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Il cane è adoperato come bestia da tiro da popoli molto avanti e da popoli molto indietro nello incivilimento. Molto avanti nello incivilimento, anzi, a sentirli loro, proprio al culmine, sono i berlinesi. Ora, a Berlino, il cane pel tiro, è molto adoperato. Anche qui devo fare una riserva; quando dico è, mi riporto col pensiero al tempo in cui io dimorava in Berlino, e quel tempo è lontano. La bella città era allora quieta, fredduccia, e dopo Sadowa e Sédan ha dovuto cambiare. Non so se sia cambiato ciò che sto per dire, ma allora c’era e, nella supposizione che ci sia ancora, parlo al presente.
A Berlino adunque, ogni mattina, appaiono alla periferia della città lattivendoli dei due sessi, che portano il latte sopra un carretto tirato da un cane, generalmente grosso, di razza mista, ma, un po’ più un po’ meno, sullo stampo di quello che i piemontesi chiamano cane da pagliaio, e più generalmente viene chiamato cane da casa o da guardia.
Due grossi cani da pagliaio in sul principio di questo secolo diedero molte emozioni ai torinesi. Essi tiravano correndo una leggerissima carrozzella, sulla quale stava il loro padrone, un signore che si compiaceva di eccentricità, cosa rara allora, il quale dimorava a Druent, paesello discosto pochi chilometri dalla città. Quei due cani non facevano altra strada che quella tra Druent e Torino, ma la faceva di buona voglia, solo avendo bisogno di fermarsi di tratto in tratto per bere, cosa facilissima colà dove dalle sovrastanti montagne scendono abbondanti le limpide acque che irrigano i prati e i campi, muovono le macine, e scorrono nei fossi lungo le strade.
Fra i popoli molto indietro nello incivilimento possiamo mettere, senza offenderli, gli eschimesi.
Il Vendadad è parte antica e certamente autentica dello Zend Avesta, e né tu né io, caro lettore, non l’abbiamo mai letto. Ma staremmo freschi se dovessimo avere attinto proprio alla sorgente ciò che veniamo citando! Un erudito moderno, accusato di furto, si scusò col dire che rubava ai ladri.
Dunque il Vendadad asserisce che il mondo si regge per la saviezza del cane.
Questa asserzione, come tutte le altre, è discutibile.
Ma è cosa certa che senza i cani gli eschimesi non potrebbero campare, ed è cosa certa pure che nissuna gente tratta i suoi cani peggio degli eschimesi.
I cani in quelle plaghe gelate si adoperano come bestie da soma, da caccia, da guardia, ma principalmente da tiro.
Non bisogna credere che lo andare in quei paesi in una slitta tirata dai cani sia come da noi andare in una carrozza tirata dai cavalli. Si andrebbe meglio a piedi, se colà fosse possibile andare a piedi. Ma né a piedi, né a cavallo, né in altro modo se non che in una slitta tirata dai cani si può andare su quelle nevi. Possono stare in una slitta da cinque a sei persone, e bastano a tirarla un sei od otto cani, in capo ai quali sta un cane più vecchio e giudizioso a dirigere gli altri. Ciascun cane ha un collare da cui parte una cinghia che si attacca alla slitta, e così ognuno tira per proprio conto. Lo stento, la fatica, le frustate, non son mezzi che valgono a destare il buon umore in quei poveri animali e a mettere una grande amorevolezza fra loro. Là, come sempre, chi sta male se la piglia col vicino. Il primo cane urtato arruffa il pelo, ringhia, dà e riceve un morso; i due contendenti si fermano per duellare, gli altri s’infuriano della fermata, si azzannano a vicenda, si aggrovigliano, e il vecchio capo esperto e giudizioso, destinato a condurre il branco, dopo qualche vano tentativo di pacificazione, ringhia e morde più furiosamente degli altri. Il padrone della carrozza mena furiose frustate che non fanno altro che accrescere il parapiglia, e in breve le cinghie si sono mescolate, incrociate, avvinghiate, ed è tutto un brulicare in quel turbinìo furibondo. Il cocchiere scende, e se ci sono più persone nella slitta scendono tutte, e pazientemente, a poco a poco, distrigano il gomitolo, e poi frustate di nuovo. S’intende come in tal modo non si possa fare molta strada. Ci vuole una buona giornata di viaggio a percorrere la distanza che c’è da Firenze a Prato.
Lo Steller rimase a lungo al Kamtschatka. Vi andò sopra una nave russa, ma siccome quel mare è navigabile soltanto per una brevissima parte dell’anno, la nave che vi aveva approdato non potè tosto salparne e vi dovette svernare. Ciò fu una fortuna per la storia naturale, perché lo Steller fece molte osservazioni importantissime e tali che rimarranno sempre come parte del capitale della scienza.
Egli parla a lungo dei cani di quella contrada, che sono i soli animali domestici di cui sappiano valersi quelle popolazioni, le quali hanno anche sul cane la loro leggenda.
Kuttka, il primo uomo, non adoperava i cani e tirava egli stesso la slitta. Allora i cani parlavano come gli uomini. Un giorno i figli di Kuttka scendevano il fiume in un battello. Sulla sponda c’erano parecchi cani dal foltissimo pelo, i quali, dopo di aver guardato attentamente gli uomini, parlarono loro e domandarono chi fossero. Gli uomini, col garbo che li distingue in tutte le latitudini, non risposero nulla e tirarono di lungo. I cani s’indispettirono per modo che fecero proponimento, e lo tennero fino ad oggi, di non parlare mai più all’uomo. Tuttavia la curiosità loro è sempre tale, che quando vedono un uomo non sanno trattenersi dallo abbaiare, e questa è la loro maniera di domandargli chi sia.
Dalla primavera all’autunno quegli uomini lasciano pienamente liberi i loro cani; liberi anche di procacciarsi il vitto, di cui non danno loro più briciola. Costretti a provvedere da sé al proprio sostentamento, quei cani ricorrono al mezzo più efficace adoperato primieramente dall’uomo: si fanno pescatori. Imparano ad abboccare il pesce con grande destrezza, quando hanno molta fame lo mangiano tutto, quando sono a un dipresso satolli si contentano di mangiarne la testa.
Nel tardo autunno quegli uomini radunano i loro cani, e li legano ai pali intorno alle case. L’esperienza ha insegnato loro che la magrezza li fa veloci, e ciò sappiamo anche noi, perché quando vogliamo dire di un uomo che corre molto, diciamo che corre come un cane magro. I cani legati son lasciati a lungo digiuni perché acquistino velocità e resistenza alla corsa e abbiano, come dicono, il fiato lungo. Alla prima neve la fame fa ululare giorno e notte lamentosamente quelle povere bestie. I padroni, nell’inverno, quando li fanno lavorare, li alimentano in due maniere. La prima, colla quale si propongono di rinvigorirli, consiste nel dar loro una sorta di carne di pesce corrotta che si conserva in fosse scavate nel suolo. Quegli uomini ambiziosamente asseriscono che al Kamtschatka nissuna carne imputridisce; quel loro pesce conservato, che fa cadere in svenimento un marinaio russo, essi dicono semplicemente che è un po’ acidetto. Mettono i pesci corrotti entro a truogoli di legno, poi ci caccian dentro pietre che hanno fatte riscaldare nel fuoco, e dopo ciò li mangiano essi stessi e li danno ai loro cani. Questo tengono in conto di cibo gustoso e nutriente per eccellenza, e lo danno ai cani soltanto alla sera dopo una lunga e faticosa giornata di viaggio. Dicono che se lo dessero al mattino i cani, troppo pasciuti, tirerebbero lentamente e di mala voglia. Il secondo cibo è fatto di pesci ammuffiti e seccati all’aria, che distribuiscono al mattino e anche un po’ lungo il viaggio, per dar lena agli animali. Questi ci si precipitano sopra, e siccome i pesci hanno ancora intatte le spine, in breve loro s’insanguina la bocca. Se quei cani possono cacciare il muso nelle provviste dei padroni fanno baldoria, s’arrampicano su per le scale a piuoli e sui tuguri; e lo Steller fa le meraviglie di questa facilità che hanno ad arrampicarsi, facilità che è grande pure, ed io provai molta meraviglia quando primieramente la vidi, nei cani vaganti dell’Egitto. Quei cani affamati divorano anche le cinghie di cuoio delle slitte.
Qui, come sempre, la divisione del lavoro produce il suo buon effetto: quei cani dai quali non si richiede né il portar carichi sul dorso, né la caccia, né altro che non sia il tirare le slitte, riescono in quest’opera migliori fra tutti. Si fa ad essi uno speciale trattamento, come fra noi ai cavalli da corsa. Appena sono nati si mettono colla madre in una fossa e vi si lasciano con essa fino al termine dello allattamento. Terminato lo allattamento si toglie la madre, ma i figli vi rimangono ancora, e crescono senza vedere il mondo, né altri cani, né uomini, nulla. All’età di sei mesi si tiran fuori e subito si attaccano alla slitta con cani provetti. La grande novità li mette in una paura orrenda, per cui corrono disperatamente. Quel primo viaggio che si fa far loro è breve, e appena ritornati si rimettono nella fossa. Dopo poco tempo si fanno tirare ancora e per un viaggio meno breve, poi si fanno ritornare nello isolamento. Quando, alla perfine, hanno fatto un viaggio lungo, si considera la loro educazione come finita, e vengono messi cogli altri, e lasciati in libertà durante l’estate. Quei cani, appena attaccati alla slitta, levano il capo urlando tutti insieme lamentosamente, ma una volta in corsa tacciono. Allo arrivo cadono sfiatati.
Le slitte al Kamtschatka sono costrutte con una così grande maestria che il meccanico più ingegnoso non potrebbe far meglio. I legni e le cinghie di cuoio si dispongono per modo che ogni parte possa cedere, e che se una parte si rompe non ne abbia nocumento il resto; nel massimo grado si trovano riunite in queste costruzioni la cedevolezza e la resistenza, per cui il veicolo sale fra i dirupi, scende pei burroni, passa framezzo ai tronchi delle grandi foreste. Vi sono slitte specialmente fatte pei grossi carichi, altre più leggere, destinate specialmente a corse veloci che voglia fare un uomo solo. Lo Steller parla di certi rapidissimi viaggi, in cui un uomo avrebbe in tal modo corso sulla neve per ottanta o cento verste in una giornata, la versta russa corrispondendo appunto al chilometro nostro.
Questi ragguagli che lo Steller diede intorno ai cani del Kamtschatka, vennero dati dal Wrangel sui cani della Siberia. Sembra che questi siano un po’ meno disgraziati di quelli, vale a dire meno maltrattati dall’uomo. Là si attaccano per solito a una slitta una dozzina di cani, e uno più provetto e particolarmente ammaestrato va primo e dirige gli altri. Basta che abbia fatto una volta un viaggio per ricordarsi benissimo la strada; sa riconoscere il luogo dove conviene far sosta, sebbene le capanne siano sepolte sotto la neve; si ferma, muove la coda, guarda il padrone come a dirgli che là bisogna scavare.
Quegli stessi cani che in Siberia tirano le slitte sulla neve, tirano in estate le barche a ritroso del fiume; se uno scoglio, o altro ostacolo, non lascia andar oltre il cane che guida gli altri, esso, seguito da tutto il branco, si getta a nuoto e va a risalire sull’altra sponda.
Il compenso alle loro fatiche che hanno i cani in Siberia non è guari superiore a quello che si dà al Kamtschatka. Hanno una razione giornaliera di dieci aringhe quasi in putrefazione.
Eppure sono così necessari all’uomo in Siberia questi animali che quando, come talvolta avviene, si mette fra di essi la moria e il numero grandemente ne scema, gli uomini costretti a far da sé ciò che soglion far fare a questi loro ausiliari, non ci riescono, la carestia non tarda a sopravvenire con tutte le sue conseguenze e colla conseguenza finale di una mortalità sterminata.
Nell’anno 1821 seguì appunto, per una malattia distruggitrice, in una parte della Siberia, la morte di un grandissimo numero di cani. Una famiglia perdette tutti quelli che aveva, meno due piccini cogli occhi ancora chiusi. La madre di quella famiglia aveva un bambino alla poppa; allattò insieme con questo anche i due cagnolini, che vennero su robusti, e furono stipite di una razza gagliarda.