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L’assurdo
Ironie Lettere di commiato

L’ASSURDO


Bisogna dire, mia buona amica, che io ho proprio la mano disgraziata. Mentre mi cullavo nella dolce lusinga d’avere riacquistato la sua benevolenza e d’essere riuscito a farle dimenticare non solo i torti che ho potuto commettere nel corso di questa nostra corrispondenza, ma perfino l’origine prima del suo cruccio, cioè le mie teorie sull’amore, ecco improvvisamente ridestarsi più acre che mai il suo sdegno, eccomi nuovamente segno della sua severità!

Pare, infatti, che fra i moltissimi capi d’accusa dei quali io ero chiamato a rispondere, ella avesse finora dimenticato il più grave di tutti, e che una mia imprudenza glie l’abbia rammentato ad un tratto. L’argomento dell’accusa è «l’incredibile scetticismo» col quale io sostengo che la passione più grande, più forte, veramente sovrana ed imperitura non è l’amore ma l’amor proprio; e che l’amore non è altro se non un caso dell’amor proprio, cioè, sono sue parole, «dell’arido, dello sterile, dell’ingrato, del volgare, dello spregevole egoismo!» Il suo sdegno è tanto, che ella mi «vieta» di replicare, d’insistere, di comprovare le mie teorie!

Non abbia paura. Se anche ella non me l’avesse inibito, io sarei rimasto zitto. Poichè le dimostrazioni dei rapporti nei quali stanno l’amore e l’amor proprio, cioè l’istinto della riproduzione e l’istinto della conservazione dai quali le due passioni reciprocamente dipendono, non l’hanno persuasa, anzi l’hanno offesa, sarebbe inutile ricominciarle; io non potrei se non trascriverle tali e quali, cosa che finendo di disgustar lei, non divertirebbe molto neanche me. Tuttavia, se ella vorrà un momento, non dico placarsi, ma rammentarsi che agli accusati dei crimini più spaventevoli è pur concesso il diritto della difesa, mi accorderà un momento la parola perchè io dica una cosa soltanto. E questa cosa è la seguente: ella ha ragione di sdegnarsi; dico: ha ragione e, se me lo permette, soggiungo che mi sdegno anch’io. Però, mentre ella se la prende con me, bisognerebbe invece che ella ed io insieme e tutti quanti siamo ad una voce, ce la prendessimo con la vita, con la natura, con quella Necessità dalla quale le cose sono state ordinate.

Ella ha tanto ingegno e tanta esperienza da sapere che il predominio dell’amor proprio o egoismo sopra ogni altra passione non ha bisogno d’esser dimostrato filosoficamente, psicologicamente o fisiologicamente: basta affacciarsi nella via, guardarsi attorno, porgere l’orecchio, per vedere e sentire che gli uomini non obbediscono ad altro fuorchè all’interesse proprio. Questa verità è ovvia, ma è pure triste, amara, incresciosa. L’egoismo è basso, chiuso, inesorabile; noi vorremmo che al suo posto stessero il nobile sacrificio, la pietà larga, la carità generosa. Come fare per ottenere questa sostituzione? Potremo noi sperare che gli esempii, le predicazioni, gl’incitamenti assidui e pazienti modificheranno la natura umana e faranno nascere uomini impastati a un modo diverso dall’attuale? Questa speranza è, pur troppo, vana. E ancora, pensandoci bene, se noi potessimo modificare l’ordine al quale obbediamo, ci converrebbe poi veramente modificarlo?... Perchè mai l’egoismo ci pare ignobile e il sacrifizio nobilissimo, se non appunto perchè qualunque uomo può essere, anzi è egoista, come ogni animale che bada a sè stesso; mentre soltanto uno sforzo difficile e penoso permette ad alcuni, ai più forti, ai migliori, di operare contrariamente all’istinto? La parola raro ha dunque due significati che sembrano diversi ma sono infatti intimamente connessi: una cosa è rara, cioè preziosa appunto perchè è rara, cioè infrequente. Se i diamanti fossero comuni quanto i sassi, che cosa varrebbero? Se la legge naturale fosse quella dell’altruismo, se tra il bene proprio e quello del simile ciascuno preferisse di procacciar sempre quello del simile, dove sarebbe più il merito del sacrifizio? In un mondo dove questa fosse la regola, i migliori uomini, possiamo esserne certi, sarebbero quelli che pensassero un poco a sè stessi; e mentre da noi s’innalzano monumenti a Pietro Micca, là si tramanderebbe ai posteri l’effigie di chi, dinanzi al pericolo, se l’è data a gambe...

Zitta! Zitta! Non aggiungo altro, se no mi vedo perduto. Torniamo piuttosto all’amore... Senza alcun dubbio, se l’impero dell’amor proprio è autocratico e tirannico sopra tutte le altre passioni, l’amore soltanto potrebbe ridurlo a più miti consigli e costringerlo a concedere una qualche carta costituzionale. L’amore, infatti, riesce spesso in quest’opera, e noi vediamo che i più induriti egoisti guariscono del loro vizio ed aprono il cuore a sentimenti più generosi per opera del giovane iddio. Quando noi non amiamo nessuno amiamo noi stessi; quando amiamo un’altra persona, l’amore di noi può essere ed è tante volte messo da parte. Il merito dei sacrifizii d’amore non è dunque un poco discutibile? Siccome la mia felicità consiste nel far felice la persona che amo, è troppo naturale che io lavori a farla felice, anche a mie spese. Ma io amante, voglio il piacere della persona amata e il mio proprio insieme; e se questi due piaceri sono conciliabili, se li posso ottenere ad una volta, la felicità è massima; quando invece tra il mio piacere e quello della persona amata c’è contrasto, l’infelicità è senza fine. E disgraziatamente non c’è bisogno di dire che l’accordo degli interessi è molto più raro che non il loro conflitto. Disgraziatamente ancora, comunque il conflitto finisca, il danno è inevitabile: se faccio vincere l’interesse dell’altro a scapito del mio, me ne pento e mi giudico debole e sciocco; se vince il mio, me ne pento egualmente, giudicandomi duro ed ingrato...

Come mai siamo venuti a discutere di queste cose? Ah, ecco, rammento: per ciò che le narrai l’ultima volta. Un amante abbandonato, che vuole e non può guarire dell’amor suo perchè spera piuttosto, anzi arde di riottenere l’amore che gli fu sottratto, guarisce improvvisamente appunto quando l’ottiene! La soddisfazione dell’amor proprio è pertanto fatale all’amore. Si potrebbe vedere qui una graziosa assurdità, se appunto il predominio dell’egoismo non spiegasse logicamente l’apparente controsenso. Di controsensi ancora maggiori non mancano gli esempii. Il conflitto inestinguibile tra l’amore e l’amor proprio genera assurdità delle quali non solamente si sdegnano gli spettatori indifferenti o i giudici; ma anche, e più di tutti, le stesse persone nelle quali si producono. Io ne so una che mi pare veramente straordinaria per la sottigliezza dell’argomento egoistico e che prova quanta parte abbia la vanità nell’amore e come l’amore muore quando la vanità non è più contentata.

— Bisogna pure riconoscere, — mi narrò una volta una persona, — che noi siamo fatti a un modo assai strano e che, se la felicità ci sfugge, il massimo ostacolo al suo conseguimento procede da noi stessi, dalle intolleranze, dalle contraddizioni di questa nostra inesplorabile natura.... Io v’ho ben detto che l’amore di quella donna fu per me, in un periodo molto oscuro della mia esistenza, un divino nepente, un elisir di vita, la fonte deliziosa alla quale si disseta avidamente l’arso pellegrino che già stava per accasciarsi sull’arena scottante, in attesa di entrare nell’Oasi eterna ed infinita. Quando io paragonavo l’uomo nuovo che quella passione aveva fatto di me, al lamentabile personaggio antico, dal cuore sanguinante, dallo spirito ottenebrato, dalle energie distrutte, io sentivo, sì, dilatarmi il petto come nel respirare l’aria purissima d’una vetta alpina dopo aver traversato una paludosa maremma: però, più forte della gioia era sempre la paura che quell’incredibile metempsicosi si risolvesse in un fatale ritorno alla sciagurata esistenza di prima. Dipendeva forse da me l’impedirlo? Se quella donna che era tutto il mio bene sulla terra non m’avesse voluto più, avrei forse potuto arrestare la nuova rovina?... Questo io le dicevo sovente. Nelle ore radiose che sole misuravano il tempo per noi, quando io non potevo dubitare d’una realtà prodigiosa più d’ogni chimera, quando la tenerezza diventava uno struggimento al quale le carezze non bastavano più, ma che aveva bisogno di traboccare in pianto, io le dicevo, guardandola negli occhi, tenendola per mano: «Se un giorno cesserai d’amarmi, tu me lo dirai, è vero? Non temere, sai, ch’io mi ribelli, ch’io ti importuni, ch’io ti minacci. Accetterò tutto da te. Non v’è parola uscita dalle tue labbra che non sia cara e benedetta, degna di sommessa obbedienza. Vorrà dire che quel giorno crederò di destarmi dopo aver fatto un bel sogno, uno di quei rosei sogni che lasciano per lungo tempo l’anima letificata e quasi fragrante. Riconoscerò che non si può sognar sempre, vedrai che me ne farò una ragione. Ma tu mi confesserai tutto lealmente? Non farai come le altre, tu che sei dalle altre tanto diversa; non farai come quelle che hanno mentito, per innata malvagità, o per una falsa compassione più crudele, nei suoi effetti, dell’odio feroce?...» Allora, tentando di soffocare quelle dolenti parole, annodandomi le braccia intorno al collo, con voce rotta dai singhiozzi, ella protestava amaramente, mi diceva che io non avevo il diritto di sospettar di lei, di farla soffrir così; e le sue lacrime, si mescolavano alle mie — dolcissime lacrime, rugiada benefica che irrorava i cuori innamorati e vivificava il fiore della nostra passione. Ma con gli sguardi chinati e intensamente fissi in un punto, a voce bassa, quasi parlando tra sè, ella soggiungeva che io stesso avrei piuttosto cessato di amarla.... Ah, i sorrisi che mi salivano alle labbra! Le sfide superbe ch’io lanciavo al tempo, alla vita, alla morte! Io lasciarla? Ma il naufrago perduto in mezzo al mare procelloso lascia forse la tavola alla quale gli è riuscito aggrapparsi? Ma sapeva ella soltanto che cosa fosse per me l’amor suo, il prezzo che io davo alla sua vista soltanto; il moto di superbia che mi sollevava sopra tutta l’umanità al solo pensiero che ella si fosse accorta di me?... Da che forza non mi sentivo animato! Come guardavo sicuramente all’avvenire... E come m’ingannavo!

«Voi che sapete leggere nel vostro pensiero, che non soffrite più di vertigini nel discendere in fondo all’abisso della coscienza, che non avete paura di riconoscerne le più tenebrose latebre, comprenderete ciò che vi dirò. Quello spirito di emulazione e di sacrifizio che non lasciava ammettere a ciascuno di noi la possibilità di stancarsi, ma che ci dava l’ostinata previsione dell’abbandono che avremmo sofferto, nascondeva un suggerimento dell’egoismo, significava che ciascuno di noi si credeva più capace d’amore dell’altro, più sincero nei suoi affetti, più generoso e in certo modo più degno... E veramente quando io mi guardavo intorno, quando vedevo gli altri uomini da cui ella era circondata, pensavo, sì, nonostante la fiducia che le dimostravo, che ella ne avrebbe potuto notare qualcuno. Provai più d’una volta i primi morsi della gelosia, ma le nubi che minacciavano la serenità del mio cielo spirituale si dissiparono tosto. Per una ragione od un’altra, nessuno di quegli uomini era molto pericoloso; io mi sentivo, ed ella stessa mi diceva, con quell’accento di sincerità che non si finge, superiore a tutti coloro.

«Un giorno, però, apparve uno dal quale quella specie di sesto senso che ci fornisce le così dette intuizioni, mi avvertì di guardarmi. Nonostante le persuasioni dell’amor proprio, io riconobbi con una stretta al cuore che quell’uomo valeva più di me. Sotto qualche aspetto io mi sentivo ancora per lo meno eguale a lui, ma egli aveva vantaggi incontestabili: era più giovane, aveva fatto parlare di sè come d’un ingegno artistico pieno di promesse, e — circostanza che doveva agire più d’ogni altra sullo spirito di quella donna — era stato più fortunato di me nell’amore. Io l’avevo sedotta per i miei dolori, ma le fortune di lui dovevano ben altrimenti far lavorare la sua imaginazione. E col cuore sempre più chiuso, riconoscevo che l’effetto temuto si produceva... Ora bisogna che io insista un poco su questo punto, perchè non comprendiate più di quel che dico. L’amore di lei per me non era già intepidito, ella me ne dava prove sempre più eloquenti, nè io avevo assolutamente nulla da rimproverarle; ma da certe domande che mi faceva intorno a quell’uomo, da una certa espressione che il suo sguardo prendeva quando si parlava di lui, da certi altri segni ancora più tenui, comprendevo che quella figura s’imponeva all’attenzione di lei. In una altra età, o più semplicemente in altre condizioni dell’animo, non avrei forse neppur notato quei segni; ma uscendo da prove funeste, con la dolorosa esperienza dei tristi processi sentimentali che distaccano lentamente un’anima da un’altra, io non potevo negar valore a quei sintomi. Se quell’uomo avesse tentato di esercitare attivamente la propria seduzione, che cosa sarebbe avvenuto?... Io non osavo rispondere; vedevo bene però che la mia pace, la mia fortuna, dipendevano da questo: che egli non facesse nulla per portarmela via.

«E questo appunto non era da sperare. Che cosa poteva impedirgli di tentar l’avventura? Non aveva nessun dovere verso di me: ci conoscevamo da un pezzo, ma senz’essere quel che si dice amici — e quand’anche!... L’idea che quella donna non era libera, la passione della quale tutti mi sapevano oggetto avrebbe potuto arrestare ogni altro — fuorchè lui. Egli aveva le teorie dei conquistatori di mestiere, che deridono la passione, disistimano le donne, le credono capaci di tutto — ragione per la quale esse li ammirano... Poi, egli doveva aver coscienza dei suoi vantaggi su me; poi, con la sua esperienza di queste cose, una visita di cinque minuti aveva dovuto bastargli per comprendere di non essere il primo venuto per lei...

«Imaginate dunque la tortura alla quale fui posto? Se qualcosa di fatale si fosse compiuto, se avessi scoperto che quella donna era già sua col cuore, non so quanto avrei sofferto, ma certo mi sarei rassegnato. Però l’idea che era sempre possibile impedire la mia rovina mi metteva la febbre. Sarebbe stato da stolto fare un’accusa a lei dell’attenzione che quell’uomo sapeva accaparrarsi; io ero in presenza di un fatto umano e naturale, innocente e forse ancora incosciente; con grande probabilità, se egli l’avesse insidiata, ella avrebbe potuto resistere e trionfare. Ma io non volevo neppure che ella fosse posta alla prova!

«Reprimendo, adunque, l’ansietà che mi divorava, ricorrendo a sottili artifizii, io cercavo di sapere se quell’uomo si mostrava assiduo presso di lei. Era stato a trovarla due o tre volte, a lunghi intervalli; una sera, al teatro si presentò nel suo palco e vi restò durante un intermezzo; poi non si fece più vedere. Ed invece di sedarsi, la mia inquietudine si raddoppiava. Voi sapete, infatti, che uno dei mezzi ai quali i seduttori ricorrono frequentemente e con felice successo, è quello di mostrarsi indifferenti, di fare i difficili, di fingersi lontani dallo scopo verso il quale, invece, tendono con tutti i loro sforzi. Metteva egli dunque in opera un calcolo raffinato? La trascurava per farsi desiderare di più?... Non potendo altrimenti scoprire il suo giuoco, cercai di lui, lo vidi più spesso di prima. Un giorno che eravamo insieme, egli mi disse che andava via, che sarebbe stato molti mesi lontano.

«Non dovevo rassicurarmi? Al suo posto, se avessi desiderata quella donna, avrei potuto allontanarmi da lei? Supporre che il calcolo durasse ancora era un po’ difficile; e il calcolo poteva anche essere sbagliato, produrre effetti del tutto contrarii! Nondimeno, durante la sua assenza, la mia tranquillità non fu mai piena: io prevedevo nuovi tormenti per il suo ritorno. Tornò, e le fece una sola visita in tre mesi. Un bel giorno una notizia scoppiò come una bomba; egli era scomparso con una signora della nostra società.

«Avrei dovuto trarre un sospiro di liberazione, — è vero? — e lo trassi infatti. Però, in fondo alla mia coscienza, ma proprio nel fondo estremo dove non arrivava alcun riflesso della luce superiore, avveniva qualcosa d’imprevisto che metteva in ogni mio pensiero come un lievito di scontento: un’assurdità che mi colmava di stupore. A poco per volta le tenebre si diradarono intorno a quella misteriosa operazione. Io consideravo, da una parte, il mio sentimento per quella donna, il valore inestimabile che avevo attribuito all’amor suo, l’inaudita fortuna della quale m’ero creduto segno, esaltandola continuamente, dubitandone perfino talvolta. Dall’altra parte stava il fatto che egli non aveva cercato di rubarmela, quantunque facesse il mestiere del seduttore, quantunque non mi dovesse nulla, quantunque l’impresa non gli dovesse sembrar disperata. Perchè, dunque? Evidentemente, perchè quell’impresa non lo tentava, perchè quella donna non era oggetto del suo desiderio. Ora l’idea che un conoscitore come lui non apprezzasse la creatura in cui io avevo riposto tutto il mio vanto, tutto il mio orgoglio, il cui possesso mi aveva fatto credere oggetto dell’invidia del mondo — questa era l’origine del mio scontento. Avrei dovuto esultare vedendo allontanarsi un pericolo, e invece mi sentivo umiliato scoprendo che al mio concetto intorno a lei non partecipava chi gli avrebbe conferito autorità. Se egli l’avesse desiderata avrei sofferto le pene dell’inferno; perchè la sdegnava ella quasi perdeva ai miei occhi una parte del suo valore, io cominciavo a dubitare d’averla posta più in alto che non meritasse e d’essermi pertanto abbassato un po’ troppo...

«In quel momento non cessai certo d’amarla, ma fu questo il primo sintomo d’una lenta evoluzione che s’operò nel mio spirito e che mi tolse finalmente quella donna dal cuore!...»

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