Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Traduzione dall'inglese di A.C. Rossi (1922)
1845
Questo testo fa parte della raccolta Perdita di fiato (Raccolta)




Il 1002.do racconto

di Sherazade.




La realtà è più strana

d’ogni immaginazione.

VECCHIO ADAGIO.


Essendomi recentemente avvenuto di consultare, durante certe mie investigazioni sulla letterature orientali, il «Tellmenow Isitsoornot», 1 un’opera (come anche lo Zoar di Simeone Jochaides) quasi perfettamente sconosciuta, anche in Europa, e che non è stata mai citata, che io sappia, da alcun Americano, ad eccezione forse dell’Autore di «Curiosità della letteratura Americana»: avendo avuto occasione, come dico, di sfogliare alcune pagine della summenzionata notevolissima opera, non fui poco sorpreso di scoprire che il mondo letterario è stato sin qui stranamente in errore circa il fato della figlia del vizir, Sherazade, da quanto ce ne viene riferito nelle Mille e Una notte; e che lo scioglimento che vi si trova, se non del tutto inesatto, sin dove arriva, ha tuttavia il grave difetto di arrestarsi a mezzo della storia.

Per informazioni complete su questo interessante soggetto, devo rimandare il lettore curioso all’Isitsoornot stesso; ma nello stesso tempo, mi si vorrà scusare se pubblico un riassunto di quanto vi ho scoperto.

Ci si ricorderà che, nella versione usuale, un certo monarca, essendo per buone ragioni geloso della sua regina, non soltanto la mette a morte, ma fa un voto, per la sua barba e pel profeta, di sposare ogni notte la più bella vergine dei suoi domini, e di consegnarla al boia il mattino successivo.

Avendo per molti anni adempiuto al suo voto in modo letterale, e con una religiosa puntualità e metodo che gli conferirono un grande credito quale uomo di sentimento devoto e di eccellente buon senso, egli fu interrotto un pomeriggio (senza dubbio mentre stava pregando) da una visita del suo Gran Visir, alla cui figlia, sembra, era venuta un’idea.

Il nome di costei era Sherazade, e la sua idea, di redimere il paese dalla imposta spopolatrice delle sue bellezze, o di morire nell’impresa secondo il conosciuto costume di tutte le eroine.

Di conseguenza, e sebbene non ci risulti che si trattasse di un anno bisestile (il che rende il suo sacrificio più meritorio) essa deputa il gran visir suo padre per fare offerta al re della sua mano. Mano che il re accetta avidamente (egli intendeva di prendersela ad ogni modo, ma aveva rimandato la cosa di giorno in giorno, soltanto per paura del gran visir). Ma, accettandola ora, egli fa chiaramente comprendere a tutte le parti interessate che, gran visir o no, egli non ha la più leggera intenzione di recedere di una iota dal suo voto o dai suoi privilegi. Quando, dunque, la bella Sherazade insistette per sposare il re, e finì per sposarlo nonostante l’eccellente consiglio di suo padre di non far nulla di simile — quando, dico, volle sposarlo e lo sposò nonostante ogni imposizione, lo fece coi suoi begli occhi neri bene aperti, almeno quanto lo permetteva la natura del caso.

Sembra, tuttavia, che questa damigella politica (che aveva letto Macchiavelli, senza dubbio) avesse in mente un piccolo piano molto ingegnoso. La notte del matrimonio, essa fece in modo, dimentico ora sotto quale specioso pretesto, che sua sorella occupasse un giaciglio abbastanza vicino a quello della coppia regale per permettere una facile conversazione da un letto all’altro; e, poco prima che il gallo cantasse, prese cura di svegliare il buon monarca suo marito (che non gliene serbò rancore poichè intendeva di torcerle il collo il mattino appresso) fece in modo di svegliarlo, dico, (sebbene grazie a una eccellente coscienza e a una facile digestione egli dormisse magnificamente) per mezzo del profondo interesse di una storia (si trattava, mi pare, di un topo e di un gatto nero) che essa narrava (a voce molto bassa, naturalmente) a sua sorella. Accadde che, quando sorse il giorno, questa storia non era del tutto finita; e Sherazade secondo la natura delle cose non poteva finirla allora, poichè era gran tempo per lei di alzarsi ed essere strangolata — una cosa di ben poco più piacevole che l’impiccagione, se non forse leggermente più aristocratica!

La curiosità del re tuttavia prevalse, mi duole il dirlo, persino sui suoi solidi principi religiosi, e lo indusse a posporre per questa volta il compimento del suo voto sino al mattino seguente allo scopo e colla speranza di udire quella notte come la andava a finire pel gatto nero (un gatto nero, mi par proprio che fosse) e pel topo.

Giunta la notte, tuttavia, la Signora Sherazade non soltanto diede l’ultimo tocco al gatto nero ed al topo (il topo era azzurro) ma, prima di saper bene quel che si facesse si trovò profondamente avviluppata negli intrichi di una narrazione che si riferiva (se non sono del tutto in errore) a un cavallo color di rosa (con delle ali verdi) che camminava in una maniera violenta, per un movimento d’orologeria, e veniva caricato con una chiave color indaco. A questa storia il re prese un’interesse ancor più vivo che all’altra, e, come l’alba ruppe prima della sua conclusione (nonostante tutti gli sforzi della regina per finirla in tempo per la strangolazione), non restava altra risorsa che posporre di nuovo questa cerimonia per ventiquattro ore. La notte dipoi avvenne un incidente simile, con uguale risultato; e così la notte seguente e l’altra ancora: tanto che alla fine il buon monarca, essendo stato inevitabilmente privato di ogni possibilità di mantenere il suo voto durante un periodo di non meno che mille e una notte, o lo aveva completamente dimenticato allo spirare di questo tempo, o se ne fece assolvere al solito modo, o (ciò che è più probabile) lo ruppe decisamente, in un colla testa del padre confessore. In ogni caso Sherazade, la quale discendendo in linea diretta da Eva ereditò, forse, tutti e sette i panieri di ciarle che quest’ultima signora, come tutti sappiamo, raccolse sotto gli alberi del giardino dell’Eden, — Sherazade, dico, trionfò finalmente, e l’imposta sulla bellezza venne abolita.

Ora, questa conclusione (che è quella della storia quale ci è stata tramandata) è, senza dubbio, estremamente appropriata e piacevole; ma, ahimè, come molte cose piacevoli è più piacevole che vera: ed è all’'Isitsoornot che io debbo interamente i mezzi di correggere l’errore. «Le mieux», dice un proverbio francese, «est l’ennemi du bien»; e, accennando al fatto che Sherazade ereditò i sette panieri di ciarle, avrei dovuto aggiungere che essa li collocò ad interesse composto, di modo che eran poi diventati settantasette.

«Cara sorella» disse costei, la millesima e seconda notte (cito a questo punto il testo dell’Isitsoornot parola per parola) «cara sorella», disse, «ora che tutta quella piccola difficoltà circa la strangolazione è andata all’aria, e quell’odiosa tassa tanto felicemente abolita, mi sento colpevole di una grande indiscrezione per aver tenuto nascosta a te ed al sovrano (il quale, mi duole il dirlo, sta russando, cosa che nessun gentiluomo farebbe) la completa conclusione della Storia di Sinbad il marinaio. Questo personaggio passò attraverso molte altre avventure, e più interessanti, che quelle che vi ho narrate; ma la verità è, che avevo sonno quella tal notte che ve le raccontai, e fui così indotta ad abbreviarle, mancanza molto grave, per la quale spero che Allah mi vorrà perdonare. Ma non è ancor troppo tardi per rimediare alla mia negligenza; e non appena avrò dato al re un pizzicotto o due, così da svegliarlo abbastanza perchè cessi dal fare quell’orrendo rumore, ti intratterrò, (e anche lui se ne avrà voglia) col seguito di questa notevolissima storia».

Al che la Sorella di Sherazade secondo mi risulta dall’Isitsoornot, non diede segni di una gioia particolarmente intensa; ma il re, sufficientemente pizzicato, cessò infine di russare, e finalmente disse, «Hum!» e poi «Hoo!»; e la regina, interpretando queste parole (che sono senza dubbio arabe) nel senso che egli era estremamente attento, e che avrebbe fatto del suo meglio per non russare più — la regina, dico, avendo sistemato queste cose con sua soddisfazione, riprese così, senz’altro, la storia di Sinbad il marinaio:

«Infine, nella mia vecchia età (queste sono le parole dello stesso Sinbad, almeno così le spacciò Sherazade), infine, nella mia vecchia età, e dopo aver goduto molti anni di tranquillità al mio paese, ricominciai a essere tormentato dal desiderio di visitare contrade straniere; e un giorno, senza partecipare il mio disegno a nessuno della famiglia, feci alcune balle di mercanzie tra le più preziose e meno ingombranti, e, affidandole a un facchino, scesi con lui verso la riva del mare, onde attendere l’arrivo casuale di qualche nave che mi portasse fuori del regno, in qualche regione da me non ancora esplorata».

«Deposti i bagagli sulla sabbia, ci sedemmo sotto alcuni alberi, e guardammo sull’Oceano nella speranza di scoprire una nave, ma per parecchie ore non ne avvistammo nessuna. Infine mi sembrò di udire un suono singolare, come un ronzio o un mormorio, e il facchino, dopo aver ascoltato alquanto, dichiarò di distinguerlo anche lui. Dopo un po’ divenne più forte, cosicchè non v’era dubbio alcuno che l’oggetto che lo produceva si stava avvicinando. Infine, sulla linea dell’orizzonte, scoprimmo un punto nero, che aumentò rapidamente di dimensioni, sinchè potemmo accorgerci che si trattava di un enorme mostro, che nuotava colla più gran parte del corpo sopra la superficie del mare. Venne verso di noi con velocità inconcepibile, sollevando grandi ondate di spuma attorno al suo petto, e illuminando tutta quella parte del mare che percorreva con una lunga linea di fuoco, che si stendeva a grande distanza.

Come si fu avvicinato lo vedemmo molto distintamente. La sua lunghezza era eguale a quella di tre dei più alti alberi che siano mai cresciuti, ed era tanto largo quanto la grande sala delle udienze nel vostro palazzo, o il più sublime e munifico dei Califfi. Il suo corpo, diverso da quello dei pesci ordinari, ero solido come roccia, e completamente nero per tutta quella parte che galleggiava sopra l’acqua, ad eccezione di una stretta fascia rosso-sangue che lo cingeva completamente. Il ventre, che stava sott’acqua, e che potevamo appena intravvedere ogni tanto, a seconda che il mostro si alzava o scendeva colle ondate, era interamente coperto di scaglie metalliche, di un colore simile a quello della luna in tempo nebbioso. Il dorso era piatto e quasi bianco, e su di lui si drizzavano sei spine, lunghe circa la metà dell’intero corpo.

L’orribile creatura non aveva bocca apparentemente, ma, come per compensare questa deficienza, era provvista di almeno un’ottantina di occhi, che uscivano dalle orbite come quelli del drago volante, ed erano disposti intorno al corpo in due file, l’una sopra l’altra, e parallele alla fascia rosso-sangue, che sembrava compisse la funzione di sopracciglia. Due o tre di questi terribili occhi erano molto più grossi degli altri e apparivano fatti di oro massiccio.

«Sebbene l’animale si fosse avvicinato, come ho detto, colla più grande rapidità, si moveva evidentemente per pura necromanzia, poichè non aveva nè pinne a modo di pesce, nè piedi palmati come un’anatra, nè ali come il pesce volante che è spinto dal vento a modo d’un vascello; e nemmeno si spingeva innanzi contorcendosi come fanno le anguille. La testa e la coda avevano la stessa forma, soltanto non lungi da quest’ultima si aprivano due piccoli fori ad uso di narici, e attraverso i quali il mostro soffiava fuori il suo fiato denso con prodigiosa violenza e con un suono fischiante e spiacevole.

«Il nostro terrore fu estremo vedendo quell’orribile oggetto, ma fu tuttavia sorpassato dal nostro stupore quando, vedendolo più da vicino, scorgemmo sul dorso della creatura un gran numero di animali che avevan press’a poco la grossezza e la forma di uomini, e che somigliavan loro in tutto tranne che non portavano vesti (a modo di uomini), essendo forniti (da natura senza dubbio) di un rivestimento brutto e incomodo, molto simile a del panno, ma così aderente alla pelle da renderne i poveri diavoli comicamente imbarazzati, e da infligger loro, a quanto sembrava, delle gravi sofferenze. Sul cocuzzolo del capo portavano certe scatole dall’aspetto quadrato che, a prima vista, mi sembrò potessero corrispondere ai nostri turbanti, ma presto mi dovetti accorgere che erano eccessivamente solide e massicce, e ne conclusi che dovevano essere dei congegni intesi, grazie al loro forte peso, a tenere le teste di quegli animali ben salde sulle loro spalle. Attorno al collo di quelle creature erano fissati dei collari neri, (insegne di servaggio, senza dubbio) quali noi facciamo portare ai nostri cani, soltanto molto più grandi e infinitamente più rigidi, cosicchè era perfettamente impossibile a quelle misere vittime il muovere il capo in qualsiasi direzione senza un movimento corrispondente del corpo; e così essi erano dannati a una contemplazione perpetua del proprio naso; spettacolo camuso in meraviglioso, per non dir spaventoso, grado.

«Allorchè il mostro ebbe quasi raggiunta la spiaggia dove noi ci trovavamo, esso spinse d’improvviso all’infuori uno dei suoi occhi, e ne emise una terribile vampata di fuoco, accompagnata da una densa nube di fumo, e da un rumore che non potrei comparare che al tuono. Come il fumo si dileguò, vedemmo uno degli strani uomini-bestie ritto vicino alla testa dell’enorme animale, con una tromba in mano, attraverso la quale (portandola alla bocca) egli si rivolse tosto a noi con certi accenti forti, ruvidi e sgradevoli, che forse avremmo preso per un linguaggio, se non fossero stati così intensamente nasali.

«Essendo evidente che mi si parlava, non sapevo come rispondere, dato che non v’era modo di capire quel che si diceva; e in questa difficoltà mi volsi al facchino, che era quasi svenuto dallo spavento, e gli domandai, a sua opinione, di che specie di mostro si trattasse, che cosa volesse, e che specie di creature fossero quelle che brulicavano sul suo dorso. Egli replicò, nel miglior modo che potè data la sua trepidazione, che egli aveva inteso parlare una volta di questo mostro marino; che era un demonio crudele, con delle interiora di zolfo e sangue di foco, creato dai geni malvagi quale mezzo per poter infliggere dei tormenti all’umanità; che i cosi sulla sua schiena erano dei parassiti simili a quelli che infestano talvolta i cani ed i gatti, soltanto un po’ più grossi e più salvatici; e che questi parassiti avevan la loro utilità, sebbene pel verso del male; perchè, in forza delle torture che infliggevano al mostro mordicchiandolo e punzecchiandolo, esso era portato a quel parossismo di furore che era richiesto per farlo ruggire e commettere il male, e riempire così i vendicativi e maligni disegni dei geni malvagi.

«Questa spiegazione mi determinò a darmela a gambe, e senza volgermi una sola volta, corsi a tutta velocità su verso le colline, mentre il facchino correva altrettanto presto, ma in direzione quasi opposta, cosicchè grazie a questo sistema, egli finì per scappare con tutti i miei bagagli, dei quali egli prese senza dubbio eccellente cura, sebbene non possa dirlo con precisione, dato che non ricordo di averlo visto mai più.

«Quanto a me, fui così ardentemente inseguito da uno sciame di quegli uomini-parassiti (che erano venuti a terra con dei battelli) che presto venni raggiunto e, legato mani e piedi, trasportato sul mostro, che immediatamente ricominciò a nuotare verso l’alto mare.

«Mi pentii allora amaramente della follia di aver lasciato la mia comoda casa, per mettere a repentaglio la mia vita in simili avventure; ma, il rimpianto essendo inutile, mi adattai alla mia condizione, e cercai di assicurarmi la benevolenza dell’uomo-bestia che possedeva la tromba, e che sembrava esercitare una certa autorità sui suoi compagni. Riuscii così bene in questo tentativo che, in pochi giorni, la creatura mi diede varii segni del suo favore, e alla fine si prese la briga di insegnarmi i rudimenti di quello che egli era abbastanza vanitoso da chiamare il suo linguaggio; cosicchè, dopo qualche tempo, potei conversare con lui speditamente. e mi riuscì di fargli comprendere il mio grande desiderio di vedere il mondo.

«Washish squoshish squeak, Sinbad, hey diddle diddle, grunt and grumble, hiss, whiss mi disse un giorno, dopo il pranzo; ma io domando mille volte perdono, avevo dimenticato che vostra Maestà non è al corrente del dialetto dei cock-neighs2 (Così erano chiamati gli uomini bestie; immagino per la ragione che il loro linguaggio formava l’anello di congiunzione tra quello del cavallo e quello del gallo 3). Col vostro permesso, tradurrò quello che disse: «Washish squashish, ecc. vale a dire «Son felice di vedere, caro Sinbad, che voi siete veramente un ottimo diavolo; noi stiamo appunto facendo ciò che si chiama circumnavigazione del globo: e poichè voi siete tanto desideroso di vedere il mondo, farò uno strappo alle regole, e vi concederò il passaggio gratuito sul dorso di questa bestia».

Come la regina Sherazade fu giunta a questo punto, riferisce lo Isitsoornot il re si voltò dal fianco destro sul sinistro e disse:

«È, in verità sorprendente, mia cara regina, che voi abbiate taciute sin qui queste succesive avventure di Sinbad. Debbo dirvelo, le trovo estremamente appassionanti e strane?»

Il re essendosi in tal modo espresso, la bella Sherazade, ci dicono, riprese la sua storia nei seguenti termini:

«Sinbad continuò così la sua narrazione: Io ringraziai l’uomo-bestia per la sua bontà, e tosto mi trovai come a casa mia sul dorso del mostro, che nuotava a velocità prodigiosa traverso l’oceano; sebbene la superficie di questo, in quella parte del mondo, non sia affatto piatta, ma rotonda come un melograno, così che andavamo ad ogni momento all’insù o all’ingiù.

«Questo, secondo me, è molto singolare» interruppe il re.

«E tuttavia, è perfettamente vero» replicò Sherazade.

«Ho i miei dubbi» riprese il re; «ma, vi prego, vogliate continuare la vostra storia.»

«Va bene» disse la regina. «Il mostro, continuò Sinbad, nuotava, come ho riferito, all’insù e all’ingiù, sin che, alla fine, arrivammo ad un’isola, di molte centinaia di miglia di circonferenza, ma che, tuttavia, era stata costrutta da una colonia di piccoli esseri simili a bruchi» 4.

«Hum!» disse il re.

«Lasciando quest’isola» disse Sinbad (poiche Sherazade, sia ben inteso, non rilevò la maleducata esclamazione di suo marito), — lasciando quest’isola, giungemmo ad un’altra dove le foreste erano di solida pietra, e così dura che esse mandavano a pezzi le ascie più finemente temprate colle quali tentammo di abbatterle.» 5.

«Hum!» disse il re, di nuovo; ma Sherazade, senza far attenzione a lui, continuò nel linguaggio di Sinbad:

«Passando oltre quest’isola, giungemmo in una contrada dove vi era una caverna che s’addentrava per 30 0 40 miglia nelle viscere della terra, e che conteneva un più gran numero di palazzi, e molto più spaziosi e magnifici, di quanto non se ne trovino in tutta Damasco e Bagdad. Dai tetti di quei palazzi pendevano delle miriadi di gemme, simili a diamanti, ma più grosse che uomini; e frammezzo alle strade formate da torri, da piramidi e da templi, scorrevano delle immense fiumane nere come l’ebano, e pullulanti di pesci privi di occhi.» 6

«Hum!» disse il re.

«Nuotammo allora verso una regione del mare nella quale incontrammo un’eccelsa montagna, pei cui fianchi scorrevano torrenti di metallo liquefatto, alcuni dei quali eran larghi dodici miglia e lunghi sessanta, 7 mentre da un abisso che si apriva sulla vetta usciva una così enorme quantità di ceneri che il sole scomparve completamente dal cielo, e le tenebre divennero più fitte che alla mezzanotte più oscura; tanto che quando già ci trovavamo alla distanza di 150 miglia dalla montagna, ci riusciva ancora impossibile vedere qualsiasi oggetto, anche bianchissimo, per quanto vicino lo portassimo agli occhi.» 8

«Hum!» dise il re.

«Lasciata questa costa, il mostro continuò il suo viaggio sin quando ci imbattemmo in una terra nella quale la natura delle cose sembrava capovolta, poichè ci fu dato vedere un gran lago sul fondo del quale, a più di cento piedi sotto lo specchio dell’acqua, era in piena vegetazione una foresta di alberi alti e lussureggianti. 9.

«Hoo!» disse il re.

«Alcune centinaia di miglia più in là ci portarono in un clima dove l’atmosfera era così densa da sopportare del ferro, dell’acciaio, allo stesso modo che la nostra sostiene le piume.» 10

«Caspita!» disse il re.

«Procedendo sempre nella stessa direzione, arrivammo tosto nella più magnifica regione di tutto il mondo. La traversava serpeggiando uno splendido fiume, per parecchie migliaia di miglia. Questo fiume era di una profondità incredibile e di una trasparenza più ricca che quella dell’ambra. Era largo da tre a sei miglia; e le sue rive, che salivano perpendicolarmente dalle due parti a un’altezza di mille e duecento piedi, erano incoronate da alberi eternamente fioriti, e da fiori perpetui e profumati, che facevano di tutto il territorio un solo sgargiante giardino; ma questa lussureggiante contrada si chiamava il Regno dell’Orrore, e l’entrarvi portava a morte inevitabile» 11.

«Humph!» disse il re.

«Lasciammo questo regno in gran fretta, e dopo alcuni giorni, giungemmo ad un’altro, dove fummo stupefatti al vedere delle miriadi di mostruosi animali che portavano sul capo delle corna simili a falci. Queste orribili bestie si scavano delle vaste caverne nel suolo, a forma di camino, e ne foderano i fianchi con delle roccie, disposte l’una sopra l’altra in modo, che cadono istantaneamente non appena calpestate da qualche altro animale, precipitandolo così nell’antro del mostro, dove il suo sangue viene immediatamente succhiato e la sua carcassa sprezzantemente buttata fuori a immensa distanza dalla «Caverna della morte» 12.

«Pooh!» disse il re.

«Continuando il nostro viaggio, scorgemmo una regione dove dei vegetali non crescevano sul suolo, ma nell’aria 13. Ve n’erano altri che sorgevano sulla sostanza di altri vegetali 14. Altri traevano la loro sostanza dal corpo di animali viventi; 15 e ve n’erano poi altri che splendevano tutti di un fuoco intenso 16 altri che si muovevano liberamente da un luogo all’altro 17, e, ciò che era ancor più meraviglioso scoprimmo dei fiori che vivevano e respiravano e muovevano le loro membra a piacere, e avevano inoltre la stessa detestabile passione dell’umanità di rendere schiave delle altre creature, e confinarle in prigioni orrende e solitarie sino al compimento di determinati compiti! 18.

«Eh, via!» disse il re.

«Lasciando questa terra, giungemmo presto in un altra dove le api e gli uccelli sono dei matematici tanto geniali e eruditi, da istruire continuamente nella scienza della geometria i sapienti dell’impero. Il re del luogo avendo offerto un premio per la soluzione di due problemi difficilissimi, essi vennero risolti immediatamente: l’uno dalle api, e l’altro dagli uccelli; ma serbando il re segreta la loro soluzione, fu soltanto dopo le più profonde ed affaticanti ricerche, e dopo che un’infinità di libroni furono scritti, per una lunga serie di anni, che i matematici giunsero infine alle identiche soluzioni che erano state trovate sin dal primo momento dalle api e dagli uccelli» 19.

«Per l’anima mia!» disse il re.

«Avevamo appena perduto di vista questo impero quando ci trovammo prossimi a un altro, dalle cui spiaggie volò al disopra delle nostre teste uno stormo di volatili largo un miglio, e lungo duecento e quaranta miglia; così che, sebbene essi volassero alla velocità di un miglio al minuto, ci vollero non meno di quattro ore perchè passasse sopra di noi l’intero stormo, comprendeva parecchi miliardi di uccelli» 20.

«Giuggiole!» disse il re.

«Appena ci trovavamo liberi da questi uccelli, che ci arrecarono gravi imbarazzi, quando fummo terrorizzati dall’apparizione di un volatile di specie diversa, e infinitamente più grande persino degli uccelli roc che avevo incontrati nei miei precedenti viaggi; poichè era più grosso che la più grande delle cupole del vostro serraglio, o il più munifico tra i Califfi. Questo terribile volatile non aveva apparentemente testa, ma consisteva unicamente in un ventre, che era di prodigiosa rotondità e grassezza, di una sostanza dall’aspetto molle, liscio, brillante e screziato a strisce di varii colori. Tra i suoi artigli il mostro si stava portando via verso il suo nido nei cieli una casa dalla quale aveva asportato il tetto, e nell’interno della quale vedemmo distintamente degli esseri umani, ì quali erano senza dubbio in uno stato di spaventosa disperazione per l’orribile fato che li aspettava. Noi urlammo a tutta possa, nella speranza di spaventare l’uccello e fargli lasciare la preda; ma esso diede soltanto uno sbuffo, come di rabbia, e lasciò cadere sulle nostre teste un sacco pesante, che trovammo pieno di sabbia.

«Frottole!» disse il re.

«Fu subito dopo questa avventura che incontrammo un continente d’immensa estensione e di solidità prodigiosa, il quale nondimeno veniva interamente sopportato sul dorso di una vacca azzurra che non aveva meno di quattrocento corna» 21.

«Questo lo credo,» disse il re «poichè ho già letto qualcosa di simile in un libro.»

«Passammo immediatamente al disotto di questo continente (nuotando tra le gambe della vacca), e, dopo alcune ore, ci trovammo in una contrada veramente meravigliosa, la quale, secondo mi informò l’uomo-bestia, era la sua terra nativa, abitata da esseri della sua specie. Questo rialzò molto l’uomo-bestia nella mia stima, e in realtà, cominciai a sentir vergogna della famigliarità colla quale l’avevo trattato; poichè trovai che gli uomini-bestie in genere erano una nazione di potentissimi maghi, che vivevano con dei vermi nel cervello, 22 i quali senza dubbio, servivano a stimolarli coi loro dolorosi contorcimenti e soprassalti ai più miracolosi sforzi di immaginazione.

«Sciocchezze!» disse il re.

«Tra i maghi vivevano addomesticati diversi animali di specie molto singolare; vi era ad esempio un enorme cavallo le cui ossa erano di ferro e il cui sangue era acqua bollente. Invece di biada, aveva delle pietre nere per cibo usuale; e tuttavia, nonostante un regime così severo, era tanto forte e veloce da poter trascinare un carico più pesante che il più grandioso tempio di questa città, a una velocità sorpassante quella di molti uccelli 23.

«Bubbole!» disse il re.

«Vidi anche tra questa nazione una gallina senza penne, ma più grande di un cammello; in luogo di ossa e di carne aveva del ferro e dei mattoni; il suo sangue, come quello del cavallo (al quale era infatti molto affine) era acqua bollente; e come lui non mangiava altro che legno e pietre nere. Questa gallina produceva sovente un centinaio di pulcini al giorno; e, dopo la nascita, essi dimoravano per parecchie settimane nello stomaco della madre» 24.

«La la!» disse il re.

«Uno di questi potenti negromanti fece un uomo di ottone e legno e cuoio e lo dotò di tale ingegnosità che avrebbe battuto agli scacchi l’intera razza umana, ad eccezione del gran Califfo Haroun Al Raschid 25. Un altro di questi maghi costrusse, cogli stessi materiali, una creatura che svergognò persino il genio di colui che l’aveva fatta, perchè tanto grandi erano le sue facoltà ragionatrici che, in un secondo, compiva dei calcoli di tale portata che avrebbero richiesto il lavoro riunito di 50.000 uomini di carne e ossa durante un anno 26. Ma uno stregone ancor più stupefacente si foggiò una potente creatura che non era uomo nè bestia, ma che aveva un cervello di piombo, frammisto a una sostanza nera simile a pece, e delle dita che impiegava con tale incredibile velocità e destrezza da copiare senza fatica ventimila copie del Corano in un’ora; e questo con sì squisita precisione, che in tutte le copie non se ne troverebbe una diversa dall’altra nel modo più impercettibile. Questo congegno era di forza prodigiosa, tanto da innalzare o rovesciare i più potenti imperi in un soffio; ma il suo potere si esercitava tanto in male che in bene.»

«Ridicolo!» disse il re.

«In mezzo a questa nazione di negromanti ve n’era anche uno che aveva nelle vene il sangue di una salamandra; poichè non aveva scrupolo di sedere a fumare la sua pipa in un forno ardente 27, sin quando il suo pranzo fosse arrostito sul pavimento. Un’altro aveva la facoltà di trasformare in oro i metalli comuni senza nemmeno guardarli durante l’operazione 28. Un altro aveva una tale delicatezza di tocco da fare dei fili tanto sottili da essere completamente invisibili 29. Un altro aveva una tale rapidità di percezione da contare i singoli movimenti di un corpo elastico, mentre balzava innanzi ed indietro alla velocità di 900 milioni di volte al minuto secondo 30.

«Assurdo!» disse il re.

«Un altro di questi fattucchieri, per mezzo di un filtro che nessuno è ancora riuscito a vedere, faceva che i cadaveri dei suoi compagni brandissero le armi, tirassero dei calci, combattessero, e persino si alzassero e danzassero, secondo la sua volontà 31. Un altro aveva coltivato la sua voce a tal segno che si faceva intendere da un capo all’altro del mondo. Un altro aveva un braccio tanto lungo che avrebbe potuto star seduto in Damasco e vergare una lettera a Bagdad, o, in verità, a qualsiasi distanza 32. Un altro comandò al fulmine di scendere dal cielo sino a lui, e quegli venne alla sua chiamata, e gli servì di passatempo. Un altro prese due suoni fortissimi e unendoli ottenne il silenzio. Un altro fabbricò una profonda oscurità per mezzo di due luci brillanti 33. Un altro produceva il ghiaccio in una fornace ardente 34. Un altro comandava al sole di dipingere il suo ritratto, ed il sole lo eseguiva 35. Un altro prese questa luminaria celeste colla luna ed i pianeti, ed avendoli prima pesati con scrupolosa esattezza, esplorò le loro viscere e scoperse la solidità della sostanza di cui son fatti. Ma tutta la nazione, è in realtà, di tale abilità necromantica, che non solo gli infanti, ma i cani e gatti più volgari non hanno difficoltà a vedere oggetti che non esistono affatto, o che per lo meno erano stati cancellati dalla faccia del creato, venti milioni d’anni prima della nascita della nazione stessa 36.

«Balordo!» disse il re.

«Le mogli e le figlie di questi maghi incomparabilmente grandi e sapienti» continuò Sherazade, senz’essere in alcun modo disturbata da queste frequenti e pochissimo educate interruzioni da parte di suo marito, «le mogli e le figlie di questi eminenti stregoni sono in tutto dei modelli d’ogni compitezza e raffinatezza, e lo sarebbero anche d’ogni cosa bella ed interessante non fosse per una fatalità sciagurata che le persegue, e dalla quale nemmeno i miracolosi poteri dei loro padri e mariti hanno saputo sin qui salvarle. Certe fatalità si presentano sotto una forma, certe sotto un’altra, ma questa di cui parlo si è manifestata sotto la forma d’una fissazione».

«Una.... cosa?!»»

«Una fissazione — disse Sherazade «Uno dei genii maligni, che stanno perpetuamente all’erta per procurare il male, ha messo in testa a queste compite dame che quella tal cosa che va sotto il nome di «bellezza personale» consiste essenzialmente nella sporgenza di quella regione del corpo che giace non lontano dal basso delle reni. La perfezione della grazia, dicono, è in ragion diretta delle dimensioni di questa protuberanza. Ossessionate lungo tempo da questa idea, ed i cuscini essendo a buon mercato in quel paese, i giorni son da gran pezza tramontati in cui era possibile distinguere una donna da un dromedario....».

«Basta!» disse il re, «Non posso, nè voglio, ascoltare oltre. Mi avete già dato un terribile mal di capo con tutte le vostre bugie. E il giorno, inoltre, comincia a spuntare. Da quanto tempo siamo sposati? La mia coscienza comincia di nuovo a turbarmi. E poi quell’affare del dromedario.... Mi prendete proprio per un imbecille? Tutto sommato, potreste alzarvi e andare alla strangolazione».

Queste parole, a quanto apprendo dallo Isitsoornot, addolorarono e stupirono Sherazade: ma sapendo che il re era uomo di integrità scrupolosa, e perfettamente incapace di tradire la sua parola, si rassegnò al suo fato con buona grazia. Essa derivò, tuttavia, grandi consolazioni (mentre le stringevano il laccio al collo) dal pensiero che gran parte della storia restava ancora da narrare, e che la petulanza di quel bruto di suo marito aveva già avuto la sua giusta ricompensa, privandolo del racconto di molte altre meravigliose avventure.

  1. «Dimmi se è vero o no».
  2. Per chi non lo sapesse, cockney è un termine (intraducibile) che viene a significare «Londinese di pura ruzza».
  3. Cock = gallo, neigh = nitrire.
  4. I coralli.
  5. “Una delle più notevoli curiosità naturali del Texas è una foresta pietrificata, vicino alia foce del fiume Pasigno. Consiste di parecchie centinaia di alberi, tutti eretti, e volti in pietra. Alcuni alberi che stanno crescendo ora, sono pietrificati in parte. Questo è un fatto molto strano per i cultori delle scienze naturali, e deve condurli a modificare la esistente teoria della pietrificazione„ Kenedy. Questa relazione, cui non si prestò dapprima alcuna fede, è stata corroborata dalla scoperta di una foresta completamente pietrificata, presso la foce del fiume Cheienne, o Chienne, che ha la sua sorgente nelle Colline Nere, della catena delle Rocciose.
    Non v’è forse, sulla superficie del globo spettacolo più notevole, sia dal punto divista geologico che pittoresco, di quello che presenta la foresta pietrificata nelle vicinanze del Cairo. Il viaggiatore, passate le tombe dei Califfi, appena fuori dalle porte della città, procede verso il Sud, quasi ad angolo retto colla strada che traverso il deserto conduce a Suez, e dopo aver percorso una decina di miglia di una vallata bassa e deserta, coperta di sabbia, di ghiaia e di conchiglie marine fresche come se la marea si fosse ritirata il giorno prima, scavalca una fila di basse colline sabbiose, che per qualche tempo hanno corso parallelamente alla sua strada. La scena che si presenta a lui è oltre ogni dire singolare e desolata. Una massa di frammenti di alberi, tutti mutati in pietra, e risonanti come ferro fuso sotto gli zoccoli del suo cavallo, si stende per miglia e miglia attorno a lui, nella forma di una foresta morta e prostrata. Il legno è di un color bruno scuro, ma conserva perfettamente la sua forma; i frammenti son lunghi da uno a quindici piedi, e da mezzo a tre piedi di diametro, e giacciono tanto fitti, ovunque giunga l’occhio, che un asinello egiziano può appena trovare la sua via frammezzo a loro; e disposti in modo tanto naturale, che in Scozia o in Irlanda potrebbe passare senz’altro per un enorme stagno prosciugato, sul fondo del quale gli alberi esumati stanno a marcire al sole. Le radici e gli elementi dei rami sono, in molti casi quasi perfetti, e in alcuni i fori di tarlo rosi sotto la corteccia sono facilmente riconoscibili. I vasi linfatici più delicati, e tutte le parti più fini al centro del legno, sono perfettamente integri, e reggono all’esame coi più forti ingrandimenti.
    Tutti sono così completamente silicizzati da incidere il vetro, e suscettibili della più brillante lucidatura.

    Dall’Asiatic Magazzine.

  6. La Caverna dei Mammouth nel Kentucky.
  7. «Nella terra del Ghiaccio, 1783».
  8. «Durante l’eruzione del monte Hecla, nel 1760, nubi di questo genere produssero un’oscurità tanto densa che a Glamuba, più di 50 leghe distante della montagna, la gente era costretta a trovare la propria strada a tastoni. Durante l’eruzione del Vesuvio» nel 1794, a Caserta, a 4 leghe di distanza, la gente poteva camminare solo alla luce delle torce. Il I di maggio del 1812, una nube di ceneri vulcaniche e sabbia, proveniente da un vulcano nell’ìsola di St. Vincent, coperse tutte le Barbados, stendendovi sopra un velo tanto tenebroso che a mezzogiorno, all’aria aperta, non si potevano scorgere gli alberi, o altri oggetti prossimi, e nemmeno un fazzoletto bianco a un palmo dall’occhio».            Murray, p. 215 Ed. Plil.
  9. «Nell’anno 1790, nelle Caracche, durante un terremoto, un tratto di terreno granitico sprofondò formando un lago di ottocento yarde di diametro, e profondo da 50 a 100 piedi. Era una parte della foresta di Ripao che era sprofondata, e gli alberi rimasero verdi per parecchi mesi sotto l’acqua.    Murray, p. 221
  10. «Il più duro acciaio che si sia mai fabbricato può essere ridotto, sottoponendolo all’azione del cannello ossidrico, in polvere impalpabile, che si libra facilmente nell’aria».
  11. «La regione del Niger. Vedere il Colonial Magazine di Simmond.
  12. «Myrmeleon. — Il termine di “mostro„ è egualmente applicabile a dei piccoli oggetti anormali quanto ai grandi; mentre degli epiteti quali “vasto„ sono puramente comparativi. La caverna del Myrmeleon è vasta in confronto del buco dove vive la formica rossa comune. Un grano di silice è anche lui “una roccia„.
  13. «L’Epidendrum, flos aeris della famiglia delle orchidee, cresce appoggiando la sola superficie delle sue radici a un’albero o a qualsiasi altro oggetto, dal quale non deriva alcun nutrimento, vivendo unicamente d’aria.»
  14. «I parassiti, quale la meravigliosa Rafflesia Arnoldi».
  15. «Schouw asserisce che vi è una classe di piante che crescono su degli animali viventi, le Planae Epizoae, tali sarebbero i Fuci e le Algae.
    Il signor J. B. Williams, di Salem, nel Massachussett, fece dono all’Istituto Nazionale d’un insetto originario della Nuova Zelanda, colla seguente descrizione: “Lo Hotte, che è un bruco, o verme, vien trovato ai piedi dell’albero Rata, con una pianta che esce fuori del suo capo. Questo singolarissimo e veramente straordinario insetto sale sull’albero Rata o sul Pariri, e penetrando dalla cima, si apre una via, perforando il tronco dell’albero sin quando raggiunge la radice; ne esce allora, e muore, o resta in catalessi, mentre la pianta si propaga fuori della sua testa, il corpo resta perfetto e intero, di una sostanza più dura che non quando è vivo. Da questo insetto gli indigeni traggono una materia colorante pei loro tatuaggi„».
  16. «Nelle miniere ed in certe caverne naturali si trovano certe muffe crittogame che emettono una forforescenza intensa».
  17. «L’orchis, schabious, e vallisneria».
  18. «La corolla di questo fiore (Aristolochia clemaitis) che è tubolare, ma termina in alto in un lembo linguiforme, si gonfia alla base a guisa di globo. La parte tubolare è internamente irta di peli duri, diretti all’ingiù. La parte globulare contiene il pistillo, che consiste soltanto di un’ovaia e di uno stigma, insieme agli stami che lo circondano. Ma gli stami, essendo più corti persino dell’ovaia, non possono scaricarsi dal polline in modo da farlo cadere sullo stigma, dato che il fiore sta sempre diritto sin dopo la fecondazione. Quindi il polline, senza un aiuto addizionale e preciso, deve necessariamente cadere in fondo alla corolla. L’aiuto che la natura ha provveduto in questo caso, è quello della Tipula Pennicornis, un piccolo insetto il quale, entrando nel tubo della corolla in cerca di miele, scende sino al fondo, e vi si volta e rivolta sin quando è ricoperto di polline, ma, non essendo capace di aprirsi a forza la via del ritorno, a cagione dei peli volti in giù, che convergono tutti verso uno stesso punto come i fili di ferro di una trappola da topi, e sopportando poco pazientemente la sua prigionia, si precipita innanzi e indietro, tentando ogni angolo, sin quando a forza di traversare lo stigma lo copre di polline in modo sufficiente alla sua fecondazione e di conseguenza il fiore comincia ad afflosciarsi, e i peli a ricadere lungo i fianchi del tubo lasciando così un agevole passaggio all’insetto»
    R. P. Keitli, Sistema di Fisiologia Botanica.
  19. «Le api, dal primo momento della loro esistenza, hanno sempre costrutto le loro celle con tali lati, in quel preciso numero, ed a quella esatta inclinazione, che venne poi dimostrato (in un problema che involge i più profondi principi matematici) essere proprio i lati, e il numero e l’inclinazione che permette a quelle creature la miglior utilizzazione dello spazio compatibile colla più grande stabilità di struttura.
    Durante l’ultima parte del secolo scorso (il XVIII), sorse tra i matematici il problema di determinare quale fosse la miglior forma per le ali di un molino a vento, a seconda della loro distanza variabile dalle pale, e dai centri di rotazione. È questo un problema estremamente complesso, perchè si tratta, in altre parole, di trovare la miglior posizione possibile a un’infinità di distanze variabili, e a un’infinità di punti sul braccio della ruota. Vi furono migliaia di futili tentativi di rispondere al quesito, da parte dei più illustri matematici. E quando infine una indiscutibile soluzione fu scoperta, ci si accorse che le ali degli uccelli l’avevano fornita con assoluta precisione sin da quando il primo uccello aveva attraversato l’aria».
  20. «...Egli osservò uno stormo di piccioni che passava tra Frankfort e il territorio di Indiana. Era largo almeno un miglio, ed impiegò quattro ore a passare; il che, alla velocità di un miglio al minuto, dà una lunghezza di 240 miglia; e supponendo una densità di 3 piccioni ogni yarda quadrata si ha un totale di 2.230.272.000 piccioni». Dai “Viaggi nel Canada e negli Stati Uniti„ del tenente F. Hall.
  21. ​ La terra è sopportata da una vacca di colore azzurro, le cui coma sono In numero di quattrocento.

    Il Corano - Secondo Sale.

  22. Gli Entozoa o semi intestinali, sono stati ripetutamente osservati nei muscoli, e nella sostanza cerebrale dell’uomo.— Vedere la Fisiologia di Wiatt.
  23. Sul Great Western Riaway, tra Londra e Exeter, sì è raggiunta una velocità di 71 miglia all’ora. Un treno che pesava 90 tonnellate è stato convogliato da Paddington a Dìdcot (53 miglia) in 51 minuti.
  24. Lo Eccaleobion.
  25. L’automa giocatore di scacchi, di Maelzel.
  26. La macchina calcolatrice di Babbage.
  27. Chabut, e centinaia d’altri dopo di lui.
  28. L’elettrotipo.
  29. Wollaston fece un filo di platino pel campo di vista di un telescopio che era un diciottomillesìino d’oncia di spessore. Era visibile soltanto al microscopio.
  30. Newton dimostrò che la retina sotto l’influenza dei raggi violetti dello spettro vibra 900.000.000 di volte in un secondo.
  31. La pila Voltaica.
  32. Il telegrafo elettrico trasmette il pensiero istantaneamente, almeno per quanto riguarda le distanze terrestri.
  33. Sono questi esperimenti ordinari di filosofia naturale. Se due raggi rossi provenienti da due punte luminosi vengono immessi in una camera oscura in modo che cadano su di una superficie bianca, e differiscono di lunghezza di cm. 0,0000258 di un’onda, la loro intensità risulta raddoppiata. Così pure se la differenza di lunghezza è di un multiplo esatto di quella frazione. Un multiplo di 2¼, 3¼, ecc. dà un’intensità uguale a quella di un solo raggio: ma un multiplo di 2½, 3½ ecc. dà il risultato di una oscurità assoluta. Coi raggi violetti si hanno dei risultati identici quando la differenza di lunghezza è di cm. 0.000157 di oncia, e con tutti gli altri raggi i risultati sono gli stessi, mentre la differenza varia aumentando uniformemente dal violetto al rosso.
    Degli esperimenti analoghi fatti sui suoni danno pure dei risultati dello stesso genere.
  34. Mettete un crogiuolo di platino su una fiamma a spirito, e mantenetelo al calor rosso; versateci dell’acido solforico, il quale sebbene sia il più volatile dei corpi a temperatura ordinaria, si fissa completamente in una provetta così riscaldata e nemmeno una goccia svapora: circondato da un’atmosfera propria, in realtà non tocca nemmeno le pareti del crogiolo. Si introducano ora alcune goccie di acqua e l’acido, venendo istantaneamente a contatto delle pareti riscaldate, sfugge in vapori di acido solforico, e tanto rapidamente che il calorico dell’acqua se ne va con lui, e questa cade al fondo sotto forma di un ghiacciuolo; cogliendo il momento prima che fonda di nuovo, si può togliere un pezzo di ghiaccio da un recipiente infocato.
  35. Il dagherrotipo.
  36. Sebbene la luce viaggi a una velocità di 167.000 miglia al secondo, la distanza di «Cigno 61» (la sola stella la cui distanza sia esattamente conosciuta) è tanto inconcepibilmente immensa che i suoi raggi impiegherebbero più di 10 anni a raggiungere la terra. Per delle stelle più lontane, 20, o 1000 anni, sarebbero appena sufficienti. Così, se esse fossero state annientate 20, o 1000 anni fa, potremmo ancora vederle oggi grazie alla luce partita dalla loro superficie 20 o 1000 anni nel passato. Che molte di quelle che vediamo ogni giorno siano in realtà estinte è cosa non impossibile, e nemmeno improbabile.
    Herschel il vecchio sostiene che la luce delle più deboli nebulose che si vedono col suo microscopio deve aver impiegato tre milioni d’anni per raggiungere la terra. Alcune rese visibili dallo strumento di Lord Ross, devono aver richiesto almeno venti milioni d*anni.

Note

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