioso con l’uomo che lo prega non è diverso da quello dei passeri con l’essere adorabile e tremendo, che sparge per loro il grano nei solchi e poi nella sua ira li stermina fin sulle cime dei pioppi. Di tutto questo il Pascoli è conscio; conscio della vanità delle illusioni più care alla fantasia e al cuore, dei miti greci e delle immaginazioni cristiane; conscio anche di ciò che la vanità e la nullità rendono quelle cose del passato più amaramente dolci. E nei Poemi Conviviali, e in genere in tutta la poesia della sua nuova maniera, egli esprime quella coscienza che è fatta insieme angoscia e voluttà.

Il viaggio di Ulisse in cerca delle sue illusioni è il viaggio stesso del poeta su questo abisso della sua anima: ed è anche, se io non erro, una delle cose nobili e alte nella nostra poesia. Io leggo la cetra d’Achille, Anticlo, Psiche, il Ciocco, il Tripode, e mi pare che il velo delle apparenze ingannevoli si sgombri dai miei occhi e che la terra si stenda intorno a me brulla, in un silenzio severo: non resta di tutto il tumulto del mondo se non un’ansia di piccole creature nude, destinate alla morte; e cade del loro vano agitare ogni ragione, e solo si trova un senso nel raccogliersi gli uni presso gli altri aspettando la raffica; o nel bere la dolce ebbrezza che involava a se stesso Achille sulla pelle di lion rosso, che empiva di rosea luce la papilla morente di Anticlo.

Poi gli occhi mi scorrono in alto; e vedo, (come vedeva qualcuno sul dorso del Vesuvio al lume delle stelle) nell’aria fredda il brulichio degli astri, e l’anima è fatta piena del silenzio degli spazi interstellari....

Ora, questo ch’io dico può prender l’aria, sulla pagina scritta, dei luoghi comuni di quel solito positivismo; ma nell’anima e nei versi del Pascoli il fatto va altrimenti. Egli non sceglie questi come motivi di amplificazioni fantastiche, ma lasciale ch’io lo ripeta, tramuta ogni visione in un dramma affannoso della sua vita interiore, e tanto ne esprime col verso quanto è necessario alla pace del suo spirito travagliato. Anche qui, come sempre, la poesia non si può separare dalla vita.



La poesia del Pascoli è dunque, fino a un certo segno, un’arte di vivere; il suo valore non è pieno se non per colui che la esercita. E come, da questo punto di vista, ella è compiuta e perfetta, così guardata da ogni parte, ella si dimostra disuguale, incerta e inquietante.

A considerare i versi in sè, come qualche cosa che porti dentro la sua propria ragione, un punto fermo sul quale posarsi, un carattere perspicuo al quale ricondurre tutte le altre note, non si trova; o quando sembra che si sia trovato, ecco subito qualche cosa che vi urta contro con sbattimento intollerabile.

Pare che il bisogno più sentito dal Pascoli nello scrivere sia quello, che io chiamerei per brevità, di realizzare: di render sensibile dentro la parola tutte le sue impressioni, nella loro pienezza.

Vedete, per es., il canto degli uccelli. In un sonetto della prima maniera lo trovo espresse con un vocabolo solo: scampanellare (ricordate.... «il bosco.... Cui tutto io già scampanellare udia Di cicale invisibili e d’uccelli»). È chiaro che egli profferisce quelle sillabe con un suo particolare sentimento, che esse gli rendono, a udire, un suono quasi vergine; un poco più tardi egli insisterà più profondamente, sul canto dell’usignolo:

.... la cobbola giuliva
parve un picchierellar trito di stelle,
nei ciel di sera che ne tin tin ni va.

Si sente in questi versi qualche cosa di nuovo; un’eco quasi materiale di quella fioritura e punteggiatura di trilli, così liquidi e balzeanti.

Ma non è ancora il canto nella sua realtà. Ed ecco sul labbro del poeta tornare, pur con qualche vaghezza arguta d’umanista, il ritornello aristofanesco; ancora un passo, e sarà la riproduzione materiale, lo scilp, vitt, videvitt, delle Myricae: il tell terell tell tell, il rere rere e lo hu hu dei Canti di Castelvecchio.

Il lettore ci sorride, come a bizzarrie; ma a torto; poichè in codeste bizzarrie ci si rappresenta l’ultima prova della virtù espressiva del poeta, in quel punto in cui egli ha insistito tanto che la forma tra le mani gli è scoppiata.

Potrei citare la pioggia, il tuono, lo spaccalegna, il terrore della fuga (Mecisteo di Gorgo), le statue greche in «Sileno», e via via, tanti quasi pezzi di bravura in cui il bisogno e la virtù di realizzare si dimostra. (O non ricordate le formiche, quelle di Psiche, frugole succinte, e quelle del ciocco

(Ma un’altra vita brulicò nel legno
che intarmoliva....
. . . . . . . . . . . .
così passava la lor cauta vita
nell’odoroso tarmolo del ciocco)?

Non ricordate il senso della primavera,

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle,


e altrove,

La zolla già lievita come il pane
al solicello e screpola e si sfa?


A qualcuno torna a mente Virgilio,

Vere novo gelidus canis quum montibus humor
Liquitur et Zephyro putris se gleba resolvit.


Dove poi ci sarebbe da chiedere chi ci contenti meglio, il moderno o l’antico....

Questi invero ha posto due tratti generici, le nevi che si sciolgono, la terra che si rammollisce, per circoscrivere una convenzionale primavera. Ma l’altro pare che egli con le sue stesse viscere siasi fatto terra; e se prima aveva suggerito con le parole la dolcezza dell’ora e dell’aria, dopo ha realizzato tutto intero il suo oggetto, nel suono di quel primo verso che gonfia già e leva il riccio come la crosta soffice, in quel solicello, in quello screpola, in quello sfa, che hanno quasi nella nostra bocca il sapore della terra rintenerita.

Se non che io provo a tornare su questo confronto più volte, con animo riposato. Virgilio non mi stanca, mai,

(liquitur et Zephyro putris se gleba resolvit),


io mi dico e mi ridico questo verso con un piacere che a ogni volta è più grande.

Non c’è nulla di straordinario in nessun punto; non potrebbe essere più semplice.

Ma è una semplicità schietta, chiara, ampia; essa mi offre tutto l’essenziale e pur mi lascia libero di godermi la temperanza dell’immagine nel disegno del verso, del fantasma nel suono, così pura e felice, come più non potrei desiderare.

Invece, se ritento un poco più curiosamente i versi del Pascoli, troppe cose trovo che mi offendono; un’antitesi abbastanza volgare (aria dolce — zolle dure), una mischianza di immagini che si abbuiano; e poi una cert’aria di strafare, un ritmo incerto che sfugge. Così almeno a me pare.

Ma anche il Pascoli qui e in mille altri luoghi (rileggete il vecchio castagno, dove raddolcisce per l’innesto la sua natura selvatica, o dove mostra i segreti del tronco intarlato; ovvero pensate ai figli di Mirrine, o a quel senso che è creato, nel sogno della vergine, del rivo di sangue che....

          stupisce le intatte
          sue vene: un sangue più vivo,
          più tepido: come di latte.
          Stupisce le placide vene
          quel flutto soave e straniero,
          quel rivolo labile, lene,
          d’ignota sorgente, che sembra
          che inondi di blando mistero
          le pie sigillate sue membra)

è poeta di virtù prodigiosa.

Così si disegna una tendenza del suo ingegno poetico: volta a realizzare sensibilmente, e talora materialmente, le impressioni.

Ma se mi rimetto a leggere, per vedere come il carattere che ho fermato si determini meglio in atto, ecco qualche cosa che mi interrompe la via. Sono quei versi, pur così frequenti e che sentono il loro Pascoli a un miglio lontano, ch’io chiamerei, pieni di cose;

(.... in mezzo a quel pieno di cose E di silenzio....)

versi a cui manca ogni ricerca d’espressione e nella gran semplicità pare che le cose stesse, buttate là senza studio e nella forma più cruda, parlino senza mezzo. Il contrasto della nudità della frase con la pienezza dell’oggetto li fa vivi e vasti: comunica al nostro spirito un senso indefinibile di realtà.

È per es. la visione del torello

Passa.... Oh! poggi solivi! ombrose stalle!
E quanto fieno! quanta lupinella!

Dove non c’è altro che queste molto semplici parole, fieno e lupinella, eppure qualcuno leggendo si trova l’anima ricolma di odor di prati e di campagna e di sole e di mille altre cose e sensi indicibili.

E’ anche quel che mi pare in questo genere il verso tipo:

cantando inzeppa l’erba onde si esala
odor di fresco e verde e gioventù.

Nel quale a volta a volta mi pare che ci si possa tuffare come a rinfrescare le guancie sudate scottanti nel fascio dell’erba allora falciata, e mi pare anche che non si trovi più altro che un accozzo di parole vane.

Per questa via, è tutto un mondo nuovo che si apre: un mondo instabile e misterioso, in cui le sensazioni più calde, più vive, nascono improvvisamente o si dileguano, senza che se ne possa assegnar bene la ragione; un mondo in cui dall’incontro di certe parole, dalla malia di certi particolari appena accennati, di certe sfumature, di certe che si direbbero assurdità, si sprigiona virtù d’incanti, insieme con la gioia dell’effetto realizzato è la meraviglia del prodigio.

Ed è il convento che rifiorisce nella mente delle due giovani assorte; «e si profuma il lor pensiero D’odor di rose e di viole a ciocche, Di sentor d’innocenza e di mistero».

È quell’odore che l’esule ritrova nella sua terra, e nel berlo ribeve il lume roseo della giovinezza, ritrova dolcezze angosciose di sogni, di amore, di mistero, «.... odore di mese di maggio, Buon odore di rose e di cera».

Qualcuno mormora, suggestione. E purchè non si prenda il vocabolo per una spiegazione, credo che possa in qualche modo convenire.

Ma a me piace meglio ricordare

                                                                 i monti
          tutti celesti; tutto era imbevuto
          di cielo: erba di poggi, acqua di fonti....

(non si sorprende qui l’espressione, ancora formata, ma in quel momento in cui comincia ad ammollirsi, in cui s’avvia a divenire uno spunto vago per sè e indistinto, di musiche strane?); a me piace tornare insieme col poeta dalla campagna:

          com’è dolce questo ritorno
          nella sera che non imbruna,
          per una di queste serate
          fra tanto odorino d’estate.

Io ritrovo l’eco di quei gridi di bimbo alle sue bestie, che durano così a lungo nel dolce crepuscolo, ritrovo il gran silenzio della campagna soleggiata, in cui si sente il villano che batte le falci, e sussulta l’aspro richiamo dei galletti di primo canto: ritrovo il suono dell’ore che giunge al perduto nel mare dei grani, e tante e tante più cose che lo spazio non mi consenta di ricordare.

Ma non è contento il Pascoli; non s’arresta. Ecco onomatopeie raffinate, in cui dalla sillaba, che dovrebbe valer come suono mero, scoppia, tremando e cangiando, senso spirituale o intenzione simbolica («finch.... fin che nel cielo volai», dice il fringuello; e «cantava, l’usignolo Addio dio dio dio dio»); ecco un concetto, che dovrebbe compire acutamente il discorso, tramutarsi al suono in materiale imitazione («chi che ripeta, chi che richiami»). Ecco accoppiamenti di parole, che dovrebber creare indicibile effetto, e riescono in fine sciocchi, come i disegni che l’umidore ombreggia sui muri; hanno forma e significato per chi si giaccia ancora tra veglia e sonno. Ecco il canto che passa «tra la morte e il sogno», ecco la «vertigine molle», ecco le «voci di tenebra azzurra»; ecco i colli, che rimandano lo sparo «urtata via via La loro autunnale agonia»; ecco «sussulto infinito nereggia di Galla....».

Ma guai s’io ceda alla voglia di spigolare fra le odi e gli inni; la lingua che il poeta vi parla è così arbitraria, così tesa oltre ogni limite e costume umano, che, massime fermandosi a pezzi e tratti brevi, è impossibile darne conto adeguato.

A ogni modo, per pochi cenni, si è pure abbozzata qualche immagine di poeta morbido e manierato, che dalla compiacenza del vago, dell’incerto, del simbolico giunge fino alle piccole soverchierie e alla oscura vanità della suggestione.

Quanta distanza da colui che mostrava per suo più rilevato carattere il bisogno di realizzare! Ma tutte e due le immagini convengono al Pascoli; e quale più, quale meno, non si sa dire.

Il poeta che spinge la intensità dell’espressione fino al travaglio e al tormento ha per i luoghi comuni, per i ripieni generici, una indulgenza quasi infinita. Se si guarda alle rime, si trova che la trama della sua strofe è ordita solitamente di poche fila assai comuni. Rime di oro, di nero, di sera; rime di serena, di lontano, di vicino; rime di mare, di cielo, di infinito; rime di vento, di parola, di bianco, di grave, fanno le spese alla miglior parte dei suoi versi. Parrà osservazione molto materiale; ma ha pure il suo valore.

E poi queste rime facili e consuete si lasciano cullare da un frasario, che per quanto pascoliano e singolare, riesce a chi intentamente lo riguardi quasi una materia plastica che supplisce a tutti i bisogni senza differenza. Non c’è necessità di analisi minuta. Poiché chi non ha a mente quell’oro e quell’argento, quell’aria e quell’anima serena, quella dolce sera, bufera.... nera, campane lontane, cose.... dietro un velo, ombre di monte e di cielo; quel molle, pio, bianco, quell’ebbro di gioia o di pianto, quel muto, quel tacito oblio che nella lingua poetica del Pascoli cadono un poco per tutto?

Chi non ha a mente certi sfondi di paesaggio che il suo pennello lascia dietro sè a ogni poco, quasi senza accorgersene, «i neri boschi fumiganti d’oro» (o «sfuma li alberi neri un vapor d’oro» o «li alberi d’oro, le foreste d’oro»), il «tacito lume di luna», il «rosso tramonto»; la «notte nera»; certi echi che ogni suono suscita, il «clangore d’argento», il «silenzio profondo», e l’«eco lunga, nè so se....»?

Basta profferire certe parole, con un certo tono della voce, perchè tutto all’intorno spiri aura di Pascoli. E non parlo poi dei modi stilistici, delle clausole, degli atteggiamenti di ammirazione o sospensione, del movimento insomma del periodo poetico; poichè è troppo chiaro che la povertà e la monotonia di queste forme è grande in lui come in nessun altro scrittore. Impadronirsi della sua lingua poetica e prender l’abito del suo stile riesce, a chi voglia, la cosa più facile del mondo; e troppo bene ce n’accorgiamo tuttodì.

Come poi questo virtuoso, che può giocolare a sua posta con le difficoltà metriche e stilistiche più paurose, s’abbia a compiacere così largamente del luogo comune; come quest’uomo che odia la letteratura e intende fino allo spasimo nella espressione del vivo, del nuovo, del particolare suo, possa adagiarsi in quella languida povertà, come possa tollerare che i moti inimitabili del suo spirito, il suo pianto, il suo canto, diventino maniera banale e volgare, questo è un po’ difficile a spiegarsi.

E la gente suole, fra i due estremi, fermarsi all’uno o all’altro; gridare che il Pascoli è semplicemente un manierista, e anche, se s’invade il campo del sentimento, un Arcade, un posatore; ovvero che è un poeta meraviglioso, il più nuovo di tutti.

Ma se non si vuol cadere in questo contrasto, bisogna prender le mosse da un’altra parte. Bisogna ricordarsi che il Pascoli non è un poeta dei soliti, che scrivano per un pubblico e desiderino sopra tutto di far cose nobili e belle — lasciate ch’io mi contenti a questi cenni frettolosi e approssimativi. Il fine della poesia di lui non è esaurito dai versi; e i versi valgono per lui in quanto conferiscono al suo sentimento della vita: nè si possono intendere se non profondati in lui stesso, nella sua persona, nel suo animo solo. Così, solo e assorto, egli canta; e il valore del suo canto non è quello che il comune uso dell’umano commercio ha fermato, ma è tutto quello che il suo spirito crea nella libera ebrietà della solitudine.

Lo scrittore che nelle carte stampate si contraddice, si oscura, si ripete; che soggiace a tutte le abitudini e a tutte le debolezze di un ingegno disordinato, e infantile nella sua forza; colui che crea con la stessa serietà le cose più grandi e le, più goffe, le più gentili e le più puerili; colui che ignora nella soddisfazione dei suoi bisogni spirituali ogni misura e ogni legge, che insiste fino al tormento, che dilata fino alla noia, che annega i lampi più felici e le perle più nuove in una fiumana lenta di banalità, in una cantilena che addorme o in una dissonanza che strazia, non rappresenta egli del poeta se non una immagine imperfetta; come l’ombra bizzarra e difforme che la parete trattiene dell’uccello che passa volando. (Dico: intendendosi poeta, nel significato ch’egli vuole; e come intenzione, non come realtà).

Quel poeta ingenuo e puro accetta di se stesso tutte le forme, quali che sieno: e in esse si contempla e si esalta senza discernere: quello che agli altri riesce complicato e difficile per lui è tutto semplice. Egli non sceglie una faccia di se stesso, come più significativa: ma in tutte si piace: la sua umanità è perfetta e innocente. Essa unisce la virtù più gentile dell’uomo ai moti del bimbo. Il suo ingegno, ricco di ogni forza fantastica e musicale, adopera come il ramo che cede ai capricci del vento; ma in ogni operazione, lo spirito del poeta, o per espressione o per suggestione o per ritratto o per contrasto, riconosce sè ed è contento.

Se fosse possibile raffigurarsi una facoltà poetica separata dall’animo che la muove, si potrebbe definire il Pascoli press’a poco così: come un uomo di facoltà poetiche ammirabili, le quali obbediscano alla bizzarria di uno spirito disuguale e di una intelligenza imperfetta.

Quando queste facoltà operano sole, esse creano per la propria virtù cose conformi; sono le bellezze frammentarie, i particolari adorabili della poesia pascoliana; tutti quei cenni e quei tratti e quei tocchi che fanno somigliar la sua opera alle cartelle di ricerca e di studio d’un pittore. Sono anche quei pezzi in cui tutto lo spirito del poeta è stato preso inconsapevolmente dall’interesse proprio della cosa a cui lavorava, e non ha badato ad altro che a far quella; penso ai quadretti delle Myricae, a tutti i pezzi, diciamo così, di mezzo tono, fatti a cuore tranquillo e a mente serena, il desinare e il bucato, il torello e il soldato di San Piero in campo, nei poemetti; o anche, per citarne uno che non ha altra bontà che di cose semplici dette bene e la grazia che nasce dall’equilibrio e dalla temperanza — che sapore prendono queste parole assai comuni quando accade di poterle riferire al Pascoli! — la fonte di Castel vecchio.7

Nominerò a parte quel poemetto, che forse è il solo pezzo di poesia pura che il Pascoli abbia scritto, con animo quasi d’artista schietto: Gog e Magog: il quale è degno che solo se ne parli sub rosa.

Ma quando queste facoltà secondano l’animo commosso, allora si ha la vena più originale di quella poesia, tutta lirica e che tocca il sublime talora (o cavallina, cavallina storna!), e quasi sempre è dolce, cara, come tante cose nel canto dei morti e dei ricordi, che non ho bisogno di citare a nessuno; per altro vi è già una certa inquietudine, un tremore, una vibrazione troppo personale; si sente che la commozione è per trasportare il poeta in quei mondi a cui la parola umana è inadeguata.

Intorno a questo, che è come il nucleo dell’opera, dilaga senza legge e senza confine la poesia in cui pare che le facoltà del poeta abbiano obbedito solo alla sua bizzarria. La quale si è compiaciuta di insistere su un punto solo, su una tendenza, sulla facoltà musicale o sulla facoltà simbolica, sul cantante, sul singhiozzante, sul sottile, sull’ingegnoso, sul puerile, fino a cavarne effetti che soverchiano ogni misura del comune intendimento.

Da questo punto di vista potremo renderci conto così dei versi, come di tutti gli atti della sua vita spirituale; vedremo nelle pose di veggente e di profeta nazionale, come nell’oscuro verbo di una politica mezzo retorica e mezzo

mistica, nella filosofia sociale, che uguaglia in un abbraccio lagrimoso Monsignor Bonomelli e le corporazioni dei maestri o dei medici condotti, insieme col Giappone e coi vasi da fiori; negli sfoghi contro i critici non meno che nei discorsi al popolo e nei volumi di critica dantesca, da per tutto vedremo espressa come in un vivo ritratto la varietà ingenua e tumultuosa di quell’anima. Nè ci meraviglieremo più molto se con quella voce e accento, ond’egli suol punteggiare i programmi delle prodigiose teorie politico-sociali (forse poi non c’è altro di strano che la sua sincerità nell’elevare a legge della vita nazionale quel che è vero della sua persona), con quella stessa prenda a bandire il suo sistema dantesco. Il quale potrebbe anche essere non così folle e futile come i dantisti di mestiere hanno voluto far credere. Ma questo argomento è una voragine che mi si apre davanti, e mi fermo a tempo, sull’orlo.



Credo sia tempo che anche il discorso si fermi. L’occhio è stanco di errare. Dopo tanta analisi, dopo tanto frugare, su tanti punti, senza averne trovato nessuno fermo, che non si tramutasse dileguando in vista, si sente ora il bisogno di riposare; di abbracciare alcuna volta con uno sguardo solo il nostro soggetto, e ivi far fine.

La fantasia mi suscita innanzi una persona viva: quella poderosa e prosperosa figura è dunque dei Pascoli?

Se vi cammina davanti, tarchiato nella smaltatura mezzana, con quella impostatura così spiccata del petto, che si dondola un poco assecondando con le spalle e le braccia corte il moto risoluto del passo, col collo taurino e la testa forte sotto il cappello largo e molle, egli è uno dei nostri agenti di campagna, un fattore del più buon ceppo romagnolo. Ma si volta; vi guarda, vi parla. E quando udite frasi rotte, una voce che pare senza accento; movimenti rapidi e profondi a cui la parola a ogni tratto vien meno; quando vedete su quella fronte tormentata, che mostra nei solchi fondi il travaglio e l’ansia dello spirito, quando vedete su quegli occhi grigi l’ombra del pensiero e del sogno trascorrere come l’ombra della nuvola nel cielo, allora sentite che è lui, Pascoli, il poeta.

C’è qualche cosa in quell’uomo, che par dei nostri, in quella spoglia corporale e massiccia, che non si sa definire; qualche cosa di vivo, di mobile, di creatore, un getto perenne di forza che sfugge a ogni usato vincolo, che lo pone in mezzo al nostro universo invecchiato come uomo libero e nuovo. È un poeta. Ogni timore, ogni inquietudine che la lettura poteva aver lasciato dietro sè, subito cade; in lui non c’è falsità, maschera, posa, artifizio. Tali cose non esistono; non possono aver luogo in quest’uomo ch’io vedo. Altri potrà giudicare, pesare, classificare; nella sua viva presenza io sento la schiettezza dell’anima. Si muove tra gli uomini disarmata e innocente come quella del bambino che pur ora ha aperto i vergini occhi sulle cose.

Come bambino egli potrà errare, smarrirsi, cadere, dar noia forse alla gente.

Ma qualche cosa di profondo è in quella timidezza, in quella forma che può sembrare un poco rustica, in quella inettitudine a certe parti della vita comune, in quella mancanza di certe qualità necessarie al commercio dei suoi simili; vorrei dire che è come un’ombra della sacra salvatichezza di Virgilio.

Certo è un Virgilio più buio, ottenebrato nella sua qualità pura, smagato dalle illusioni dei sensi e dai movimenti superficiali: ma è pur sempre

                    l’ultimo figlio di Virgilio
                    prole divina,
          quei che intende i linguaggi degli alati
          strida di falchi, pianti di colombe,
          ch’eguale offre il cor candido ai rinati
          fiori e alle tombe.

Credo che sia qualche vero in queste parole di un altro poeta; o almeno a me piace che sia.

  1. Non ne dico di più, sebbene sarebbe argomento assai caro: ma la raccolta dei carmi quasi non è pubblica, e nemmeno io ho potuto vederla intera.
  2. A dir vero la sua estetica si suole trovar meglio in quella uguaglianza famosa che egli ha posto fra il poeta e il fanciullino. Ma in fondo è la stessa cosa. Il fanciullo concepito come tipo del poeta, è esso il Pascoli ed è esso il fanciullo a cui intenzione fu composta l’antologia; il fanciullo che non discerne l’arte o la parola degli scrittori, ma sente solo le cose poetiche; e alcune gli riescon tali naturalmente, gli uccelli i fiori le lande della lunga ombra; e altre gli riescono impoetiche. Pure è vero che a pensare l’immagine di codesto fanciullo e il Pascoli che in essa materialmente si compiace, l’uomo si può render conto molto ben vivo di certi vezzi e attucci e smancerie e puerilità che sono anche nel poeta. Ma tutto quello che importava dire su questo punto è stato detto.
  3. Da questo punto di vista qualcuno vuol definire l’arte del Pascoli come impressionismo puro: in quanto il poeta mette tutto l’interesse della propria anima non nelle espressioni, ma nelle intenzioni: non nelle parole e nei versi, ma al di là, in quel mondo di sentimento e di vive immagini e di cose sensibili che parole e versi valgono a suggerire.
  4. In principio il Pascoli, scolaro del Carducci e ignoto ancora a se stesso, scriveva versi come questi:

    Di ninfe albeggia in mezzo alla ramaglia
    or sì or no, che se il desio le vinca
    l’occhio alcuna ne attinge e il sol le bacia.

    Dove non sai se riesca più singolare, pensando al Pascoli che verrà dopo, la reminiscenza dantesca o la fattura e il tono: ma quante cose sarebbero state possibili all’ingegnosissimo scolaro di quegli anni!
  5. La poesia del Pascoli ha un’anima toscana, si dice: tra Castelvecchio e Barga, sotto la Pania e lungo il Serchio, è il nido dei suoi sogni e dei canti più belli: i suoi versi sono trascritti nella pura favella di quei monti. Il vero è che di tutti i nostri scrittori egli è il meno toscano. Pensate solo un poco a quella che è la tradizione toscana: ballate e sonetti e canti carnascialeschi e cicalate e lettere familiari; e vedrete se ho ragione.
  6. Io avevo raccolto un gruppo di esempi, che per brevità lascio da parte. Ma ognuno può trovarne da sè, a sua voglia. E penso già a chi metterà in tante schedine il vocabolario toscano e la sintassi romagnola del nostro poeta, e poi giurerà che egli è tutto lì dentro....
  7. Fanciulle io sono l’acqua della Borra
    dove brusivo con un lieve rombo
    sutto i castagni; ora convien che corra
    chiusa nel piombo.


    Che bella strofa e come ben costrutta! e come è cara quell'agevolezza, quella bontà senza sforzo, quell' armonia propria delle cose semplici e felici; quel gusto leggero di reminiscenza classica (purior in vicis aqua tendit rumpere plumbum....)! Ma rileggete tutto: della prima parte, s’intende.


Note

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