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ROMANZA
Sotto l’acqua diffuse
verdeggiano le piante;
e in rigido adamante
paion constrette e chiuse.
Le coppe ampie de ’l loto
splendono ivi, non tocche:
su ’l loro stelo immoto
paiono aperte bocche.
Ancora il vaso d’oro
che a l’acqua Ila protese,
la vasta urna cretese
da ’l bel fianco sonoro,
fa co ’l suo grave pondo
le foglie ancor piegare.
Ma non s’odono a ’l fondo
le najadi cantare.
Le najadi procaci,
che il giovinetto sire
ad Ercole rapire
osarono co’ baci,
giacciono a ’l fondo estinte
da gran tempo ne ’l gelo;
e le lor membra avvinte
che splendean senza velo,
quelle membra ove i lievi
fiori de ’l sangue allora
uscian brillando fuora
come rose tra nevi,
e li occhi ove saette
avea certe il disio,
e le bocche perfette
ove più d’un bel dio
trapassando per Colco
piacquesi a lungo bere,
e le chiome leggere
che segnavan d’un solco
aureo Tacque ne ’l nuoto
involgendo e portando
i calici de ’l loto
con un murmure blando,
or tutto è inerte e informe
ne l’ime sedi algenti.
In biechi atteggiamenti
di morte, il coro dorme.
Dorme per sempre il coro
de le ninfe sommerse;
ma brilla il vaso d’oro
ch’Ila ne ’l fonte immerse.