< Il Misogallo (Alfieri, 1903)
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Sonetto XXXIII
Sonetto XXXII Sonetto XXXIV

SONETTO XXXIII.

1 febbraio 1795.

L’Attica, il Lazio, indi l’Etruria, diero
In lor varie flessibili favelle
Prove a migliaia, ch’ogni cosa è in elle,
E il forte, e il dolce, e il maestoso, e il vero.
Tarde poi, sotto ammanto ispido fero,
Sorser l’altre Europee genti novelle,
Stridendo in rime a inerme orecchio felle,
E inceppate in pedestre sermon mero.
Ciò disser, carmi; e chi ’l credea, n’è degno.
Nè bastò; ch’essi, audacemente inetti,
Osaro anco schernir l’Italo ingegno.
Di tai loro barbarici bei detti
Vendicator, d’ira laudevol pregno,
Giungo, securo dall’avelli io letti.1

  1. E, leggendoli, trovatili tali, da non mi far paura nessuna; che se i loro Epigrammatisti hanno pure per intero i trentadue denti, io me ne sento in bocca sessantaquattro tutti frementi, senza però emettere mordendo una voce canina come la loro.


Note

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