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Il regno dello spirito1.
- Illustri Colleghi, Signori,
La ragione ultima di ogni problema che lo spirito si propone nella considerazione delle cose è sempre riposta in una contraddizione interiore della realtà, in un contrasto, in una dualità che il pensiero esige venga conciliata in un’unità. Il rapporto di causa ed effetto che noi ci proponiamo di stabilire quando ricerchiamo gli antecedenti, le condizioni d’un fatto, è un’unità interiore che collega due fenomeni successivi prima disgiunti e che per questo collegamento ce ne rende più intelligibile l’insieme; analogamente quando noi riconduciamo un fenomeno ad un principio generale, noi affermiamo implicitamente che la diversità apparente di più fenomeni ha la sua ragione in un’unità più profonda, in un processo il quale si ripete in circostanze diverse, ma è, nella sua sostanza, identico. Questo non è che un caso particolare, del resto, d’una legge a cui obbedisce ogni attività umana; in fondo ad ogni aspirazione, ad ogni sforzo vi è un’aspettazione delusa, un contrasto fra la realtà e ciò che esige il nostro desiderio: senza il contrasto perenne fra l’ideale ed il reale tutto il mondo delle attività umane si acquieterebbe in un silenzio immobile. Ora in fondo a tutti i contrasti ed a tutte le dualità particolari sta una dualità fondamentale che si leva chiaramente dinanzi al nostro sguardo non appena noi dai problemi particolari ci eleviamo alla considerazione dell’esistenza nel suo complesso e che contiene in sè anche la ragione ultima di tutti i problemi pratici, di tutte le contraddizioni dolorose intorno a cui si travaglia la nostra vita: questa è la dualità della natura e dello spirito. Da un lato la realtà si presenta a noi come un complesso di esseri corporei, privi della luce spirituale, viventi di una vita cieca ed oscura e noti a noi solo perchè essi sono l’oggetto, il termine resistente che incontra lo spirito conoscente: ed a questo mondo sentiamo di appartenere anche noi per quella parte dell’essere nostro che diciamo corpo. D’altro lato in noi e negli esseri più simili a noi si disvela al nostro sguardo un’esistenza radicalmente diversa che in tutti i tempi non si è saputo meglio definire che per la negazione dei caratteri dell’esistenza corporea e che appare con sicura evidenza come irreduttibile ad una semplice forma di questa: tale mondo, al quale ciascuno di noi sente di appartenere per Tessere suo più intimo, per ciò che egli propriamente chiama io, è il mondo dello spirito. E questi due mondi sembrano non soltanto avere una natura diversa, ma anche obbedire ad una legge diversa. Nel mondo della natura corporea impera la necessità: una legge cieca, inesorabile assoggetta tutti gli esseri ad una ferrea catena di trasformazioni senza principio e senza fine: le sue energie sterminate, dinanzi a cui la nostra piccolezza sparisce, sembrano travolgere, indifferenti al bene ed al male, tutte le cose in un’agitazione incessante, senza limiti e senza scopo. Il mondo dello spirito è invece il mondo della libertà, il mondo dei fini, il mondo dei valori; noi sentiamo in esso levarsi una potenza autonoma che trascende la natura, che erige di fronte al regno della causalità necessaria un regno di fini e si afferma contro la violenza delle forze esteriori come libera volontà. — Nè questi due mondi si presentano a noi come due realtà distinte ed impenetrabili, ma come due principii contrarii intrecciati e confusi in un’unica realtà; lo spirito già si afferma nella natura e la natura rivive nello spirito; la dualità fondamentale si riproduce sotto sempre nuove forme in ogni punto della realtà. Nella natura quando noi vogliamo perseguire fino ai suoi ultimi elementi sostanziali quello che ci sembra essere il fondamento ultimo della sua esistenza, la materia, questa si dissolve dinanzi a noi in uno intreccio meraviglioso ed imperscrutabile di energie che non sembrano più aver nulla di materiale; e dal complesso delle sue trasformazioni, soggette in ogni parte alla necessità, si sprigiona una finalità arcana in cui sembra rivelarsi la volontà d’uno spirito. E così nel mondo dello spirito noi vediamo le sue attività inferiori opporre alle superiori una resistenza analoga a quella che la natura oppone allo spirito: l’intimo nostro contiene inclinazioni, sentimenti, affetti che sono veramente in noi natura e che la nostra volontà migliore ostinatamente si sforza di ridurre sotto l’imperio dello spirito; e di fronte alla realizzazione dei fini altissimi della vita spirituale collettiva la intiera vita cosciente dei singoli non è per lo più che materia rude e ribelle obbediente a necessità oscure che hanno la violenza delle forze di natura.
Onde non è meraviglia che questa dualità, la quale in ogni punto della realtà fa dell’esistenza un travaglio ed una lotta, si rifletta anche nelle forme più alte della vita dello spirito conoscente e trovi la sua espressione nella dualità delle concezioni che lo spirito ha creato a sè stesso per comprendere la realtà. Da un lato noi vediamo la natura affermarsi per la virtù stessa dello spirito come il principio fondamentale ed esclusivo dell’esistenza: in tutta la storia del pensiero filosofico noi vediamo erompere or con maggiore, or con minore violenza una corrente rivoltatila negazione più o meno esplicita dello spirito. Per essa lo spirito non esiste che come forza o manifestazione della natura od al più come una fosforescenza che passivamente accompagna certe modificazioni dei composti naturali: le sue attività vengono assoggettate alla stessa necessità indeclinabile dei processi naturali e quelle attività che non è possibile tradurre in termini meccanici, vengono esplicate come trasformazioni di attività inferiori che è o sembra più facile ridurre alle attività meccaniche della natura. E quando più tardi vengono alla luce le gravi difficoltà inerenti ai presupposti del naturalismo meccanico, allora la stessa tendenza si esplica in altre forme più profondamente elaborate; il cui risultato si riassume però sempre nella posizione dell’attività diretta all’affermazione del nostro essere naturale come attività fondamentale della vita e nella riduzione delle altre attività, in cui si è soliti a vedere la esplicazione della vita superiore dello spirito, a semplici funzioni di quest’attività fondamentale. D’altro lato noi troviamo già nelle prime forme della coscienza religiosa e speculativa dell’umanità l’affermazione che il mondo della natura non è la realtà ultima ed originaria: che l’esistenza di questo mondo dipende, come resistenza nostra, da uno spirito perfetto, anzi non è che la volontà, l’azione visibile di questo spirito. Certo questo spirito è ancora da principio pensato con attributi derivati dalla natura: e la natura conserva accanto allo spirito una certa autonomia, in quanto essa è posta d’un tratto nella sua sostanzialità oscura come un essere radicalmente altro ed irreducibile allo spirito. Ma di mano in mano che il pensiero raffinato dalle sue intime lotte è sospinto dalla stessa negazione dello spirito a spogliarne il concetto da ogni attributo simbolico e nello stesso tempo ad indagare più profondamente i caratteri ultimi, della realtà naturale, scompare anche l’ultimo vestigio di autonomia della natura: la realtà intiera si riduce all’attività di uno spirito che è nell’essenza sua libertà e vita e ciò che contrasta alla libertà ed alla vita è considerato come l’apparenza di una libertà e d’una vita che a noi si celano, ovvero come una resistenza oscura che ha valore e realtà solo in quanto è strumento dello spirito, in quanto serve, con la sua negazione, a potenziare l’attività e la vita dello spirito.
Questa dualità, che si persegue attraverso tutta la storia del pensiero, ripete nel seno stesso dello spirito la lotta dei due principii che sembrano contendersi il dominio della realtà; ed in essa, come nella realtà, si alternano con ritmica vicenda la vittoria del principio spirituale unificatore, il trionfo della forma, la sintesi, e la dissoluzione nella molteplicità, il trionfo della materia, l’analisi. L’origine di ogni essere vivente è dovuta al trionfo d’una forma, d’un principio unificatore che costringe un gruppo di energie inferiori a cooperare ad un fine d’un ordine superiore: ed in questa forma già l’antica sapienza riconobbe qualche cosa di analogo allo spirito. Ma nessuna forma è capace d’imprimere alla materia un sigillo eterno: l’unità dell’essere vivente si dissolve nel tempo e le stesse energie di cui si è alimentata la fiamma della sua vita tendono attivamente alla sua distruzione; ed in quest’opera di dissoluzione si prepara nello stesso tempo la materia alla vita di nuovi esseri e di nuove forme. Tale è la vicenda universale della vita: e tale è anche la vicenda del pensiero. La corrente idealistica è l’espressione della tendenza del pensiero verso l’unità, verso la sintesi; per la natura medesima del principio, che essa pone all’origine delle cose, essa è fratta a concepire il mondo come una perfetta unità e ad esprimere concettualmente quest’unità in una visione della realtà che non è soltanto una sistemazione subbiettiva delle conoscenze, ma è una vera fulgurazione, nella vita spirituale collettiva, di quell’unità che è il fondamento spirituale di tutte le esistenze. Alla corrente naturalistica è particolare invece la tendenza a negare ogni unità interiore delle cose, a disgregare l’universa realtà in una molteplicità assoluta di individui per sè stanti; e questa tendenza ha la sua espressione conseguente nella posizione autonoma delle singole conoscenze o dei singoli gruppi di conoscenze, riproducendosi così nello spiritò per una specie di ricorso analogico il carattere della natura che è molteplicità, resistenza all’unità della forma. Ma come nella assidua vicenda della generazione e della distruzione delle cose noi scopriamo, attraverso il fluire dei singoli esseri, un progresso costante, un’ascensione continua verso forme sempre più alte, che è come uno sforzo perenne della natura verso lo spirito, così nella successione alternata delle correnti collettive del pensiero, delle età negative e delle età creatrici, si rivela chiaramente, a chi non si arresti alla superficie, una progressione incessante verso un’espressione sempre più perfetta del fondamento spirituale della vita. Ogni nuovo movimento speculativo, ogni rinascimento delle grandi correnti idealistiche non è soltanto un ritorno periodico a forme consuete di pensiero ma costituisce un vero progresso nel pensiero e nella vita, una rivelazione sempre più perfetta dello spirito a sè stesso, che è anche il preludio d un nuovo orientamento della vita, d’una nuova forma di vita spirituale.
Ora anche a voi non è ignoto che noi stiamo sul limitare di una di queste età di rinnovamento e di creazione: il risveglio vivace del pensiero speculativo e della coscienza religiosa a cui assistiamo nei nostri giorni non è solo un’agitazione superficiale, ma è una corrente collettiva profonda in cui già vediamo disegnarsi vagamente una nuova concezione spirituale della realtà ed un nuovo indirizzo della vita. Quale sia questa nuova visione delle cose non è certo per nessuno di voi un mistero: e se io mi arresto a ricordarne alcuni tratti, ciò è soltanto per mettere in miglior rilievo quel concetto della funzione, dei compiti e dei fini dell’attività spirituale che alla nostra vita necessariamente ne deriva. Appena occorre che io vi ricordi che questo nuovo concetto della vita già si inizia e si prepara nel nuovo concetto della natura che lo Stesso svolgimento conseguente dell’indirizzo naturalistico ha contribuito a sostituire all’antica concezione meccanica. Il naturalismo del secolo passato aveva rivolto infatti ogni suo sforzo a risolvere la realtà in un sistema di leggi naturali necessarie: ma come è possibile la regolarità del divenire e la sottomissione dei fatti ad uniformità costanti senza considerare le leggi come principii obbiettivi, superiori ai fenomeni, senza porre al di là del mondo dell’esperienza una rete di rapporti e di entità sovrasensibili? L’analisi del concetto di legge condusse così il naturalismo alla negazione della legge: la realtà fu ridotta ad un aggregato di fenomeni e le leggi non furono più riguardate che come sistemazioni subiettive suggerite dalle esigenze pratiche. Così veniva negato il fondamento stesso della concezione meccanica: la scienza doveva rinunciare al suo sogno di ridurre tutto l’universo ad un grande meccanismo e lasciava sussistere accanto a sè la possibilità di un’altra e più obbiettiva concezione delle cose, attinta da un contatto fresco e vivo con la realtà. In questo risultato hanno confluito del resto anche altre tendenze di varia origine, che debbo qui soltanto accennare molto brevemente. Basti ricordare in primo luogo le recenti teorie elettriche della materia, per le quali il movimento, che con le sue leggi meccaniche era considerato come il fatto fondamentale in cui si risolvono tutti gli altri processi naturali, è invece ricondotto esso medesimo ad una variazione elettromagnetica in punti contigui dell’etere: ognun vede quanto esse ci avvicinino ad una concezione energetica e così in fondo ad un interpretazione idealistica della natura. Nello stesso senso agisce anche l’attuale movimento neovitalistico che rinnova sotto nuovi nomi la teoria aristotelica della vita: per quanto si tenti in limitati campi, ricorrendo anche ad antichi paradossi, di mantenere in tutto il suo vigore la concezione meccanica, sempre più chiaramente viene alla luce l’impossibilità di considerare la totalità della vita come un puro scambio di energie fisico-chimiche senza un principio animatore che susciti dalla materia una forma vivente ed imprima a tutto il processo evolutivo un movimento di ascensione perenne. E mi si conceda per ultimo di ricordare anche la risurrezione recente della tanto sprezzata filosofia della natura: G. Ostwald ha richiamato il nome in onore dando all’esposizione della sua concezione energetica il titolo di «Lezioni sulla Filosofia della natura»; e nell’attuale fioritura di neofichtiani, di neohegeliani e di neoromantici già da più d’una parte gli sguardi si volgono al creatore della Filosofia della natura, a Federico Schelling. La natura torna quindi ad essere per noi ciò che era per la speculazione idealistica del principio del secolo passato: una coscienza dormiente, una preistoria dello spirito, una vita occulta che noi apprendiamo come un complesso di morte forme solo perchè non penetriamo nell’intimo essere suo. La scienza che crede di poter rinserrare la vita della natura nelle sue formule e nelle sue leggi non penetra in realtà al di là della sua veste esteriore: essa rassomiglia a quegli eruditi che passano la vita a catalogar le morte reliquie d’una civiltà spenta senza mai riviverne lo spirito, senza mai penetrare fino a quell’anima che fu il secreto della sua vita.
A questo rinnovato concetto della natura corrisponde anche un nuovo concetto dello spirito, che sovverte tutti i rapporti che il naturalismo aveva creduto di poter stabilire fra la realtà spirituale e la realtà naturale. Tutti gli sforzi della filosofia naturalistica diretti a subordinare l’attività morale alle leggi ed alle esigenze della conservazione organica servono oramai per noi a mettere in chiaro un solo punto: e cioè l’impossibilità assoluta di riuscire ad un’esplicazione qualunque della vita morale finchè si erige a centro e fondamento della vita il semplice egoismo, sia individuale sia collettivo. E le stesse ricerche sociologiche e le ricerche di psicologia collettiva, fondate sul presupposto di una concezione prettamente naturalistica della vita morale e sociale, sono riuscite a questa conclusione: che l’individuo è, come individuo, un’astrazione ed è in realtà inseparabile dalla collettività di cui è un prodotto: e così che al disopra della psiche individuale si libra, reale, vivente e concreta, una psiche collettiva che impone a noi, come volontà morali, le sue esigenze ed i suoi fini. Ed un rivolgimento anche più profondo si è operato nel concetto della vita religiosa: che, considerata già — con frivola superficialità — come una manifestazione quasi patologica della vita collettiva, riprende ora, anche nella speculazione, il posto che le spetta nell’ordine della vita. Non solo quindi la vita dello spirito non è più per noi un bagliore fuggitivo che accompagna alcuni moti della materia, non è più uno strumento dell’esistenza corporea ed uno schiavo delle cieche leggi che la governano, ma è essa medesima la rivelazione suprema della realtà, la forma in cui più chiaramente apprendiamo la sostanza delle cose e da cui la stessa esistenza materiale riceve senso e valore. Tutti i gradi e le forme della vita spirituale, la coscienza, la morale, l’arte, la scienza, la religione, si svolgono sul fondamento di un’individualità, che è il prodotto della natura: ma esse non hanno dai limiti e dalle leggi di quest’individualità naturale segnati a sè i loro limiti ed i loro compiti, e la loro ragion d’essere trascende l’individuo e la natura. Esse sono, nonostante la loro apparente eterogeneità e subbiettività, forme diverse di un’energia spirituale, che tendono a costituire una forma autonoma di vita e che soltanto nell’unità di questa vita superiore raggiungono il loro ultimo fine e si rivelano nella verità della loro natura. Sorte dal seno della natura, esse rappresentano anzi un processo di liberazione dell’essere dalla sua forma naturale: ogni progresso, ogni potenziamento della vita dello spirito implica una liberazione dalle condizioni materiali a cui essa è, nelle sue origini, avvinta. Così è che noi vediamo nella vita d’ogni popolo dalla cooperazione d’un numero sterminato d’attività spirituali, ciascuna delle quali ha pure il suo fondamento in attività ed interessi materiali, sorgere una vita collettiva di spiritualità pura ed il risultato di questa vita trasmettersi di età in età come un prezioso patrimonio immateriale, solo degno di sopravvivere alla vita materiale del popolo che lo ha creato.
Noi vediamo chiaramente allora la vita umana e le sue attività disegnarsi come un’ascensione continua verso le forme più perfette dell’unità spirituale; in tutti i gradi della vita, dalla semplice coscienza individuale, che raccoglie in una forma le oscure attività organiche, alla coscienza d’un popolo, che stringe in una meravigliosa unità morale tutte le sue energie, noi vediamo delinearsi quella tendenza che costituisce lo spirito nella sua intima natura, la tendenza a raccogliersi in una unità, ad affermare di fronte alle forze inferiori un’unità che è rispetto ad esse anche liberti. E vediamo chiaramente allora anche come tutta la vita sia indirizzata verso quella unità che in tutti i tempi è stata considerata come il sabbato della vita, verso la vita in quell’unità assoluta dello spirito che è il termine delle aspirazioni della vita religiosa e ci si presenta come la meta ed il compimento necessario di tutte le altre forme inferiori della vita. Certo quest’unità ideale, questo regno perfetto dello spirito non è una realtà data, un mondo fatto e finito che noi possiamo abbracciare con lo sguardo nella sua perfezione e nella sua totalità: sebbene noi sappiamo che l’essere e l’agire nostro migliori hanno in esso il loro fondamento, nessuna cosa è più lontana da noi quanto la possibilità di rinserrarlo in una chiara forma ed in un contenuto preciso. Di qui si spiega perchè questo regno dello spirito in dati momenti della vita degli individui e delle collettività si presenti come un ideale nebuloso senza alcuna consistenza precisa e senza alcun’efficacia reale sulla vita; e perchè noi stessi vi partecipiamo in alcuni istanti con la certezza di possedere in esso una realtà obbiettiva e sicura d’un incomparabile valore ed invece in altri momenti lo spirito nostro si abbatta scorato sulla realtà presente considerando questo mondo, verso cui lo chiamano le voci divine dell’anima, come un sogno vano di povere menti illuse. Ma se il complesso di tutte le induzioni esteriori non giunge al di là d’una conoscenza puramente simbolica, si aggiunge qui ad esso una certezza di altra natura: la certezza che ci viene dal sentimento del dovere. Il sentimento del dovere è la forma sotto cui si rivela, nella coscienza dell’individuo, la presenza di questa realtà spirituale superiore; in questa interpretazione del dovere nel quale noi, partendo dalla considerazione delle realtà spirituali, vediamo il presentimento imperioso, l’esigenza d’una vita più perfetta e più libera, il rinnovato idealismo s’incontra con il pensiero immortale di Emanuele Kant, il quale partendo dall’analisi del dovere vide in esso la rivelazione nella sfera umana d’un ordine divino inaccessibile alla ragione speculativa.
Tale, o Signori, è nelle sue linee più generali il concetto del mondo quale ci è presentato dalla speculazione idealistica all’inizio del secolo ventesimo. Or quale è il posto che in tale concezione occupa la vita dell’intelligenza, quali sono i fini ed i compiti che in questo quadro delle cose si propongono a coloro che hanno dedicato la propria vita al culto dello spirito? — La risposta a questa domanda comprende evidentemente due parti: può riflettere cioè lo stato di diritto della questione e lo stato di fatto, quello che la vita dell’intelligenza deve essere nell’ordine ideale e quello che essa effettivamente è nell’ordine reale delle cose.
Quanto al primo punto, da ciò che abbiamo detto intorno alla vita dello spirito, discende chiaramente, a me sembra, quale sia il carattere ed il compito dell’attività intellettiva: essa è una funzione della vita religiosa. Noi abbiamo veduto che la vita umana raggiunge il suo vertice nella vita religiosa: che la religione non è solo un’attività la quale si aggiunga parallelamente alle altre attività, l’attività economica, giuridica, morale, e così via, ma è una nuova forma della vita, vale a dire una attività che crea un nuovo orientamento dell’essere e subordina a sè medesima le altre attività penetrandole con un nuovo spirito e collegandole in un nuovo sistema di vita. Quindi possono anche le attività inferiori, come p. es. la vita morale, quando subiscono l’influenza della religione, assumere un aspetto ed un carattere religioso: ma alla religione soltanto ed alle diverse attività che essa abbraccia appartiene l’alto compito che caratterizza questa forma della vita: e cioè il compito di elevare lo spirito dell’uomo alla coscienza dell’infinito ed alla vita nell’infinito, di operare la dedizione perfetta dell’intelligenza e della volontà a quell’unità trascendente dello spirito che la religione nostra chiama il regno dei cieli e che nelle varie religioni ha ricevuto varie e più o meno adeguate espressioni simboliche. Ora se noi osserviamo la vita religiosa non nella forma tradizionale, passiva, spesso degenerata, che riveste nella religione volgare e che non è spesso se non pura ripetizione imitativa, ma nella forma che riveste nelle anime veramente religiose che hanno saputo accendere in sè una vita religiosa veramente originaria, noi vediamo che essa può assumere due forme in corrispondenza alle due vie per le quali noi possiamo assurgere a quest’unità: l’intuizione sensibile ed il pensiero astratto. Nella prima la vita religiosa nasce da una visione profonda e geniale della realtà sensibile e l’eroe religioso è un ispirato, un veggente; nella seconda sorge da un’illuminazione geniale dell’intelletto, da una visione delle cose non secondo la loro forma sensibile, ma secondo la loro unità ed il principio soprasensibile: allora il simbolo sensibile si trasforma in un simbolo razionale, in un sistema speculativo. Certo la nostra vita religiosa attuale è così complessa ed accoglie in sè così numerosi elementi di varia origine, che è estremamente difficile distinguere in essa con precisione ciò che appartiene all’una od all’altra di queste due forme: le quali del resto non si escludono, anzi il più delle volte si intrecciano e passano l’una nell’altra per una serie di gradazioni insensibili. Questo ad ogni modo è certo: che la nostra vita religiosa nei suoi molteplici elementi tradizionali ha le sue radici nella forma sensibile, è stata nelle sue origini storiche opera dell’intuizione sensibile; mentre nel suo movimento storico si orienta decisamente verso la forma razionale, trae i motivi del suo progresso e della sua elaborazione interiore dalla vita superiore dell’intelligenza, dalla ragione. Ed è appunto in questo movimento interiore della religione verso questa forma, in questa aspirazione dello spirito a penetrare nelle sue profondità ultime il fondamento soprasensibile della vita delle cose e della nostra stessa esistenza che essa ha creato a sè un ordine complesso di attività, il quale, pur avendo in questo fine altissimo la ragione ultima della sua esplicazione, ha nel medesimo tempo trasformato profondamente anche la vita inferiore dell’umanità; quest’ordine di attività è il sistema del sapere scientifico.
La funzione vera ed essenziale dell’attività scientifica è costituita quindi non dall’opera sua in pro dell’attività economica e civile, ma dalla preparazione e costituzione della vita religiosa; e così, se ricordiamo che cosa dobbiamo intendere per vita religiosa, dalla preparazione intellettiva della vita nel soprasensibile, dalla costituzione di un perfetto regno dello spirito. Senza dubbio sarebbe un’ingenuità pensare questo rapporto fra la attività scientifica e la vita religiosa come un rapporto universale di efficienza diretta. La vita religiosa perfetta, la vita in Dio non è un prodotto dell’intelligenza e sorge per sè stessa come un’illuminazione interiore, come un dono della grazia: quindi l’attività scientifica non può proporsi di produrre, ma bensì di rendere possibile questa vita. Tale attività e le istituzioni materiali che ne sono l’estrinsecazione hanno per fine solo di perpetuare nell’umanità le condizioni intellettive che sono il fondamento della conservazione e del progresso della vita religiosa; la cultura scientifica, dice Fichte, ha per fine di ricondurre l’uomo in sè stesso, sul terreno della sua vita interiore e di avvezzarlo a dirigere l’occhio suo là donde a lui deve sorgere la vera vita, a cogliere la forma fuggente ed a rivestirla con simboli, concetti e parole. Di qui si comprende come all’individuo che ha dedicato sè medesimo al culto dello spirito, questa vita possa apparire come fine a sè stessa e come essa sia venerabile anche là dove essa non riesce immediatamente a quello che è il suo ultimo fine. Ma questa concezione individuale della funzione scientifica se può avere un valore per l’individuo, non ne ha naturalmente alcuno quando si considera questa funzione nella totalità sua, nell’azione umana collettiva in cui soltanto l’azione individuale appare nella sua vera luce. Una è la realtà ed uno il fine verso cui si volge il corso della vita e delle cose: colui che si isola nel suo piccolo mondo e pretende che esso sia fine a sè stesso non fa che chiudere gli occhi dinanzi al vasto movimento della realtà universale che avvolge ed inserisce la sua individualità impercettibile in una più larga corrente di vita.
Ma altro, si è detto, è lo stato di diritto, altro lo stato di fatto. Nell’ordine ideale l’attività scientifica è una funzione religiosa e come tale è parte di quella vita che si propone all’umanità come il fine e la ragione di tutte le altre attività: che cosa è invece nell’ordine reale? Per comprendere la ragione del posto che la vita dell’intelligenza occupa nella realtà della vita è necessario ricordare che ogni forma superiore della vita si erige sopra le inferiori non per un’ascensione pacifica e sempre uguale, ma per una specie di lotta, come qualche cosa che primitivamente non era voluto e che solo in seguito si impone come il termine finale di tutto il processo; i grandi fini ideali che caratterizzano le diverse sfere della vita appariscono dapprima solo come timide rivelazioni d’una vita nuova che dipende strettamente dalla vita inferiore da cui è sorta e serve interamente ai suoi fini. Così è per esempio che la vita cosciente, la quale pure nel suo ulteriore svolgimento rivela finalità proprie superiori alla vita organica, si manifesta dapprima ai suoi inizi come uno strumento della vita organica, come una semplice arma data all’essere organico nell’aspra lotta che esso deve sostenere per la sua conservazione. Analogamente avviene della vita morale in rapporto all’esistenza materiale d’una collettività. Il fine ideale dello stato è la costituzione dell’unità giuridica e morale di un popolo: quest’unità morale, che gradatamente si svolge dalla cooperazione egoista delle energie individuali, ha precisamente per fine di costringere queste energie egoistiche in una forma superiore di vita. E tuttavia anche essa non è ai suoi inizi che una forma quasi parassitaria, la quale serve, come organizzazione giuridica, agli interessi di un gruppo di oppressori: tutta l’evoluzione sociale non è che un perenne conflitto fra le esigenze di questa forma ideale che tende ad imporsi all’intera collettività e la resistenza delle volontà egoistiche dei singoli individui o dei singoli gruppi. Lo stesso dobbiamo pertanto attenderci nei rapporti della vita intellettiva e della vita materiale e morale che alla prima servono di fondamento. La perfetta unità sociale e morale non è punto il termine estremo dell’evoluzione umana; la vita collettiva di una nazione nello stato non è, come un Dio sulla terra, il fine ultimo di tutte le nostre attività. Al di là di questa sfera della vita si leva, come abbiamo veduto, una vita più alta e più vasta, la vita religiosa, verso cui tendono quelle attività diverse che noi abbracciamo col nome di cultura. Non per se dunque è la vita morale e sociale, ma per i beni spirituali superiori, per la cultura; lo stato, lungi dal far servire ai suoi fini la cultura, ha il dovere di servire alla cultura, di essere il terreno sul quale la cultura possa liberamente preparare l’umanità alla partecipazione ad una vita superiore. E tuttavia noi vediamo la cultura svolgersi nelle sue origini e nella sua storia come una specie di funzione servile, di attività parassitaria non avente altro fine che quello di abbellire la vita alle classi dominanti o di essere mezzo di dominio per lo stato.
Sotto quest’ultimo aspetto specialmente sono stati quasi in ogni tempo considerati gli istituti massimi di cultura, le università; le quali ebbero origine, com’è ben noto, da esclusivi bisogni tecnici e pratici e furono da principio semplicemente costituite da una riunione di scuole professionali per ecclesiastici, giurisperiti e medici; non essendo la quarta facoltà, la facultas artium (corrispondente alle attuali facoltà di lettere e di scienze) che un istituto di preparazione scientifica generale alle altre tre facoltà superiori. Questo asservimento della vita intellettuale e dei suoi istituti alle esigenze d’una vita inferiore ha rivestito naturalmente le forme più brutali e repulsive sotto i governi dispotici, per i quali gli studi e gli istituti accademici non sono che uno strumento di governo, uno stabilimento tecnico destinato a produrre funzionari per lo stato. È il concetto che dell’università hanno i principi tedeschi che nel XVI e XVII secolo fondano con qualche migliaio di talleri un’università locale e vietano ai sudditi la frequentazione di altre università per avere sotto la loro direzione e vigilanza la preparazione dei funzionari ecclesiastici e civili ed anche per non perdere i vantaggi che al fisco recava il concorso dei giovani in una sede universitaria. Ed è altresì il concetto dominante della riforma napoleonica, che riduceva l’università essenzialmente ad istituti professionali medici e giuridici, militarmente disciplinati ed indirizzati non al progresso del sapere, ma alla formazione di utili e fidati funzionarî imperiali: mentre nello stesso tempo la mente alta e chiaroveggente di Guglielmo v. Humboldt organizzava le università prussiane con quei criteri di libertà che ne prepararono il fiorire meraviglioso e che oggi ancora sono degni di essere meditati ed ammirati. Ma non bisogna credere che la democrazia sia più favorevole all’indipendenza dell’attività intelettuale. Certo nelle origini sue ogni movimento rivoluzionario è il naturale alleato dell’intelligenza; tutte le volte che una organizzazione tende a sostituire un’altra organizzazione dominante, essa è tratta naturalmente a rilevare gli aspetti irrazionali dello stato di cose preesistente e ad identificare la propria causa con la causa della ragione. Ma quando è riuscita nel suo intento, allora le cose si presentano sotto ben altro aspetto. Allora la nuova organizzazione anche se è sorta su basi apparentemente più razionali della società anteriore, non tarda ad elevare rispetto alla vita intellettuale, le stesse pretese di quella: se prima essa faceva sua la causa dell’intelligenza, essa vuole ora che l’intelligenza non abbia aspirazioni divergenti dalle esigenze tutte materiali e terrene della nuova oligarchia. Socrate, il primo martire del pensiero, fu, è bene ricordarlo, la vittima di una democrazia: e l’odierna democrazia sociale se non può più condannare alla cicuta gli intellettuali non è loro avara di altre amarezze. Anzi in nessun luogo corre tanto pericolo l’indipendenza del pensiero quanto nei così detti governi democratici, che sono, occorre appena dirlo, oligarchie di industriali e di legulei: dove l’incertezza del potere, i cozzi violenti dei diversi interessi, la pseudo-cultura grossolana dei dirigenti pesano sul sapere più duramente che non gli interessi d’una casta avvezza al potere e raffinata da consuetudini ereditarie. Noi ne abbiamo l’esempio negli Stati Uniti del Nord America dove non sono rare le offese alla libertà d’insegnamento e dove le stesse università di stato recentemente fondate «sono (scrive il prof. Perry) dal continuo alternarsi dei governi e dall’ambizione dei capi partito messe alla balia delle fazioni e ridotte in molti casi a veri asili di invalidi della politica, mentre i professori valenti e coraggiosi che non vogliono adattare le loro opinioni alla moda del tempo sono con fraudolenti raggiri cacciati dalle loro cattedre».
Del resto chi conosce quel capitolo grottesco e lamentevole della storia della cultura che è la storia del letterato attraverso i tempi, ben sa che l’attività intellettuale quando non è stata intesa come una funzione utile agli interessi egoistici della collettività, è stata equiparata ad un vero parassitismo sociale e come tale trattata e considerata. Il dotto nel medio evo, anche quando fa parte dell’università dipende materialmente dalla chiesa, le cui prebende e fondazioni attribuite alle università da papi e principi sono, almeno per la maggior parte delle università fino al XV secolo, l’unica rimunerazione pubblica degli insegnanti delle facoltà superiori, mentre i professori della quarta facoltà, quella che più direttamente rappresenta il sapere puro, sono ridotti a miserrimi emolumenti od ai più miseri onorarî dei loro corsi. Nel rinascimento il dotto è il parassita dei principi: e quando non è riuscito a procacciarsi una protezione che gli assicuri il pane, lo vediamo errare di città in città a guadagnarsi la vita ora con l’insegnamento, ora con la correzione delle bozze, ora, e ciò più spesso, mendicando con la più indecorosa bassezza una mercede alle sue adulazioni. Più tardi la dedica delle opere a principi od a ricchi mecenati costituisce una delle forme più ordinarie di questa dotta mendicità, accanto alla quale altre occupazioni a cui si davano dotti professori di università — come p. es. a Iena vendere birra agli studenti — possono parere onorevoli. Il professore di poesia a Wittenberga Federico Taubmann (+ 1613) cumulava il suo ufficio con quello di giullare alla corte di Sassonia. E non altrimenti doveva considerare i suoi professori dell’università di Francoforte sull’Oder Federico Guglielmo I di Prussia che li costrinse un giorno a disputare sulla cattedra con un suo buffone sul tema: «I dotti sono pazzi loquaci»: uno solo di essi, il teologo Giovanni Giacomo Moser, ebbe il coraggio di tenersi lontano dall’indegna farsa. Queste sono miserie dei tempi passati, è vero: ma anche l’oggi non presenta dei sintomi molto lieti. Anche oggidì, dalla maggioranza delle persone colte la vita della intelligenza continua ad essere considerata come un semplice abbellimento della vita, come un complemento accessorio delle attività umane dirette alla conservazione ed al perfezionamento della vita materiale. Nè è raro sentir enunciare come il più alto elogio dell’arte o della scienza, che esse servono ad ornare la vita: come se tutto ciò che hanno fatto e sofferto i grandi spiriti non avesse altro fine che di rendere più gradevoli i giorni alla turba che vegeta intorno a loro. Ed è anche penoso spesso notare con quale servilità adulatoria molti di quelli medesimi, che pure alla vita dello spirito hanno dedicato tutte le forze loro, accolgono l’atto di coloro i quali, chiari per nascita o per dovizie o per alti uffici, volgono un momento uno sguardo di protezione verso l’arte o la scienza oppure degnano scendere essi stessi nell’arringo: come se l’arte servile di soddisfare ai bisogni materiali della moltitudine ricevesse qualche nobiltà dai larghissimi compensi o quella di pascere e di mungere il povero gregge umano fosse veramente l’occupazione più degna e più alta, dalla quale fosse lecito guardare quasi con disdegno sulle opere nobilissime dello spirito.
Io non mi sono così a lungo arrestato, o Signori, sopra questo contrasto fra le esigenze ideali e lo stato reale della vita dell’intelligenza se non per mettere in più reciso rilievo i doveri virili che a noi ed a voi sopratutto, o giovani egregi, nascono da questa condizione di cose. Se è volontà nostra che l’intelligenza abbia nella vita il posto a cui ha diritto e si diffonda anche nella società la convinzione che la vita dell’intelligenza non è sorta solo per abbellire la vita o per promuovere il perfezionamento della vita materiale, ma ha compiti autonomi connessi con le più alte finalità della vita umana, bisogna che prima questa coscienza si affermi chiaramente e vigorosamente in noi stessi; bisogna sopratutto che anche per noi l’attività intellettuale non sia soltanto una contemplazione inerte, una pausa nell’attività universale, ma sia e sappia di essere movimento attivissimo e vitale, sappia che essa continua in una sfera più alta e più serena quella vita medesima che vediamo fervere intorno a noi in attività più tumultuose e forse più vane. Bisogna che si imprima e si diffonda da noi la convinzione che la civiltà vera non risiede soltanto nelle macchine, nei congegni e nei raffinamenti esteriori, ma sì nella profondità e nella delicatezza della vita interiore, nella forma dello spirito: e che senza di questa ogni civiltà più vantata non è che splendida barbarie. E bisogna che ciascuno di noi sia e sappia di essere in sè medesimo un momento ed uno strumento di questa vita superiore che lo spirito umano crea a sè stesso nelle opere silenziose della mente; che nell’amore che ciascuno di noi porta ai suoi prediletti studi già viva e si affermi chiaramente l’amore e la potenza di quella vita che non è ancella, ma regina.
Sia quindi sempre presente alla coscienza vostra, o giovani egregi, l’unità di questa vita: non perdete nelle ricerche particolari la visione del loro fine complessivo e della loro ragione suprema: considerate con l’occhio del micrologo i problemi singoli della vostra scienza, ma sappiate considerare questa scienza nel suo insieme con l’occhio del filosofo. Reagite sopratutto contro quell’indirizzo che vorrebbe restringere alla vostra mente il vasto orizzonte dello spirito e confinarla nelle piccole miserie di una specialità miope ed angusta. Riflettete che la pretesa obbiettività di cui esso si vanta, non è che inconsapevolezza dei presupposti sui quali quest’obiettività si fonda; e che ogni pretesa descrizione obbiettiva è in realtà l’estensione nei particolari d’un punto di vista generale, il quale ignora ancora sè stesso. Riflettete ancora che la stessa gioia, che all’erudito viene dalla visione viva e limpida d’un complesso di fatti, ha la sua sorgente nell’intuizione geniale d’un momento della vita universale trasfuso e confuso nel particolare: e che quindi lo stesso odio delle generalità non è veramente se non una forma dell’amore dell’idea: si odia l’astrazione pallida e scolorita sorta lungi dal contatto fecondo delle realtà viventi perchè si anela al possesso dell’idea viva di cui il concetto non è che un simbolo. Non rendetevi quindi simili a quelli che Kant chiama i Ciclopi della scienza: i quali sono capaci di portare sulle loro spalle un peso immenso di dottrina, il carico di cento cammelli, ma hanno un occhio solo, quello della loro specialità scientifica. Fate che l’opera vostra sia sempre penetrata dalla coscienza della sua funzione nel tutto e dello spirito che il tutto anima: senza di ciò essa non è se non opera servile che si seppellisce da sè stessa nella sua vanità.
E siano presenti sempre alla coscienza vostra anche la dignità e l’altezza di questa vita. Non asservitela alle meschine preoccupazioni della vita inferiore, non togliete ad essa le ragioni più profonde della sua esistenza col ridurla ad una funzione professionale di derisoria importanza. Non asservitela alle piccole vanità ed alle piccole ambizioni personali: non trasformate l’amore delle cose spirituali in quell’odioso snobismo intellettuale che è pompa vana di una intellettualità superficiale e frivola senz’anima e senza vita. E sopra tutte le cose mantenete in voi alto e vivo il senso dei doveri di dignità e di fierezza che essa vi impone; da ogni più spregiata umiltà di vita e di uffici levate con orgoglio lo sguardo alla vostra patria spirituale; associate in silenzio l’opera vostra a quella dei più grandi spiriti nella costituzione di quel regno invisibile che si leva come un ordine imperituro, sopra il mondo e le sue grandezze di un giorno.
Non è per questo necessario credere che debba veramente venire un tempo in cui questo regno trionfi sulle oscure potenze inferiori, e si realizzi sulla terra quella città dell’intelligenza che da Platone in poi è stato il sogno di tante nobili menti: non solo non è desiderabile, ma non è nemmeno concepibile che questo alto ideale della coscienza religiosa si incarni un giorno sotto le condizioni dell’esistenza sensibile in una Gerusalemme celeste, in un regno perfetto della ragione. È un destino, tragico e salutare ad un tempo, di tutte le azioni umane che esse non raggiungano mai pienamente il fine desiderato e che invece si costituisca per esse in una specie di ordine provvidenziale qualche cosa di primitivamente non sperato nè voluto, in cui risiede il valore imperituro dell’azione. Così è anche nel mondo dello spirito: dove l’azione della volontà buona si estende al di là dei fini particolari e limitati in un ordine soprasensibile che in gran parte a noi si cela. Gesù ed i primi suoi discepoli attendevano come vicino il giorno in cui il Figliuolo dell’uomo sarebbe venuto sulle nubi a giudicare i morti ed i viventi; ora la sua attesa, noi lo sappiamo, era profondamente vana; diremo noi, per questo che egli abbia sofferto e sperato invano? Operiamo quindi anche noi con animo fermo e sereno, come se questo regno ideale della ragione dovesse venir realizzato nell’esistenza terrena; e pel resto confortiamoci col pensiero che soltanto dalla dedizione a quella Coscienza migliore, che per questa via ci guida verso i nostri supremi destini, può venir qualche nobiltà e qualche valore alla nostra povera vita.
- ↑ Discorso inaugurale dell’anno scolastico 1908-09 letto nell’Aula Magna dell’Accademia scientifico-letteraria il 9 novembre 1908.