Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Traduzione dall'inglese di A.C. Rossi (1922)
1844
Questo testo fa parte della raccolta Perdita di fiato (Raccolta)




Gli Occhiali.




Molti anni fa, era di moda il mettere in ridicolo l’amore «a colpo di folgore»; ma coloro che pensano, come coloro che sentono, profondamente, ne hanno sempre sostenuta la reale esistenza. E in realtà le scoperte moderne nel campo di quel che si potrebbe definire magnetismo morale, o estetica magnetica, fanno apparire probabile che i più naturali e di conseguenza, i più intensi degli affetti umani son quelli che sorgono nel cuore come per una attrazione elettrica; in una parola, che i legami spirituali più ardenti e più duraturi sono quelli che furono saldati da uno sguardo. La confessione che mi dispongo a farvi aggiungerà un esempio di più ai già quasi innumerevoli che provano la verità di questo asserto.

Il mio racconto vuole che io sia alquanto minuzioso. Io sono ancora molto giovane, non avendo raggiunti ancora i ventidue anni. Porto ora un nome molto comune e piuttosto plebeo. Mi chiamo Simpson. Dico «ora» perchè è solo da poco tempo che mi chiamo così, avendo adottato legalmente questo cognome nell’annata scorsa, onde entrare in possesso di una cospicua eredità lasciatami da un lontano Adolfo Simpson. Era clausola condizionale del legato che io prendessi il nome del testatore — il nome di famiglia, non quello personale; il mio nome proprio è Napoleone Bonaparte, o, per meglio dire, sono questi il mio primo e secondo nome.

Adottai il nome di Simpson con qualche riluttanza, poichè dal mio vero patromico, Froissart, mi veniva un certo orgoglio, perdonabilissimo mi sembra, data la sicurezza ch’io avevo di poter tracciare la mia ascendenza sino all’immortale autore delle Cronache. E giacchè stiamo parlando di nomi, permettetemi di segnalarvi una singolare coincidenza di suoni nei cognomi di alcuni dei miei antecessori immediati. Mio padre era un Monsieur Froissart di Parigi; mia madre, che egli sposò a quindici anni, era una Mademoiselle Croissart, figlia primogenita di Croissart, il banchiere; la cui moglie a sua volta, sposatasi a soli sedici anni, era la figlia maggiore di un certo Vittorio Voissart. Monsieur Voissart, caso singolarissimo, aveva sposato una Damigella dal nome quasi simile al suo — Mademoiselle Moissart. Anche costei era affatto bambina quando si sposò; sua madre pure, era appena quattordicenne quando salì l’altare. Questi matrimoni precoci sono frequenti in Francia. Eccovi, ad ogni modo, Moissart, Voissart, Croissart, e Froissart, discendenti gli uni dagli altri in linea diretta: ma il mio nome, come io ho detto, divenne Simpson per un atto legale, e con tanta ripugnanza da parte mia, che ad un certo momento, esitai forte ad accettare quel legato che conteneva una clausola tanto inutile ed urtante.

Quanto alle doti della persona, non ne sono affatto sprovvisto. Al contrario, è mia opinione di esser molto ben fatto, e di possedere un viso che su nove decimi del globo sarebbe chiamato avvenente. Di altezza misuro cinque piedi e undici pollici. Ho capelli neri e ondulati, e un naso discretamente bello. I miei occhi sono grandi e grigi, e sebbene, in realtà, essi siano deboli ad un grado estremamente incomodo, tuttavia il loro aspetto non lascia affatto sospettare alcunchè di simile. Nondimeno questa debolezza di vista mi è sempre stata di grave imbarazzo, ed ho avuto ricorso a ogni rimedio, tranne che al portar occhiali. Essendo giovane e di bell’aspetto, è naturale che ne abbia un sacro orrore e che abbia sempre risolutamente rifiutato di servirmene. Davvero non conosco nulla che alteri tanto la fisionomia d’una persona giovane, e che imprima alle fattezze una tale aria ipocritamente seria, quando non santimoniosa e decrepita. Il monocolo, d’altra parte, ha inequivocabilmente del vanesio e dell’affettato: dimodochè me la son cavata alla meglio sin qui senza ricorrere nè all’uno nè agli altri. Ma basta ormai di questi particolari del tutto personali, che, tutto sommato, hanno ben poca importanza. Mi contenterò di dirvi, ancora, che sono di temperamento sanguigno, violento, ardente, entusiastico, e che per tutta la mia vita sono stato un devoto ammiratore del bel sesso.


Una sera dell’inverno scorso entrai in un palco al Teatro P. in compagnia d’un amico, il Signor Talbot. Era una sera d’opera, e i cartelloni annunciavano uno spettacolo interessante, di modo che la sala era estremamente affollata. Arrivammo in tempo, tuttavia, per occupare i posti di prima fila che ci erano stati riservati e che raggiungemmo non senza difficoltà, lavorando di gomito.

Per due ore il mio compagno, che era un fanatico di musica, non distolse la sua attenzione dallo spettacolo; mentre lo nel frattempo mi divertivo ad osservare il pubblico composto quasi tutto dalla più eletta parte della cittadinanza. Assicuratomi di questo, stavo per accordare la mia attenzione alla prima donna, quando i miei sguardi furono arrestati ed avvinti da una figura in uno dei palchi privati, che era sin allora sfuggito alla mia osservazione.

Vivessi mill’anni, non dimenticherò mai l’emozione intensa colla quale contemplai quella figura. Era quella di una donna, la più squisita che mai mi fosse apparsa. Il suo viso rimase per parecchi minuti rivolto verso la scena, di modo che io a tutta prima non lo potei vedere, ma la linea era divina; nessun’altra parola varrebbe a dirne le proporzioni magnifiche; e anche l’espressione «divino» mi sembra, scrivendo, d’una ridicola insufficienza. Il fascino di una donna seducente, la magia della grazia femminile furono sempre forze alle quali mi trovai incapace a resistere, ma ora stava innanzi a me la grazia personificata, incarnata, il «bello ideale» delle mie più scapigliate ed entusiastiche visioni. La figura, che la conformazione del palco permetteva di vedere quasi per intero, era di altezza un poco superiore alla media e s’avvicinava al maestoso, senza giungervi del tutto. La perfetta pienezza e armonia della sua linea era deliziosa. La testa, di cui solo la parte posteriore era visibile, rivaleggiava pel suo profilo con quello della Psiche greca, e una vaporosa cuffia di gaze aèrienne le dava risalto, anzi che nasconderla, facendomi pensare al «ventum textilem» di Apuleio. Il braccio destro era abbandonato sul parapetto del palco, e la sua squisita simmetria mi penetrava sino all’ultima fibra. L’omero era drappeggiato in una di quelle maniche larghe ed aperte che sono oggi di moda, la quale scendeva poco al disotto de’ gomito. Sotto questa ve n’era un’altra di una materia leggerissima, aderente al braccio, e chiusa da un manichino di ricchi merletti che ricadeva graziosamente sulla mano rivelandone soltanto le dita delicate, su uno dei quali scintillava un diamante di straordinario valore. Un braccialetto ornato, a guisa di fermaglio, da una magnifica aigrette di pietre preziose metteva in pieno risalto la rotondità del polso che circondava, rivelando a chiarissime note, la ricchezza e il gusto ricercato di colei che lo portava.

Rimasi assorto in questa regale apparizione per una buona mezz’ora come fossi stato di colpo mutato in pietra; e provai pienamente in quel momento tutta la forza e la verità di quanto è stato detto o cantato riguardo all’«amore a colpo di folgore». I miei sentimenti erano affatto diversi da quelli provati sin allora in presenza anche delle più famose ed adorabili rappresentanti della bellezza femminile. Una simpatia d’anima a anima, inesplicabile e magnetica (poichè tale sono pur costretto a considerarla) sembrava avesse avvinto, non solo la mia vista, ma le facoltà tutte del mio spirito e del mio cuore, all’ammirevole oggetto che mi stava innanzi. Io vidi, io sentii, io ebbi la improvvisa certezza che ero profondamente, pazzamente, irrevocabilmente innamorato, e questo ancor prima di aver visto il viso della persona amata. Tanto intensa, invero, era la passione che mi consumava, che senza dubbio poco o nulla avrebbe perduto del suo fuoco se le fattezze, tuttora ignote, si fossero rivelate d’un carattere al tutto comune; tanto anormale è la natura del solo vero amore, l’amore a prima vista, e tanto poco dipende dalle circostanze esterne che solo in apparenza lo creano e lo governano.

Mentre ero così assorto nell’ammirazione di questa visione adorabile, un improvviso movimento tra il pubblico le fece volgere alquanto il capo dalla mia parte, così che potei vedere l’intero profilo del suo viso. La sua bellezza sorpassava ogni mia attesa e tuttavia v’era qualcosa che mi disilluse un poco, senza che sapessi definire bene di che si trattasse. Ho detto «disilluse» ma questa non è la parola esatta. I miei sentimenti furono nello stesso tempo tranquillati ed esaltati; avendo meno del trasporto e più di un calmo entusiasmo, di un riposo entusiastico. Questo stato d’animo veniva, forse, da un’aria matronale, e quasi di Madonna, del viso; ma tuttavia compresi subito che non poteva provenire soltanto da questo. V’era qualcos’altro qualche mistero che non mi riusciva di definire, una certa espressione della fisonomia che mi disturbava leggermente, pur aumentando a mille doppi il mio interesse. A dir vero, mi trovavo in quel preciso stato d’animo che rende un uomo giovane e sensibile capace di ogni sorta di stravaganze.


Se la dama fosse stata sola, sarei senza dubbio entrato nel palco e l’avrei avvicinata, sfidando ogni rischio; per fortuna era in compagnia di due persone; un signore e una donna estremamente bella e, secondo ogni apparenza, di qualche anno più giovane. Io volgevo nella mente mille progetti che mi potessero valere di essere presentato alla maggiore di queste due dame, o, almeno, pel momento, di contemplare più da vicino la sua bellezza. Avrei voluto mutare il mio posto con un altro più vicino a lei, ma l’affollamento del teatro me lo impediva; e d’altra pane le rigide leggi della moda avevano recentemente proibito in simile caso, l’uso del binoccolo — fossi stato fortuntato abbastanza da averne uno con me — ; ma così non era, e questo mi metteva alla disperazione.

Infine, pensai di rivolgermi al mio compagno.

«Talbot, dissi. Voi avete un binoccolo, mi pare. Datemelo un momento».

«Un binoccolo! no! cosa volete che faccia di un binoccolo!» e si volse di bel nuovo con impazienza verso il palcoscenico.

«Via, Talbot» seguitai, tirandolo per la spalla, datemi ascolto un momento. Vedete quel palco di proscenio? — quello! — no, l’altro. Avete mai visto una donna così adorabile?

«È bellissima, senza dubbio» rispose.

«Chi potrà mai essere?»

«Come, in nome d’ogni cosa angelica, non sapete dunque chi è? «Non conoscer colei vuol dire essere ignoto».» «È la famosa Madame Lalande, la bellezza alla moda par excellence, e colei che fa parlare di se tutta la città. È immensamente ricca, anche — è vedova, un ottimo partito: è appena arrivata da Parigi».

«La conoscete?»

«Ho questo onore».

«Volete presentarmi?»

«Certamente, col più gran piacere; quando?»

«Domani all’una verrà a prendervi al B.»

«Benissimo; e adesso, state zitto, se vi riesce».

Quanto a questo, fui ben forzato di seguire l’avviso di Talbot; poichè egli rimase ostinatamente sordo a ogni mia altra domanda, o insinuazione, e si occupò esclusivamente, per tutto il resto della serata, di quanto stava succedendo sulla scena.

Io intanto, tenevo gli occhi inchiodati su Madame Lalande, ed ebbi infine la ventura di poter vedere il suo viso perfettamente di fronte. Era d’una bellezza squisita: e questo, naturalmente, me l’aveva già detto il mio cuore, anche prima che Talbot mi avesse così bene informato; ma quel non so che di incomprensibile mi turbava tuttavia. Finii per concludere che i miei sensi erano influenzati da una certa aria di gravità, di tristezza, o più propriamente, di stanchezza, che toglieva alle fattezze qualcosa della loro giovinezza e freschezza, ma per irradiarle di una tenerezza e maestà serafiche, e quindi, pel mio temperamento entusiastico e romantico, di un interesse mille volte maggiore.

Mentre io così pascevo i miei occhi, mi accorsi con viva trepidazione, da un suo quasi impercettibile sussulto, che la dama si era improvvisamente accorta dell’intensità del mio sguardo. Pure, io ero assolutamente affascinato e non potei ritrarlo, nemmeno per un istante. Ella volse altrove il viso, e di nuovo non vidi che la linea scolpita del suo capo. Dopo qualche minuto, come fosse spinta dalla curiosità di vedere se ancora la guardavo, volse poco a poco il viso verso di me e di nuovo incontrò il mio sguardo infiammato. I suoi grandi occhi neri caddero di colpo, e un profondo rossore avvolse la sua guancia. Ma quale non fu la mia meraviglia al vederla non già volgere altrove come prima il capo, ma prendere invece alla cintura un occhialetto, alzarlo, accomodarlo, e guardarmi con questo, attentamente e deliberatamente, per lo spazio di alcuni minuti.

Il fulmine cadendo ai miei piedi non mi avrebbe più completamente stordito — stordito soltanto, non offeso nè disgustato al più piccolo grado; il che sarebbe certamente avvenuto se tale azione audace fosse stata commessa da qualsiasi altra donna. Ma tutto ciò era fatto con tanta tranquillità, tanta noncuranza, tanto distacco in una parola, con un’aria così evidente della più alta educazione, che non si avvertiva la minima traccia di sfrontatezza, ed i miei unici sentimenti furono l’ammirazione e la sorpresa.

Notai che, alzato l’occhialetto, era parsa contentarsi di un esame sommario della mia persona, e stava abbassando lo strumento quando, quasi colpita da una nuova idea, lo riprese, e continuò a fissarmi con attenzione marcata per alcuni minuti, cinque minuti almeno, ne sono sicuro.

Questo atto, estremamente singolare in un teatro americano, attrasse l’attenzione generale e provocò tra il pubblico un certo turbamento, un mormorio confuso, che mi riempì per qualche momento di confusione, ma che non produsse alcun effetto visibile sulla fisonomia di Mad. Lalande.

Soddisfatta la sua curiosità, se di curiosità si trattava, lasciò cadere l’occhialetto e rivolse tranquillamente la sua attenzione al palcoscenico, di modo che il suo profilo era volto verso di me, come prima. Continuai a fissarla senza tregua, benchè avessi pienamente coscienza di compiere un atto villano. Dopo un po’ vidi il suo capo lentamente e insensibilmente cambiar posizione; e dovetti presto convincermi che la dama, facendo vista di guardare la scena, in realtà mi stava osservando attentamente. È superfluo dire quale effetto questo contegno, da parte d’una donna così affascinante, producesse sul mio spirito eccitabile.

Dopo avermi scrutato così per forse un quarto d’ora, il bell’oggetto della mia passione si rivolse al signore che l’accompagnava e, mentre discorrevano mi avvidi, ai loro sguardi, che ero io il soggetto della loro conversazione.

Quando ebbe finito di parlare, Madame Lalande si volse di nuovo verso la scena, e per alcuni minuti parve assorta nella rappresentazione. Ma ecco che fui di nuovo gettato in un’agitazione estrema, nel vederla aprire, per la seconda volta, l’occhialetto che pendeva al suo fianco, squadrarmi come prima, e, senza badare al rinnovato mormorio dell’assemblea, esaminarmi da capo a piedi, colla stessa miracolosa compostezza che già precedentemente aveva tanto deliziato e confuso il mio spirito.

Questa condotta straordinaria, buttandomi in una eccitazione veramente febbrile, in un assoluto delirio d’amore, ebbe per effetto di rendermi audace, invece che di sconcertarmi. Nella pazza intensità della mia devozione, dimenticai tutto che non fosse la presenza ed il fascino maestoso della visione che occupava il mio sguardo. Attesi il momento favorevole, e quando mi parve che tutto il pubblico fosse assorto nello spettacolo, riuscii ad incontrare lo sguardo di Madame Lalande e, all’istante, le feci un leggero ma indubitabile inchino.

La vidi arrossire profondamente, distogliere gli occhi, guardarsi attorno lentamente e cautamente come per vedere se il mio atto temerario fosse stato osservato, ed infine inclinarsi verso il gentiluomo seduto accanto a lei.

Provai allora in modo bruciante il senso della sconvenienza commessa, e mi aspettai uno scandalo immediato: mentre una visione di pistole per l’indomani attraversava, rapida e sgradevole, la mia mente.

Fu con un senso di grande sollievo, tuttavia, che la vidi tosto porgere semplicemente al compagno un programma, senza parlare: ma il lettore potrà farsi una debole idea della mia meraviglia — del mio stupore profondo — dello smarrimento delirante del mio cuore e della mia anima, allorchè subito dopo, gettato di nuovo attorno uno sguardo furtivo, lasciò che i suoi occhi splendenti si arrestassero in pieno e fermamente sui miei, e poi, con un leggero sorriso che rivelò una linea brillante di denti di perla, fece col capo due distinti, profondi, e non equivoci cenni effermativi.

È inutile, senza dubbio, che mi soffermi a descrivere la mia gioia, i miei trasporti, la sconfinata estasi dei mio cuore. Se mai uomo fu pazza per l’eccesso della felicità, lo fui ben io in quel momento. Amavo. Era questo il mio primo amore — lo sentivo. Era un amore supremo, indescrivibile. Era «l’amore a colpo di folgore» ed allo stesso modo era stato apprezzato e ricambiato.

Ricambiato, dico. Come e perchè ne avrei dubitato un istante? Come interpretare altrimenti una simile condotta da parte di una donna tanto bella, tanto ricca, tanto evidentemente compita, d’una così raffinata educazione, di una posizione tanto eminente nel mondo, così interamente rispettabile sotto ogni rapporto quale certamente era Madame Lalande? Sì, essa mi amava, essa rispondeva al mio entusiastico amore con un entusiasmo altrettanto cieco, altrettanto deciso, altrettanto privo di calcoli, abbandonato e senza limiti che il mio!

Queste deliziose fantasticherie e riflessioni furono interrotte dalla caduta del sipario. Il pubblico si alzò; e subito sopravvenne l’abituale tumulto. Lasciai bruscamente Talbot, e cercai con ogni sforzo di aprirmi una strada onde avvicinarmi a Madame Lalande. Non vi riuscii, a motivo della folla, e rinunciando infine all’inseguimento, mi diressi verso casa, consolandomi di non aver potuto toccare nemmeno il lembo del suo abito, colla riflessione che l’indomani Talbot mi avrebbe presentato a lei in piena regola.

Questo indomani giunse finalmente; o, per meglio dire, il giorno albeggiò infine dopo una lunga e penosa notte di impazienza; e poi le ore sino alle «tredici» trascorsero a passo di lumaca, tetre, e innumerevoli. Ma persino Stamboul, come dicono, avrà una fine, e così giunse anche il termine di quella lunga attesa. L’ora battè, e l’ultima eco si smorzava appena quando entravo all’Hotel B — e chiedevo di Talbot.

«È fuori» rispose il domestico, che era il suo cameriere privato.

«Fuori!» risposi, indietreggiando di una mezza dozzina di passi; — lasciate che vi dica, il mio egregio giovinotto, che questo è perfettamente impossibile e inverosimile. Il signor Talbot non è uscito. Che volete dire?

«Nulla», rispose: «soltanto il signor Talbot non è in casa. Ecco tutto. È partito per S. subito dopo la colazione e mi ha lasciato detto che non tornerebbe in città prima di una settimana».

Ero pietrificato d’orrore e di rabbia. Tentai di replicare, ma la mia lingua rifiutò di compiere il suo ufficio. Infine girai sui tacchi, livido di collera, e dentro di me consegnando alle più remote regioni dell’Èrebo tutta la tribù dei Talbot. Era evidente che il mio ponderato amico, «il fanatico», aveva completamente dimenticato il suo appuntamento con me, l’aveva dimenticato al momento stesso in cui lo fissavamo. Non era mai stato osservatore scrupoloso della parola data. Non v’era rimedio; perciò, soffocando il mio sdegno come potevo, risalii cupamente lungo la strada, rivolgendo a ogni conoscente di sesso maschile in cui mi imbattevo delle futili domande riguardo a Madame Lalande.

Mi accorsi che tutti la conoscevano di fama: molti, di vista, ma, essendo nella città soltanto da qualche settimana, pochissimi potevano vantarsi di conoscerla di persona: ed anche questi, essendole ancora relativamente stranieri, non potevano, o non volevano, prendersi la libertà di condurmi da lei in visita per presentarmi formalmente. Mentre me ne stavo così, disperato, conversando con un trio di amici dell’oggetto che occupava tutto il mio cuore, avvenne che l’oggetto stesso ci passò accanto.

«Per la mia vita, eccola!» gridò uno.

«Che bellezza meravigliosa!» esclamò il secondo.

«Un angelo sceso in terra!» fu il grido del terzo.

Guardai; e in una vettura scoperta che s’avvicinò, passando lentamente oltre, vidi seduta l’incantevole apparizione della sera prima, accompagnata dalla dama più giovane, che aveva occupato un posto nel suo palco.

«Anche la sua compagna si conserva molto bene» disse quello dei tre che aveva parlato pel primo.

«Sorprendente» disse il secondo. «Ha ancora un’aria estremamente brillante; ma l’arte fa delle meraviglie. In fede mia, sta meglio che non cinque anni fa a Parigi. Una bella donna ancora; non vi pare Froissart? — Simpson, volevo dire».

«Ancora!» replicai «E perchè non lo sarebbe? Ma vicino della sua amica, sembra un lumicino in confronto dell’astro della sera, una lucciola comparsa ad Antares».

«Ha, ha, ha — caro Simpson, avete un dono meraviglioso per far delle scoperte; delle scoperte originali, volevo dire». E qui ci separammo, mentre uno dei tre si mise a canticchiare un allegro vaudeville, del quale afferai solo queste battute:

                    Ninon, Ninon, Ninon à bas
                    A’ bas Ninon De L’Enclos!

Durante questa breve scena, una cosa tuttavia mi aveva grandemente consolato, sebbene contribuisse a nutrire la passione dalla quale ero consumato.

Mentre la vettura di Madame Lalande scivolava accanto al nostro gruppo, mi avvidi che mi aveva ravvisato; non solo, ma mi gratificò anche del più serafico tra i sorrisi immaginabili, segno non dubbio che mi riconosceva.

Quanto all’esserle presentato, dovetti ben presto abbandonare ogni speranza, almeno sino al momento in cui Talbot pensasse bene di tornare dalla campagna. Nel frattempo frequentai con assiduità tutti i luoghi di divertimento più in voga, ed infine, in quello stesso teatro dove l’avevo vista per la prima volta, ebbi la suprema ventura di incontrarla, e di scambiare ancora con lei degli sguardi. Questo non accadde, tuttavia, che un paio di settimane dopo. Nell’intervallo avevo chiesto ogni giorno di Talbot al suo albergo, e ogni giorno l’eterno «non è ancora tornato» del suo domestico mi aveva gettato in un accesso di furore spasmodico.

Perciò, quella sera, ero in uno stato vicino alla follia. Madame Lalande, mi avevano detto, era parigina; era giunta di recente da Parigi. Non potrebbe accadere che ripartisse improvvisamente — che ripartisse prima del ritorno di Talbot? E non la perderei allora per sempre? Questo pensiero era troppo orribile per poterlo sopportare. Poichè la mia futura felicità era in giuoco, risolvetti di agire con virile decisione. In una parola, dopo la fine dello spettacolo, seguii la dama sino alla sua abitazione, rilevai l’indirizzo, e la mattina seguente le mandai una lunga ed elaborata lettera nella quale versai tutto il mio cuore.

Scrissi con ardire, liberamente; in una parola, scrissi secondo dettava la mia passione. Non le nascosi nulla; le parlai persino di quel mio leggero difetto. Feci allusione alle circostanze romantiche del nostro primo incontro, e persino agli sguardi che avevamo scambiati. Mi spinsi sino a dirle che mi sentivo sicuro del suo amore; allegando questa sicurezza insieme all’intensità della mia devozione, a scusante della mia condotta altrimenti imperdonabile. In terzo luogo, parlai del timore che aveva di vederla lasciare la città prima di aver l’occasione di esserle presentato formalmente. Conclusi la lettera più pazzamente entusiastica che mai sia stata scritta, con una franca esposizione delle mie condizioni sociali e finanziarie e coll’offerta del mio cuore e della mia mano.

Attesi la risposta in una specie d’agonia. Dopo un tempo che mi parve un secolo, giunse.

Sì, giunse realmente. Per quanto romantico tutto questo possa parere, ricevetti realmente una lettera da Madame Lalande — la bella, la ricca, la idolatrata Madame Lalande.

I suoi occhi, i suoi magnifici occhi, non avevano mentito. Da vera francese quale ella era, ubbidiva ai liberi dettami della sua ragione, ai generosi impulsi della sua natura, sdegnando la convenzionale «pruderie» del mondo. Non disprezzava le mie proposte. Non si chiudeva nel silenzio. Non mi rimandava la mia lettera senza nemmeno aprirla. Ma anzi, mi mandava in risposta una lettera tracciata dalle sue dita squisite, che diceva così:


«Monsieur Simpson vorrà perdonare se non scrivo la bella lingua della sua contrada come dovrebbe. Da ultima data soltanto io sono arrivata, e non tuttavia ho avuto l’apportunità per — l’étudier.

Dopo queste scuse per la maniére, dirò ora, hélas. che Monsieur Simpson non ha indovinato che troppo vero. Dunque ho bisogno di dire davantaggio? Hélas, non dunque ho detto il troppo»

«Eugénie Lalande».


Baciai un milione di volte queste righe tanto nobilmente concepite, e commisi senza dubbio a cagion loro mille altre stravaganze di cui non conservo il ricordo. E intanto Talbot non tornava.

Ahimè! Se avesse potuto farsi la più vaga idea delle sofferenze che la sua assenza procurava al suo amico, la sua compassionevole natura non l’avrebbe forse spinto a volare senza indugio al mio soccorso? Eppure non arrivava. Gli scrissi. Mi rispose che era trattenuto da affari urgenti, ma che sarebbe tornato presto. Mi chiedeva di non essere impaziente, di moderare i miei trasporti, di leggere dei libri calmanti, di non bere nulla di più alcoolico dello Hockheim, e di invocare al mio soccorso le consolazioni della filosofia. L’idiota! Se non poteva venire lui stesso, perchè, in nome di tutto ciò che è logico, non mi mandava una lettera di presentazione? Gli scrissi di nuovo, supplicandolo di mandarmene una senza indugio. La lettera mi venne rimandata colla seguente soprascritta a matita, dal suo domestico. Come si vede, il furfante aveva raggiunto il suo padrone in campagna.


««È partito ieri da S. per destinazione ignota — non ha detto dove andava, nè quando sarebbe tornato; cosicchè ho creduto meglio rimandare la lettera, riconoscendo la sua calligrafia, e sapendo come lei abbia sempre aliquanto fretta.

Vostro devotissimo

Stubbs.          


Dopo questo colpo, è superfluo il dire che consacrai alle divinità infernali domestico e padrone insieme. Ma l’irritarmi non m’era di utilità alcuna, e di nessuna consolazione il lamentarmi.

Mi restava però un’altra risorsa, cioè la mia innata audacia; che mi aveva tanto ben servito sin’allora, e alla quale risolsi di affidarmi pel raggiungimento dei miei fini. D’altra parte, dopo la corrispondenza scambiata, quale infrazione alle convenienze formali, sempre nei limiti permessi, poteva rischiare di parer indecorosa agli occhi di Madame Lalande? Dopo l’affare della lettera, avevo sorvegliato abitualmente la sua casa, e scoperto in tal modo che, sull’imbrunire, soleva passeggiare, seguita soltanto da un negro in livrea, in un viale pubblico dominato dalle sue finestre. Qui, tra i cespugli folti ed ombrosi, nel grigio crepuscolo d’una dolce sera di mezza estate, attesi il momento opportuno e l’avvicinai.

Per ingannare meglio il domestico di scorta, le andai incontro coll’aria tranquilla di una vecchia conoscenza di famiglia. Con una presenza di spirito tutta parigina, essa si adattò senz’altro alla situazione e mi tese, per salutarmi, la più affascinante delle manine. Il domestico restò discretamente indietro; mentre noi, i nostri cuori pieni sino a scoppiare, discorrevamo a lungo e liberamente del nostro amore.

Siccome Madame Lalande parlava inglese ancor meno correntemente che non lo scrivesse, la nostra conversazione si svolse necessariamente in francese.

In questa lingua soave, tanto adatta al linguaggio della passione, mi abbandonai all’impetuoso entusiasmo della mia natura e con tutta l’eloquenza di cui disponevo la supplicai di consentire a un matrimonio immediato.

Essa sorrise di questa mia impazienza; tirò in ballo la vecchia storia del decoro, questo spauracchio che distoglie tanta gente dalla felicità sin quando l’occasione è fuggita per sempre.

Io ero stato molto imprudente, osservò, a far noto a tutti i miei amici il mio desiderio di conoscerla, facendo così sapere che non v’ero ancor riuscito; in tal modo era dunque impossibile celare la data della nostra prima conoscenza. E mi fece notare, arrossendo, quanto la data stessa fosse recente. Sposarsi subito era cosa sconveniente, indecorosa. «outrée» secondo la sua parola. Disse tutto questo con una graziosa ingenuità che mi rapiva pur attristandomi e convincendomi nello stesso tempo. Si spinse anzi sino ad accusarmi, scherzando, di imprudenza, di temerità. Mi pregò di ricordarmi che in realtà io non sapevo chi lei fosse: quali le sue prospettive, le sue relazioni, la sua posizione nella società. Mi chiese, ma con un sospiro, di riflettere ancora sulla mia proposta, e chiamò il mio amore un’infautuazione, un’ubbia, un capriccio o una fantasia passeggiera, una instabile e fuggitiva creazione della immaginazione piuttosto che del cuore. Questo ella diceva mentre le ombre del fosco crepuscolo si addensavano sempre più oscure attorno a noi — ed ecco, che con una dolce stretta della sua mano di fata, rovesciava, in un solo dolcissimo istante, tutto l’edificio di argomentazioni da lei innalzato.

Risposi del mio meglio: dissi cose che solo un innamorato poteva trovare. Parlai a lungo e con insistenza della mia devozione, della mia passione, della sua bellezza estrema, della mia entusiastica ammirazione. Come conclusione, mi soffermai, con un’energia convincente, sui pericoli che minacciano il corso dell’amore — di quel vero amore che non scorse mai pianamente — e ne dedussi il pericolo manifesto del prolungare questo corso più del necessario.

Quest’ultimo argomento sembrò infine addolcire il rigore della sua determinazione; e la indusse a cedere; ma c’era tuttavia un ostacolo, che, a suo dire, avevo certamente dimenticato di prendere nella dovuta considerazione; si trattava di un punto molto delicato, specialmente per una donna: parlandone, si accorgeva di dover far sacrificio dei suoi sentimenti: ma tuttavia, per me, ogni sacrificio valeva la pena d’esser fatto. Alludeva all’argomento dell’età. Mi rendevo conto — mi rendevo esattamente conto della differenza d’età che ci separava? Che l’età del marito superasse di alcuni anni — anche di quindici o venti quella della moglie, il mondo lo considerava cosa ammissibile, e, per il vero, anche appropriata; ma era sempre stata sua ferma convinzione che gli anni della moglie non dovessero sorpassare quelli del marito. Una sproporzione così innaturale era origine ahimè, troppo frequente d’una esistenza infelice. Ora, mentre lei sapeva che io avevo solo ventidue anni, io al contrario non m’immaginavo che gli anni della mia Eugenia andavano molto al dilà di quella cifra.

In tutto questo v’era una tale nobiltà d’animo, un tale candore dignitoso, che mi deliziò, che mi incantò, che ribadì per sempre le mie catene.

Non potei frenare gli eccessivi trasporti del mio animo:

«Mia dolcissima Eugenia» gridai, «di che mai andate discorrendo! La vostra età supera in certa misura la mia. Ebbene? I costumi del mondo sono altrettante follie convenzionali. Per chi ama come noi ci amiamo, in che mai un’anno differisce da un’ora? Ho ventidue anni, dite: ve lo concedo, ma, in realtà, potreste dire senz’altro ventitrè. Ora quanto a voi, mia carissima Eugenia, non credo possiate contarne più di.... non credo più di.... più di... di... di...

A questo punto m’arrestai per un momento nell’attesa che Madame Lalande m’interrompesse dicendomi li numero dei suoi anni.

Ma una francese è di rado franca, e ha sempre, per rispondere a una domanda imbarazzata, qualche piccola trovata ingegnosa. In questo caso Eugenia, che da qualche momento sembrava cercasse qualcosa nel suo seno, lasciò infine cadere sull’erba una miniatura, che raccolsi immediatamente, porgendogliela.

«Tenetela!» mi disse, con uno dei suoi più incantevoli sorrisi «Tenetela come un ricordo, un ricordo di colei che vi è riprodotta in modo troppo lusinghiero. Inoltre, sul rovescio di questo ciondolo potrete forse scoprire quell’informazione che sembrate desiderare.

Ora sta certamente facendosi troppo buio, ma la potrete esaminare a vostro agio domattina. Intanto, mi scorterete sino a casa per questa sera. I miei amici hanno intenzione di tenere un piccolo lever musicale, e vi posso promettere degli ottimi cantanti. Noialtri francesi non abbiamo affatto tutti gli scrupoli di voi americani, e non avrò nessuna difficoltà a farvi scivolar dentro, presentandovi come una vecchia conoscenza.»

Con questo, prese il mio braccio, e l’accompagnai sino a casa. Era un palazzo di un lusso estremo, e a quanto mi sembrò, arredato con gusto. Quanto a questo, però, non ho titoli per giudicare; perchè era ormai buio quando arrivammo; e nelle case della miglior società americana le lampade, nel calor dell’estate, fanno raramente apparizione a quest’ora, la più piacevole della giornata. Dopo circa un’ora dal mio arrivo, per certo, una sola lampada centrale velata, era accesa nel salotto principale; e potei così vedere che questa sala era arredata con singolare buon gusto, e direi anzi con splendore; ma le altre due camere che formavano suite, nelle quali si riunì quasi tutta la compagnia, rimasero per tutta la sera in una piacevolissima penombra. È questa un’usanza eccellente, che almeno offre agli ospiti la scelta della luce e dell’ombra; e i nostri amici di la dell’oceano farebbero bene ad adottarla immediatamente.

La sera così trascorsa fu senza paragone la più deliziosa della mia vita. Madame Lalande non aveva esagerato le capacità musicali dei suoi amici; e non avevo mai udito cantare così in nessuna casa privata, se non a Vienna. Gli esecutori strumentali erano parecchi e di talento superiore: la parte vocale fu eseguita quasi tutta da Signore e Signorine, e nessuna cantò men che bene. Infine quando l’uditorio chiamò a gran voce «Madame Lalande» questa si alzò subito, con semplicità e senza alcuna affettazione, dalla chaise-longue sulla quale era seduta al mio fianco, e accompagnata da uno o due Signori, e da quella sua amica della serata d’opera, si diresse verso il pianoforte principale. Io stesso l’avrei accompagnata volentieri, ma sentii che date le circostanze della mia presentazione nella casa, valeva meglio che restassi inosservato nel mio angolo. Fui così privato del piacere di vederla, se non di sentirla, cantare.

Il suo canto produsse sull’uditorio un’impressione direi quasi elettrica, ma l’effetto che ebbe su di me era qualcosa di più ancora. Non saprei come descriverlo adeguatamente. Esso sorgeva in parte, senza dubbio, dai sentimenti d’amore che mi penetravano, ma soprattutto dalla mia convinzione della sensibilità estrema di colei che aveva cantato. Nessun mezzo d’arte saprebbe dare a un’aria o ad un recitativo un’impressione più appassionata di quanto ella non avesse fatto. Il modo nel quale cantò la romanza dell’Otello, il tono con cui pronunciò le parole, «Sul mio sasso» nei Capuleti risuona ancora nella mia memoria. I suoi toni bassi erano assolutamente miracolosi. La sua voce abbracciava tre ottave complete, stendendosi dal mi di contralto al mi di soprano leggero e, sebbene potente abbastanza da riempire il San Carlo, eseguiva colla più minuta precisione, ogni passaggio difficile di composizione vocale, scale ascendenti e discendenti, cadenze, fioriture. Nel finale della Sonnambula, essa creò un effetto straordinario alle parole:

                    Ah! non giunge uman pensiero
                    Al contento ond’io son piena.

ove, imitando la Malibran, essa modificò la frase originale di Bellini, facendo scendere la sua voce sino al fa in chiave di tenore per poi, con una rapida transizione, prendere il fa sopra la tripla sbarra, saltando un intervallo di due ottave.

Alzandosi dal pianoforte dopo questi miracoli di esecuzione vocale, ella riprese il suo posto vicino a me, ed io le espressi, nei termini del più profondo entusiasmo, il mio supremo godimento. Non dissi nulla della mia sorpresa, e tuttavia ero genuinamente sorpreso; perchè una certa debolezza, o piuttosto una specie di tremula indecisione di voce nella conversazione ordinaria, mi aveva disposto a supporre che non dovesse possedere nel canto alcuna speciale abilità.

La nostra conversazione fu lunga, seria, ininterrotta, e libera da qualsiasi riserva. Mi fece raccontare molti episodi della mia vita passata, e ascoltò con attenzione ansiosa ogni parola della mia narrazione. Non nascosi nulla — sentii che non avevo diritto di nasconder nulla — al suo affetto pieno di fiducia. Incoraggiato dal suo candore sull’argomento così delicato della età, io, con perfetta franchezza, non solo mi avventurai a parlarle diffusamente dei miei molti piccoli difetti, ma le feci confessione piena di tutte le mie infermità morali, e persino di quelle fisiche, il rivelar le quali, richiedendo un grado di coraggio tanto più alto, è una più sicura prova d’amore.

Toccai delle mie scappate in collegio, accennai alle mie stravaganze, a qualche sregolatezza, a qualche debito, a qualche flirt. Mi spinsi sino a parlarle di una tossetta etica che mi aveva disturbato ad un dato periodo; di un reumatismo cronico, di certi attacchi di gotta ereditaria e, per concludere, di quella mia spiacevole e noiosa debolezza di vista, che avevo sin allora celata con cura.

«Quanto a questo» disse Madame Lalande, ridendo «siete stato poco giudizioso a venire a confessarlo; perchè, senza la vostra confessione, vi assicuro che nessuno vi avrebbe accusato di tal delitto.» «A proposito», continuò, «vi sovviene forse, e qui mi sembrò che un rossore, malgrado l’oscurità dell’appartamento, tingesse visibilmente la sua guancia, — «vi sovviene forse, mon cher ami, di quella piccola lorgnette che pende ora dal mio collo?»

E così dicendo, faceva giocare tra le sue dita quello stesso occhialetto che mi aveva colmato di confusione quella sera al teatro d’opera.

«Troppo bene, ahimè!, me lo ricordo,» esclamai, premendo con passione la mano delicata che mi offriva le lenti per esaminarle. Esse formavano un complesso e magnifico gioiello riccamente cesellato e filigranato, e scintillante di pietre preziose che anche in quella luce scarsa, non mi lasciavan dubbio sul loro alto valore.

«Eh, bien, mon ami!» riprese con un certo empressement di modi che mi sorprese alquanto — «eh bien, mon ami, mi avete ardentemente chiesto un favore che vi è piaciuto chiamare inestimabile. Mi avete chiesto di sposarvi domani. Se cedessi alle vostre preghiere, e, aggiungiamo pure, alle sollecitazioni del mio cuore, mi permettereste di chiedervi un piccolopiccolissimo servizio?»

«Ditemi quale!», esclamai con un’energia che mancò poco attraesse su di noi l’attenzione della compagnia: la cui presenza soltanto mi potè impedire di gettarmi impettuosamente ai suoi piedi. «Ditemi quale, Eugenia mia, amata mia, ditemi quale! ma, ahimè, è già concesso prima che lo abbiate nominato.»

«Dovrete vincere dunque, amico mio,» disse, «per quell’Eugenia che amate, quella piccola debolezza che avete or ora confessata — quella debolezza più morale che fisica, la quale, lasciate che ve ne assicuri, stona tanto colla nobiltà della vostra natura reale, è tanto in disaccordo coll’usuale candore del vostro carattere, e che, se le permettete di prendere un maggior potere su di voi, finirà sicuramente per indurvi presto o tardi a qualche passo estremamente sgradevole. — Vincerete, per amor mio, questa affettazione che vi conduce, come voi stesso confessate, a negare, tacitamente e implicitamente, la vostra infermità di vista. Perchè voi la negate virtualmente questa infermità, rifiutando di impiegare i soliti mezzi per correggerla. — Vorrete comprendere, dunque, che io desidero che portiate gli occhiali: — oh.... sst! — ormai avete acconsentito a portarli per amor mio. Dovete accettare questo gingillo che ho tra le mani, il quale, sebbene sia di ammirevole aiuto alla vista non ha realmente un valore immenso come gioiello. Vedete che, con una modificazione da nulla, — così o a quest’altro modo — lo si può adattare agli occhi sotto forma di occhiali, o portare nel taschino del panciotto come un occhialetto. È nel primo modo, tuttavia, e abitualmente, che avete ormai acconsentito a portarlo per amor mio».

Questa richiesta — debbo confessarlo — mi confuse in non piccolo grado. Ma le condizioni nelle quali mi veniva fatta rendevano ogni esitazione assolutamente fuori di luogo.

«È fatto!» gridai con tutto l’entusiasmo che mi riuscì di tirar fuori al momento. «È fatto — e consento di tutto cuore. — Per voi sacrifico qualsiasi suscettibilità. Per questa sera porterò questo caro occhialetto, sotto forma di occhialetto, e sul mio cuore. Ma al primo albeggiare di quel mattino che mi darà la gioia di chiamarvi mia moglie, lo porrò sopra il mio.... sopra il mio naso, dove lo porterò sempre, di poi, sotto la forma meno romantica e meno elegante, ma più utile certamente che desiderate.

La nostra conversazione volse allora sui particolari delle nostre disposizioni pel mattino seguente. Talbot, mi disse la mia fidanzata, era appena tornato in città. Dovevo vederlo subito e procurarmi una vettura. La Soirée difficilmente terminerebbe prima delle due; e per quell’ora il veicolo doveva trovarsi alla porta: nella confusione creata dalla partenza della compagnia, Madame L. potrebbe facilmente entrarvi inosservata. Dovevamo allora recarci a casa di un pastore che ci aspetterebbe, sposarci, lasciare Talbot, e procedere per un breve giro nell’Est; lasciando al mondo elegante rimasto a casa di fare sull’avvenimento tutti i commenti che meglio piacessero.

Tracciato questo piano, mi congedai immediatamente, e andai in cerca di Talbot; ma in cammino non seppi trattenermi dall’entrare in un albergo onde poter esaminare la miniatura il che feci col possente aiuto delle lenti. Era una fisionomia d’una bellezza incomparabile!

Quei larghi occhi luminosi! — quel fiero naso greco! quelle tenebrose chiome lussureggianti! «Ah!» dissi, esultando meco stesso, questa è veramente l’immagine parlante della mia amata! Volsi la miniatura al rovescio e scopersi queste parole: «Eugénie Lalande all’età di ventisette anni e sette mesi». Trovai Talbot a casa e gli raccontai subito la mia buona ventura. Egli professò un estremo stupore, naturalmente, ma si congratulò meco con tutta cordialità, e mi offerse la sua assistenza per quanto era in suo potere. In una parola, eseguimmo il nostro piano alla lettera; e alle due del mattino, esattamente dieci minuti dopo la cerimonia, io mi trovai chiuso in una vettura con Madame Lalande — colla Signora Simpson, dovrei dire — e allontanandomi a gran trotto dalla città, in direzione nord-nord-est...

Era stato deciso da Talbot che, poichè dovevamo viaggiare tuta la notte, avremmo fatto una prima tappa a C... villaggio a circa venti miglia dalla città, per la colazione del mattino, e prendere un po’ di riposo prima di procedere nel nostro itinerario. Alle quattro precise, di conseguenza, la vettura si arrestava alla porta dell’albergo principale. Aiutai la mia adorata moglie a scendere di carrozza, e ordinai immediatamente la colazione; intanto eravamo entrati in un salottino, e ci eravamo seduti.

Era oramai quasi giorno fatto, e mentre contemplavo rapito l’angelo seduto al mio fianco, mi venne d’un tratto l’idea singolare che questa era realmente la prima volta, dal momento in cui avevo conosciuto la celebrata bellezza di Madame Lalande, che mi era permesso di esaminare da vicino questa bellezza alla luce del giorno.

«E ora, mon ami, disse costei prendendomi la mano, e interrompendo così quella trama di pensieri, e ora, mon cher ami, poichè noi siamo indossolubilmente uniti, poichè ho ceduto alle vostre suppliche appassionate e ho adempiuto alla mia parte della nostra intesa, immagino che non avrete dimenticato che anche voi avete un piccolo favore da rendermi, una piccola promessa alla quale non vorrete certamente sfuggire. Ah! Aspettate! Lasciate che mi ricordi! Sì, con tutta facilità richiamo alla mente le precise parole della cara promessa che iersera faceste ad Eugenia vostra. Ascoltate! Così avete detto: «È fatto — acconsento di tutto cuore. Sacrifico per voi i miei più gelosi sentimenti. Per questa sera porterò questo caro occhialetto, sotto forma di occhialetto, e sul mio cuore. Ma al primo albeggiare di quel mattino che mi darà la gioia di chiamarvi mia moglie, lo porrò sopra il mio.... sopra il mio naso, dove lo porterò sempre di poi sotto la forma meno romantica e meno elegante, ma più utile certamente, che desiderate». «Queste furono le parole esatte, mio amato marito, non è vero?» «Le parole stesse» dissi, «avete una eccellente memoria, e vi assicuro, mia bellissima Eugenia, che non v’è da parte mia nessuna intenzione di sottrarmi all’adempimento della banale promessa che implicano. Ecco! Guardatemi! Mi stanno bene, piuttosto, non è vero?» E qui, avendo fatte accomodare le lenti secondo la solita forma degli occhiali, le applicai con disinvoltura nel modo richiesto; mentre Madame Simpson, aggiustandosi la cuffia e incrociando le braccia sul petto, saltava a sedere dritta sulla seggiola, in una posizione alquanto tesa e provocante e, a dir il vero, piuttosto poco dignitosa.

«Per la bontà divina!» esclamai quasi allo stesso istante che gli occhiali si furono posati sul mio naso; O Dio! per la bontà divina! eh via, che diavolo posson mai avere questi occhiali?» e togliendoli rapidamente, li nettai accuratamente con un fazzoletto di seta e me li aggiustai di nuovo sul naso. Ma se, al primo istante, era occorso qualcosa che mi aveva sorpreso, la seconda volta la sorpresa aumentò sino a diventar stupore; e questo stupore era profondo, era estremo, in verità potrei dire che era orrificante. Che mai, in nome d’ogni cosa orrenda, poteva significar questo? Dovevo credere ai miei occhi? Era possibile? Questo era il problema. Era quello... era quello... era quello rossetto? E eran quelle... eran quelle... eran quelle rughe sul viso di Eugènie Lalande? E, oh Giove, e per tutti gli dei e deesse, grandi e piccini! che cosa — che cosa era mai avvenuto dei suoi denti? Scaraventai con violenza gli occhiali per terra, e balzando in piedi, mi piantai colle mani sulle anche in mezzo alla camera, guardando in faccia la Signora Simpson, sogghignando e con la schiuma alla bocca e tuttavia incapace di parlare, soffocato com’ero dalla rabbia e dal terrore.

Ora ho già detto che Madame Lalande, voglio dire Simpson, parlava l’inglese ben poco meglio di quanto non sapesse scriverlo, e per questa ragione molto opportunamente non si provava mai a parlarlo in circostanze ordinarie. Ma il furore può spingere una signora a qualsiasi estremo; e nel presente caso trasportò la Signora Simpson al singolarissimo punto di tentare una conversazione in una lingua che non riusciva nemmeno a capire. «Ebbene Monsieur» disse, dopo avermi squadrato con apparenza di gran meraviglia, per alcuni istanti — «ebbene, Monsieur, 1 che vuol dire questo, che cosa c’è adesso? È il ballo di S. Vitto che avete? Se non sono di vostro gusto, perchè avete comperato il maiale nel sacco?»

«Miserabile!» dissi, prendendo fiato «infame vecchia strega!

«Strega? vecchia? non son poi tanto vecchia, dopo tutto: ho ottantadue anni, non un giorno di più.»

«Ottantadue!» balbettai, barcollando verso il muro. «Ottantadue mila babbuini! La miniatura diceva ventisette anni e sette mesi!»

«Per certo; così è infatti: perfettamente vero! ma il ritratto è stato fatto cinquantacinque anni fa. Nel tempo che stavo per sposare il mio secondo marito, Monsieur Lalande, venne eseguito quel ritratto dalla figlia che avevo avuto dal mio primo marito, Monsieur Moissan!

«Moissart!» dissi.

«Già Moissart» replicò imitando la mia pronuncia, che a dir vero non era delle migliori; «ebbene? che cosa sapete di Moissart?»

«Niente, vecchio spauracchio! Non so nulla di lui; soltanto avevo un antenato di quel nome, una volta.» «Di quel nome! e che avete a ridire a quel nome? È un ottimo nome e così pure Moissart, anche questo è un nome degno d’ogni rispetto. Mia figlia, Mademoiselle Moissart, ha sposato un Monsieur Voissart, e tutti e due i nomi sono perfettamente rispettabili».

«Moissart» esclamai, «e Voissart! via, che volete dire?... «Che voglio dire? Voglio dire Moissart e Voissart; e quanto a questo voglio dire anche Croissant e Froissart, se così mi piace. La figlia di mia figlia, Mademoiselle Voissart, sposò un Monsieur Croissant, e infine la nipote di mia figlia. Mademoiselle Croissant, ha sposato un Monsieur Froissart; e suppongo che vogliate dire che questo non è un nome rispettabile».

«Froissart!» dissi, sentendomi svenire «eh via non vorrete dire Moissart, e Voissart, e Croissant, e Froissart?»

«Già,» replicò, rovesciandosi completamente all’indietro sulla seggiola, e stendendo innanzi le sue membra inferiori per una gran lunghezza «già, Moissart, e Voissart, e Croissant e Froissart. Ma Monsieur Froissart, era quel che voi direste un grandissimo sciocco — un grossissimo asino tal quale di voi — poichè lasciò la Belle France per venire in questa stupida America — e quando arrivò qui egli ebbe uno stupidissimo, un estremamente stupido figlio; a quanto mi si disse, poichè io non ho ancora avuto le plaisir di incontrarlo, nè io nè la mia compagna, Madame Stéphanie Lalande. Si chiama Napoleone Bonaparte Froissart, e suppongo che anche questo, secondo voi, non sia un nome molto rispettabile».

Non so se la lunghezza o l’indole di questo discorso, ebbe l’effetto di far montare la Signora Simpson a un grado di passione veramente straordinario; e non appena ebbe finito di parlare, saltò dalla sua seggiola con un gran balzo, come fosse posseduta dalle streghe, lasciando cadere a terra un intero universo di imbottiture. Non appena fu ritta in piedi, si diede a digrignar le gengive, a mulinare le braccia, a rimboccarsi le maniche, ad agitarmi i pugni in faccia, e terminò collo strapparsi dal capo la cuffia unitamente a un’immensa parruca dei più belli e pregevoli capelli neri, scaraventando tutta questa roba a terra con un urlo spaventoso, calpestandola e ballandovi sopra un fandango indemoniato in un’assoluta estasi agonica di rabbia. Nello stesso tempo io sprofondavo annichilito nella seggiola da lei abbandonata. «Moissart et Voissart!» ripetevo, meditabondo, mentre ella faceva una delle sue capriole, «e Croissart et Froissart!» mentre ne terminava un’altra. — » Moissart, e Croissart e Napoleone Bonaparte Froissart! ebbene, o ineffabile vecchio serpente, sono io questi! Sono io, capite? Sono io!» strillai allora colla mia voce più acuta «Sono io...o...o...o! Io sono Napoleone Bonaparte Froissart! e possa io essere eternamente dannato, se non ho preso in moglie la mia arcibisnonna!» Madame Eugènie Lalande, quasi Simpson, nata Moissart, era in realtà, la mia arcibisnonna. Nella sua giovinezza era stata molto bella, e ancora a ottantadue anni conservava la statura maestosa, la linea scultorea del capo, i begli occhi ed il naso greco della sua giovane età. Grazie a queste attrattive, all’aiuto delle ciprie, dei belletti, nonchè di capelli, di denti e di curve posticce, unitamente a quello delle più abili sarte e modiste di Parigi, riuscì a conservarsi un posto molto rispettabile fra le bellezze un peu passées della metropoli francese. Sotto questo rispetto, in Verità, la si poteva considerare poco meno che l’eguale della famosa Ninon de l’Enclos. Era immensamente ricca, ed essendo rimasta per la seconda volta vedova e senza figli, le era tornata a mente la mia esistenza in America e, collo scopo di farmi suo erede, era partita per una visita agli Stati Uniti, in compagnia di una lontana ed estremamente bella parente del suo secondo marito, tal Madame Stèphanie Lalande.

Quella famosa sera d’opera, avevo attirato l’attenzione della mia arcibisnonna, guardandola ostinatamente; ed esaminandomi col suo occhialetto, era stata colpita da una cert’aria di famiglia. Risvegliato così il suo interesse, e sapendo che l’erede di cui era in cerca abitava appunto in quella città, chiese notizia di me ai suoi amici. Il signore che l’accompagnava, mi conosceva di vista e le disse chi ero. Queste informazioni la indussero a guardarmi di nuovo con attenzione; fu appunto questo esame che mi diede ardire a comportarmi nei modi assurdi che ho già partitamente narrati. Essa rispose al mio inchino, tuttavia credendo che grazie a qualche accidente curioso, avessi scoperto la sua identità. Quando io, tratto in inganno dalla mia debole vista e dalle arti della toilette circa l’età e le attrattive della donna straniera, domandai a Talbot con tanto entusiasmo chi ella fosse, questi credette senz’altro che io volessi parlare della più giovane compagna, e mi informò così con perfetta verità, che si grattava «della famosa vedova, Madame Lalande».

Il seguente mattino, la mìa arcibisnonna incontrò per istrada Talbot, sua vecchia conoscenza di Parigi, e la conversazione, naturalmente cadde su di me. Le deficenze della mia vista vennero allora svelate; poichè erano notorie, sebbene di queste notorietà io non avessi mai avuto il minimo sospetto; e la mia buona vecchia parente scoprì, con suo gran dispiacere che si era ingannata supponendomi al corrente della sua identità, e che mi ero soltanto esposto a una ridicola figura col fare apertamente la corte a una vecchia sconosciuta. Allo scopo di punirmi di questa leggerezza combinò allora un complotto con Talbot. Egli mi sfuggì di proposito onde evitare di presentarmi a lei. Quanto alle informazioni che chiesi in istrada sulla «adorabile vedova Madame Lalande» tutti supposero che avessero tratto alla più giovine delle due signore, come era naturale; e così si potrà facilmente spiegare la conversazione che ebbi con quei tre giovani che incontrai appena uscito dall’albergo di Talbot, come la loro allusione a Ninon de l’Enclos. Non ebbi nessuna occasione di vedere Madame Lalande da vicino alla luce del giorno, e alla sua serata musicale, la mia sciocca ripugnanza a valermi dell’aiuto degli occhiali, mi impedì di rendermi conto della sua vera età. Quando Madame Lalande venne invitata a cantare, si intendeva la più giovane delle due signore, la quale infatti si alzò alla chiamata; e la mia arcibisnonna, per mantenere l’inganno, si alzò allo stesso momento e l’accompagnò al pianoforte nel salone principale. Se mi fossi deciso a seguirla colà, era sua intenzione di suggerirmi la convenienza che restassi dove mi trovavo; ma le mie prudenti vedute non resero questo necessario. Le romanze che avevo tanto ammirato, e che contribuirono tanto a confermarmi nell’opinione della giovinezza della mia amata, erano state cantate da Madame Stèphanie Lalande. Il dono dell’occhialetto era soltanto inteso a implicare un biasimo nella mistificazione, ad aggiungere un aculeo all’epigramma del disinganno. E il donarlo aveva fornito pretesto per quella predica sull’affettazione dalla quale mi ero sentito così singolarmente edificato. È quasi superfluo aggiungere che le lenti dello strumento, quale lo portava la vecchia signora, erano state da lei sostituite con altre meglio adatte ai miei anni: e infatti mi convenivano a puntino. L’ecclesiastico che aveva fatto sembianza di annodare il fatale legame era un allegro compare di Talbot, e niente affatto prete: in compenso si trovò a essere una «frusta» eccellente; e fu lui che, mutata la sottana con un ampio tabarro, prese le redini del ronzino che trascinava via dalla città la «coppia felice». Talbot aveva preso posto al suo fianco; i due furfantì se la godettero dunque proprio sino in fondo, e traverso una finestra socchiusa che dava nella saletta dell’albergo, si divertirono a loro modo, facendo coro con smorfie e sogghigni allo scioglimento del dramma. Credo che non potrò fare a meno di sfidarli ambedue.

Ad ogni modo non sono il marito della mia arcibisnonna, e questa è una constatazione che mi è è larga d’infinito sollievo; sono invece il marito di Madame Lalande — di Madame Stèphanie Lalande, colla quale la mia vecchia parente, oltre a nominarmi suo unico erede pel giorno della sua morte se tal giorno giungerà mai — si prese anche il disturbo di combinarmi un matrimonio.

Tanto per concludere: l’ho finita per sempre coi «billets-doux» e nessuno mi vedrà mai più senza occhiali.

  1. Il lettore comprenderà che sarebbe impossibile — oltre che stucchevole — voler rendere in italiano il modo burlescamente bislacco, nel quale si esprime la signora Sìmpson — N. d. T.

Note

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