< Il mio segreto
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Francesco Petrarca - Il mio segreto (1347-1353)
Traduzione dal latino di Giulio Cesare Parolari (1839)
Dialogo primo
Prefazione Dialogo secondo



DIALOGO PRIMO


sant'agostino e francesco petrarca.


A. — Che te ne stai facendo, o uomicciatolo? che sogni, che speri? e non ti ricordi d’esser nato mortale?

P. — Ben io me ne ricordo; e non mai mi passa per l'animo questo pensiero, che non ne abbrividisca.

A. — Oh fosse pure così; chè ed avresti provveduto al tuo meglio, e a me cessate assai brighe! Dappoiché certissima cosa è, che a fare la debita stima dei fuggevoli beni della vita, e a tranquillar l’animo dalle procelle che lo conturbano; nulla v'abbia di maggior efficacia, che la memoria della propria miseria e l’assidua meditazione della morte; quando però ella non iscorra solo a fior di pelle, ma sì addentrisi nelle ossa e nelle midolle. Se non che io temo forte, che tu, come avviene ai più in tale argomento, ami a trarre in inganno te stesso.

P. — E me ne dichiara, di grazia, il come; perchè non mi è chiaro quel che mi dici.

A. — O mortali, fra le tante condizioni in che versate, non v’ha cosa che più altamente mente mi meravigli ed inorridisca, quanto il vedervi intenti a blandire le vostre miserie, a dissimulare i pericoli che vi sovrastano, ed affrettarvi a bandirne l’imagine, ove ella vi si presenti alla mente.

P. — E di che modo?

A. — Stimi tu che v’abbia un ammalato di così poco senno, che da dubbiosa infermità travagliato, non ne sospiri caldamente la guarigione?

P. — Ho per fermo che non ve n’abbia di cotali.

A. — Or bene; e crederesti che diensi uomini pigri ed incuranti così, che di niuna guisa s’adoprino a raggiunger quello a cui sospirano senza fine?

P. — E ciò molto meno può essere.

A. — Bada, che se tu m'accordi queste due cose, sarà mestieri che me ne consenta altresì una terza.

P. — E qual sarebbe?

A. — Che somma deve reputarsi la stoltezza di chi, dopo lungo e profondo meditare, conosciuta la propria miseria, non ne desidera il fine; e come l’abbia desiderato una volta, non vi si travagli dietro con ogni ingegno a conseguirlo compitamente. Perchè è manifesto che, siccome questa terza cosa non può venir meno se non dal difetto della seconda, così la seconda dal difetto della prima. Ond’è necessario che quella prima sussista, qual radice della umana salute. Ma voi dissennati, e tu tanto ingegnoso a volere il tuo peggio, con ogni guisa di terreni allettamenti, del che più sopra dissi maravigliarmi e inorridire, vi sforzate a dibarbare dall’animo una tanto salutare radice. Pertanto ragion vuole che risentiate il danno che vi deriva dallo svellere che faceste di lei e delle altre che le rampollano attorno.

P. — Se non erro, questa querela vuol'essere alquanto lunga, e vi bisogneranno più parole a finirla. Perciò se ti piace vorrei che si differisse ad altro tempo; ed acciocchè io meglio intenda quanto mi verrai appresso dicendo, sarà bene indugiarsi alcun poco sulle altre cose che or ora accennasti.

A. — Farò a tua posta, giacchè hai la mente sì grossa. Or su dunque piglia le mosse di là donde più t’aggrada.

P. — Ti confesserò innanzi tutto che non iscorgo netta la conseguenza che traesti dalle cose esposte più sopra.

A. — E qual nebbia sopravvenne ad oscurarti l'intelletto, qual dubbiezza ora t’inforsa?

P. — Innumerabili cose e con tutto l'ardore della volontà brama l'uomo, e mai non resta d’adoperarsi a possederle; eppure, per quanta fatica e studio vi spenda attorno, non riesci ancora, e forse non riescirà mai, all'effetto desiderato. A. — Ciò è vero negli altri argomenti; ma in quello dell'anima, avviene il contrario.

P. - E perchè?

A. — Perchè l'uomo che intenda a deporre la propria miseria, purchè veracemente e con ogni sua arte lo faccia, non può non venirne a capo.

P. — Davvero che il tuo discorso mi sa di strano! Pochi sono che non patiscano difetto d'alcuna cosa: del che ognuno potrà testimoniare che in sè ne abbia fatto l'infelice esperienza. Onde è da inferirne, che siccome il cumulo di tutti i beni rende felici; così il sottrarne alcuna parte, scema, finchè ne duri il difetto, lo stato di beatitudine. E che tutti anelino a deporre il fardello di sciagure onde sono gravati, quantunque pochi lo possano, è verità di per sè stessa chiarissima. Perchè quanti non v’hanno, tenuti in perpetua angoscia dalle malattie, dalla morte degli amici, dal carcere, dall'esilio, e da altri somiglianti disgrazie! Le quali se troppo sarebbe lungo l'annoverare, tanto più tornano malagevoli e moleste ad essere tollerate. Gravi dolori arrecano; e nullamanco l’uomo, come sai, non può liberarsene. Per tanto io conchiudo che molti a malincuore, e senza volerlo, sono infelici.

A — Tu vai colle parole assai lungi dal vero; e come si costuma dai più, argomentando argomentando fuor di proposito e troppo vagamente, non bene deduci dai principii le conseguenze. E davvero mi credeva che fossi fornito di maggiore intendimento, nè ti bisognasse essere ammaestrato a guisa di fanciullo. Perchè ove tu avessi fatto cosa tua le vere e salutari sentenze dei filosofi, cui sovente con me rileggesti; se, e consenti che tel dica, ti fossi adoperato a tuo e non ad altrui pro, e dallo studiare in tanti libri ne avessi ritratto buone regole di vita, senza curare la superbia e i vani applausi del volgo, non udirei adesso da te tanto scipiti e goffi discorsi.

P. — A che miri non so; ma pure sento infocarmisi le guance, come i fanciulli alle sgridate del pedagogo. Dappoichè, al modo che essi, innanzi che si pronunzii il nome della lor colpa, ricordevoli d’averne addosso parecchie, alla primiera voce di rimprovero si confondono tutti; ed io altresì non ignaro della mia ignoranza e de' miei molti errori, sebbene non ancora comprenda a che accenni il tuo discorso, pure perchè non mi sento affatto la coscienza pura, arrossisco, anche prima che tu aperto mi favelli. Or dunque dichiarami, io ti prego, quale sia il peccato che mi rimproveri con tanta acerbezza.

A. — Tra le molte sciocchezze che sinora t’uscirono di bocca, una ve n’ha che principalmente mi move a sdegno; ed è l'affermare affermare, che alcuna possa essere o divenire infelice contro sua voglia.

P. — Respiro: — perchè ed avvi cosa più vera di questa? o v’è persona tanto nuova del mondo, o sì disgregata dall’umano consorzio, la quale non sappia siccome la povertà, il dolore, l'infamia, le infermità in fine e la morte, con ogni altra guisa di sciagure che si stimano il colmo d’ogni male, c’incolgano il più delle volte a nostro malincuore, e volontariamente giammai? Donde ne deriva che sia ben facile il conoscere e l’odiare la propria miseria, ma non così il cacciarla lontana. Perciò è a dire che le due prime cose sieno in nostra mano, la terza dipenda dalla fortuna.

A. — Chi si vergogna d’un fallo merita scusa, ma la sfacciataggine fieri rimbrotti. E può esser mai che ti sieno di già cadute dal pensiero tutte le sapientissime sentenze dei filosofi, onde poco fa mi provasti, niuno, per le cagioni testè menzionate, divenire infelice? Perchè, se da Marco Tullio e dalle invitte ragioni di molti si dimostra, non avervi se non la sola virtù che renda l’uomo beato, apertissimamente ne conseguita, che nulla più allontani dalla felicità quanto l'opposito della virtù; il quale in che proprio consista, tu devi ricordartene, se pure la tua mente non è affatto ottenebrata.

P. — Io sì che me ne ricordo; e con questo mi richiami alle dottrine degli Stoici, contrarie alle volgari opinioni, e più vicine alla verità che non acconce alla pratica.

A. — Oh il più sgraziato degli uomini, se t’avvii a discoprire la verità pel cammino delle credenze del volgo, e, scorto da ciechi duci, t'affidi di giungere a ravvisare la luce! A chi intende a tal fine, bisogna muovere per sentieri fuor di mano, e sospirando a cose più alte, per colà avviarsi, ove poche e rade si scorgano le orme, e allora gli sonerà gradita la lode del Poeta:

     «Di novella virtude, o giovanetto,
     L’alma rinfranca; è questo il faticoso
     Cammin che adduce alle celesti sedi».

P. — Deh che innanzi morte mi tocchi questa buona ventura! Ma va oltre, ten prego, chè io non ho affatto smarrita la vergogna; perciò ti confermo che le dottrine stoiche deggionsi preferire agli errori del volgo. Ora sto a vedere qual persuasione tu mi voglia indurre nell’animo.

A. — Rammentati di ciò che si è fermato tra noi; niuno, cioè, essere o divenir misero, se non per propria colpa. Ora di che altre parole è duopo a mostrarlo?

P. — Eppure mi furono conosciuti parecchi, e ben posso testificarlo col mio esempio, i quali di nulla più s’affannavano che del non potersi scuotere dal collo il giogo del vizio, sebbene a tale effetto si travagliassero senza posa e d’ogni loro potere. Per lo che restando intera la sentenza degli Stoici, si può dire che grande sia il numero degli infelici, benché repugnanti e desiderosi del contrario.

A. — Siamo alquanto usciti dalla battuta. Ritorniamovi passo passo, se pure tu rammenti il donde incominciammo dapprima.

P. — Me ne dimenticava quasi, ma ora torno a ricordarmene.

A. — Io mi era proposto dapprima di farti toccare con mano, siccome, a cansare le distrette della vita mortale e a Sollevarsi alto di terra, non v’abbia migliore cominciamento, che il meditare la morte e l’umana miseria. Conseguita la qual cosa, si richiede che l’uomo ecciti in sè il potente desiderio e la premura di sorgere dal basso stato in che si ritrova. Allora solo ti prometteva agevole la salita a ciò, cui sospira il cuor nostro; purchè a te, anche adesso, non sembri l’opposto.

A. — Ciò ben potrei pensare, ma dirlo non mai: chè dalla mia giovinezza stimai sempre andarsene errato colui che senta altro da te.

A. — Lascia le lusingatrici parole; ma poichè m’avvedo che tu, condotto da reverenza piuttosto che dal proprio senno, assenti assenti ai miei detti; ti concedo di significarmi liberamente tutto che meglio ti piace.

P. — Avvegnachè con pauroso animo, pure io voglio usare la tua licenza. — E a tacere le testimonianze degli altri , io me ne appello a costei, presente sempre a tutte le mie azioni, e a te ancora, se m'angosciassi al pensiero della morte e della mia miseria, e quante lagrime versassi a cancellar le mie colpe; e vedi se anche adesso non mi scorra il pianto dagli occhi. Però, in tanto io repugno ad ammettere siccome certa la tua proposizione, in quanto che non istimo esser vero, che: «niuno, se non liberamente, sia precipitato nella miseria»; e che «non diasi persona, se non di volontà propria, infelice». Del contrario ebbi in me stesso prova assai dolorosa.

A. - Antico ed indeterminabile mi suona questo tuo lamento, e benchè io mi sia finora affaticato invano a mostrarti, che non è infelice se non chi lo vuole, pure non cesserò, ove a tanto riesca, di rendertene persuaso. Avvi dunque, come ti dicea dalle prime, negli uomini questa mala ed esiziale libidine di trarre in inganno sè stessi; la quale non si può dire abbastanza, quanto nella vita torni dannosa. Dappoichè, se a ragione state in guardia contro le male arti di coloro che sen vivono a’ vostri servigii, perchè e l'esempio altrui v’ammaestrò ad esser cauti, e la voce di chi vi sta presso blanda vi risuonò sempre all'orecchio, del che non si corre pericolo cogli estranei; quanto più non avrete a temere le proprie frodi, mentre grande è l’amore che recate a voi stessi, grande l’autorità e la domestichezza. Oltre a ciò non v’ha alcuno che non estimi sè medesimo oltre il dovere, e più si ami che non convenga. E allora, come dispaiare l'ingannato dall'ingannatore?

P. - Sovente oggi ricadi nelle stesse parole: ma io, se ben me ne ricorda, non mai ho ingannato me stesso. Così gli altri non avessero ingannato me!

A. — Ora sì che con questo falso tuo vanto più che mai ti raffermi nell’errore. Io però non ho della tua mente così basso concetto, che non la creda atta ad intendere di per sè, ove più attentamente riguardi, siccome non possa avervi alcuno che, se non volontariamente, precipiti nella miseria; nel che si fonda ogni nostro ragionamento. E dimmi in fede tua; ma bada prima di rispondere che non la passione, ma l’amor del vero t’ispiri; se v’abbia uomo che dalla necessità sia stato condotto a peccare. Certo non ignori, essere sentenza dei sapienti che il peccato sia un’azione volontaria, e in tanto che cessi d'esser tale ove manchi la volontà. E, siccome prima mi concedesti, l'uomo che è puro di colpa, non vuolsi chiamare infelice. P. — Or m'accorgo come a poco a poco mi sia allontanato dal tema proposto. Perciò sono costretto a confessare, che ogni mia sciagura mosse dapprima dal mio arbitrio. E da quanto esperimentai in me stesso, fo ragione degli altri; purchè tu ancora voglia convenir meco d’una verità.

A. — E quale?

P. — Se vero è che niuno cada se non per proprio volere, deve esser vero del pari che, tra l'infinito numero di quelli che caddero spontaneamente, ve n’ha pure taluno che suo malgrado rimane a terra senza potersene rialzare. E tra questi io mi son uno, il quale, siccome pena del mio fallire, non mi sento adesso la forza a rilevarmi, perchè non volli starmene in piedi quando poteva.

A. — Benchè non sia affatto dissennata questa tua proposizione; nondimeno, da poichè m'accordasti d'aver errato nel primo, sarà forza che altrettanto mi confessi del secondo.

P. — E che? sono forse una cosa stessa il cadere ed il rimanersene a terra?

A. — Grande diversità corre tra il non volere e il volere; ma se queste due cose differiscono tra loro in quanto al tempo, pur sono tutt'uno nell’animo di chi non vuole.

P. — Tu m’inviluppi ognor più nelle tue reti. Però io ti dico che il vincere coll’arte, dà lode di astuto, ma con già di valoroso lottatore.

A. — Noi parliamo alla presenza della verità, che è amica di tutta schiettezza e nemica alla frode. Epperchè ne resti ognor più persuaso, discorriamo pur quindinnanzi quanto più semplice vuoi.

P. — Non potevi dirmi cosa più cara di questa. Or tu dunque mi dimostra in qual modo avvenga che, essendo misero, nè il posso negare, io me ne rimanga tale di mia volontà. E sento pure che questa mi è acerbissima cosa, e in tutto contraria al voler mio; ma non posso altrimenti.

A. — Purchè mi attenga i patti, io ti farò vedere che devi usare altre parole da queste.

P. — A che patti accenni? di che parole deggio valermi?

A. — I patti fermati sono, che noi, rigettata ogni arte ingannevole, con tutta ingenuità moviamo alla ricerca del vero. In quanto poi alle parole da adoperarsi, io ti feci scorto a non dire che non possa, ma sì che tu non voglia.

P. — Così ce n’andremo all'infinito; perchè non m'indurrò mai a tal confessione. Mel so ben io, e tu lo vedesti, se anche volendo potei; se le lagrime che sparsi mi giovarono punto.

A.— Questo è ben vero; ma non già che efficacemente volessi. P. — Gran Dio! e non v’ha uomo che conosca le mie sofferenze, che sappia come mi sforzassi a rialzarmi, se mi fosse stato concesso!

A. — Taci! il cielo e la terra n’andranno sossopra , e cadranno le stelle dal firmamento, e gli elementi concordi verranno a pugna tra loro, prima che sia mendace il giudizio cui sarà per profferire là verità.

P. — Che ne dici adunque?

A. — Io dico che la coscienza ti espresse lagrime dagli occhi, ma non mai t’indusse a cangiar di proposito.

P. — Ma, e quante volte dero ripeterti che nol potei?

A. — Ed altrettante io ti risposi, e più veracemente, che non volesti. Nè mi maraviglio che tu restassi avvolto entro tali lacci, di cui anch’io esperimentai quanto fossero tenaci, allorchè rivolsi l'animo ad imprendere un nuovo cammino. Mi strappava i capelli, percoteami la fronte, storceami le dita, e incrocicchiate le palme mi stringea le ginocchia, di amarissimi sospiri riempiva l’aria ed il cielo, e gemendo bagnava di largo pianto il terreno. Eppure non mi mutai dall'uomo di prima, finchè un più profondo pensiero non mi rappresentò al vivo tutta quanta la mia miseria. Pertanto allorchè volli pienamente, e tosto anche potei; e con mirabile ed avventurata prontezza mi trasformai in un altro Agostino; e questa storia, se non m'appongo, la leggesti nelle mie Confessioni.

P. — Ben me ne ricordo; e quel salutar fico, al cui rezzo accadde un tanto miracolo, non può uscirmi di mente.

A. — Ben dicesti; e quel fico più debbe esserti caro che qualsivoglia mirto, edera, o lauro, diletto a Febo, e, come dicono, al coro de’ poeti; a te poi principalmente, il quale solo in questa età meritamente ne cingesti corona. Perchè in te che, dopo molte procelle, rientri nel porto, la ricordanza di quell'albero deve risvegliare nell'animo la speranza dell’emenda e del perdono.

P. — Io non appongo motto; va innanzi.

A. — A quel modo che posi principio, proseguo; e dico, che avvenne a te ciò che a molti, cui si conviene il detto di Virgilio.

Dubitosa è la mente, e invan la guancia
D’amarissime lagrime si bagna.

E benchè in tale argomento più altre cose potessi porti sott'occhio, pure rimasi contento a proporti il mio esempio.

P. — Egregiamente! perchè nè ci voleva meno al bisogno mio, nè cosa maggiormente di questa potea toccarmi sul vivo. Ed, avvegnachè a grandi distanze; come ve n'ha tra chi ricovera securo nel porto e il naufrago presso ad affogare, e tra gl'infelici e i felici felici; la tua incertezza d'allora rassomiglia alle procelle da cui mi sento agitato; ond’é che quando tra la speranza e la commozione, la quale è sì grande da spremermi sino le lagrime, io mi reco in mano i libri delle tue Confessioni, m’è avviso di leggere, non l’altrui storia, ma quella de’ miei traviamenti. Ma or via procedi come meglio ti aggrada; che io già, deposta ogni voglia di contesa, ho fermo di non contrariarti.

A. — Non è questo ch’io ti richieda; perchè, siccome, al dir d’un filosofo, il troppo altercare è cagione che si smarrisca la verità, così una modesta discussione mena dritto a trovarla. Adunque nè conviensi assentir ciecamente ad ogni proposito; il che è indizio di tardo e pigro ingegno; nè, a modo di litiganti, opporsi al vero con ostinate cavillazioni.

P. — M’è chiara la tua mente, e non ho che a lodartene. Ora mi farò senno del tuo consiglio, purchè non t'arresti più oltre.

A. — E non vorrai tu piegarti alla forza del vero? non confessare che, procedendo per gradi, la perfetta cognizione della propria miseria partorisce il compiuto desiderio di rilevarsene? sempre però che il desiderio assecondi la potenza.

P. — Già mi sono acconcio a credere tutto ciò che dici.

A. — M’accorgo però che hai a significarmi significarmi qualche altra cosa: orsù parlami liberamente.

P. — Io di null’altro forte mi maraviglio, che di aver voluto sin qui quello che sempre mi credeva di non aver voluto.

A. — Ma tu te ne stai ancora intra due; se non che per finirla una volta, non ti negherò che talora tu pure hai voluto.

P. — Che dicesti?

A. — Non ti ricordi il verso d’Ovidio:

Poco all’opra è il voler, che sol perfetto
Allor sarà, se il fin bramato aggiunga.

P. — Mai sì; ed io mi stimava anche di aver desiderato.

A. — T'ingannavi.

P. — Tel consento.

A. — Ma, a rendertene viemaggiormente convinto, interroga la tua coscienza. Essa, egregia interprete della virtù, infallibile non meno che verace e retta estimatrice delle opere e dei pensieri, ti dirà siccome non t’adoperassi mai col debito zelo a conseguir la salute, ma con troppo più di torpore e lentezza, che non richiedevano le pericolose condizioni in cui tu versavi.

P. - Ho, come ingiungi, disaminata la mia coscienza.

A. — E che ti risponde?

P. - Vere essere le cose che dici.

A. - Ove tu cominci a ridestarti, profitteremo non poco. Non v’ha nulla che più possa fruttarti, quanto il conoscere lo stato in cui un tempo vivesti.

P. - Se basta il confessare tal cosa, io mi confido, nonchè di riavermi bene per l'avvenire, ma egregiamente. Perchè non mai mi fu palese, come ora, il poco d'ardore che spesi a riacquistare la libertà, e metter fine alle mie miserie. Ma dimmi se basterà per l'avvenire averlo desiderato?

A. - A che mira questa tua inchiesta?

P. — A rendermi certo se quindinnanzi mi resti altro a fare.

A. — Impossibili cose favelli! quasi che l'uomo possa ad un tempo e desiderar vivamente e lasciarsi andare all'inerzia.

P. — E a che dunque mi giova il desiderare?

A. — Desso ti schiuderà il cammino di mezzo ai più malagevoli sentieri; poi il desiderio della virtù è anch'esso buona parte di virtù.

P. — Tu m’innalzi a grande speranza.

A.- Perciò appunto ti favello, che apprenda a sperare insieme e temere.

P. — E di che deggio temere?

A. — Perchè non domandi piuttosto di che abbia a sperare?

P. — Non mediocre studio posi finora a non divenir pessimo; adesso tu m'insegni il modo ond’io possa rendermi ottimo.

A. — Ma tu forse non pensi, quanto ardua impresa sia questa. P. — Or vorrai crescere in me lo sconforto?

A. — Questo desiderare che dici, è sì una parola, ma tale che racchiude in sè innumerevoli cose.

P. — M’agghiacci di spavento.

A. — Per tacere d’ogni altra condizione che si richiede al compimento di codesto desiderio, molte ve n’hanno pure, dal cui sovvertimento esso è generato

P. — Non intendo il significato di queste tue parole.

A. — Un desiderio cosiffatto non può sorgere se non nell'animo di chi abbia spenti tutti gli altri. E tu ben sai a quante e quanto varie cose l’uomo aneli nella vita, le quali gli sarà forza mettere sotto i piedi per salire alla cima della somma felicità. Del cui possedimento poco tenero si dimostra chi ami altro all’infuori di lei.

P. — Comprendo ciò che dici.

A. — Ma, e quanti v'hanno che giungano a dar morte all’infinito novero delle umane cupidigie? che governino l’animo col freno della ragione? Chi oserà affermare: io non ho nulla di comune col corpo, fastidisco ciò che agli altri torna piacente, sospiro solo alle gioie del cielo?

P. — Oh tra gli uomini di cotali ve n’ha assai pochi! ed ora mi è chiara la difficoltà a cui minacciando accennavi. A. — Quel desiderio pertanto non sarà nè libero nè perfetto, ove prima non quietino gli altri. Perchè quanto l’animo, per la nativa grandezza si sente rapito al cielo, ed altrettanto è trascinato a terra dal corporeo peso, e dai mondani allettamenti. E voi, mentre che volete ascender lassuso tenendo gli occhi fitti alla terra, d’una in altra parte sospinti, non adempite nè a questa cosa nè a quella.

P. — E che adunque stimi che mi resti a fare, acciocchè l’animo volonteroso, spezzati i legami terreni, si sollevi alle superne cose?

A. — A tanta perfezione null’altro meglio conduce, quanto il richiamarsi del continuo a ciò, di cui ti feci menzione dapprima; ed è, il pensiero della morte.

P. — Se non m'inganno anche adesso, non v’ebbe uomo che più di me frequentemente la meditasse.

A. — Altro campo, altra fatica.

P. — E che? dico adunque bugia una seconda volta?

A. — Vorrei che parlassi alquanto più gentile.

P. — Però questo tuo favellare......

A. — Ed è pur vero!

P. — Adunque io non medito la morte?

A. — Assai rado, e con tanta spensieratezza, che non giungi mai a toccar fondo a tutta la tua miseria. P. — Ed io mi credeva tutt’altro.

A. — Or bada, non già a ciò che credevi, ma a quello che t’era mestieri di credere.

P. — Non vorrò mai più prestar fede a me stesso, se mi dimostri quanto io, altresì in tale proposito, sia caduto in inganno.

A. — Questa è agevole impresa; e purchè rechi a ciò un animo ben preparato, io rivolgerommi anche adesso ad un testimonio non guari lontano.

P. — E quale, di grazia?

A. — La tua coscienza.

P. - Essa mi dice il contrario.

A. — Quando la s’interroghi alla confusa, non potrà mai rendere una distinta risposta.

P. — Che fa questo a noi?

A. — Anzi moltissimo; e tu, a rendertene persuaso, attentamente m’ascolta. Non v’è alcuno di sì poco senno, ove non sia affatto pazzo, cui non soccorra talvolta alla mente la fralezza della propria natura, e che interrogato, non risponda d'esser mortale e d’abitare entro un corpo di deboli tempre; perchè di ciò lo fanno accorto e i dolori delle membra e gii accessi delle febbri; da cui qual v’ha persona, per quanto cara al cielo, che non sia talora assalita? Aggiungi che le morti degli amici, onde sovente sono contristati i nostri occhi, non possono non altamente atterrirne, dappoichè mentre si accompagna al sepolcro un de’ nostri coetanei coetanei, è forza che, riflettendo al suo ultimo fine che ci è posto dinanzi, cominciamo a darci affannoso pensiero di quello che noi pure aspetta. Così ove s’appicchi la fiamma alle case del vicino, non puoi vivertene a sicurezza nella tua, come dice Flacco:

Perchè chiaro t'appar ch’entro brev’ora
Un pericolo ugual fia che t’incolga.

E tanto più queste repentine morti apriranno breccia nell'animo, quanto sarà giovane, robusto e leggiadro chi ne rimane vittima. Ond’è che, guardandoci attorno, dovremo dire a noi stessi; ecco costui che si credeva aver qui ferma stanza, pure ne fu cacciato fuori, senza che gli valesse l’età, la bellezza, la forza. Or dunque, e qual nume o negromante, potrà mai metter pegno per la mia vita? Ah! non v'è dubbio che io non sia uomo mortale! Che se tanto accada altresì ai re e imperadori della terra; se ad egregi e potenti personaggi, viemaggiormente ne saranno scossi i presenti, perchè coloro cui aveano veduto atterrare gli altri, d’improvviso, o in poco volger d’ore, cadono anch’essi; tanto è vero che ogni guisa di gente procede da una fonte comune. E non ti rammenti l’alto stupore; onde sono commossi i popoli nella morte degli uomini sommi, come, per richiamarti alcun poco alla storia, avvenne nella uccisione di Giulio Cesare? Egli è questo un tale spettacolo che distringe di tema i cuori e gli occhi mortali, e nel mettere davanti le altrui sventure, ci richiama a meditare sopra noi stessi. Poni oltre a ciò il furor delle belve e degli uomini, e la rabbia delle guerre; gli scuotimenti de’ grandi edifizii, che come a ragione si disse, un tempo valeano a riparo e adesso minacciano rovina; e il sinistro rivolgersi dei cieli, i venti pestilenziali e tanti pericoli di terra e di mare da cui siamo attorniati; in una parola, non v’ha cosa a cui miri, che non ti presenti tosto l’imagine della tua mortalità.

P. — Perdona, di grazia, se t’interrompo; chè non so più contenermi. Io non credo che possano arrecarsi più acconce ragioni di queste a confermarmi nel mio proposito. Però nell’udirti io non sapea comprendere a qual segno mirassero le tue parole, o quando avrebbero fine.

A. — Perchè spezzare a mezzo il filo della mia conchiusione? La quale non è altro che questa; che quantunque voi siate circondati da cose tanto fugaci, le quali pur dovrebbero richiamarvi a meditazioni profonde, assai di rado vi date maturamente a riflettere alla inevitabile necessità della morte, a ciò contrastando le lunghe abitudini che vi rendono sordi ad ogni salutare ammonizione.

P. — Adunque non sono molti che conoscano la definizione dell’uomo, la quale ripetuta così di sovente nelle scuole, non pure dovrebbe affaticare le orecchie degli uditori, ma sì anche le stesse colonne degli edifizii. Ma la ciarliera indole dei dialettici non avrà mai fine; e mentre abbonda in larga vena di siffatte definizioni, non altro. fa che fornire materia ad immortali litigi, dai quali non si giunge mai ad apprender quel vero, cui ignorano anch’essi. Pertanto se tu richiedi ad una pecora di cotal gregge, non dico la definizione dell’uomo, ma di qualsiasi altra cosa, non istarà in forse di darti una pronta risposta; ma se più innoltri, ammutisce; oppure se l’insistere nelle domande gli porrà in bocca audaci parole, certo i costumi di lui che ti favella ti chiariranno com’egli non conosca veramente ciò che definisce. E contra codesta singolar genia di ventosa e caparbia gente, sta bene prorompere cosi; a che fruttano codeste vostre fatiche, o sciagurati? perchè tra tanti lacci accalappiate l’ingegno? e dimentichi delle cose, invecchiate tra le parole? Già vi biancheggiano le chiome e vi si corruga la fronte, prima che cessiate da tante puerili ciance. Ed oh che una tale insania danneggiasse almeno voi soli! ma troppo spesso le nobilissime menti della gioventù ne sono corrotte.

A. — T’assento anch’io che non v’hanno parole, per quanto si voglia tremende, che bastino a sfolgorare codesti mostri degli studii. Ma tu frattanto, trascinato dall’impeto del discorso, dimenticasti la definizione dell’uomo, a cui avevi dato principio.

P. — Mi pareva d’averne detto oltre il dovere, ma ne parlerò più di proposito. Or dunque l’uomo è un animale, anzi il principe tra tutti gli animali. Nè v’ha sì rozzo bifolco, o fanciullo che interrogato non risponda, l’uomo esser insieme animal razionale e mortale; ond’è che questa definizione sia a tutti palese.

A. — Io ti dico anzi che a pochi.

P. — Parli tu di buon senno?

A. — Se mai t’avvenga di scontrarti in alcuno, fornito di ragione per modo, che secondo i dettati di lei ordini la vita, e a lei sola sommettendo ogni sua voglia e le passioni infrenando dimostri, siccome da lei e non da altro sia distinto dagli insensati bruti, e il nome d’uomo da ciò appunto venirgli che operi secondo ragione; se inoltre egli così del suo essere mortale si chiarisca consapevole, che ne abbia sempre viva al pensiero l’imagine; e disprezzatore delle presenti cose, sospiri a quella vita in cui vestito di luce novella lascerà le spoglie terrene; sappi che costui soltanto utilmente e veracemente conosce che si voglia dir uomo. Epperchè intorno a cosiffatti cadeva il discorso, per questo affermai più sopra so essere il novero di chi conosca o rifletta alla umana mortalità.

P. - Ed io mi credeva d'essere uno dei pochi.

A. - Non voglio già negarti che l'esperienza della vita e la lettura di tanti libri, quella col ravvolgerti fra tante vicende, questa col porti sott'occhio tante sentenze, non t’abbiano di frequente richiamato al pensiero della morte; ma desso non però ti si addentrò tutto nell’animo, nè vi rimase troppo a lungo come dovea.

P. — E che vuoi dirmi con questo addentrarsi nell'animo? parlami più aperto, acciochè possa conoscere, se il mio pensiero s’uniformi al tuo.

A. — Di buon grado. Corre una opiniore nel volgo, la quale è altresì affermata dai più illustri del filosofico gregge, che la morte sia di tutte cose la più tremenda, a tal che a sentirne non altro che il nome, ogni cuore aggeli dì spavento. Ma una passeggera menzione che se ne faccia, o il tenerne discorso soltanto, non basta; che anzi giova intrattenersene a lungo, e con intentissima meditazione rappresentarsi un uomo in sul confine della vita. Guarda com’ei si tramuti nelle membra! gli si irrigidiscono le estreme parti e le mezzane s'infuocano, stilla dalla fronte un gelato sudore, gli palpitano i lombi, il battito del cuore, all’avvicinarsi dell’estremo punto, s'allenta. Gli occhi infossati ed erranti, lagrimosa la pupilla, raggrinzata e livida la fronte, cadenti le guance, serrati i denti, rigide ed affilate le nari, spumante il labbro, torpida e coperta di squamme la lingua, riarso il palato, pesante il capo, affannoso il respiro. E già gli si aggrava il rantolo, più dolorosi sono i gemiti, esala dalla persona un intollerabile puzzo, e tutte se ne trasfigurano le sembianze. Le quali cose risovverranno di leggieri, e senza durar fatica si presenteranno alla mente di chi avrà con frequenza assistito a scene sì luttuose. Perchè il vedere più vivamente che l’udire, scolpisce gli oggetti nell’animo. Ond'è che non senza savio accorgimento, in alcuna delle più severe religioni, anche de' nostri giorni, dura il costume che i più perfetti assistano al lavacro dei cadaveri prossimi ad esser sepolti; e ciò all’effetto che un tanto triste e miserando spettacolo, ammonisca le menti e i cuori de’ sopravvissuti a non lasciarsi sedurre dalle vane speranze del mondo. — Ed è questa la cosa che io diceva doversiti profondamente addentrare nell'animo, non abbastanza scosso dal quotidiano morire di tanti; perche nè il sentirsi tutto giorno ripetere che, come incerta n’è l'ora così certissima è la morte, ned altri discorsi di simil fatta, hanno potenza da arrestare il volo al pensiero sì che altrove non trascorra. P. — Savie parole dicesti; ed io tanto più le approvo che in gran parte s’accostano a quelle che costumo di meditare. Ma tu mi impronta l’animo di tal suggello, che io quindinnanzi non sia mai più condotto ad ingannarmi ed a blandire a’ miei errori. Dappoichè il conoscere la meta, e appresso non darsene alcun pensiero a raggiungerla, è ciò che travia gli uomini dal buon cammino.

A. - M’aggrada forte udir tali cose di bocca tua; e con ciò dimostri di non discorrere a caso, ma sì pensatamente. Abbiti adunque, a non più ricadere, il segno che chiedi. Se qualora mediti la morte non ne resti commosso, vuol dire che fu vano, siccome del rimanente, il tuo pensiero. Ma se invece un sudor freddo ed un triemito ti assaliranno, se trascolorerai nel sembiante, e già ti parrà di travagliarti di mezzo alle mortali angosce, e ti si scriverà, come a dir, nel pensiero, che l’anima non appena uscita del corpo, dovrà presentarsi al giudice eterno per rendergli strettissimo conto d’ogni parola, d’ogni atto della vita trascorsa; se finalmente vorrai persuaderti che non è da riporre veruna fiducia nella bellezza della persona, nella gloria del mondo, nella potenza dell’ingegno, nella forza o nella ricchezza, perchè quel giudice non può nè ingannarsi, ned essere placato o corrotto corrotto; se penserai che la morte anch'essa non dee riguardarsi qual fine delle fatiche, ma qual passaggio; e di mezzo a tutto questo ti si affigureranno alla mente mille guise di supplizii e tormentatori infiniti, e lo stridore e i gemiti dall'inferno e i fiumi di zolfo e le tenebre e le furie vendicatrici, e il tremendo aspetto di quell’orribil prigione ove sovrabbonderà ogni male senza termine alcuno, e la disperazione dell’incessante cruccio, e la collera d’un Dio che, sconoscente di perdono, vivrà in eterno; ove un cosiffatto spettacolo vivamente ti si rappresenti, non già come di cosa imaginata, ma realissima, inevitabile, e quasi anzi presente; nè sconfidato nell’animo, ma pieno di speranza che Dio vorrà prontamente ritorti a tanti mali, purchè il cuore sospiri alla sua guarigione e a null’altro intenda che a conseguirla, e duri nel retto proposito; allora sta a buona speranza che non torneranno inutili le tue meditazioni.

P. - Forte m’atterisci collo schierarmi dinanzi tante miserie. E così Iddio mi sia largo di perdono, come io di codesti pensieri ogni giorno mi pasco, e le notti principalmente. Quando, rifinito dalle diurne cure, raccolgo in me i pensieri, ed atteggio la persona a modo di moriente, ecco affigurarmi in mente l’ora stessa di morte; con quanto di più orribile l'accompagna: ed io così vi affiso il pensiero, che già mi credo giunto a quell’irrevocabile passo. Talvolta veggio aperto l’inferno e tutte le altre orribili cose che menzionasti; onde un tale sgomento m’assale, che tutto esterrefatto e tremando, balzo dal letto, con ispavento de’ miei famigliari e grido: cbe m’avvien mai? e che è questo ch’io soffro? e qual fine m’aspetta? O Gesù mio aiutami!

Oh da tanti mi togli orridi mali,
Signor pietoso, e la tua destra invitta
Scorta mi sia per questo aspro diserto;
Or tu nella suprema ora mi dona
Quella pace che invan supplice chiedo.

E molte altre parole a modo di farnetico, dovunque mi trascini la foga del pauroso mio animo, meco stesso ripeto. E ne piango talvolta cogli amici miei sì caldamente, da spremerne loro dagli occhi le lagrime; se non che dopo quell'istantaneo sollievo, mi sento l'uomo di prima. Epperchè adunque io non miglioro? qual v’ha segreta cagione, onde questo pensiero null'altro m’apporti che angosciosi terrori? ed io rimanga sempre lo stesso, non punto diverso da coloro cui giammai nulla accadde di somigliante? Ed in tanto anzi io sono più infelice di loro, che essi, senza pensare alla sorte che li aspetta, almeno si godono del piacere presente. Ed io guardo al mio fine con incerto cuore, e niuna gioia assaporo, che non mi giunga aspersa di amarezza.

A. — Non volerti affligere di ciò che ti dee consolare; dappoichè quanto maggiore è la voluttuosa dilettazione che risente il peccatore delle sue colpe, e tanto più terribile e miseranda deve stimarsi la sua sventura.

P. — E forse ciò avviene perchè non torna più sul cammino di virtù chi immemore di sè, lasciasi travolgere da un torrente di perpetui godimenti. Ma l’uomo, che tra le mollezze del vivere e gli allettamenti della fortuna è provato da qualche duro caso, tante volte si richiama alla sua condizione, quante è abbandonato dai suoi precipitosi ed improvvidi piaceri. E d’altra parte, io non so se di due uomini, chiamati ad un egual fine, si deggia stimar più felice l’uno che, godendo adesso, sarà martoriato nell'avvenire, o non piuttosto l'altro, che nè s’allegra dei beni presenti, nè se ne ripromette di futuri. E ben sai che, in sul confine della vita, il riso è più amaro del pianto.

A. — Ma tu certo non rifletti che, ove uno si sottragga al freno della ragione, da cui si svincola chi si dà in braccio alla suprema voluttà, precipita più al profondo dell'altro che, pur caduto, qualche poco vi sta soggetto. Ove pertanto ripensi a ciò che prima ti dissi, vedrai che della salute di questo secondo vuolsi ripromettere alcuna cosa, mentre è a disperare affatto del primo.

P. — Ed anch’io penso che così sia; ma in questa tu ti sei scordato della mia dimanda.

A. — E quale?

P. — Non ti chiesi io qual sia il laccio onde mi trovo costretto? Ora perchè l'intento pensiero della morte, che giovò a tanti, a me riesce infruttuoso?

A. — Primieramente perchè tu riguardi la morte siccome assai lontana, quando ella, vuoi per lo brevissimo corso della vita, vuoi per la incertezza e la varietà de' casi, ti è vicina. Poichè tutti, al dir di Cicerone, ci inganniamo nello scernere di lontano la morte; il qual testo alcuni non so se correttori o corruttori, vollero alterare, col premettere al verbo la negazione, stimando che dovesse leggersi, non iscerniamo di lontano la morte. Che se non avvi alcuno di sana mente, il quale non s’aspetti la morte; quanti vi sono che solo la veggono di lontano? secondo che suona la frase di Cicerone. I più s’illudono nel proporsi una tal meta alla vita, cui se la natura dà la possibilità di toccare, assai pochi vi afferrano. Ed io credo che non v’abbia quasi alcuno di quanti muoiono, cui non si convengano que' versi:

Desia tarda vecchiezza, e nel pensiero
Gli sorride di lunghi anni la speme.

Ciò ti sedusse, perrchè e la età e la robustezza della persona e la temperanza nei cibi ti riprometteano lunga vita.

P. - Non sospettar di me tali cose. Tolga Iddio che mi getti in braccio a tal mostro, secondo che diceva quel famoso pilota presso Virgilio. Ed io, trabalzato dalle onde torbide e procellose d’un vasto mare, sovra una fragile barchetta che ha squarciati i fianchi, quando più furiosi soffiano i venti, ben so di non potermi a lungo mantenere a galla sicchè non affondi. E già niuna speranza mi resta di salvezza, se il misericordioso ed onnipotente Signore, fattosi a sedere al governo innanzi che io perisca, non mi scorga nel porto, acciocchè dopo tanto assiduo agitarmi chiuda i miei giorni in pace. Questa credenza mi fu cagione che il fascino delle ricchezze e della potenza non mi allucinasse e non ne perdessi il senno, come avvenne a molti miei coetanei, e di maggiore età che la mia, troppo bramosi di uscire dal battuto sentiero. Or qual furore è questo, che mena gli uomini a trascorrere tutta la vita nelle fatiche e nella miseria, ad ammassare con indicibili affanni que' tesori, cui dovranno tosto lasciare per morte? Io adunque mi tengo fitti in mente questi tremendi pensieri; e m’avvezzo a riguardarli non già come lontani, ma sì presenti. Nè mi caddero mai dalla memoria alcuni versi, che, giovane ancora, io indirizzai ad un mio amico, e finiscono in queste parole.

E mentre io ti favello, ahi che la morte,
Per infinite vie, forse s’affretta
A recider di tua vita lo stame!

Che se così io favellava allora, muterei linguaggio adesso che ebbi a maestra l'esperienza e l'età? E quanto veggo, odo, sento e penso, non mira ad altro fine che a questo. Ora se è vero ciò che ti dissi, resta a dichiararsi il perchè io duri in tal tenore di vita.

A. — Ringrazia umilmente Dio perchè si degni imbrigliarti d'un freno tanto salutare, e pungerti con isproni sì acuti. Certo sembra appena possibile che corra incontro alla morte eterna, chi riman fitto tutto giorno in tali pensieri. Ma giacchè conosci, e non senza ragione, che alcuna cosa ti manca, io mi adoprerò a chiarirti che sia. Allora col divino aiuto, rimosso ogni impedimento, sorgendo in tutta la tua potenza, potrai scuotere il giogo di servitù, sotto cui gemi oppresso.

P. — Dio assenta che tu m'usi un tanto bene, deh che io non me ne renda affatto immeritevole!

A. — Non istà che a te il poterlo; ma due cose richiedonsi alle umane azioni, di cui se auche una sola cessi, lo sperato effetto effetto vien meno. Vuolsi adunque prontezza di volontà, e tale che acquisti il nome di desiderio.

P. — Te ne do la mia fede.

A. — Sai tu che principalmente ti nuoccia?

P. — Questo è che dimando, questo che da tanto tempo ardo di sapere.

A. — Odimi adunque. Tu hai sortito dal cielo un’anima di nobilissima tempera, ma il terreno ingombro, entro cui essa fu circoscritta, così la contaminò, ch'ella molto sia degenerata dalla primiera sua origine. Oltre a ciò impigrita, col lungo correre degli anni, pose in dimenticanza tutta la nativa grandezza e lo stesso suo divino fattore. Ed alle passioni che nascono dalla intima unione che avvince l'anima al corpo, non meno che dalla dimenticanza della parte più nobile di nostra natura, sembra aver accennato Virgilio in quei versi:

Alto vigor s’acchiude in questi germi,
E celeste natura. Invan de’ corpi
Loro s’oppon lo schermo; e le terrene
Fragili membra, ed il sospir supremo
Non ne allentan l'oprar. Ora il desio
Li alletta, ora la tema e il duol li affanna,
Or la gioia li allegra. Ognor costretti
Di tenebroso carcere nel buio,
Non respiran le aperte aure del cielo.

E non ravvisi tu in questo concetto del poeta quel quadruplice mostro, tanto avverso all'umana natura?

P. — Anzi nettamente. Ed esso, per rispetto del tempo presente e futuro, in due parti si divide; le quali in due altre suddivise, secondo la nozione del bene e del male, ancora sì suddistinguono. Di cotal guisa la pace dell’animo, messa sossopra da questi quattro venti, fa naufragio.

A. — Ben parli; ed in noi s’avvera il detto dell’Apostolo: «il corpo che si corrompe aggrava l’anima, ed il terreno abitacolo volge in basso lo spirito che si solleva ad alti pensieri». Perchè le visibili cose, sotto innumerevoli sembianze d'imagini, come sieno, mediante l’organo de’ sensi, penetrato da dentro, s’addensano, ed a torme irrompono nel più segreto dell’anima, e tutta ingombrano e combattono la sua spirituale sostanza, che mal può reggere a tanta guerra. Da ciò quella pestilenza di fantasmi che miseramente straziano i pensieri, e chiudano il sentiero alle contemplazioni de’ sublimi oggetti, che soli ci possono essere di scala al cielo.

P. — E sovente di tal contagio per assai bel modo ragioni in parecchie tue opere, e principalmente nel libro della vera religione; di quella religione, alla quale niuna cosa più di questa è contraria. Ei non ha molto che, lasciati da parte i filosofi ed i poeti, m’avvenni in questo tuo scritto; nè ti potrei dire con quanto piacere lo leggessi. Così chi per amore di stranieri paesi va pellegrinando dalla patria, tocca appena la soglia d’una rinomata città, sente inondargli il cuore di nuova dolcezza, e ad ogni passo s’arresta ad ammirare quanto di bello gli cade sott'occhio.

A. — Però, sebbene altro suonino le parole, secondo che convengasi ad un maestro di cattoliche verità, avrai di per te conosciuto, come le dottrine di quel libro sentano in gran parte di filosofia, e spezialmente della socratica e platonica. E per dirti tutto, sappi che io mi posi a quell’operar, indotto solo da una parola del tuo Cicerone. Dio poi m’aiutò nel condurla, affinchè di pochi semi sorgesse copiosa messe. Ma torniamo a noi.

P. — Come t’aggrada, o buon padre; ma significami, ten, prego, quella parola che porse argomento ad un tanto lavoro.

A. — Cicerone, sdegnato cogli errori de’ suoi tempi, disse, non so in qual luogo: «costoro, perchè non aveano facoltà a guardare colla veduta dell’anima, tutto rapportavano al corpo; quando invece è indizio di ottima indole astrarre la mente dai sensi e il pensiero dalle volgari idee». Così egli: io poi, posta questa sua sentenza come a fondamento, vi costrussi sopra quell’edifizio; di cui, come dici, prendi tanto diletto.

P. - Or mi ricordo che queste parole stanno scritte nelle Tusculane. Ed io bene mi accorsi che tu, siccome ragion vuole, di quando in quando frapponi di buon grado ai tuoi scritti le sentenze di quest’autore, che vuolsi annoverare fra coloro, i quali all’amore del vero accoppiano grazia e maestà. Ma deh ripiglia, che n’è il tempo, l'interrotto argomento !

A. — Or dunque quella peste, siccome diceva, ti nocque; ed essa, al presente ancora, s’affretta ad esserti cagione di finale rovina. Da poichè il debole animo assediato da’ suoi fantasmi, che molti e varii non gli danno pace un istante, non sa a che prima provvedere, quali pensieri alimentare, a quali dar morte e quali bandire; e tutto il vigore che chiude, e il tempo che rapido gli scorre, a tanto non bastano. E a te avviene lo stesso che a coloro, i quali, volendo in ristretto campo spargere sementa oltre il dovere, alle spighe troppo fitte tolgono modo di venire a maturanza. Per simil guisa quando l’anima sia soverchiamente oppressata da cure, niuna cosa mettendo radice mena abbondanza di frutta. E tu povero come sei di consiglio qui e colà fosti travolto dall’ondeggiare de' flutti, mai sano di mente, mai signore di te. Quindi ogni qualvolta che di proposito rifletti alla morte e ti richiami ad altre fruttuose meditazioni, e dalla bontà dell'ingegno sei portato ad alte considerazioni; ecco insorgere una torma di contrarii pensieri che traendoti dal luogo in cui non avevi forza a sorreggerti, ti precipita nel fondo. Donde accade che i buoni proponimenti, attesa la soverchia tua mobilità, riescano a nulla; e cagionando le interiori battaglie a cui accennammo, te ne derivi quell'ansietà d'un anima che mal paga di sè, abborre le macchie di che va brutta, nè s'induce a detergerle; conosce il torto sentiero, ned ha forza di camminare pel retto; trema al sovrastante pericolo, senza che s’affanni a sfuggirlo.

P. — Ahi misero a me! adesso sì che tentasti a fondo la mia ferita, e tutto io ne risento il dolore, e il punto della morte mi fa spavento.

A. — Ora te ne stai meglio che la pigrezza s'è partita da te. Ma poichè il nostro discorso s’è oggi protratto a lung’ora, parleremo dell’altre cose all’indomani. Riposiamoci alquanto.

P. — Alla mia stanchezza non v’ha miglior rimedio che il silenzio e la quiete.

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