Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
IX
Guerre letterarie in italia 1.
In Lipsia la fiera di San Michele fu quest’anno ricchissima di nuove produzioni letterarie. Una fra le altre ce ne capitò alle mani, singolare molto pel suo argomento, ed è quella che annunziamo.
Bisogna dire che in Germania la turba degli scrittori sia immensa, e la smania dello scrivere ardentissima in essi, da che vediamo ne’ cataloghi registrarsi libri ed opuscoli a centinaia, che, per quanto si può desumere da’ frontispizi, sembrano trattare di cose forse non troppo interessanti pei popoli nella lingua de’ quali sono scritti. Questo del signor Niemand ce ne somministra un esempio, perché, a dir vero, non ha altro scopo in apparenza che quello d’essere utile a noi italiani.
Ma che gli italiani vogliano giovarsene non è da credere. Noi teniamo anzi per fermo che la memoria del signor Niemand e del suo bel libretto non durerá in Italia piú delle ventiquattro ore che la fortuna suole conceder di vita ad un numero del Conciliatore. Il signor Niemand si contenti dunque di divider con noi i nostri destini e la nostra pazienza. Di piú non possiamo fare per lui.
L’autore sembra essere uomo erudito e, quel che piú importa, zelatore sincero della probitá. Il presente libretto è da considerarsi come l’emanazione di un’anima onesta. E le sole persone oneste potrebbero leggerlo senza irritarsi delle frequenti allusioni che vi si trovano alle sentenze bibliche, e della franca indegnazione con cui l’autore si oppone al vizio.
Il signor Niemand è di parere che le dispute letterarie sieno per se stesse giovevolissime allo scoprimento della veritá ed alla propagazione dei lumi. Non biasima una leale e discreta ambizione ne’ disputanti; perché, senza questa potentissima molla delle umane azioni, crede egli improbabile che un uomo voglia sottoporsi al peso degli studi (su questa improbabilitá noi forse siamo di opinione qualche poco differente). Combina egli la nobile ambizione coll’amore schietto e disinteressato della veritá e col dovere che gli uomini hanno di essere utili agli uomini. E però giudica che in faccia al pubblico non abbiano diritto di disputare intorno a cose letterarie che le sole persone d’incolpabile morale.
Ma questo parlar di diritti, quando prevale assoluta in contrario la prepotenza de’ fatti, sa dell’inutile all’autore. Quindi, lasciate le teorie astratte, si dá egli a tessere la storia delle contese letterarie degli italiani, incominciando da quelle che nel decimoquinto secolo il Poggio ebbe con Francesco Filelfo e Lorenzo Valla e Giorgio di Trebisonda, ecc. ecc., e scendendo giú fino a quelle tra’l Parini ed il padre Branda, tra’l Baretti ed il Bonafede, e ad altre ancor piú recenti.
L’intenzione dell’autore, nel riandare tante epoche di scandalo e tanti aneddoti, com’egli dice, di «contaminazione», è quella di dimostrare che i letterati d’Italia nelle loro controversie declinarono pressoché sempre dall’ingenuo fine di esse per servire ad interessi ed odii personali; e che, cosí facendo, rivolsero a vero danno della sapienza quel mezzo medesimo che par piú destinato a favorirla.
Egli confessa che alcuni pochi de’ litiganti furono uomini per altro ornati di molte virtú. Però deplora la trista consuetudine italiana, che talvolta induceva a traviamento anche i buoni (fu per noi una vera consolazione il vedere nel breve elenco di questi ultimi il nostro Parini). Poi fa notare quegli altri che da semplice esuberanza di bile o da semplice invidia della fama altrui furono mossi a svillaneggiare i loro rivali (e qui l’elenco cresce assai in lunghezza). Finalmente stabilisce per muovente massimo delle inimicizie letterarie nei piú l’interesse pecuniario (e qui, se pure è lecito scherzare sulle umane miserie, la lista par quella delle belle tradite da don Giovanni).
Il commercio librario fu sempre angustiato in Italia dalle tante divisioni territoriali, e da questo: che in tutta l’Italia, comparativamente alla numerosa popolazione della penisola, non fu mai abbondanza di lettori, massime paganti. Quindi i letterati, non potendo ritrarre sufficienti ricompense dagli stampatori, si rivolsero quasi sempre a’ principi ed a’ governi.
Stretti da altri doveri piú sacri, i governi non poterono sempre contentar tutti i letterati. Però, crescendo la frotta de’ concorrenti, non bastava la pastura, e i begli ingegni bisognava spesso che se la strappassero l’un l’altro di bocca. In alcuni di essi era malvagitá vera, in altri debolezza, in altri la pazienza si lasciava stancare dalle provocazioni ripetute. Chi pigliava l’armi per assalire, chi per respingere gli assalitori. E le armi erano ingiurie, calunnie, contumelie, accuse pubbliche, delazioni segrete, propalazioni d’infamie domestiche, rinfacciamenti di fellonie, ecc. ecc. ecc.
Gli spettatori maligni ridevano, la gente dabbene fremeva. E la maggior parte del popolo, confondendo le lettere co’ letterati, chiamava «infami» quelle, perché sovente vedeva infami questi. La sapienza non ci guadagnava mai nulla, l’arte critica non progrediva d’un passo, perché la sapienza e la critica nulla hanno di comune colle villane animositá individuali. Ogni generazione di letterati biasimava queste pessime arti nella generazione precedente, poi correva ad imitarla coi fatti.
Cosí la storia delle contese letterarie degl’italiani non presenta altro che una miserabile successione di guerre personali da far ribrezzo ad ogni uomo che senta altamente in suo cuore la dignitá e l’importanza delle lettere. E cosí i letterati d’Italia crebbero tante spine all’esercizio della letteratura, che al letterato onesto diventò pericolosa perfino la sua onestá.
Il signor Niemand parla sempre co’ fatti alla mano, per modo che ci piange il cuore, ma dobbiamo pur dire ch’egli in gran parte ha ragione. E se la vergogna può in noi qualche cosa, vaglia questa volta ad avvertirci come gli stranieri ci tengano l’occhio addosso, e come ci convenga camminare con prudenza e saviezza, onde non sieno da essi ricantate all’Europa le nostre turpitudini.
L’ultima volta ch’io fui in Italia, e saranno forse dieci anni—cosí dice alla pagina 224 il signor Niemand,—mi fermai lungo tempo in Milano. Ho veduto ivi agli ingegni nascenti strozzarsi dagli anziani le parole in bocca, la riputazione de’ provetti lacerata da’ provetti. Ho veduto ivi una lega di letterati mischiare insieme con perfide arti la fede letteraria alla fede religiosa e morale, per modo da far scontare con pene civili le innocentissime opinioni letterarie ai disgraziati ch’erano in odio alla lega. Ho veduto un uomo, che per altro godeva molto credito presso alcuni, il signor Lamberti, stabilire perfino questo assioma e stamparlo nel Poligrafo: che chiunque contraddicesse ad un’opera o ad una sola sentenza letteraria d’un pubblico professore nominato dal sovrano, contraddiceva al sovrano medesimo ed era ribelle alla sovranitá. Non credo che il governo sancisse allora in diritto queste massime di tirannia. Che importa? Il solo pronunziarle era un’offesa alla ragione de’ buoni.
Ma la piú tranquilla saviezza degli attuali governi d’Italia mi fa certo che i costumi dei letterati italiani sieno ora cambiati in meglio. Ed io me ne rallegro davvero colla terra bella e gentile che avrei invocata da Dio per patria mia, se l’uomo potesse prima di nascere invocar la patria ch’egli vorrebbe.
Giovinsi dunque santamente della nuova fortuna i letterati. Trattino le loro quistioni con quell’ardore che viene dall’anima innamorata del vero; ma non s’irritino delle opposizioni. Tutte le veritá letterarie e scientifiche hanno dovuto aprirsi la via attraverso ostacoli infiniti. Ma se una generazione bestemmia contro il Galileo e lo imprigiona, la generazione che siegue non si cura di sapere i nomi de’ bestemmiatori, e corre a Firenze a baciar piangendo il sacro dito del Galileo.
«Via sapiens plebem suam erudit». E voi, o letterati d’Italia, fate partecipe della vostra dottrina la plebe vostra. E se la plebe vi vuol dettare essa leggi e dottrine, lasciatela fare pazientemente; ma non pigliate consiglio che da voi o dai piú sapienti di voi. Ricordatevi che, se l’Ariosto avesse dato ascolto al parere del cardinale, il Furioso sarebbe scritto in latino, e la fama dell’Ariosto sarebbe una miseria. La probitá sia nel cuor vostro e la persuasione sulle vostre labbra. Ma delle vostre pacifiche discussioni non chiamate mai in sussidio i governi, perché già questi, come savi che sono, non vi darebbero retta. E innanzi a tutto procurate di mostrarvi obbedienti e fedeli e tranquilli sudditi piú che sapienti agli occhi de’ vostri sovrani, non dimenticando mai il santo detto della Scrittura: «Coram rege noli velle videri sapiens».
Grisostomo.
- ↑ Kurzgefasste Uebersicht der literarischen Streitigkeiten in Italien von X. Niemand. Stettin. 1818, bey Friederich Nicolai.—Esposizione compendiosa delle guerre letterarie in Italia di X. Niemand. Stettino, 1818, presso Federico Nicolai