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Euripide - Ione (413 a.C. / 410 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Introduzione
Ione (Euripide) Personaggi
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli



In qualsiasi storia della Letteratura greca, in qualsiasi studio speciale, lo Ione è annoverato, anzi posto in prima fila fra i drammi di soggetto romanzesco.

E, cosí in genere, tutti siamo d’accordo. Ma se si viene a precisare, allora cominciano i dubbî.

Perché, quando il Patin, per esempio, ci dice che il «romanzesco» consiste in «uno sviluppo di avventure fuori dal corso naturale delle umane vicende», noi domandiamo se è facile immaginare sviluppi piú straordinarii e maravigliosi di quelli offerti da tutto il complesso dei miti greci: basta leggere Apollodoro.

E cosí, se badiamo ai soliti elenchi dei «motivi» che determinerebbero questo carattere romanzesco1, súbito ci corrono al pensiero altri drammi, d’Euripide, e non solamente d’Euripide, che nel complesso non sono davvero romanzeschi, e che pure appaiono ispirati, e spesso addirittura imperniati su qualcuno di quei famosi motivi. L’abbandono e il riconoscimento d’un bambino? — E l’Edipo re? — La passione d’ amore? — E l’Ippolito? (fu rappresentato nel 428; e anteriore era l'Ippolito velato, nel quale la passione di Fedra era dipinta con colori assai piú crudi, assai piú romanzeschi). — L’amante abbandonata? — E Medea (431)? — La tenerezza coniugale, materna, filiale? — E Alcesti (438)? E Le Troiane? E L’Edipo a Colono? — I servi fedeli? — E quello dell’Alcesti, che per amore alla padrona spenta si abbaruffa addirittura con Ercole? — La sentimentalità appassionata e melanconica? E non è forse carattere generico e saliente di tutta la drammaturgia d’Euripide?

E, senza dubbio, nel complesso di quei rilievi, c’è una gran parte di vero. Ma non tutto il vero. E si può forse muovere ancor qualche passo, se non per raggiungerlo, almeno per avvicinarglisi.

Le vicende, abbiamo detto, della mitologia greca presentavano già essenziali tutti i caratteri del romanzesco. Però, per la credenza e pel sentimento degli Elleni, non erano favole: erano storia. Immutabili, quindi, intangibili, e non soggette all’arbitrio dei poeti, i quali potevano abbellirle con l’arte loro, ma dovevano rispettarne la configurazione e l’essenza. E storia è, per definizione, antitesi di romanzo.

Euripide, invece, riprendendo la tradizione del vecchio Stesicoro (che con le sue alterazioni di miti impressionò molto, perché era il primo, ma probabilmente fu molto sobrio), modificò, a suo modo, gli eventi della tradizione, o li trasformò addirittura. E la libera invenzione è del romanzesco condizione non sufficiente, ma certo necessaria.

E c’è altro. Secondo l’opinione comune, foggiata sopra la primitiva filosofia della storia, tutti gli eventi umani erano seguiti in una data maniera per volere dei Numi, o, meglio, di quella forza divina misteriosa, e superiore anche ai Numi, che si chiamava Fato. Questo concetto, tutti lo sanno, aveva messe salde radici nel dramma tragico: e, pure ispirandogli la sua vita profonda, finiva per aduggiarlo, o, almeno, per limitarne certe possibilità. Poiché tutti sapevano fin da principio che la tragedia doveva correre, senza possibile scampo, sulle linee tracciate dal Fato, lo svolgersi delle vicende non poteva suscitar troppo l’interesse degli spettatori, che, infatti, si concentrava tutto sopra altri elementi.

Ma in questi drammi d’Euripide, che diciamo romanzeschi, il Fato ha rallentata la sua stretta. I personaggi non sono piú marionette, e siano pur marionette tragiche, legate irremissibilmente ad un filo che le sostiene e le guida. Essi hanno acquistata piena indipendenza, e possono lottare contro l’avverso destino, senza la prescienza della necessaria sconfitta: possono, secondo il motto di Terenzio, divenire artefici del proprio destino.

Tutti intendono quale grande e libero campo si apriva per il poeta ad un piú complicato sviluppo di sentimenti e di passioni. Ma subito soggiungiamo che Euripide non ne approfitta. Anzi, se badiamo bene, lo studio psicologico è piú trascurato qui che in altri drammi puramente tragici. Egli usa della nuova libertà acquistata dalle sue creature per impegnarle, non già in una lotta, bensí in un giuoco contro il destino. E nel giuoco, naturalmente, non hanno tanto luogo né i sentimenti, né le passioni, quanto l’abilità e la furberia. Chi ne possiede di piú, vince la partita. I suoi protagonisti, appunto per la loro entità di protagonisti, ne posseggono piú degli altri, e quindi si salvano. Tanto lo Ione quanto l’Ifigenia in Tauride e l’Elena, sono a lieto fine. E non sappiamo con precisione quanto questo «dramma-giuoco» piacesse agli spettatori: certo dispiaceva oltremodo ad Aristofane, che qualificava quel giuoco mechané, e, cioè, traducendo secondo le intenzioni del commediografo, pasticcio. Ma qui non si vuole giudicare, bensí caratterizzare. E se pensiamo che giuoco è avventura, e avventura è romanzo, intendiamo come la nuova concezione, sfruttata come la sfrutta Euripide, contribuisca a conferire a questi drammi il carattere che vien detto, e giustamente, romanzesco.

E l'avventura non presuppone necessariamente, ma certo predilige la terra straniera. Onde vediamo l’Elena svolgersi in Egitto, e l’Ifigenia in Tauride in fondo al Ponto Eusino. E lo Ione in Delfi. Che è piena Ellade, ma che in qualche modo è terra straniera per i due protagonisti, Ione e Creusa, che sono la quintessenza dell’atticismo.

Questi tre fattori, dunque, la libera invenzione della favola, l'affrancamento dei personaggi dai lacci del fato, e lo spirito che li anima, d’avventura e d’intrigo, son quelli che veramente conferiscono carattere essenziale ai drammi romanzeschi d’Euripide.

Ad essi si può aggiungere l’accresciuta predilezione pel paesaggio, e l’abbondanza della musica, che qui, piú che altrove, straripa dai suoi proprii alvei, e invade altre parti del dramma, ed anche alcune che alla musica sembrerebbero refrattarie.

E alla luce di tutti questi elementi si colorano e prendono certo una luce speciale anche quelli che si trovavano già nel dramma piú antico, e che non senza ragione i critici rilevano come romanzeschi.

Su questo ordito generale, ciascuno dei drammi romanzeschi ha poi una sua trama speciale, dalla quale specialmente deriva il suo rilievo e il suo pregio.

Vediamo, scarnito sino allo scheletro, l’intreccio dello Ione. Una madre e un figlio, separati per la colpa della madre — colpa da imputare piú che altro ad un Nume — si desiderano e si cercano. Infine, si trovano, ma non si riconoscono; e le complicazioni degli eventi (la mechané) spinge la madre a cospirare contro la vita del figlio, che, scampato per miracolo, vuole a sua volta porre a morte la madre. Intreccio abilissimo. «Il piú complicato — dice il Patin — il piú vicino all'arte dei moderni che si sia finora incontrato nell’arte greca».

Ma l’intreccio è un elemento, e non il principale, della complessa costituzione d’un dramma. Veniamo alla parte essenziale, alla creazione dei personaggi.

Di Ermète, che esce primo a recitare il prologo, osserva giustamente il Grégoire (pag. 173) che «è curioso e chiacchierone come uno schiavo di commedia». Ma questo non può meravigliare: un’aura di comicità ha sempre circonfuso Ermète, da Omero a Luciano: piccole miserie inerenti al mestiere di messaggero.

Piú caratteristica è invece la figura di Apollo. Non appare materialmente su la scena; ma è tanto spesso evocato nel corso del dramma, che finiamo col vedercelo innanzi agli occhi, come un vero personaggio.

Personaggio punto simpatico. Ha commessa una cattiva azione, e tutti gliela rinfacciano. Prima Creusa, la sua vittima.

Ehi là, di Latona figliuolo,
dico a te, che i responsi partisci
sopra i seggi dorati, e le sedi
della terra centrali: alle orecchie
la mia voce farò che ti suoni.
Ehi là, seduttore malvagio,
che sino alla casa
del mio sposo, che grazia veruna
non ha presso te,
conduci un figliuolo.

Riducete qualche melodrammatica artificiosa grazia d'espressione (il brano era cantato), e avrete le contumelie che una qualunque donna — non una signora — rivolge al suo seduttore.

E il fido aio di Creusa consiglia pari pari di dare alle fiamme il suo tempio.

E assai severamente lo giudica perfino Ione, il suo fido ministro, e quando ancora non sa di essere anch’egli una vittima:

                         convien ch’io biasimi
quello che Febo fa. S’unisce a forza
con le fanciulle, e le tradisce, e i figli
furtivamente procreati, lascia,
senza pensiero darsene, che muoiano.

E queste rampogne, in forma cosí oltraggiosa, ma tanto giuste che nessuno potrebbe rintuzzarle, non servono davvero ad accrescere il prestigio della figura del Nume. Euripide nel suo teatro aveva fin da principio ridotte le figure degli eroi alle comuni proporzioni dei mortali; ma i Numi erano stati rispettati. Nello Ione, invece, anche un Dio, e qual Dio, veneratissimo anche nella irriverentissima commedia, era tratto giú giú, a livello d’un mortale un po’ furfante. Personaggio da dramma, come ora si direbbe, borghese.

O anche meno. Sentiamo che cosa dice Atena, quando appare a rassicurare l’incredulo Ione.

                         Qui son corsa in fretta
per mandato d’Apollo: esso in persona
non crede’ bene giungere al cospetto
vostro, ché in ballo non tornasse il biasimo
di ciò ch’è stato.

Perfettamente logico. Ma il tratto, volontariamente, o involontariamente, è d’un magnifico umorismo. Da commedia. Quasi direi da farsa.

E vediamo Ione, il protagonista. Esso ha suscitato il piú vivo entusiasmo dei critici, e massime dei critici francesi, che ravvisano in lui il capostipite del Ioas dell’Athalie. Conviene riportar per intero il lusinghiero ritratto che ne traccia il Grégoire. «Ione è, senza contrasto, una delle figure piú vere, piú avvincenti, piú perfette che Euripide abbia mai dipinte. Il giovine ierodulo possiede la pietà precisa della sua professione, un’affezione tenera e gelosa pel Dio che lo nutre, l’intelligenza istintiva, la gaia attività della gioventú. Sempre in movimento, pieno d’un ugual zelo nell’adempiere i diversi doveri del suo ministerio, ci manda in estasi per la sua abilità, il senso d’opportunità, la grazia che rivela in qualsiasi contingenza. Egli sa impartir comandi ai ministri d’Apollo, ma non sdegna le umili funzioni di spazzare egli stesso e adornare il tempio. Neocoro, guardiano dei sacri tesori, e anche un po’ architetto, in breve d’ora traccia il piano d’una gran tenda di duemila piedi, che gli operai edificano e decorano sotto i suoi ordini. Giacché egli esercita le sue funzioni con autorità, impone a tutti il rispetto dei regolamenti. Sebbene cortese, ha piena coscienza della sua dignità sacra, e respinge risolutamente le goffe espansioni e la familiarità di Xuto. La sua fede, la sua castità, la sua pietà, non gl’impediscono, d’altronde, di mostrarsi, a tempo e luogo, perspicace, scettico, curioso, o anche gentilmente indiscreto».

Ora, non si nega che nel complesso la figura di Ione sia fresca e piacevole, né che alcuni dei suoi lineamenti siano visti dal Grégoire con finezza e ritratti con garbo. Ma altrettanto sicuro mi sembra che riesca piuttosto caratterizzata dai lati che il Grégoire rileva per ultimo, e di sfuggita, quasi fossero occasionali e di poca importanza, e che invece mi sembrano capitali. E sono: primo, lo spirito critico, in lui tanto sviluppato, che, come vedemmo, lo spinge a rivedere le bucce al suo stesso Nume. E, prese le mosse da Apollo, estende il biasimo a tutti gli Dei.

Bella giustizia! Voi Numi sancite
le leggi pei mortali, e siete i primi
a vïolarle. Se doveste un giorno
(non sarà mai, ma pure, supponiamolo)
tu, Posídone, e tu, Giove, che reggi
il firmamento, rendere giustizia
dei soprusi d’amore a tutti gli uomini,
i vostri templi vuoti rimarrebbero
in poco d’ora. Ingiusti siete, quando
piú del vostro piacer che della cura dovuta
a noi, pensier vi date. Giusto
non sarà, no, chiamare tristi gli uomini
che quanto ai Numi sembra bello imítano,
bensí quei che ne sono a noi maestri.

Questo si chiama parlar chiaro. E viene un po’ da ridere, a rileggere, dopo questa tirata, l’elogio che tesse il Grégoire della «esatta pietà del giovine ierodulo, e della sua affezione tenera e gelosa pel Dio che lo nutre». Figuriamoci che direbbe se non possedesse queste due belle doti.

Il secondo carattere è lo scetticismo. Presente in tutto il corso del dramma, nell'ultimo duetto con Creusa giunge ad un apice grottesco. Già alla battuta di Creusa: «Cosí nel giro del decimo mese io nascostamente ti generai a Febo», Ione ha risposto, senza sbilanciarsi: «Bellissima notizia, se hai detta la verità». E quando poi le effusioni si sono esaurite, dinanzi alle ancelle, la prende a parte. Riassumo un po’ il dialogo, perché meglio ne risulti l’essenza, velata un po’ — molto poco — da un certo spumeggiamento di fraseologia poetica.

Ione. — Vieni qui. Voglio dirti una cosa all’orecchio. È proprio vero che son figlio d’Apollo? Oppure l’hai inventata tu, per nascondere un tuo fallo giovanile?

Creusa. — No, no, sei proprio figlio del Nume.

Ione. — E come va che questi ha detto invece che sono figlio di Xuto?

Creusa. — No, ha detto che ti dona a lui come figlio adottivo.

Ione. — La cosa non mi convince.

Creusa. — Se ti dichiarasse mio figlio, tu non potresti ereditare il trono d’Atene, come invece potrai se passi per figlio di Xuto.

Ione. — Non sono ancor persuaso. Adesso entro nel tempio, e interrogo lo stesso Apollo.

Questo si chiama andar coi piedi di piombo.

E allo spirito critico e allo scetticismo si aggiunge una terza nota assai caratteristica. Quando Ione ha saputo d’essere sangue di re, e Xuto vuole ricondurlo ad Atene, obietta (al solito riassumo): «Le cose sono assai differenti viste da lontano e viste da vicino. Io sono bastardo, e tu, mio padre, forestiero; e già per quest’ultimo fatto in Atene non mi ci troverò troppo bene. E poi, la sposa tua, che non ha figliuoli proprii, non mi prenderà in uggia? Vivrei in sospetto continuo. Meglio questa vita tranquilla, in cui posso fare ciò che mi aggrada».

Fuge rumores. Par proprio di sentire Orazio, e uno dei suoi elogi dell’aurea mediocritas.

Si potrà forse obiettare che queste tre note, e massime la prima, siano comuni anche ad altri personaggi euripidei: sicché la loro potenza di caratterizzare ne rimanga come affievolita, e maggior valore acquistino in loro confronto le altre doti piú propriamente specifiche.

Ma questa impressione nasce nell’analisi comparativa di tavolino, e non già nel cimento scenico, in cui ciascun personaggio risulta volta a volta dalle note che il drammaturgo presenta ed afferma.

E nello Ione, le tre note che ho rilevate sono tanto sottolineate, in confronto delle altre, quasi tutte accennate e sfumate, che da esse e non da quelle rimane determinata la figura del protagonista.

E ad ogni modo, tanto da esse quanto dalle altre, rilevate dal Grégoire, che spesso, spogliate dal velo ottimistico di cui le circonda il critico, appaiono piú tare che non pregi, risulta ben chiaro che Ione è tutt’altro che una figura eroica.

È uno dei giovinotti d'Atene, quali abbondavano nel clima ipercritico, scettico, e appunto antieroico, nel quale Euripide si trovava cosí bene, e cosí male Aristofane.

Un borghese. E come tale, dipinto bene: è, abbiamo detto, una figura fresca e piacevole. Salvo, che, trasportato nel l’atmosfera del mito eroico, si trova a disagio, come uccello di basso volo asceso ai rarefatti climi d’un’alpe. E, pure essendo in sé personaggio di dramma, come ora si direbbe, borghese, qui, nelle altitudini del mito, e d’un mito attico, che, nelle intenzioni del poeta dovrebbe essere elevato e poetico, sembra, per contrasto, personaggio da commedia, e, a momenti, da farsa.

Ed anche piú ameno risulta Xuto. Impossibile determinare con precisione se e fino a qual punto venisse suggerita dal mito la sua figura di marito gabbato. Ma ciò non ha importanza, riguardo al giudizio sulla figura euripidea. Il tono fa la musica; ed Euripide, anche accettando il tipo, d’altronde comune nella mitologia greca, dell’eroe padre putativo del figlio d’un Nume (prototipo Anfitrione), poteva sorvolare sui lati scabrosi.

Invece, non soltanto non sorvola, ma inventa situazioni e particolari che mettano bene in rilievo il lato comico della sua posizione.

Tali, per esempio, l’entusiasmo con cui, appena uscito dal tempio, si precipita su Ione, e abbraccia come proprio figlio ii figlio della moglie e d’un altro.

Xuto. — Salute, o figlio! Queste parole conviene che prima io ti dica, o figlio!

Ione. — Salute ne ho. Anche tu ripèndula il cervello, e saremo in due ad averla.

Xuto. — Dammi la tua mano, ché io la baci, e che ti stringa al mio seno.

Ione. — Hai il cervello a posto, forestiero? O i Numi te l’hanno mandato a male?

Xuto. — Non ho il cervello a posto, perché ho trovato e voglio abbracciare ciò che ho di piú caro al mondo?

Ione. — Finiscila: non toccare le sacre bende del Nume!

Xuto. — Le toccherò. Non rubo, piglio il mio.

Ione. — Vuoi allontanarti, prima di buscarti una freccia nei polmoni?

Tende l’arco.

Xuto. — Perché mi fuggi cosí?

Ione. — Non amo i forestieri pazzi e senza cervello.

Xuto. — Uccidimi, ardimi. Ma se m’uccidi, sarai l’assassino di tuo padre.

L'abbondanza e l’eccesso di queste repulse, se da un lato servono a dipingere assai bene il carattere diffidente e circospetto del giovine, dànno modo a Xuto di sfoggiare una facilità e una credulità che non gli accrescono certo prestigio agli occhi degli spettatori che sanno tutto.

E per tutto il dialogo col figlio, séguita l’accentuazione di tale comicità, mediante quelle battute anfibologiche, caratteristiche d’Euripide, che una cosa dicono al personaggio, e un’altra allo spettatore.

Ione. — È strana assai, quest’avventura!

Xuto. — Siamo in due a meravigliarcene.

Ione. — E quale madre mi diede a te?

Xuto. — Non te lo so dire.

Ione. — E Febo non te lo disse?

Xuto. — Per il gran piacere, non glielo chiesi.

Quest’ultimo tratto è davvero impagabile. E cosí, se fossimo in sede comica anziché tragica, dovremmo ammirare la finezza dei tratti per cui Xuto si induce a considerare sé stesso coniuge infido, traditore della moglie e del talamo, e quasi a provarne rimorso. Ricordando la nascita di Ione, la qualifica «follia di gioventú» (μωρία γε τοῦ νέου). E protesta che però, dopo il matrimonio con Creusa, non ha fatto piú strappi al contratto coniugale.

C’è, veramente, contro l’asserzione della sua paternità, una difficoltà piuttosto grave. Come mai il figlio di Xuto, vissuto sempre in Atene, si trova in Delfi? Ma appena Ione gli domanda se è mai capitato a Delfi, si afferra súbito a quest’àncora. Egli ci venne infatti da giovine. Ma se questo par sicuro, meno sicuro risulta dalle battute del dramma che qui si compiesse uno dei suoi scappucci giovanili: quelli di cui parla prima, evidentemente, non furono commessi a Delfi. Leggiamo il dialogo (traduco alla lettera):

Ione. — Non sei venuto mai, prima d’ora, a Pito?

Xuto. — Sí, alle feste di Bacco.

Ione. — Alloggiasti presso alcuno dei pròsseni?

Xuto. — Sí, che a fanciulle di Delfo...

Ione. — ti diede compagno nel tíaso? O che volevi dire?

Xuto. — Sí, con le Mènadi di Bacco.

Ione. — Eri in te, oppure avvinazzato?

Xuto. — Ero vinto al piacer del vino.

Ione. — Ecco la congiuntura in cui fui generato.

Xuto. — Il destino lo volle, o figlio.

Pare dunque che Xuto ricordi di essersi ubbriacato, e non altro. Del resto, ripete come un’eco le parole del figlio. E questa sua buona grazia a lasciarsi persuadere gli merita senza contrasto un posto nella falange immortale che va da Menelao a Giorgio Dandin, a Boubourouche.

E il fatto che alla fine del dramma non appare piú, ed è messo da parte, come un perfetto pleonasmo, non giova certo a restaurare la sua dignità, tanto compromessa dalle precedenti vicende.

E veniamo all’aio di Creusa. Tipo di servo fedele, si dice per solito; ed è quanto dir nulla. Vediamolo un po' in azione.

Esso appare accompagnato e sostenuto da Creusa. È vecchio, è orbo, si trascina a stento. Eppure, appena apprende la storia del fanciullo riconosciuto come figlio da Xuto, si inalbera assai piú della sua stessa signora, e le impone la sua volontà, e prende egli le redini dell’azione.

E incomincia ad istigare Creusa con una stringentissima requisitoria contro il marito, che, giunto in Atene straniero, e sposata la figlia del re, adesso introdurrà nella reggia il figlio d’un’altra donna, farà che segga sul trono degli Erettídi il figlio d’una schiava. E, approvato pienamente dal coro, insiste e concreta: «Oramai, tu devi fare qualche atto degno d’una donna. O impugna una spada, o con qualche trama o con qualche veleno uccidi il tuo sposo ed il suo figlio. Io ti aiuterò, e ucciderò con te il giovine, nella sala dove si sta imbandendo il banchetto. Non importa se incontrerò la morte».

Il coro si associa anche una volta. E Creusa, nella piena della commozione, rievoca e narra la sua sciagura. Il pedagogo immalinconisce un istante, e poi torna súbito ai suoi decisi consigli. E, visto che anche Apollo ha mancato contro la sua padrona, la consiglia a bruciare il suo santuario. E perché Creusa si pèrita, insiste che compia almeno le altre vendette.

Aio. — Brucia il venerando santuario di Febo.

Creusa. — Ne ho paura: di malanni ne ho già abbastanza.

Aio. — Ardisci allora le cose possibili: ammazza il tuo sposo.

Creusa. — Rispetto il talamo di quando era buono.

Aio. — Almeno ammazza il giovine spuntato or ora.

E Creusa si risolve ad uccidere il giovinetto. «Dove?» chiede il vecchio. «In Atene, quando entrerà nella mia casa». Ma l’implacabile aio non è ancor soddisfatto. «In Atene, anche se non fossi tu ad ucciderlo, i sospetti cadrebbero su te. Bisogna spacciarlo qui».

Ora, si ha un bel ripetere che qui parla il servo fedele, geloso piú dei suoi stessi padroni dell’integrità della razza: quando vediamo questo vecchiotto mezzo cieco e mezzo invalido proporre un piano cosí ampio di vendette, e poi, dinanzi alle repulse di Creusa, rinunciare a malincuore ad una parte del programma sanguinario, e pregare che almeno si dia corso alle altre due, e, privato anche della seconda, aggrapparsi disperatamente all’ultima: invece di sentirci corsi dal brivido tragico, pensiamo a quel famoso personaggio del Picwicks Club, il quale, chiamato testimonio in un duello, si adopera con tutto l’impegno perché lo scontro riesca sanguinoso e fatale.

Facile è rispondere che questi personaggi grotteschi non erano una novità nel teatro di Euripide. Facile cercare di diminuirne il significato, mettendoli a conto della famosa ironia tragica, caratteristica d’Euripide, sebbene non ne manchino esempî negli altri drammaturghi.

Ma anche bisogna osservare che di solito quell’ironia si esercita alle spalle di personaggi candidati alla canzonatura, e massime alla canzonatura dei liberi cittadini ateniesi: per lo piú, di barbari e di schiavi: Toante nella Ifigenia in Tauride, Teoclimeno nell’Elena, lo schiavo Frigio nell’Oreste.

Nello Ione, invece, si esercita, prima di tutto sopra Xuto, metèco, sia pure, ma, insomma, capostipite di dinastie ateniesi. Poi, sull’aio di Creusa, servo, ma presentato in una situazione che dovrebbe essere circonfusa d’alta tragicità. E, infine, sullo stesso Ione.

Sicché, in certi punti del dramma non riusciamo a vincere l’impressione di trovarci, non già in una tragedia, bensí in una commedia, e, a momenti, in una farsa.

E un altro carattere distingue lo Ione, come altri, che vedremo, dei drammi euripidei, dall’antica tragedia. Ed è lo speciale uso della musica.

Vediamo la scena in cui Creusa entra col vecchio aio. Le ancelle del coro le annunziano che le sue speranze son vane, e che essa non potrà mai stringere al seno un pargoletto. Il coro le rivolge la parola in trimetri giambici, e, dunque, semplicemente recitando. Ma essa risponde súbito in metri lirici (763 sg.), ossia cantando. E interviene l’aio, anche recitando, ed essa séguita, nel terzetto, a cantare: sinché, dopo un lungo discorso del pedagogo, rimane affidato a lei sola un lungo monologo. E una prima parte ne è gittata in anapesti, e, dunque, par quasi certo, declamata a grandi accenti sopra una melodia di flauto (παρακαταλογή = melologo), una seconda, lungamente, si libra in metri puramente lirici, e, dunque, cantati.

Analogamente, dopo la scena del riconoscimento, appena Ione s’è deciso a riconoscere Creusa per propria madre, ella comincia a cantare, e col canto seguita ad esprimere i proprî sentimenti per tutta la scena, mentre Ione le risponde in trimetri giambici, e cioè, dovremmo credere, sebbene non ne abbiamo le sicurezza assoluta, semplicemente declamando.

Qui, dunque, si afferma il principio estetico, che negli altri due grandi drammaturgi albeggiava incerto, che quando le emozioni sono arrivate ad un alto grado d’intensità, non basta piú la semplice declamazione ad esprimerle, ma occorre il sussidio del canto. E si afferma con tanta risolutezza, che il mutamento dalla declamazione al canto avviene una volta addirittura in mezzo ad una battuta (1439-1442: i versi 1439-1440 sono trimetri giambici, i 1441-1442 in metri lirici). Il che, fra parentesi, potrebbe significare che, almeno negli attacchi, la melodia fosse abbastanza vicina alla declamazione, in maniera che ben graduato e sfumato riuscisse il passaggio dall’uno all’altro mezzo d’espressione.

Ad ogni modo, la musicazione di queste monodie, qualunque ne riuscisse poi l’effetto estetico, trovava una giustificazione teorica: il bisogno di salire ad una vetta inaccessibile alla sola parola. Ma nulla, se non un mèro edonismo, giustificava che fosse cantato il primo monologo di Ione. Leggiamone la prima strofe, senza lasciarci fuorviare dall’abbondanza di parole belle o magnifiche. «Rampollo testé fiorito del vaghissimo alloro», «chioma sacra del mirto», son belle e pittoresche perifrasi; ma, in conclusione, qui si parla di una scopa, si parla di spazzare. E se ne parla in musica.

Si obietta facilmente che solo in musica poteva esser detto questo brano, che appartiene ad una forma tradizionale, la pàrodos, soggetta ai suoi imperativi tecnici. Ma facilmente si risponde che non bisognava versare questo contenuto in una parte della pàrodos destinata in origine alle preghiere ai Numi: che non bisognava convertire in un’apostrofe ad una granata le fervide commosse invocazioni che i coreuti di Eschilo intonavano con accento di profeti.

In verità, qui è alterato profondamente il concetto della partecipazione che la musica doveva aver nel dramma, e, di conseguenza, il concetto della stessa essenza della musica. Qui la musica non è piú uno dei mezzi principali, forse il principale, di cui si serve il poeta per esprimere il lato piú misterioso e profondo della sua complessa visione artistica. Qui è divenuta o si avvia a divenire mèra ornamentazione. Grazioso è Ione, e graziosi i suoi movimenti. Quanto acquisteranno ancora di grazia, se accoppiati alla musica e alla danza! Ed ecco, egli dichiara via via ogni gesto che compie, e lo armonizza con la parola cantata.

E non si nega che l’effetto potesse riuscirne piacevole. Ma, senza dubbio, questo commento cantato ad una azione anodina, nel quale la musica è abbassata ad un frivolo ufficio, è una delle tante categorie che rendono cosí disperatamente stupido il lirismo melodrammatico.

Giudicare poi quale fosse il carattere della musica d’Euripide in questo dramma, non riesce possibile. Tuttavia, anche dai semplici ritmi e dalle parole delle monodie di Creusa, risulta chiaro un eccesso di canorità, quello che dava tanto ai nervi ad Aristofane. E, in realtà, le parodie del commediografo sono cosí diaboliche, che spesso leggiamo Euripide e ci par di leggere la sua caricatura di qualche commedia aristofanesca.

Un altro elemento eminentemente caratteristico dello Ione è il paesaggio.

Veramente, ad abbandonarci cosí alla prima impressione, può sembrare che anche in altri drammi greci, e non solamente euripidei, il paesaggio sia dipinto con gran larghezza. Ma se passiamo ad una minuta analisi, vediamo che tutto si riduce a pochi tratti, e siano pure felicissimi e suggestivi. Relativamente diffusa è nell'Edipo a Colono, la pittura del bosco d’Eleusi; ma è l’unico esempio; e poi è in uno stàsimo, cioè in una parte che in certo modo sta a sé.

Invece, tutta la prima parte dello Ione è consacrata alla pittura di Delfi. E la parola imperativa di Ione, ci conduce a vedere il paesaggio, a poco a poco, con abile graduazione, quasi emergente dalle tenebre della notte. Son prima le vette del Parnaso, che dalle candide nevi rifrangono i raggi del sole. Sotto quella irradiazione, vediamo giú al piano fumigar vapori dinanzi al tempio di Febo. L’invito del fanciullo ai ministri che attingano acqua, ci fa sentire la fonte vicina. E presso alla pietra del tempio, verdeggia il fresco boschetto d’allori. Sgorgano dall’anfora d’oro le onde lustrali, e sappiamo che sono della Fonte Castalia. Ed ecco, ad uno ad uno, gli uccelli che si avvicinano. La pittura di Delfi mattutina è completa.

E dopo il paesaggio, il tempio: dopo l’opera della natura, l’opera dell’uomo.

E, anche qui, prima una veduta generale, le colonne e il frontone2. E poi, particolarmente, le diverse storie presentate nei bassorilievi delle mètope (non sembrerebbero soggetti da frontone): l’Idra di Lerna, Iolao ed Ercole, Perseo e le Chimere, Pàllade che abbatte Encèlado, Giove che folgora Mimante, Bacco che con la ferula stermina un altro gigante.

Questa pittura, cosí ricca, cosí minuta e precisa e cosí fresca, impressiona profondamente il nostro spirito. E dalla sua irradiazione tutte le vicende e tutte le persone del dramma derivano un continuo senso di poesia squisita e singolarissima. Poesia delfica, fu detto. E sia: ma anche sia sicuro il Grégoire che per sentirla non c’era proprio bisogno che il dramma fosse «ringiovanito dagli scavi francesi di Delfi».

Tale è dunque lo Ione. In un’azzurra fresca luce mattutina, fra le lusinghe d’una musica fiorita e di piacevoli danze, si muovono personaggi dipinti con tratti precisi, vivaci, arguti. Opera artistica, opera piacevole, e che senza dubbio dové sorprendere con la sua ricca amabile novità gli spettatori ateniesi.

Ma in linea di pura arte è viziata da un difetto che non mi sembra tanto leggero.

Perché da un lato è certo, e cento prove lo dimostrano, che qui il poeta non ha voluto avvicinarsi alla commedia, non ha voluto esilarare gli spettatori, bensí commuoverli con le patetiche vicende d’un eroe a loro singolarmente diletto, capostipite della loro razza. E intorno alla sua vaga figura vanile ha disegnata una cornice di gentilezza poetica quale non si riscontra in verun altro suo dramma.

Dall’altro lato, i personaggi non hanno, nessuno, nulla di eroico, sono gentuccia, sono borghesi, personaggi non da tragedia, bensí da commedia, e, a momenti, quasi da farsa.

Evidentemente, la sua tendenza ad ironizzare, che, in fondo, è desiderio lodevolissimo di rappresentare gli uomini quali sono, all’infuori di qualsiasi convinzione, gli ha un po' rubata la mano proprio in questo dramma, in cui l’ironia e il conseguente grottesco sembrano piú fuori di posto e stonati.

Di qui un dissidio che vizia un po’ l’intima essenza dello Ione, e non consente di annoverarlo fra i puri capolavori di Euripide.

Intorno alla data dello Ione non possediamo notizie obiettive: sicché la questione cronologica è sempre aperta. Un ravvicinamento con un brano di Tucidide, in virtú del quale il Grégoire lo suppone rappresentato nel 418, non mi sembra convincente. E, viceversa, la relativa ricchezza di tetrametri trocaici (da me resi con gli ottonarî doppî), talune particolarità di tecnica dei trimetri giambici, e la predilezione per descrizioni di opere d’arte, sembrerebbero indicare una data piú bassa. A me sembra evidente che alla scena dell’arrivo degli uccelli sia ispirata la pàrodos degli Uccelli d’Aristofane3. Gli Uccelli sono del 414; e perché le parodie teatrali per riuscire intelligibili al pubblico devono seguir da presso le opere parodiate, la data dello Ione dovrebbe cadere poco prima, nella primavera del 414, o nel 415.

Secondo poi il piano cronologico ideale (vedi prefazione generale), nel gruppo dei drammi romanzeschi, lo Ione deve trovar posto prima dell’Elena, nella quale l’elemento romanzesco, dopo aver condotto a distruzione l’elemento tragico, traligna esso stesso in aperta commedia; e dopo l'Ifigenia in Tauride, l'Elettra e l’Oreste, nei quali, invece, l’elemento romanzesco è ancora palesemente ascitizio, e ha iniziata appena la sua opera di assimilazione, e, in definitiva, di distruzione. Ricordiamo che il piano cronologico ideale può differire, come qui infatti sembra differisca, dal piano reale (pare infatti certo che l’Oreste sia del 408).

IONE



  1. Si possono vedere enumerati nella prefazione allo Ione del Grégoire (Edition Belles Lettres, p. 172). Qui, come un po’ dappertutto, le osservazioni del Grégoire rispecchiano l’opinione comune; e perciò le cito di preferenza.
  2. Φῶς καλλιβλέφαρον διδύμων προσώπων. O s’intendono, col Musgrave, i due frontoni; e obiettare col Grégoire che le ancelle non potevano vedere ad un tempo i due frontoni, è gramo razionalismo; oppure può essere che l’espressione δίδυμα πρόσωπα significhi le due ali del frontone.
  3. E forse non la sola pàrodos. La menzione che si fa nell’antepírrema della seconda paràbasi delle statue imbrattate dagli uccelli potrebbe essere ispirato all’ὡς ἀναθήματα μὴ βλάπτηται (177) di Ione. E' un’aura degli Uccelli si sente in altra espressione nel verso 171: τίς ὅδ´ὀρνίθων καινὸς προσέβα.
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