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La bella patrizia cara al giovine signore cui è consacrato il carme di Giuseppe Parini, aveva una cagnolina
prediletta:
Vergine Cuccia delle Grazie alunna.
Questa cagnolina, un giorno
Giovenilmente vezzeggiando, il piede
Villan del servo coll’eburneo dente
Segnò di lieve nota...
Il servo le diede un calcio che la fece rotolare lontano. La bestia prese a guaire:
...Aita, aita,
Parea dicesse, e dalle aurate volte
A lei l’impietosita eco rispose.
La signora svenne, la fecero rinvenire mettendole delle essenze sotto il naso, la cagnolina le corse in seno chiamando vendetta, la padrona fulminò con uno sguardo l’uomo che aveva ardito maltrattare la sua bestiola:
L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo
Udì la sua condanna. A lui non valse
Merito quadrilustre; a lui non valse
Zelo d’arcani uffici: invan per lui
Fu pregato e promesso; ei nudo andonne,
Dell’assise spogliato onde pur dianzi
Era insigne alla plebe: e invan novello
Signor sperò; ché le pietose dame
Inorridiro, e del misfatto atroce
Odiàr l’autore. Il misero si giacque
Con la squallida prole e con la nuda
Consorte a lato, sulla via spargendo
Al passeggero inutile lamento;
E tu, vergine Cuccia, idol placato
Dalle vittime umane, isti superba.
La fata Manto, per gratitudine verso Adonio, s’impegnò a farlo riuscire colla moglie del giudice, la donna che amava perdutamente e senza speranza. Lo travestì, perché si presentasse a lei, da pellegrino, e
Mutossi ella in un cane, il più piccino
Di quanti mai n’abbia natura fatti;
Di pel lungo, più bianco ch’armellino,
Di grato aspetto e di mirabili atti.
Gli atti di quel cagnolino sono veramente straordinari, più straordinario ciò che è riferito della moglie del giudice, e straordinario al di là di ogni immaginazione possibile ciò che spetta al marito. Il realismo moderno più sfrenato fa l’effetto di un lume a olio davanti a una lampada a luce elettrica, se si paragona a quel racconto dell’«Orlando furioso».
Questi cagnolini da signora, per trastullo furono adoperati alla caccia.
Dugento anni or sono, Carlo Emanuele II si fece un luogo di caccia, con boschi, laghi, scuderie, canili, case e palazzi, poco discosto da Torino, dalla parte di ponente, al quale diede il nome di Venaria reale.
Lascia, mio caro lettore, che io ti dica che non posso scrivere senza emozione questo nome, perché è quello del luogo ove io sono nato, a cui mi riportano le più care rimembranze della vita.
Il conte Amedeo di Castellamonte portò il cavaliere Bernini, che veniva di Francia per ritornare a Roma, a visitare la Venaria, gli fece vedere e gli descrisse diligentemente tutto, e poi stampò quella sua descrizione, con disegni ricercati oggi per le rappresentazioni di costumi, vestimenti, cavalli, carrozze, cani e via dicendo.
Madama reale Maria Giovanna Battista di Nemours, consorte al principe, e madama serenissima principessa Ludovica Maria, sorella di lui, accompagnavano sovente il marito e il fratello alla caccia e si mostravano, sovrattutto la seconda, intrepide cacciatrici.
Il principe aveva dugento cani corridori, oltre ai segugi e ai veltri. Anche madama reale volle avere i suoi cani, piccoli per modo che si potevano mettere nel manicotto, e li volle portare alla caccia.
L’italiano che si scrive in Piemonte anche oggi, generalmente parlando, non è di prima qualità, e, se ci fosse bisogno, questo volumetto ne sarebbe una novella prova. Ma quello che si scriveva alla corte di Torino nell’anno 1672... Eccolo:
«Ha parimente Madama Reale la sua muta di ventiquattro cagnolini pagnoli tanto piccoli, che alcuni di essi si portano per ischerzo dalle Dame nelle proprie manizze, ma di tanto valore e coraggio nella caccia del lepre, che non la vogliono cedere ai maggiori di loro, e sogliono portarli alla campagna per delizia da loro canili in Carrozza...»
Questo dello ammaestramento di cagnolini da signore alla caccia, se non è un fatto unico, è un fatto eccezionale, per trastullo. In sostanza, il trastullo delle padrone è la ragione d’essere di questi cagnolini.
A Parigi una portinaia di mia conoscenza, guardando biecamente uno di questi cagnolini, spelato e pesante pel molto grasso, che teneva dietro faticosamente a un magra signora la quale aveva incominciato a salir le scale, gli disse:
«Se la tua padrona non mi dà la mancia al capo d’anno, puoi mettere in ordine i tuoi affari».
Levò il braccio destro allungando l’indice e soggiunse con una voce che mi fece gelare il sangue:
«Je ne te dis que cela, mon petit».