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Giandomenico Romagnosi
Scipione Ricci Vittoria Colonna

I. Primordj — II. La Genesi del diritto penale — III. Esame dei fondamenti e delle applicazioni — IV. Trento — V. Il diritto pubblico universale — VI. Filosofia civile — VII. Occupazioni nel regno d’Italia — VIII. Assunto primo. Lavori d’occasione — IX. Processo. Giornali. Dottrine della ricchezza — X. Insegnamento delle matematiche — XI. Dottrine della ragione — XII. Dell’incivilimento. — XIII. Progetto di costituzione — XIV. Propositi e intenti — XV. Critica — XVI. I compensi e gli effetti — XVII. Aneddoti e fine.


I.


Una terra in aria salubre, cinta di fertili colline, a poche miglia da Borgo San Donnino, prese nome di Salsomaggiore dal sale, che vi si manipola forse da due secoli avanti Cristo. I duchi Farnesi la ornarono di edifizj; ed ora viene frequentata l’estate per le acque saluberrime. Colà Giandomenico Romagnosi nacque l’11 dicembre 1761, da Marianna Trompelli e dal notajo Bernardino ch’era stato podestà in varj feudi là intorno, poi magistrato nelle finanze. Fu educato in patria, poi nel collegio de’ missionari della vicina Piacenza (1775-81), ventiquattro anni prima istituito dalla munificenza del cardinale Alberoni1: collegio dal quale in pochi anni uscirono un vescovo di Parma, uno di Piacenza, il metafisico Dodici, il filosofo Gian Antonio Comi, il matematico Gervasi, Lodovico Loschi valente in giurisprudenza ecclesiastica, Vincenzo Roselli storico, Melchior Gioja statistico. Il Romagnosi non rifiniva di ricordare il decoro e le sollecite cure onde v’erano trattati gli alunni, non trascurando alcun mezzo opportuno allo sviluppo del corpo e dell’intelletto. Capitatogli il Saggio analitico sulle facoltà dell’anima di Carlo Bonnet, Gian Domenico s’invaghì della filosofia induttiva, associandola alle matematiche, altra sua predilezione. Ottenuta la laurea in Parma (1786), esercitatosi nella società letteraria di Piacenza, una delle tante che univano le colte persone delle varie città prima che la fratellanza le inimicasse2, acquistò nome di buon giureconsulto, e ben presto dalle particolari discussioni elevandosi a vedute complessive, pubblicò la Genesi del diritto penale (1791), libro che egli giudicava scorretto ed immaturo3, e che pure rimase il miglior titolo della sua gloria.


II.


Ivi assomma e coordina quanto prima erasi detto su quel problema tanto dibattuto, ma nulla stabilisce di nuovo. La scienza della legislazione, tolta alle miserie ed alle atrocità de’ secoli trascorsi, era stata in Italia già drizzata al meglio da Filangeri e da Cesare Beccaria. Però e l’uno o l’altro aveano piuttosto adoperato il sentimento che la ragione, le simpatie che la dimostrazione; ed anzichè porre un fondamento d’inconcusse dottrine per l’edifizio de’ futuri codici penali, eransi ingegnati di scuotere col calore dell’eloquenza, ispirata dalla soffrente umanità. Modo forse il meglio opportuno a rompere la vergognosa apatia dello spirito umano, che strascinavasi terra terra sulle orme d’una pratica irrazionale; e a farsi intendere di mezzo all’accidioso silenzio. Ma la filantropia, se è necessaria per crollare le viziose istituzioni, riesce inetta a stabilirne di nuove; e compita la sua missione, avutone il premio più bello, la benedizione del genere umano, deve cedere il luogo alla scienza.

A que’ due insigni non bastò il coraggio di staccarsi dal sentiero tracciato dai Francesi, che aveano elevato tutto l’ordine delle dottrine civili sopra la finzione d’un contratto sociale, in cui vigore gli uomini, dallo stato di naturale indipendenza, rinunziando parte di lor libertà, eransi uniti in consorzj. Come potesse chiamarsi naturale indipendenza uno stato, ove l’uomo, essere puramente senziente, trovasi schiavo del fortuito concatenamento delle esterne impressioni; ha per unica legge il soddisfare a’ macchinali bisogni; quando questo contratto fosse stato conchiuso; ove se ne leggesse il testo originale; come gli uomini avessero potuto venir tutti insieme ad una convenzione, senza che antecedentemente fossero legati in società; come avessero potuto alienare diritti necessarj alla conservazione e al perfezionamento, ed alienarli non solo per sè, ma per tutti gli avvenire, i quali dovessero tenersi obbligati ad un contratto conchiuso da altri senza mandato alcuno, non erano difficoltà che sgomentassero i pedissequi di Loke e di Rousseau. L’uomo, dicevano, ha doveri: potrebbe esser a questi tenuto se non in forza d’un patto? E non si spingevano fino a domandare perchè poi l’uomo sarebbe obbligato a tal patto. O se pure fossero ridotti alle strette, si tranquillavano pensando che, alla fin fine, non era che un’ipotesi, senza brigarsi se dalla falsità del supposto restassero viziate tutte le conseguenze. E di che genere fossero le conseguenze potremmo scorgerlo nella Rivoluzione, quando giovani discepoli del Ginevrino, balzati alla tribuna colle più rette intenzioni, si resero spietati per esser logici, e faceano scorrere torrenti di sangue in nome della filosofìa e per difesa della libertà4.

I nostri pubblicisti traevano il diritto di punire da questo contratto sociale; pel quale ciascuno avesse rinunziato al diritto di difesa personale, e dato complessivamente alla società quello di castigare chi attentasse alla sicurezza d’un individuo o di tutti.

A nessuno sembreranno quistioni meramente speculative ed inconcludenti al pubblico bene il chiedere se è diritto dei popoli che la legislazione non ecceda nei minacciare ed infliggere le pene; se è mestieri che agli uomini consociati sia tolto l’infelice arbitrio di dubitare della giustizia di esse, e che il reo, nell’atto stesso che subisce il castigo, confessi meritarlo, e lo spettatore non ne trovi contraddetta nè la naturale compassione, nè il sentimento d’approvazione pel giusto e pel vero, che è proprio dell’essere intelligente e morale.

A dimostrare che esiste il diritto di punire, esaminare qual ne sia il fondamento, indagarne l’origine metafisica o naturale, determinarne le proporzioni, attese il Romagnosi nella Genesi del diritto penale. Ripudia l’origine dedotta dalla difesa personale, perocchè, supposto possibile che l’uomo vivesse isolato, potrebbe bensì respingere la forza fin ad uccidere l’offensore, ma tale facoltà non varrebbe che in attacco attuale e violento; cesserebbe non appena cessasse questo, nè uno potrebbe assumere la difesa d’un terzo, nè far ad altri un male in retribuzione d’un male ricevutone prima, o a prevenire nuove ingiurie.

Ma l’uomo opera sempre per la felicità, non è forte che per l’unione, non è felice che per la pace; lo sviluppo della ragionevolezza e della potenza, la sicurezza, il miglioramento non può ottenere che nella società e per la società; dunque lo stato d’isolamento non è per lui; è di primordiale necessità la convivenza, e da essa derivano i diritti e le obbligazioni dell’uomo e de’ Governi, che altro non sono fuorchè risultamenti necessarj de’ rapporti reali delle cose5. Nel mentre il prevenire la violenza è necessario al miglior essere dell’uomo, questi non v’avrebbe diritto nello stato d’isolamento; l’ha bensì nella società, ove, ben lontano dal rinunziare a porzione di sua indipendenza, la trova maggiore col sostentamento, la sicurezza, la coltura, cioè operando il ben proprio mentre coopera all’altrui.

La società porta relazioni del consorzio verso il cittadino, e viceversa; e di tutte le parti dello Stato fra sè medesime. Chi attenti a un individuo attenta al corpo intero, che può quindi reprimere l’ingiusto aggressore anche colla morte, se altrimenti non si possa, e ciò per un diritto proprio, distinto, semplice, universale, prodotto dall’indole stessa dell’associazione, nella quale diventa necessità il provvedere alla propria durata anche coll’antivenire il futuro danno.

Secondo Romagnosi, il penale è dunque un diritto collettivo e morale, che spetta alla società, non all’individuo; riguarda soltanto l’avvenire, nè dipende da convenzione, ma nasce dal diritto di difesa, modificato dalle circostanze sociali e dalla necessità di conservare quiete e sicurezza, allontanando i futuri delitti coll’atterrire i facinorosi.

Ma perchè la pena sia legittima, conviene risponda al fine, sia quindi giusta nell’oggetto, necessaria nel motivo, moderata nell’azione, prudente nell’economia, certa nell’esecuzione; e avendo unico scopo lo stornare i delitti, conviene sia minima nel grado e nella specie, e massima nell’efficacia.

Così la necessità diviene unica fonte del diritto penale, ed insieme unico limite delle esecuzioni, tutela contro le disumane prepotenze della forza brutale e del capriccio.

La proporzione fra la pena ed il reato non deduce il Romagnosi dal danno nè dal dolo, sibbene dalla spinta criminosa, la quale è in ragion composta della facoltà di soddisfarla e della lusinga dell’impunità; ma non può dirsi criminosa se non quando, soddisfatti i desiderj corrispondenti ai nostri diritti, rimangano ancora impulsi offensivi dei particolari e della società.

Ora, perchè la pena acquisti il carattere di necessaria, deve già essersi esaurito ogni mezzo di prevenire il delitto. Ciò si ottiene con un Governo forte; forte non per armi e denaro, ma politicamente, cioè di mente, di cuore, di braccio, tale ove nè particolare, nè magistrato, nè classe od ordine alcuno possa delinquere impunemente; che abbia per fine il rispettare e farsi rispettare; non proponga o vieti se non ciò che venga richiesto dalla utilità comune, talchè le leggi sieno comandi d’assoluta necessità, che obblighino i cittadini a ciò che giovi a tutti; ed allontani le spinte al delitto, che consistono in difetto di sussistenza, d’educazione, di vigilanza, di giustizia.

A prevenire le colpe cooperano colla politica le sanzioni della convivenza, dell’onore e della religione. Questa è sovra l’altre potentissima perchè sola può assicurar l’interna moralità.

Guai però ove la podestà umana usurpi il posto della divina! La tolleranza, o dirò meglio, il rispetto religioso è di assoluto dovere naturale; e nella pienezza de’ tempi, quando predomina la giustizia, il ministero civile della religione consiste nell’insinuar la credenza d’un Essere potente, valevole a sanzionare i dettami della buona morale, indicare precetti identici con quelli che dirigono il giusto vivere e le eque leggi civili; dominare il cuore, e sospingere i primi moti dell’uomo interiore con motivi superiori verso l’operosità, il rispetto, la cordialità, non dimenticando la propria dignità6.

Insomma il diritto penale non è istituzione isolata, bensì una sanzione dell’incolumità e dell’ordine cittadino. Se la mancanza d’un giusto ordinamento degl’interessi e dei poteri; se i bisogni eccitati dal violar la giusta eguaglianza provocarono i delitti; se questi hanno radice in abusi non validamente sbarbicati, la pena non sarà equa, ed uscirà vuota d’effetto. Conviene si eserciti da una società costituita pel vantaggio di tutti i membri, ove nè classe nè uomo alcuno sia più forte della legge, il poter esecutivo vegli sulla condotta dei cittadini senza incepparne la libertà; l’istruzione illumini il popolo, i premj lo confortino, l’opinione lo guidi, l’educazione lo costumi, la religione lo elevi, la forza pubblica dentro e fuori lo proteggano. Ma nell’uso istesso dei castighi il legislatore deve esercitar un ministero d’educazione nell’intento della sociale incolumità, prevenire e svellere abitudini viziose, migliorare i castigati7.


III


Benchè repudiasse la favola del patto sociale, il Romagnosi, non emancipandosi dalla scuola francese che pigliava le analogie per identità e le condizioni necessarie agli effetti per causa de’ medesimi, suppone l’uomo isolato, e la moltitudine umana composta di distinte unità ed «esser nato l’uomo perfettamente ignorante, in mezzo alla gran selva della terra, e a forza di milioni d’esperimenti, di terrori, di vicende or triste or buone, esser passato bel bello allo stato di ragionevolezza e di lumi8. Al modo di Condillac, dotava l’uomo d’un senso dopo l’altro e sempre astraendo dalla ragione, e supponendolo senza relazioni di famiglia e di Stato, senza ragione ordinatrice della nozione del diritto. Pareagli che, con tal modo, non si sformi lo stato sociale: solo si decomponga in uomini isolati, che hanno i bisogni primitivi, le facoltà, gli attributi morali. Ma la società non è essa il mezzo per cui l’uomo soddisfa ai bisogni, svolge le facoltà, compie gli attributi morali? e la nozione del diritto è possibile senza lo stato sociale? e gli attributi dell’individuo possono tampoco conoscersi indipendentemente dalle relazioni sociali cogli altri uomini, che sole li rendono attivi? Tolti i sentimenti, tolto il bisogno insito della convivenza, non restano che le passioni, come nell’uomo-lupo di Hobbes. Il Romagnosi precipita dunque nel sistema de’ sensisti, pur volendo cansarlo; e il diritto di punire deduce dai sentimenti degli uomini isolati nel lor fortuito incontrarsi: mentre la nozione non può derivarne che dalla ragione. Se anche da questa insociabilità, gli uomini, eguali per origine, per costituzione fisica, per identità d’attributi e di fini essenziali e naturali, passino a una società fra eguali, tale eguaglianza di fatti non potrebbe mai costituire l’eguaglianza dei diritti, derivata dalle leggi della ragione, e non alterabile o distruttibile come i fatti. Fra eguali non vi può essere che lotta: punir non può che un superiore. Chi ne investì la società? quello che le diede la giustizia. Giustizia che non punisca è vana; dunque il punire è sanzione necessaria; lo fa Dio; e le società devono avvicinarsi a quel modello.

Chi ammette la società d’istituzione divina, deve ammettere le condizioni essenziali di essa. Ma il Romagnosi, assorbendo l’individuo nella socialità, mostrava i difetti del vecchio edifizio, non ergevane un nuovo. Riponendo la scienza nel trovare la controspinta alla spinta criminosa, proclamava la coazione psicologica, prima e contemporaneamente alla scuola tedesca9. Ma col trarre il diritto di punire dalla difesa indiretta e dal prevenire nuovi misfatti, tolse il vero carattere alla pena, riducendola a una mera prevenzione di atti futuri10, esclusa ogni idea d’espiazione o di solidarietà sociale, e veniva a giustificare e la conquista e il sagrifizio dell’innocente11.

Se oggi più nessuno accontentasi a quella teorica, tutti però lodano quel fissar i limiti delle pene e restringerle alla pura necessità12, lo che non toglieva che legittimasse la pena di morte, e combattesse il Beccaria e gli altri avversi ad essa.

S’astiene da ogni allusione a leggi positive, vigenti: mentre alla chiarezza del lavoro sarebbe non poco giovato lo scendere ad esempj e casi pratici, massimamente ove tratta dell’attentato e della spinta criminosa. Nel parlare del difetto di vigilanza dovea ragionare della polizia, istituzione resa sacra dal suo fine di prevenir i delitti e le disgrazie, e diffamata dalla soverchia ingerenza e dall’immoralità de’ mezzi. Nè abbastanza riesce dimostrato il come la facoltà di punire, che appartiene e risiede nella collezione intera dell’aggregazione sociale, sia trasportata nel pubblico magistero. Natura colla legge del bisogno e colla voce del sentimento e della ragione trae alla società? l’incolumità di questa importa la necessità di punire anche colla morte? Dimostratemi questo, e basta.

Dimostratemelo, io dico, giacchè la difesa indiretta non appaga la ragione. Allorchè nel castigare non avete di mira che l’avvenire, non osservate il delitto commesso, ma i futuri contingibili, e nel delinquente attuale punendo i delinquenti futuri, voi fate un danno certo per ovviare un danno possibile: dunque vi servite dell’uomo siccome d’un mezzo per conseguire l’effetto psicologico, per elidere la spinta criminosa. Ufficio del giudice è conoscere ciò che fu, non fantasticare ciò che sarà: voi all’incontro fate il passato un’occasione, il presente un mezzo per operare.

Se dunque volete esser logici, dovrete attemperare la forza del mezzo col fine che desiderate. Ma qualora una tale idea abbia diretto il legislatore, perchè essa non indurrà il giudice ad esagerare la pena? Quei minacciosi preamboli delle gride antiche, ove, coll’intonare che erano resi intollerabili gli abusi, che non v’era più sicurezza, non fede, non religione, ma solo corruttela, violenza, soprusi, eccitavasi la sensività del pubblico a guerra contro gli individui, perdendo la calma, l’imparzialità, la purità che sole legittimano la giustizia umana, non si potrebbe condannarle, perchè rivolte al fine di reprimere i futuri misfatti. Se poi misfatti nuovi si commettano, dovrete inferire che il mezzo da voi usato non fu efficace; che l’impressione era debole troppo; e sarà giusto l’esagerare le pene; l’incrudelire sul delinquente colla corda, colle tanaglie, colla ruota.

Che se il Romagnosi restringeva l’applicazione della pena entro i limiti della precisa necessità, fu bontà sua, non è conseguenza immediata della sua teorica. Chi mi obbliga a star nei confini di essa necessità, a starvi anche quando io creda che, a prevenire i delitti futuri, giovi l’oltrepassarla?

Direte che altrimenti violo la giustizia morale? Ma voi di questa non mi avete parlato: questa legasi ad un ordine d’idee, cui non vi elevaste. Direte che ad ogni modo il male tocca a chi ha fatto il male? Ma questa non è la vostra dottrina: è un’espiazione, è una riparazione, alla quale non avete pensato.

D’altra parte, riducendo la pena a prevenzione di delitti futuri, riducete il delitto ad un calcolo. Ora ciò suppone, prima di tutto, in ciascun cittadino una perfetta cognizione della legge anche nelle sue particolarità, affinchè egli possa far il suo cómputo esattamente. Suppone inoltre che l’uomo sia spinto al delitto unicamente dal piacere, mentre invece può peccare e per negligenza e per imprudenza e per falsi concetti della legge morale. Se ad un settario parrà santa opera l’uccidere il dissenziente; se altri, per torta opinion di onore, ucciderà il suo simile in duello; se Clement, se Sand, se Louvel, se Orsini giudicheranno virtù l’immolare sè stessi per la creduta salvezza della patria, non è il loro un calcolo, ove preponderò la spinta criminosa?

Anzichè da ragionata deliberazione fra il terror della pena e la lusinga del delitto, fra il piacere immediato e il dolore in prospettiva, l’uomo le più volte è trascinato al delitto da impeto di passione che previene i riflessi, e che non per questo lo rende meno imputabile. Quest’uomo, che supponete null’altro che sensazione, ondeggia fra il delitto, la paura del castigo e la speranza dell’impunità; voi togliete questo, aggravate la bilancia della pena per far che la volontà inchini dalla parte più pesante. Questa materialità rispetta abbastanza il libero arbitrio? Se egli delinque vuol dire che l’impulso fu più efficace che non il vostro contrasto. Perchè dunque imputare un tal uomo di soli sensi? Aggiungete che ai primissimi passi la legge non avea nulla ad opporre: il maggior assassino cominciò dal rubare un soldo: quegli atti moltiplicati depravarono la volizione, destarono quella febbre di delitto, quella monomania da cui si confessano dominati i gran misfattori, e che li trascina coll’irresistibilità dell’istinto. Questi ultimi eccessi come potrete voi colla vostra dottrina punirli se sono conseguenza di quei primi atti che voi non puniste per prevenire questi? e se volete punire que’ primi, fin dove si estenderà l’azione della vostra giustizia? Sarete pure condotti a dire che ne’ casi più atroci minor pena si richieda, perchè minore è la probabilità del loro rinnovarsi. E so che ’l fu detto: ma quando dianzi un cannibale giunse a sbramare l’appetito insano con carne di fanciulle, non v’era no, grazie a Dio, la morale certezza di veder rinnovato quell’orrore; eppure la coscienza pubblica altamente domandò una soddisfazione.

Nel processo mostro che tanto rumore menava in Francia al tempo che morì Romagnosi, gl’imputati di perduellione negavano rispondere ai magistrati, perchè, se gli uni sono in aspetto di rei, gli altri di giudici, dipende solo dall’esito diverso dell’insurrezione istessa. Come argomenterete, colle vostre norme, qual sia dal lato della ragione? La necessità vuole si puniscano gli accusati per conservar l’ordine; ma il prevenire i delitti futuri imporrebbe un castigo a quelli che siedono a tribunale, appunto perchè commisero un atto pari a quello che allora stavano sentenziando. Se quegli accusati non accettano le forme del giudizio, non temete che sia per andare in isfacelo ogni giustizia? Fate che questo pubblico, il quale sta nulla più che spettatore curioso o ridente di quella lotta, osservi un falsario, un assassino contenersi all’egual modo alla sbarra, e la pubblica coscienza insorgerà imperiosa ad intimargli l’obbedienza, a riconoscere giusta la punizione.

V’è dunque un principio superiore alla necessità, superiore alla difesa. Perchè sorridere al cenno di pubblica coscienza, di espiazione? Credete voi che la coscienza rimorda del mal fatto? credete che Dio retributore punisca il delitto anche quando l’uomo non è più in grado di peccare? Se il negate, ammetterete che la giustizia interiore punisce per espiazione, per retribuzione; or come troverete follia l’impostar sulle medesime il diritto della positiva? forse son possibili due giustizie, una opposta all’altra?

Come un ordine fisico pei corpi, così n’è uno morale per gli esseri intelligenti, obbligatorio, preesistente a tutti, eterno, immutabile; che comprende tutto ciò che in sè è bene. L’ente ragionevole è giusto se lo osservi, è reo se lo infranga: se giusto, ne ha frutto; se reo, dee averne castigo. Questo fatto di coscienza acquista dal sentimento comune la certezza, che una verità organica acquista dall’asserzione di tutti quelli che hanno la mente ben conformata. Negatelo, e poi spiegatemi quest’associare generalmente le idee di bene, di male, di giustizia, di compenso; spiegatemi perchè il fanciulletto che va per le strade, percosso da un altro, se gli rivolti a domandare: — Che t’ho fatto?»

Pel libero sviluppo delle uguaglianze umane è duopo, oltre la convivenza, un ordine, che è la legge morale applicata. Qualora alcuno de’ consociati lo turbi od impedisca, diviene essenzialmente ingiusto verso il suo simile; e se da alcuno isolatamente sia punito, sentirà averlo meritato, non si richiamerà su ciò, ma domanderà, — Perchè mi hai punito tu? perchè adesso? perchè così?» E allorchè il pubblico vede inflitta una pena ad alcuno, domanda se veramente è reo, se la legge portava veramente tal punizione, non già con qual diritto l’abbia castigato il potere sociale. Perocchè il poter sociale è un fatto, è legittimo, ha doveri e diritti, ha una superiorità, una missione; è necessità che un’intelligenza disponga d’una forza per conservar l’ordine sociale. Giusto il fine, saranno giusti i mezzi, purchè proporzionati al bisogno e conformi alla legge morale.

Quali saranno tali mezzi?

L’istruzione, la polizia, i premj. Ma e se non bastassero? e se vi fosse un mal intenzionato? Lo minaccerò. Di che lo minaccerete? Dei pericoli che possono venirgli dall’altrui resistenza? o forte o scaltro gli eluderà o gli affronterà. Della riparazione? questa può farsi nelle cose materiali; ma in quelle inestimabili, nell’onore, nella vita? Non resta più dunque che la pena, la quale è un male inflitto, non pel piacere o per l’interesse d’uno o di molti; non per esperimento o per far impressione o per ottenere un bene ipotetico; ma è una retribuzione fatta dal giudice legittimo, con ponderazione e misura.

Se vi è uomo, vi è società; se società, vi è ordine; se ordine, convien conservarlo; per conservarlo, convien minacciare; perchè la minaccia non sia illusoria, dee potersi applicare; negate la penalità, e negherete la natura dell’uomo. Il bene stare, l’utilità pubblica, lo spavento del mal intenzionato, la correzione del delinquente ne vengono di conseguenza, non ne sono però nè la giustificazione nè la causa.

Nasce dunque la giustizia punitiva dal volere di Dio, che, facendo l’uomo socievole, gli preordinò un diritto, pel quale rendonsi giusti i mezzi di conservare la società. Essa giustizia valuta soltanto il male successo, non il contingibile; ha per carattere essenziale l’equa dispensazione del bene e del male, conforme alla legge morale, che mai non rende ben per male, nè viceversa; ha per fine di ristabilir l’ordine sociale scompigliato o leso: dunque non opera se non quando sia violato un dovere; opera pel solo utile della società; opera per via d’effetti naturali e nella misura legittima di questi effetti; e in conseguenza richiede che la pena sia intimamente giusta, che sia limitata quinci dall’imperfezione de’ suoi mezzi, quindi dall’utilità dell’azione sua per conservar l’ordine della società.

Convien dunque riportare la legale alla giustizia morale, la positiva all’assoluta, perocchè quella non è se non emanazione e compimento parziale e condizionato dell’altra: nè ponno effettuarsi queste condizioni senza ricorrere ad una religione positiva.

Il difetto del Romagnosi e de’ sensisti consiste nel far predominare il pensiero politico, lasciando da banda il morale. Ma se il principio datovi dal Romagnosi non è abbastanza solido, eque e moderate deduzioni egli ne trasse; e le modificazioni onde egli l’ha limitato, rivelano il liberale filantropo, che tende da per tutto a garantire le franchigie della troppo spesso conculcata umanità. Persuaso che le scienze morali e politiche potessero dedursi collo stesso rigore di raziocinio e d’osservazione come le naturali e le fisiche, abbandonò il tono sentimentale, con cui solevasi allora muover guerra alla società in nome della natura.

Allorchè, dopo lunga meditazione e dopo essersi più volte rifatto da capo, Romagnosi pubblicò la Genesi del diritto penale, contava trent’anni. Contava trentanni, giovi ripeterlo alla gioventù italiana, affinchè veda quanto importi l’adoperare la florida età non tra lusinghe d’immaginazione o grossolanità declamatorie, non fra gl’impeti d’una passionata politica o nelle blandizie d’un’estetica passiva, che dispongono a sfrenatezza e pigrizia, ma nell’educarsi all’abitudine di ben posare gli argomenti, d’esaminarli con discernimento, di conchiuderli con valore; nell’ingagliardire la ragione più che nell’erudire la memoria, per riuscire in tal modo pensatori profondi, sicuri, cordiali, siccome la patria ne bisogna.

Venti anni dopo, ricco d’esperienza, il Romagnosi rivedeva l’opera sua; e se trovò di darvi estensione, dichiarava riscontrarla in armonia, più che prima non avesse pensato, coll’intera scienza della pubblica cosa; ed insisteva mostrando quanto importi lo studiar le verità, accomodate alle esigenze pratiche della vita, per potersi drittamente regolare in quella vittoriosa corrente che sospinge il mondo delle nazioni verso la giustizia sociale, sussidiata dalla religione, cannonizzata dall’opinione, mantenuta dai costumi.

Poco dopo pubblicata la Genesi, Pastoret ne scriveva congratulazioni all’autore; venne poi nota e tradotta in altri paesi; l’università di Gottinga la dichiarò classica; nel regno di Wirtemberga servì di modellar il codice penale; venne tradotta negli Stati Uniti d’America; in Italia, al solito, lungamente rimase quasi ignorata, sol tardi se ne moltiplicarono le edizioni13.


IV.


L’integrità conosciuta da’ suoi vicini, e l’ingegno con quest’opera dimostrato anche ai lontani, diffusero il nome del giovane Romagnosi. Il Trentino reggeasi allora colle antiche libertà germaniche sotto un principe vescovo, e per rendervi la giustizia, al modo dei Comuni italiani, chiamava un podestà annuale forestiero. Il Comune propose, e il principe vescovo Pietro Vigilio dei conti Thun scelse a tale uffizio il Romagnosi, che per tre anni vi fu confermato, e anche dappoi vi dimorò trattando cause civili, e imparando a stimare quel popolo montano, e «quel sistema municipale applicato col più felice successo nella tranquilla libertà di un principato»14.

Volentieri egli parlava di quella sua magistratura; e se volea dire come l’inevitabilità più che la gravezza delle pene valga a rattener dal delitto, ci ricordava come, volendosi colà frenare severamente l’abuso del portar armi, egli volle si serbasse la stabilita leggera multa, ma la si esigesse con rigore, e ottenne l’intento. E ci narrava come molte querele per ingiurie verbali venissero portate alla sua cancelleria, le quali, contro il parere altrui, ordinò fossero ricevute, affinchè gli offesi, nella speranza d’una giusta soddisfazione, non meditassero private vendette. Che ne avveniva? sbollita la prima collera, la parte più non instava, e così le querele cadevano deserte.

E discorrendo delle nuove rivolture politiche di Francia e de’ meschini risultati, ne incolpava il mancare d’un equo e liberale ordinamento de’ municipj; mentre nel Trentino aveva con maraviglia e compiacenza osservato con che interesse que’ valenti montanari assistevano ai consessi municipali e alle adunanze portate dalla costituzione paesana, mostrandosi informati delle consuetudini e delle leggi positive, e animati da spirito del retto e del bene.

Erasi egli appassionato anche alla fisica, e trovandola innovata allora dalla grande scoperta del Volta, ne ripeteva le sperienze, e scriveva al Bramieri: — Ho preparato una nuova teoria del lume zodiacale. Ultimamente ho pubblicato, sulla Gazzetta di Rovereto, una mia scoperta sul galvanismo applicato al magnetismo della calamita». Allude ad un’esperienza (1802), per la quale noi ed altri gli attribuimmo il titolo di scopritore, e l’associammo con Oerstedt, Ampère e Faraday nel creare la grande sintesi dell’elettro-magnetismo: attribuzione troppo indulgente15.

Le novità che dalla Francia convulsa diffondeansi alla restante Europa, cominciavano tempi di molte illusioni per le menti schiette ma inesperte; tempi di maneggi e di arruffio per chi amava pescar nel torbido; tempi di grandiose lezioni per coloro che, come Giandomenico, erano capaci di osservare quell’immenso movimento senza partecipare alle sue vertigini, e attraverso allo schiamazzo de’ trivj e della tribuna, alle sofferenze dei popoli e dei re, al sangue dei patiboli e dei campi, contemplare i progressi della giustizia e i miglioramenti recati dalla Provvidenza all’umanità.

Per risparmiare ai più il danno che potea derivare dal mal intendere quelle magiche parole di uguaglianza e di libertà, il Romagnosi pubblicò due scritti, ove, con forme popolari, ed usando la parabola a modo degli antichi filosofi, chiarisce che uguaglianza è l’avere tutti gli uomini una stessa quantità di diritti, senza che vi ripugni la disuguaglianza de’ soggetti esterni, su cui esercitano i diritti pari; che la vera libertà sociale consiste nella facoltà di compire senza ostacolo tutti gli atti che possono renderci felici senza nuocere ingiustamente altrui: onde non può ottenersi se non praticando la giustizia e le virtù cittadine16.

I Francesi discesero, colle solite laute e mendaci promesse, ad imporci una libertà non conosciuta, non voluta, non fondata che sul diritto delle armi, e commessa all’arbitrio di generali prepotenti, i quali aveano l’astuzia di rendersi complici e plaudenti e ministri i medesimi nostri cittadini o corrotti od ingannati. Il Romagnosi, non allucinato alla sanguinosa meteora e misurato di desiderj, alle dignità ed agli onori che poteva sperare in paese sommosso e di gente nuova, preferì dimorar nel Trentino come consulente legale. Una volta domandò il passo per Trento un generale francese, co’ suoi soldati reduci dall’Italia. Raccolto in un istante il consiglio, fu deliberato di assentir la domanda, giacchè il disdirla era o impossibile o pericoloso: ma ogni uomo atto a portar le armi uscì colla carabina al braccio in sulla via, presentando da un capo all’altro della città due file in tutto punto d’armi, il cui pretesto era di schermire da ogni insulto gli stranieri, ma ragion vera il frenare il guerriero coll’aspetto imponente d’una cittadinanza, armata innanzi a’ suoi focolari per difendere l’indipendenza.

Quando poi i Francesi entrarono anche nel Tirolo per dominarlo, il Romagnosi fu eletto segretario del Consiglio superiore, creato in Trento; nel quale uffizio ebbe occasione di far del bene, insinuando moderazione a coloro che erano dalla vittoria imbaldanziti; e compiacevasi d’aver potuto sottrarre alle fucilate quattro paesani, accusati d’intelligenza col nemico. Poi caduto quell’efimero dominio, egli sperimentò anche la prigione in Innsbruck, donde per altro uscì tanto pienamente giustificato, che il suo calunniatore fu mandato in bando. Lode a chi seppe, anche in tempi di fazione, far luogo alla verità: lode a quella buona popolazione, che in vero trionfo accogliendo l’innocente, lo compensò dei non meritati patimenti17.


V.


«La guerra, l’amor del riposo, l’avversione sua a mescolarsi alle turbolenze dei tempi, lo determinarono a rimanere nel Tirolo» (dice egli stesso) in uffizio di avvocato; finchè tornato l’ordine, i suoi desiderarono ripatriasse, e nel 1802 lo fecero elegger professore di diritto pubblico nell’Università di Parma con lire 4000. Quivi a comodo e pro de’ suoi scolari stampò l’Introduzione allo studio del diritto pubblico universale.

Ben aveva esso compreso come l’ultima speranza delle genti si fonda sopra una diffusa e ragionata cognizione dei dogmi dell’arte sociale. Se tu dimostri che è obbligo naturale assoluto irrefragabile e perpetuo lo stabilire la pace, l’equità, la sicurezza; che le genti hanno diritto d’usar tutti i mezzi indispensabili a conseguirle, e di respinger ogni opposizione, avrai consacrato ancora, siccome diritto e dovere naturale necessario irrefragabile, il triplice perfezionamento economico, morale e politico, indispensabile ad ottenere i beni invocati; ne verrà dunque la necessità di conoscere tale perfezionamento, ed apparrà monca la scienza della pubblica ragione senza la teoria di esso.

Da questo elevato punto Romagnosi tolse a considerare il diritto pubblico universale, dirizzandolo a migliorare gli uomini, la società, le leggi, far regnare i buoni costumi colla persuasione, coll’interesse, coll’abitudine, rendendolo opportuno del pari e ai governanti e ai governati; insegnando a non affrettare di salto riforme e miglioramenti non ancora opportuni, ma compartire tutto il bene che si può, e lasciare quello che, intempestivamente tentato, diverrebbe un male; ispirare un prudente ritegno in chi comanda, una illimitata rassegnazione in chi obbedisce, accompagnata da speranza.

Non disse più genericamente, «l’uomo e la società tendono ad essere felici»; ma bensì, «tendono alla più estesa, durevole, felice conservazione, ed al più rapido e completo perfezionamento»: specificato il qual fine, ne consegue il doversi scegliere le azioni libere, che producono la conservazione e il perfezionamento, ed allontanare le opposte. A questo fine teoretico si arriva coll’elevare, mediante tutte le forze sociali riunite, colla più breve ed efficace progressione, i poteri d’un popolo fino al punto, in cui l’uso dei mezzi per essere felice e sicuro soddisfaccia ai bisogni indotti dall’ordine necessario delle cose. Laonde conviene nella società e per la società acquistare la moralità pubblica sì di cognizioni che d’interessi: la quale in prima origine si ottiene collo sviluppare la ragione ed il cuore, cioè illuminar la comune libertà e acquistare la cognizione completa e pratica degli oggetti fisici e morali, che importano al bene della società pubblica, e contrarre desiderj ed abitudini conformi all’ordine di tale conservazione. Per quest’uopo continuamente intese ad unificare la politica e la morale col più rigoroso diritto; e a sottoporre l’arte di diriger i pubblici affari interni ed esterni al principio unico della necessità di natura, in modo che non si trovasse utilità che nella giustizia.


VI.


Per quest’opera alcuni regalarono al Romagnosi il titolo di creatore della filosofia civile. La cosa però e fin il nome sussistevano già, non solo in Hobbes e in Vico, ma fino in Platone18; merito suo è l’averne ravviato lo studio, ordinato, sviluppato. La riguardava egli siccome media tra la filosofia razionale e la scienza della legislazione; intenta a dar a conoscere le leggi necessarie di ragione e di fatto della vita civile, i veri dettami della pubblica cosa, i diritti e i doveri. Quattro grandi dottrine essa abbraccia: 1.° quella della ragione, che espone i poteri e le leggi fondamentali della moralità intellettuale umana, derivata e dalle osservazioni irrefragabili della coscienza e da logiche indubitabili deduzioni; 2.° quella dell’umanità, che espone il modo onde i popoli crearono il sapere ed i costumi; 3.° quella della civiltà, che espone l’indole e i mezzi co’ quali fu propagato e proceder può l’incivilimento; 4.° la dottrina del regime, cioè la teoria filosofica dell’ordine normale necessario, con cui si può e si dee praticamente effettuare e difendere la moralità negli individui, ne’ consorzj e ne’ governi.

La pace, la sicurezza, l’equità, si ottengono col perfezionamento morale, economico, politico degli uomini e delle nazioni, cioè coll’incivilimento. Ma non si può arrivarvi se non attraverso a tre distinte età, in cui hanno imperio sull’umanità in prima i sensi, poi la fantasia, da ultimo la ragione. L’incivilimento, dalla natura disposto, vien fecondato dalla religione, cementato dall’agricoltura; il Governo lo sviluppa, la libertà lo perfeziona, lo consolida l’opinione; talchè, prendendo le mosse dalla opinione pregiudicata, si acqueta nella ragionevole.

In quel corso svolgonsi successivamente i poteri compatti originarj degli uomini, che si concentrano nell’invigorita pubblica autorità, fin al punto che la minima porzione di potere economico morale e politico risiede nell’individuo, e la massima di dottrina, di bontà, di potenza nell’aggregazione, dalla quale ciascuno trae quel più di utile potenza, che convenga alla propria situazione. Allora il valor sociale trovasi esteso sul maggior numero possibile di individui, rimanendo pochissimi i ladri e gli schiavi; allora, via via che crescono i mezzi del ben essere e gli stimoli della cupidigia, crescono insieme i vincoli che rattengono fra i confini dell’ordine, assodando un reggimento, ove la società abbia il massimo da fare, e il Governo il minimo; allora vien formandosi un senso pubblico, avvalorato anche dagli interessi materiali.

Buona si terrà quella società, dove esista cospirazione di forze mediante cospirazione d’interessi, e quindi utilità mediante la giustizia. La qual cospirazione ne forma non una società di comunanza e di azienda, ma una federazione di sussidio e di libero ricambio, ove l’uomo non dee mai servire all’uomo, ma alla necessità della natura e al proprio meglio, rimanendo ciascuno indipendente e confederato.

Primo passo verso questa civiltà è il sistemare un Governo, cioè una direzione del potere pubblico, che abbia unità, vigore, stabilità nell’esistenza e nelle funzioni, e che elevi grado a grado i poteri d’un popolo, mediante l’azione competente delle leggi e della pubblica amministrazione, fino al punto che i bisogni stiano in bilancia coi mezzi di soddisfarli; rispettando e proteggendo sempre la padronanza originaria, e temperandola colle necessità della convivenza. Nulla dunque d’arbitrario nella scienza della cosa pubblica, il cui intento dev’essere di produrre il massimo bene col massimo risparmio di libertà. Uscite di questo, e gli Stati diventano corrotti, deboli, infelici.

Laonde, sposando la politica colla giustizia, il diritto comune colla individuale attività, posava per suprema formola della vita d’uno Stato «la tendenza perpetua di tutte le sue parti all’equilibrio dell’utilità e delle forze, mediante il conflitto degli interessi e dei poteri; conflitto eccitato dagli stimoli, rattemprato dall’inerzia, perpetuato e predominato dalle incessanti urgenze della natura; modificato dallo stato retrogrado, progressivo o stazionario sì dei privati che della popolazione, senza mai discostarsi dalla continuità».

Mentre Bacone, rivolta l’osservazione a riformare le scienze naturali e le fìsiche, avea creduto non potessero collo stesso rigore cimentarsi le morali e politiche, essendo piuttosto appoggiate all’opinione19, il Romagnosi sostenne che queste hanno fondamenti non meno certi, e vanno trattate col metodo medesimo. E coll’esperienza interrogando l’oracolo della natura e de’ secoli, vide che nulla esiste o si fa in senso astratto e generico, ma tutto in senso unito e complesso, e che quindi la scienza, per riuscire feconda, deve esprimere le naturali relazioni, e ritrarre il modo stesso di essere e d’operare della natura. Così da speculativa rendeasi operativa; non solitaria meditazione del filosofo, ma spinta fra il movimento della società a temperarlo e dirigerlo; ed escluso affatto dall’amministrazione l’arbitrio dell’uomo, sottometteasi invece all’unico principio della necessità della natura.

Non sarà dunque a considerare la società in astratto, nè il diritto pubblico sarà più un’applicazione del diritto naturale. L’uomo, legato in società per fatto necessario di natura, non sarà contento d’un consorzio qualunque, ma di quello ove meglio concorrano le cagioni che sviluppino la cognizione, la volontà, il potere; il che non può ottenersi se non dove abbiavi unità d’interessi, disposta attivamente ad illuminare, a muovere, a render ogni uomo libero e forte nell’esercizio dei diritti e de’ doveri. Il Governo, costituito per dar unità alle singole forze, non potrà essere che una grande tutela, accoppiata ad una grande educazione, nè estenderà il suo impero su tutta l’attività dell’uomo e della società, ma solo dove importa proteggere la scambievole uguaglianza di facoltà, e dove le azioni isolate de’ singoli non bastano ad ottenere un dato effetto di necessità ed utilità comune: ovvero anche dove non sarebbe giusto che uno più che un altro particolare l’esigesse.

Di necessario diritto diventa quindi l’istruzione, che insegna a discernere i beni dai mali, le cagioni che li producono, e i mezzi per evitarli, prevenirli, ripararli. Ma poichè l’uomo vuol sempre quel che crede suo meglio, tutti i disordini morali e politici dipendenti dalle azioni libere degli uomini e de’ Governi sono aberrazioni, derivate dall’ignorar l’ordine direttivo; le contrarie abitudini, le collisioni d’interesse, la potenza attiva dei pochi, che sa condensare e sedurre la potenza dei molti, dovranno cedere innanzi alla potenza dell’opinione.

Effettuare l’interesse comune e addottrinarli è il solo mezzo d’ottener dai popoli obbedienza. Quanti disastri sopportarono le nazioni per l’ostinazione del conservar sempre la condizione antica! quanto importa adunque il possedere la scienza sì d’ordine che di fatto delle rivoluzioni derivanti dallo sviluppo successivo dello spirito e del cuore umano! Con questo non si proporrà più un miglioramento per prova o per condiscendenza, ma solo quando la vera necessità lo richieda. Però alla sapienza e alle opere dell’uomo sovrasta una mano superiore, che ne dirige gli sforzi, e pare accenni alla moltitudine: — Fate bene ciascuno la parte vostra, nè datevi pensiero dell’azione unita e dell’ultimo frutto che ne coglierete. Al vedere tanti libri, tante officine, tante invenzioni, non costernatevi perchè non potete saper tutto. Fate la parte vostra: l’intero frutto è solo opera mia, e voi ne approfitterete tanto più, con quanto più cura avrete ciascuno adempiuto il cómpito vostro».

Ai pochi che vedono meglio degli altri, essa provvidenza intima: — Studiate le leggi mie entro di voi e nell’ordine dei tempi, estraetene la formola da porre sottocchi ai direttori delle nazioni, fate sentir loro che il mio governo è facile e forte, purchè non lascino sbrigliati i frodatori, gli usurpatori, i violenti; raccomandate che non ricalcitrino contro l’impero dell’opportunità, e che pensino a dar mano al privato solo là dove questi non può da sè provvedere alle insuperabili necessità, e dove le cose sieno di comune pertinenza»20.


VII.


Il Governo del regno d’Italia volle consultarlo intorno al Codice Penale, che si stava compilando; e non parendo bastante l’opera che poteva offrire da lontano, lo invitò a condursi a Milano, ad oggetto di prestare i suoi lumi per la nuova sistemazione del Governo.

Mutatosi pertanto, l’ottobre del 1806, alla città capitale del regno d’Italia, con altri valenti giureconsulti pieni di dottrina e d’amore pel bene degli uomini e per la gloria del Governo italiano21, studiò a compilare il Codice di procedura criminale, che, secondo Montesquieu, è il più importante alla civile libertà: ma era ordine d’attenersi il più possibile al Regolamento organico della giustizia civile e punitiva, modellato sul Codice francese. Il Romagnosi a nome del ministero assistette alle settantadue sedute, in cui il Consiglio di Stato tolse ad esame il progetto, e ne tenne i processi verbali. Egli almeno avrebbe voluto ne’ giurati la formola dubitativa del non liquet «onde non provocare assoluzioni che fanno impallidire, o condanne che fanno fremere»; ma Napoleone, nel dispotico discorso del 7 giugno 1805, discorso che, per la sublimità delle idee e per la liberalità de’ sentimenti onorerebbe i Titi e i Marcaurelj22, avea detto: — Non ho creduto che lo stato dell’Italia mi permettesse di pensare a stabilir i giurati. I giudici devono pronunziar come giurati, dietro la sola convinzione e coscienza, senza abbandonarsi ad un sistema di semiprove, che cimenta l’innocenza più spesso che non valga a scoprire il delitto». Essendo stati proposti qui pure i biglietti regj, altamente vi si oppose il Romagnosi; e trovando i colleghi poco disposti a sostenerlo, rinfacciò loro che le croci onde aveano decorato il petto, come il teschio di Medusa gl’impietrivano contro i diritti della nazione, e vinse il suo partito. Merito suo è ancora l’avere introdotto il titolo della riabilitazione e della revisione delle cause, mentre anche in codici lodati prevale che la cosa passata in giudicato abbiasi per inappellabile.

Il duello, che è l’epilessia del coraggio, offrì sempre uno de’ punti più scabrosi ai legislatori. Il vedere odierno riproverebbe affatto i concetti del Romagnosi, che, quando non fosse intervenuta la morte, condannava il provocatore a due anni di ferri, dopo essere stato condotto sul luogo delle pubbliche esposizioni, ove il carnefice gli batterebbe sul viso la spada che servì alla prova, poi infranta gliela getterebbe con disprezzo ai piedi; allora rimarrebbe esposto col cartello e col boja. Se era avvenuta la morte, toccherebbe inoltre i ferri per cinque anni. I padrini, condotti essi pure sul palco, assistono all’atto infame, poi toccano la metà di quella pena.

«Si potrebbe forse ripetere la nota objezione, che io con la legge voglio rendere infame un’azione che nella pubblica opinione non è tale. So che l’opinione non è in potere della forza pubblica: ma io tento contrapporre il freno più valido che si possa nell’anima di codesti Rodomonti, per trattenerli da un atto di privata violenza».

Di quei consultori parlava egli sempre con rispetto, e anche dei ministri soleva dire che da loro moveano il più delle volte le proposizioni favorevoli alle franchigie del popolo; di Eugenio Beauharnais che «fu mal conosciuto, ed era uomo di retto sentimento, sebbene non così robusto da non lasciarsi traviare da cattivi consiglieri, nè abbagliare dal lampo della gloria militare. Una volta (seguitava egli) assistendo esso al Consiglio di Stato, inteso il partito dei diversi, esclamò: — Ma qui tutti mi parlano delle convenienze, nessuno della giustizia».

Condotte a termine le discussioni, il Romagnosi fu incaricato di ridurre in buona forma esso progetto. Discussa poi novamente la cosa in molte adunanze del Consiglio di Stato, presedute dal gran giudice, e avuto riguardo ad altre aggiunte e riforme proposte dal Romagnosi, e che meritano esser lette per la franchezza onde sono dettate23, l’opera fu pubblicata e messa in vigore24. Sono in essa distinti gli agenti della polizia giudiziaria dai magistrati; confidata a diversi la decisione del fatto e del diritto; resi indipendenti i giudici col farli inamovibili; escluso l’inquirente dal votar nella decisione; pubblici i dibattimenti. I Francesi, scarsi di giustizia verso le produzioni straniere quanto ammiratori delle proprie, dovettero confessare che il primo Codice che gli Italiani facessero, era degno di servir di modello; anzi perfetto dicono lo giudicasse Cambacérès; il che non vorremo noi ripetere, conscj degli ostacoli che alla buona volontà si frammetteano in tempo ove il diritto penale non era in armonia col cresciuto incivilimento; e raro si trova quel che era merito sommo dei grandi giureconsulti romani, il combinare i principj dirigenti coi fatti.

Già ai tempi repubblicani, Luosi aveva tracciato un Codice Penale conforme al reggimento d’allora; mutato il quale, ed avendo Napoleone (nel terzo statuto costituzionale del regno d’Italia, 5 giugno 1805) stabilito dovessimo avere un Codice noi pure, venne eletta una Commissione a compilarlo25. Questa, il 6 giugno 1806, offerse il lavoro compiuto al gran giudice, il quale lo mandò da esaminare a tutte le Corti di giustizia del regno, ai regj procuratori ed a’ più rinomati giureconsulti d’Italia, fra’ quali il Romagnosi. Sì il progetto, sì i motivi di esso, sì ancora i giudizj portatine e le risposte fattevi dalla Commissione furono raccolti e stampati26: ma rimase sospeso il lavoro, fin quando il vicerè incaricò una nuova Commissione27 di perfezionarlo.

Il Romagnosi vi lavorò più degli altri, come ne fa fede una copia a stampa della quinta redazione del progetto, che troviamo fra le sue carte, piena di sue correzioni e postille, delle quali fu fatto uso nella sesta redazione28. A questa è anteposto un lungo e vanitoso discorso del gran giudice Luosi e del Romagnosi: e questo discorso appunto ritardò la spedizione del progetto alla imperiale Parigi, sicchè Napoleone avendolo chiesto, nè trovato ancora, decretò si attuasse qui pure il Codice Penale dell’impero francese.

Quel conquistatore, come sentisse passeggiera dover essere la sua comparsa, precipitava istituzioni, decreti, riforme, bene, male. Nè agli occhi suoi la compilazione d’un Codice poteva essere che un affare di polizia, una severa disciplina per frenare gli scontenti, i furfanti, e tutt’insieme i preti, i pensatori, e coloro che sarcasticamente esso chiamava ideologhi. Treilhard non aveva nè l’abilità nè il coraggio di conoscer il vero e di annunziarlo, nè i colleghi suoi possedevano altro diritto che quello di dir di sì. Ben naturale è dunque che a gente siffatta dovesse dar ombra ogni segno d’italiana franchezza, nè volevano trovare atti virili in un popolo, che studiavano di far credere pupillo, e come tale bisognoso di essere tutelato dalla gente conquistatrice.

Così quel Codice, ove si sente la rozzezza della legislazione Carolina, ove l’intenzione di posar il diritto sulla forza appare fin dal primo articolo nella distinzione in contravvenzioni, delitti e crimini, tratta dal fatto materiale ed arbitrario della pena, per cui la società dee considerare non la natura intrinseca delle cose, ma la punizione dell’autorità; ove la pena di morte è prodigata, colla confisca de’ beni, col marchio, colla berlina, colla morte civile; ove il falsificare o metter in corso una lira falsa o adulterata è caso di morte; ove è delitto la semplice proposizione neppur accettata di alto tradimento (§ 90), delitto l’unione di venti persone anche per oggetto lodevole (§ 281), venne qui attuato nel 1811; Alberto De Simoni con altri lo tradusse: Tommaso Nani disertò le sue buone dottrine per applaudirlo commentandolo: il Romagnosi fu invitato ad esibire i suoi riflessi sui titoli della prescrizione e della riabilitazione29, che, come altre cose, dovettero essere variati nel Codice di precedura, al quale, per conformarlo al penale, fu impresso alcun che della tirannide suggellata sul francese30.

Che se i lavori del Romagnosi su quel Codice venissero ridotti a lezioni di alta legislazione, vi avremmo un glorioso riscontro alla servilità, che dettò i motivi del Codice Penale francese del 1810, al disprezzo ed all’ignoranza dell’umana natura ed al convincimento che continuo di là traspira, che l’ordine sociale non s’appoggi che sulle prigioni e sulle bajonette.


VIII.


Venne il Romagnosi adoperato dal Governo in altri lavori di legislazione, poi creato consultore al ministero della giustizia e professore di diritto civile nell’Università di Pavia, indi a Milano, con cattedra speciale di alta legislazione31, ove formare i futuri giureconsulti e magistrati, dando cognizioni di fatto e di ragione sopra il sistema che dee servir di norma alla legislazione civile e criminale ed alla pubblica amministrazione, e principalmente sopra le materie devolute ai ministeri dell’interno, del culto, delle finanze e del tesoro. Da cinquanta uditori laureati tratteneva con esercizj pratici, come in semenzajo di buoni giurisperiti; e nel Discorso sul soggetto e l’importanza dello studio dell’alta legislazione mostra come tale istruzione importasse grandemente a sradicare le abitubini sconsigliate, fondar una buona opinione, stimare al vero le riforme.

Da quella cattedra dettò i Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, ove alle azioni pone per regola direttrice il «far prevalere la cosa pubblica alla privata entro i limiti della vera necessità, cioè col minimo possibile sacrifizio della privata proprietà e libertà». Altre sue lezioni pubblicò poi nel 1820 col titolo di Assunto primo della scienza del diritto naturale. Col qual titolo volle dinotare l’esposizione primitiva del soggetto della scienza del diritto; onde vi tratta dell’intento, dei poteri finali, dei mezzi d’esecuzione, delle disposizioni naturali, de’ sussidj artificiali in riguardo al diritto naturale, considerato come scienza, come legge, come facoltà di operare.

Posta la società quale stato naturale dell’uomo e fonte dei diritti e dei doveri, fa di rigoroso diritto naturale la vita agricola e commerciale, l’istruzione e l’educazione, l’assetto politico sociale, e lo sviluppo delle cose religiose come potenza e motore morale. L’intento dell’associazione esser limitato dalla necessità, e regolato dalla reciproca uguaglianza di diritto; a questa è necessaria la cospirazione de’ poteri individuali, cioè delle cognizioni, della volontà, delle forze di tutti i conviventi; ove questa triplice unità s’incontri, avremo sana opinione nella mente, amor di patria nel cuore, nelle forze la maggior possibile potenza relativa; se manchi la cospirazione degli interessi, manca la cospirazione delle forze, mancano le cognizioni sulle cose importanti: lumi, bontà, potenza vanno insieme, come ignoranza, malvagità, debolezza.

Il Romagnosi veniva pure adoperato qual consultore materie legislative, e l’ispezione sopra le scuole di diritto, concentrata nel ministero della giustizia, e ad esaminare i professori e le opere politiche e legali.

Stese in quel tempo un Saggio filosofico politico, onde prescrivere un metodo retto d’insegnare, e dar eccitamento per apprendere, porgendo un’unità sistematica, che togliesse gl’inconvenienti che derivano dalla dissociazione e successione tumultuaria delle scienze e delle varie parti d’una stessa facoltà. E già sino dal 1803 aveva esposto un Progetto di regolamento degli studj politico-legali, che può ancora con frutto consultarsi.

Al tempo stesso pubblicava un Giornale di giurisprudenza amministrativa e civile, intento a schiarire il nuovo sistema di leggi, e venire in sussidio dei giudici e dei pubblici funzionarj.


IX.


Al cadere del regno d’Italia, il Romagnosi non solo perdette gli impieghi civili, ne’ quali aveva acquistato il senso pratico che d’ordinario manca alle menti speculative, ma la Reggenza Provvisoria eretta in Milano avendo, per patriotismo, ordinato che i forestieri cessassero dagli impieghi32, il Gioja, il Custodi, il Rasori, il Salfi, il Foscolo furono dimessi: e anche il Romagnosi, benchè sin dal 26 luglio 1813 fosse stato accettato per nazionale.

Quella Reggenza Provvisoria riparò a molti difetti del Codice Penale, abolendo le Corti speciali, la confisca, la deportazione, la berlina come pena; il castigo contro i ministri del culto che corrispondessero con poteri esteri, cioè col papa; il marchio a fuoco per chi non fosse condannato a vita, ed altre fierezze. Esistono i consulti e gli schemi di decreti fatti su ciò dal Romagnosi; il quale, sodata la dominazione austriaca, continuò ad insegnare l’alta giurisprudenza coll’aggiunta del diritto canonico, finchè col settembre 1817 si abolirono le scuole speciali. Non per questo abbandonò Milano; che anzi, avutane la cittadinanza nel 1816, vi fermò sua dimora, e attese a educare privatamente nelle scienze legali, e rispondere a consulti.

L’agitarsi che in ogni tempo fece l’Italia per iscuotersi di dosso gli stranieri, Romagnosi secondò coi voti, ma non volle legarsi a società segrete, tali non potendo dirsi le massoniche sotto il regno d’Italia, dacchè erano un mezzo di godimento pei più, di broglio o di governo per alcuni. Siccome nel Codice Penale francese, così nell’austriaco era fatto reo di morte chi non rivelasse una congiura contro lo Stato. Cospirandosi nel 1820, un giovane, allora caro, dappoi venerato all’Italia, interrogò il Romagnosi se avrebbe partecipato alla Carboneria; ed egli ricusò non solo, ma cercò distorne esso poeta. Questo fatto, addotto in processo, bastò perchè il Romagnosi, come reo di non palesata cospirazione, fosse arrestato e tradotto a Venezia. Tenutovi con ogni riguardo, potè studiare, e far l’opera sua sulle matematiche: noi pubblicammo la limpida difesa ch’egli fece di sè stesso33, per la quale un giorno gli si aprì la carcere e andasse. Pregò lo lasciassero starvi sinchè chiamasse da Milano il servo e denaro pel viaggio: ma per quelle brutalità della Polizia, che appestarono il Governo austriaco e corruppero la giustizia, non gli fu più permesso di insegnare come maestro privato34. Imbecillità, allorchè non si osava impedirci di stampare!

Così gli fu negato35 di accettare l’invito che Guilford, lord protettore delle Isole Ionie, gli faceva di recarsi professore a Corfù.

Dopo il 1831 rinterzaronsi le trame, e perchè i motori d’allora sentivano come fosse necessario l’avere in pronto un ordine da surrogare a quello che si distruggerebbe, e non erano sistematicamente nemici d’ogni capacità superiore come i rivoluzionarj posteriori, si volle aver consigli dal Romagnosi sul modo di sistemare il paese dopo che si fosse emancipato. Rammentando la peripezia del 1821, egli dichiarò non vorrebbe comunicare se non per mezzo di un solo, e prescelse l’autore della presente biografia, che perciò, messo a parte sol di quanto occorreva, servì di intermedio, non per l’opera della sovversione, ma per quella dell’organamento. Alcuno degli eroi dell’azione, anche quella volta parlò in processo, ed io scrittore fui trattato come nel 21 il Romagnosi: ma quando uscii dalla lunga prigionia, ebbi la consolazione che il vecchio abbracciandomi mi dicesse: — Non temetti mai un istante della tua fermezza».

Son parole che redimono molti insulti dei vili prepotenti.

Milano e il 1821 non erano il tempo e il luogo dove ai liberati si festeggiasse, come aveano fatto i Trentini; e il Romagnosi continuò a stentare la vita con una tenue pensione e col lavorare di penna. Quindi la biografia di lui si riduce all’esame de’ suoi libri. Di questi già molti ragionarono, e noi stessi quando n’erano ancor calde le ceneri, schermendoci dalla critica invidiosa d’ogni superiorità, come da quella seduzione dell’autorità, che non discerne il rispetto dall’idolatria, l’ascoltare un maestro dal venerare un oracolo, e fa accettare ogni proposizione perchè venuta da un grand’uomo. Ora passò un terzo di secolo, e appartengono alla posterità le opere di lui, già ben giudicate dal non essere dimentiche fra questo profluvio di novità, fra questo idiota dispregio del passato e della scienza seria.

La Genesi è la sola che scrisse per intento scientifico e indipendente, prima che arrivassero i nembi a rompere quelle abitudini dell’intelligenza, le quali danno agevolezza allo spirito, e imprimono un movimento regolare all’anima. Trascinato anch’egli nel vortice dove si perde la calma del giudizio, ma dove l’esperienza delle cose corregge l’assolutezza delle teoriche, subì quel fascino della forza e del successo, al quale è sì diffìcile sottrarsi, pure cercò correggere il despotismo colle forme, ultimo rifugio quando si oblitera il senso della libertà.

Dappoi sparpagliò su varj giornali, come il Conciliatore, l’Ape, la Biblioteca italiana, la Minerva, l’Indicatore, gli Annali di Statistica, l’Antologia di Firenze, articoli parte desunti dalle maggiori opere sue, parte per chiarirle, e, dicasi realmente, per guadagnare non la gloria, ma il pane quotidiano. Son dunque di materie fuggevoli, e fin sopra temi che non bene conosceva, come i geroglifici e le antichità indiane e le etrusche, o sopra libri che non avea veduti, come la Storia della civilizzazione del Guizot; e senza l’alta imparzialità dignitosa, troppo difficile a conservare nella letteratura militante, censurò talora anche acerbamente e con una certa tirannide di verità tutto ciò che usciva dal circolo da esso tracciato, o quegli errori in cui non sapeva discernere i semi del meglio od il passaggio a questo.

Come storico, i pregiudizj della scuola enciclopedistica mal aveva corretti con istudj fatti a sbalzo36. Riconosce un incivilimento unico nativo, originato dall’accidente; e uno dativo, portato all’Europa da un popolo arcano, dagli Atlantici, soli veggenti fra i ciechi, inventori del culto e della giustizia; asserto gratuito, che allontana la quistione, non la scioglie.

Alcuni articoli crebbero in opuscoli, quali i Fattori dell’Incivilimento, la Mente sana, la Suprema economia dell’umano sapere, dove stabilisce le leggi con cui l’umano intelletto si svolge nell’individuo, e l’incivilimento nella società.

Coerente ai principj stabiliti nelle opere maggiori, ogni cosa dirige al pareggiamento de’ poteri e delle utilità, e all’equilibrio delle forze nello scopo del triplice perfezionamento morale, intellettuale e fisico, affidato al supremo movente dell’amor proprio. Persuaso che prima necessità degli uomini è il pane, e che è vanità il parlare di miglioramenti innanzi di avere assicurato la sussistenza, seguitò attento l’ordine delle ricchezze; alla sistemazione delle quali è notabile come siansi quasi per istinto rivolti nell’età moderna i più elevati pensatori e cultori della filosofia razionale.

Non vorremo ripetere ch’egli primo all’economia chiamasse compagna la giurisprudenza, mentre il Codice Napoleone basta a far chiaro come già la cosa fosse, non che discussa tra i pubblicisti, adottata dai legislatori37. Bensì disapprovando il suo condiscepolo Melchior Gioja d’aver ridotto le statistiche a mero empirismo e a raccolta di fatti curiosi, disposti sistematicamente ma senza generalizzarli, volle connetterle colla giurisperizia, ed elevare a scienza che profitta de’ disastri, inflitti dalla natura alla ignoranza e all’intemperanza de’ potenti, e che, collocandosi fra la storia degli accidenti concreti delle nazioni e la storia filosofica della loro civiltà, espone con ordine di ragione i modi di essere e le condizioni che interessano alle cose e agli uomini presso un dato popolo, fissato su di un territorio, e stretto in civile convivenza.

Nè l’economia politica fu più riguardata siccome studio della nuda e indefinita produzione, riproduzione, distribuzione e consumazione delle ricchezze; ma come l’ordine sociale di queste, chiamata a cooperare al vantaggio comune col procurare il possesso delle cose godevoli in quantità proporzionata ai bisogni della vita, e diffondendole per quanto si può equabilmente e facilmente sul maggior numero di cittadini. Imperocchè esiste un ordine necessario di ragione economica, siccome uno di pubblica e di privata morale, talchè questa scienza ha fondamenti tanto certi, piani, irrefragabili quanto l’ordine fisico: nè può rimettersi alla disputa umana e alla libera provvidenza degli ordinatori ciò che è dell’interesse più urgente nell’umana convivenza. Tale dottrina quindi, tutta di ordine complesso, attivo, vitale, assuma le funzioni economiche ne’ loro motori e ne’ risultamenti complessi, se non vuole rimanersi contenta di frantumi staccati, o perderci in uno scolastico illusorio; e s’occupi assai più d’indicar il male che d’insegnare il bene, giacchè natura non si vince che secondandola.

In conseguenza stette coi fautori della libera concorrenza; screditò la mercantile bilancia del commercio; indagò le cause del pauperismo inglese, con cui l’inesorabil natura punisce la giustizia sociale violata co’ privilegi de’ possessori, col monopolio dei manufattori, colla tirannia delle colonie; redarguì l’inutile ingerenza de’ Governi e i trattati di commercio; gli scrittori che predicavano come nociva la suddivisione delle proprietà; denunziò come un reato il Sansimonismo, in quanto riguarda i testamenti e i possessi; chiamò a severo esame le dottrine di Malthus, di Say, di Moreau de Jonnès; discusse le varie leggi finanziarie della Francia e la convenienza delle colonie; applicò le sue tesi al traffico ed alla libera estrazione delle sete italiane, al taglio de’ boschi, al Tavoliere di Puglia.

Mentre certi economisti stranieri non riguardarono l’uomo (uso un modo del Romagnosi) se non come ventre, poi v’aggiunsero le braccia, più tardi vi soprapposero la testa; cioè dapprima considerarono come unici produttori delle ricchezze gli agricoli, poi si piegarono verso i manifattori, tardi soltanto associarono i pensanti e gl’inventori, la scuola italiana, vantandosi morale, non spinse il calcolo dell’utilità fino a proporre i mezzi onde scemare la popolazione, ma insegnò come la svincolata opera di tutti produca il bene personale ed il generale; mise in accordo il conoscere, il volere, l’eseguire38; e mira a formare il massimo d’uomini intenti al lavoro, che rispettino e si facciano rispettare, che sieno cordiali ne’ sentimenti e negli atti, e che con cognizioni proprie e tradizionali operino al meglio comune.

Nella giurisprudenza civile positiva, oltre i responsi a consulti particolari, trattò alcune parti della procedura, come del criterio per distinguer i delitti d’accusa privata da quelli di pubblica azione, della pubblicità dei giudizj conveniente anche alle monarchie, e si rifece sopra le pene capitali. Stese poi due opere di lunga lena, una sulla Ragion civile delle acque nella rurale economia, l’altra sulla Condotta delle acque secondo le vecchie, intermedie e vigenti legislazioni dei diversi paesi d’Italia, ove mostrò come convenga togliere le materie legali dal grossolano senso comune, soggiogato dall’autorità, per condurle verso la prodigiosa unità della romana sapienza. Per Romagnosi il giureconsulto non doveva essere materiale esecutore d’un mandato, ma contribuire al miglioramento della legislazione con unità di vedute e colla profonda intelligenza della ragion di Stato, e poichè i legislatori ad una natura indefinita son costretti provvedere con codici limitati, è dovere pe’ giureconsulti l’adempiere ai difetti della legge colla ragion naturale, scorta dallo intento politico della legislazione, per meglio raggiungere il civile pareggiamento delle utilità per via della libera concorrenza.


X.


Il Romagnosi amò le matematiche, l’ordine e l’esattezza delle quali sì bene conformavasi colla mente di lui; e dalle ansie della prigionia erasi distratto componendo due volumi dell’Insegnamento primitivo delle matematiche. Credeva esse avessero contribuito assai ad introdurre, aumentare e mantenere la vita civile, ma fossero incorse nella sorte comune dello scibile umano, ove gli uomini, in prima dritti sulla buona strada, nel mezzo traviano, sinchè si rimettono al buon sentiero39. In fatto, da principio la quantità venne considerata non altrimenti di qualunque altro fenomeno naturale, lavorandosi sul circolo come sarebbesi fatto sopra un animale od un minerale; deducendo i caratteri, le derivazioni, le connessioni, i passaggi della quantità, così da formarne un tutto armonico e connesso. Subentrò poi il lusso della scienza all’economia, la difficoltà all’agevolezza; si sostituirono idee di risultamento affatto eterogenee alla ingenuità di questa scienza, le cui poche nozioni radicali sono semplici, e generate da segreta unità.

Enrico Wronski fu il primo a posar il teorema generale e il problema finale delle matematiche; ed è il progresso più importante che in quelle siasi fatto dopo trovato il calcolo infinitesimale. Egli pretende provare assolutamente falso il calcolo delle funzioni di Lagrangia, e che converrà rinunziare a coteste teoriche complicatissime, non possibili se non per la natura del calcolo che pretendono spiegare. Romagnosi, mal comprendendolo, eppur talvolta seguendolo nelle idee metafisiche, osteggia gli infinitesimi; confessa non esser approfondito nell’algebra (Disc. II), fino a lasciar indecisi sull’esattezza delle funzioni analitiche, contenenti i principj del calcolo differenziale; sbizzarrisce sulla simbolica numerica e sull’algoritmo pitagorico.

Cercata l’indole e la generazione naturale dei primitivi concetti matematici, discorre sull’oggetto, le parti e lo spirito di quelle dottrine; poi dell’unificazione matematica come operazione di calcolo e come ordinamento della scienza logica e morale, criticando, sia nella scelta, sia ne’ confini, sia nell’ordine, i metodi usitati nell’insegnamento, che l’hanno ridotto a tale aridità ed astrazione, da ributtar ogni spirito generoso; che s’insegni l’algebra prima d’aver esaurita la geometria elementare, nè ben conosciuta e simboleggiata la teorica sì speciale che generale delle ragioni e proporzioni; che sia imperfetta la definizione delle idee meno ovvie, e senza mostrar le genesi logiche, nè illustrarne i termini con lucidi esempj; che si presentino brani staccati, sotto forma d’improvvisi problemi e teoremi, in luogo d’un complesso unito e dedotto, affrettandosi ai generali, spesso tenebrosi, sempre diffìcili. Il migliorare i metodi imperfetti, ciechi, stravolti, è vanità; doversi piuttosto farne una restaurazione, presentando un corso compiuto di quella matematica primitiva, che esige solo la cognizione di pochissime proposizioni geometriche e le quattro operazioni d’aritmetica per condurre alla scoperta del vero algoritmo universale, per cui eseguire le tre specie di calcolo della composizione, della differenza, della congruenza.

Di ciò non espose egli che i principj, e sulla verità e l’opportunità di essi invocava il giudizio de’ pratici, prima di mostrar le conseguenze che ne derivano. Questo giudizio non fu proferito, nè, per quanto sappiamo, alcuno entrò a discutere di questo libro. A noi riuscì oscuro e complicato: combatte a lungo sentenze già vinte da altri: e s’affanna contro l’inesattezza de’ matematici leibniziani, mentre in Italia da gran pezza furono abbracciate le teoriche del Lagrange.

Anche ne’ particolari alcune cose non pajono indicare in Romagnosi un preciso calcolatore40. È però mirabile come tant’alto sia egli poggiato, quasi direi per forza propria, non conoscendo il calcolo differenziale. Il suo caro amico Giuseppe Merlo, con cui risolveva ardui problemi, confessava non intendere le dimostrazioni di lui41; tantomeno noi, per quanto abbiamo durato fatica a seguitarlo, le sere intere, ne’ calcoli: colle proporzioni fra l’ipotenusa e i cateti intendeva spiegare il sistema delle forme architettoniche e de’ simboli, che nelle basiliche e nelle chiese medioevali veniva tradizionalmente osservato da quelle società de’ Franchimuratori, alle quali è dovuta la diffusione dello stile gotico e la rinnovazione dell’architettura. E colla simbolica rendeva ragione di molte figure delle sacre carte e di immagini dei poemi omerici, quali sarebbero la catena con cui Giove sostenta tutto il creato, la Giunone sospesa alla vôlta dell’empireo con due incudini ai piedi, e come dicasi nell’Apocalisse che il numero della gran bestia e dell’uomo è il 666. Ma d’alcuni punti faceva arcano, o fossero veramente cose da dire a pochi, o non le avesse egli medesimo chiarite con bastante certezza, benchè dicesse aver penato venti anni a comprenderle; e queste forme fondamentali, che costituiscono la norma regolatrice di ciascun edifizio gotico, appena credemmo intendere dopo veduti l’inglese Pugin, i tedeschi Bopp, Kallenbach, Stieglitz, Hoffstadt.


XI.


Quanto intorno alle dottrine della ragione, dell’umanità, della civiltà avea sparso qua e là, pensò raccogliere negli opuscoli di logica e di psicologia ed in quelli sull’incivilimento. Non erano studj nuovi per lui, il quale diceva d’essere stato dagli accidenti condotto a pubblicar per ultimo ciò che avea per primo pensato: confessando con ciò i suoi lavori esser nati quasi alla ventura e sotto l’impulso d’accidenti. La cattedra ottenuta a Parma gli suggerisce l’Introduzione; gli impieghi sotto il regno d’Italia i tanti scritti relativi all’amministrazione ed alla giurisprudenza; il bisogno lo fa collaborare ad un giornale, e diviene economista e statistico; ora per secondar un editore, si fa ideologo; per un quesito dell’Istituto di Francia storico dell’incivilimento.

Quanto alla filosofia razionale, intese, con un buon corso di studj medj, a guidar i giovani non a questa anzi che a quella scuola, ma a poter da sè scegliere la più propria, limitando l’opera dell’educatore a sviluppare e perpetuare pensatori robusti, sicuri, cordiali; insegnare a ben assumere, ben distinguere, ben ordinare, ben concludere, ben esprimere, cioè a ben eseguire le operazioni della memoria, dell’astrazione, dell’associazione, del giudizio, del linguaggio.

Per ciò, convien esaminare l’interno meccanismo naturale, e accertarsi della potenza razionale. Che se vi fu tempo ove l’importanza della logica si sentisse, è certamente il nostro, quando sempre più dal viver semplice si fa tragitto al complicato, che trascende le vulgari capacità; quando più sempre cresce il pericolo che le integre coscienze rimangano sopraffatte dall’eloquenza de’ passionati, dalle capziosità degli astuti, dalle minaccie de’ prepotenti, sicchè tutti gli affari umani, dal minuto esercizio del merciajo sino alla più elevata diplomazia, invocano coscienze illuminate, robuste, sicure, affinchè nè la condotta privata, nè lo Stato corrano a mercè di fortuna, barcollando fra l’incertezza, od avventurandosi in disastrosi esperimenti.

Eppure la logica a che è mai? Se il pensiero sviluppossi dalle meschinità peripatetiche, pure vedete la Scozia appoggiarsi ad un intimo convincimento privo di guarentigie; Francia e Germania sostituire il sentimento e la poesia alla ferma argomentazione, un fucato sofisma all’industre pensiero, un aereo trascendente alla realtà; l’Italia, senza la ginnastica degli antichi nè l’impulso de’ moderni, giace neghittosa, appena a momenti agitata da leggiera istruzione, che non dà stimolo e vigoria di meditare.

Non ci illuda l’abbondanza di scuole, d’accademie, d’università: solo col diffonder un’educazione gagliarda, col moltiplicare i cervelli giusti più che gli eruditi, si otterrà il sommo bene del consorzio civile.

Il Genovesi colla Logica de’ giovanetti aveva accostato alla vita uno studio, fin allora privilegio e sterile ginnastica de’ letterati. Il Romagnosi vi soggiunse Vedute, ragionando del conoscer con verità, dell’operare con effetto e del provare con certezza, sempre in relazione all’economia dell’incivilimento, del quale poi specialmente trattò nell’appendice del convivere con progresso.

Volendo sodar la verità di fatto de’ nostri concepimenti, e dar logico fondamento all’esperienza, è mestieri innanzi tutto cercare se esista qualche cosa fuori di noi, e confermare la causa prima ed universale di ciò che l’uomo sente in sè, e il mezzo unico per operare fuor di sè.

La sensazione primillare è una dualità reale ed effettiva dell’azione e della riazione fra il me consapevole ed il non me incognito, unificata nella facoltà senziente. Provata la necessità dell’esistenza dei corpi esterni, le sensazioni sono effetti reali delle relazioni attive fra quelli e l’anima; quindi, come sopra segni veri, come sopra copie d’originali, si potrà ragionar sopra di esse come sopra le essenze, e così avrassi un principio reale ed effettivo, da cui nasca la sanità della mente umana42.

Dal concorso de’ modi d’azione esterni e di riazione interni, risulta la percezione dell’essere e del fare ideabile delle cose, ciò che è l’intendere. Conformare questo, destar il sentimento del sì, del no, del dubbio ne’ nostri giudizj, aggregare l’analogo e sceverare il ripugnante, sono uffizj del senso logico.

Onde in conclusione mente sana è la facoltà d’apprendere, qualificare, confermare le nostre idee in guisa, che essendo adatte alla capacità di ciascuno, ci pongano in grado di operare con effetto preconosciuto, al modo che suole il più degli uomini. Romagnosi diceva: — Come niuno dubita del teorema del quadrato dell’ipotenusa, perchè non si potrà dimostrar che esiste un opinato certo, il quale può divenire un opinato immutabile?» e proponeva a ciò il sistema della competenza causale e dell’idealismo associato, come bastevole a conciliare i pensatori. Io sento è il primo verbo, proposto alla meditazione di chi cerca la genesi opinabile della mente sana; e secondo il principio di contraddizione credea dimostrare con fatti d’indubitabile certezza dove e come coincidono il vero e il certo.

Ma la verità da lui posta non è un ente sostanziale, bensì una qualità dei giudizj di un essere senziente; qualità non intrinseca all’idea, bensì relativa ad una posizione intellettuale. Ora un vero relativo non è il vero, il quale dev’essere assoluto, immutabile in sè, e non soltanto per noi: mentre il Romagnosi verità e giudizio fa sinonimi, e ciascuno poter assumere la propria cognizione come tipo normale della verità.

Una è la mente, discordi le produzioni di essa: l’unità pensante non può produrre dualità di fenomeni, dunque è necessario esistano altre cose fuori di me. Tale è il ragionamento del Romagnosi, diverso soltanto nella forma da quello del Tracy, ossia del Campanella. Ma regge esso al dubitare sistematico di Hume? La percezione non presenta che fenomeni: l’ordine con cui questi si succedono, porge l’idea della causalità e costituisce tutta la esperienza che abbiamo delle leggi di natura. Ma tale derivazione di fenomeno da fenomeno non è apodittica, sibbene sperimentale: darà un’induzione, non l’assoluta verità. L’opposizione medesima fra la spontaneità dell’ente e ciò che resiste, non è che fenomeno, nè importa la pretesa dualità nell’unità assoluta. Onde, per chi ripudii il postulato della causalità, non v’è contraddizione fra l’unità pensante e la dualità de’ fenomeni. E appunto la ricerca di tale causalità è lo scoglio, contro cui i filosofi ruppero sempre: dei quali taluno risolse l’universo in fenomeni indipendenti, lasciando l’essere al me pensante ma senza verun passaggio dall’interno all’esterno; altri, astraendone la nozione comune a tutti i fenomeni, l’idea sottintesa a tutti i giudizj, formarono l’ente, in cui trasportando ogni realtà, ridussero lo stesso me pensante a nulla più che fenomeno dell’ente.

A mostrare il nesso fra l’ente e i fenomeni, Romagnosi inventò quella sua trinomia di azione, riazione, risultamento; cioè che la natura esterna opera sulla mente come stimolante, la mente riagisce sulla natura esterna colla propria energia, dal che risulta un commercio compotenziale, che rappresenta un continuo antagonismo. Ma questo spiega forse la verità o la certezza del massimo fenomeno psicologico? non ammette per dimostrato quel che appunto si cerca? che altro fa se non formolare un fatto, dar una dimostrazione fisica, anzichè chiarire una ragione?


XII.


Di fatto il Romagnosi poco si badò alle logie individuali, mirando piuttosto a combinare la psicologia colla scienza sociale e colla logica, che dà sicurezza al raziocinio.

E dalle dottrine psicologiche, qualunque elle fossero, tornava al perpetuo suo tema, la civiltà effettiva: e posata la dottrina della ragione rispetto all’economia dell’incivilimento, volle pure adunar ciò che sparsamente aveva esposto riguardo all’andamento di questo ed alla storia dell’umanità. Accoppiando perciò la veduta fondamentale sull’incivilimento soggiunta alla logica del Genovesi, coll’applicazione positiva fattane nell’introduzione alla Ragion civile delle acque, compaginò l’operetta Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento, con esempio del suo risorgimento in Italia.

Già il Vico e lo Stellini, volgendosi dall’arida scolastica dell’età loro al più vasto argomento che uom possa meditare, aveano spinto un guardo penetrante nella vita dei popoli; più positivo il Vico, più speculativo l’altro; questi abilissimo nel ritrarre i costumi delle prime età, sebbene non abbastanza sottile nell’assegnare i fondamenti della convivenza; il Vico errato nel non discernere sotto agli stessi nomi le differenti metamorfosi del pensiero e del costume, ma argutissimo nel valutare i caratteri mentali della prima età, e segnar le forme delle varie istituzioni e delle locuzioni loro positive e semplificate nella storia: genio stupendo, nella profonda sua intuizione prevenne di un secolo la ragion comune, presentì le innovazioni che la scienza della perfettibilità umana reca nelle altre; e se o i pregiudizj o l’insuperabile ignoranza de’ fatti gli fece ora ommettere, ora svisare il vero, risorgendo però in mezzo a noi, quasi testimonio degli indovinati progressi, può apparire siccome contemporaneo, giudicar l’erudizione e i fatti della nostra età, dare una spinta efficace a quell’accordo, il cui bisogno è sentito ed invocato nell’analisi del mondo delle nazioni.

Alla scienza delle cose e delle storie umane delineate da questi grandi italiani volle dar compimento il Romagnosi. Ma sulle belle prime staccossi dal Vico, col mettere il perfezionamento siccome impulso del caso, e col distinguere la perfettibilità dall’incivilimento, quella essendo l’attitudine, questo l’atto; quella verificandosi sempre nell’uomo in società, mentre nel fatto non ravvisava che un unico incivilimento, nato in un solo punto del globo e di quivi propagato: non ispontaneo effetto della convivenza, ma faticoso trionfo dell’uomo sopra la natura; e a cui fa mestieri di vocazione naturale e coltura. Tal vocazione trovossi in sommo grado presso qualche nazione, come l’Italia, la Caldea, la perita Atlantide.

L’incivilimento, cioè il modo di essere di uno Stato, pel quale si vanno attuando le condizioni d’una colta e soddisfacente convivenza, svolgesi fra la barbarie e la corruzione in una vita complessiva, sottoposta agli stadj della personale; ed ottimo sarà quando gli individui si amino e rispettino a vicenda, sieno operosi, e col credito assicurino le aspettative; quando la pubblica equità protegga il debole, associi in libero affratellamento le professioni, i gradi, le classi; qualora nell’ordinamento fondamentale si incontri una proporzionata divisione in gremj di locale attività per cui mezzo l’azione personale venga impegnata nella socialità.

L’avvicinarsi a tal condizione è opera del progressivo incivilimento attraverso alle età dei sensi, della fantasia, della ragione, segnando quattro epoche distinte. Prima è quella dei tesmofori43, istitutori forestieri, che con deliberata educazione trapiantano la civiltà fra popoli grossolani, dissodando terre, vincendo con erculea fatica gli ostacoli fisici e morali dell’agricoltura, togliendo la gente al vivere errante, ai connubj vaghi, statuendo il tuo e il mio, la ragione dei confini, le strade, le eredità, avviando al miglior vivere col fissare le tribù, col fare che sopra spazio minore vivano più uomini; mantenendoveli sotto stabile protezione ed educazione, rammollendo la ferocia, assicurando le proprietà; alimentando la potenza per mezzo degli uffizj dei possessi.

Succede l’età de’ maggiorenti, in cui, per via di conquiste, formansi le Caste, distinti gl’imperanti dagli obbedienti, scompartiti i lavori. Sorgono poi le città, quali erano agli ultimi tempi della repubblica romana e nei municipj della risorta Italia; infine le nazioni, come nella cittadinanza romana estesa a tutta Italia, con un capo ed un senato comune a tutto l’impero, e come si vede negli Stati moderni.

Ma per evitare le scosse troppo violente dell’egoismo è necessario un poter superiore che equilibri e diriga le forze, un Governo, inteso a render libera ed universale la concorrenza, ovviare i soprusi, comprimere la prepotenza turbolenta, senza impacciare la natural vitalità degli Stati, originata dall’individuale interesse. La prima forma di governo fu l’assoluta autorità dei tesmofori, avvalorata dalla religione ed esercitata con un’educazione quasi personale; poi sotto ai maggiorenti, i conquistatori comandano a lor talento; ordinate le città, nascono successivamente la protocrazia, l’aristocrazia e la policrazia.

Protocrazia è il principato de’ grandi e de’ padri-famiglia con un primate, in somma il governo patriarcale, ove molti capi di tribù confederati prestano al consorzio nulla più che gli uffizj necessarj alla difesa comune e ad una comune impresa44; carattere della civiltà incipiente e primo legame dell’individuo colla socialità, ove presto fa sentirsi il bisogno di un capo, eletto fra i padri-famiglia.

Questo capo vien presto a noja all’unione de’ padri, che lo rovesciano, e fondano il governo de’ primani, l’aristocrazia45. In essa, non che migliorar sua sorte, il popolo scapita, perdendo l’utile preponderanza d’un capo, che favoriva i più per servirsene di appoggio. Se non che a frenare l’eccesso aristocratico sorge la policrazia, ove la plebe partecipa al potere, e così per via dell’antagonismo rimangono bilanciate le condizioni, e risparmiati i violenti e non graduali passaggi alla monarchia ed alla democrazia46.

Di tal passo sono condotte le nazioni a quel grado civile, ove la suprema legge dell’opportunità sanziona l’essere dei corpi politici più grandi, la conquista dello jus æquum bonum, e le costituzioni: l’opinione, potere efficace sugli atti, nasce prima religiosa, poi diviene morale, indi civile, finchè vien portata a maturità dalla ragione dimostrativa e convincente.

Il procedimento organico della civiltà si riduce così a fondere successivamente nel consorzio sociale i poteri rozzi e compatti dell’individuo, rendendo più deboli gli uomini isolati, più felice e potente il loro accordo: procedimento dinamico si è il tender costante di tutte le parti d’uno Stato e delle nazioni fra loro all’equilibrio dell’utilità e delle forze, mediante il conflitto degli interessi e dei poteri.

Questa dottrina dell’incivilimento, il Romagnosi applica al risorgimento d’Italia. Difetto capitale dell’illustre Sismondi è l’aver tolto ad esaminare le repubbliche italiane del medioevo senza farsi indietro sopra la civiltà romana, i cui ordinamenti talmente influirono sulle consuetudini successive, che senza studiar in quelli, non è possibile render ragione dell’essere di noi moderni, mistura di romano, di nordico, d’orientale47.

Il Romagnosi, versato com’era nelle leggi, fonte la più schietta della storia della civiltà, a fondo conosceva la forma dell’antico governo romano, avvezzo a guidarsi più secondo la passione che secondo regole dedotte dall’ordine delle cose e degli uomini, e fabbricato a forza di penose transazioni fra gli ottimati e il popolo; sicchè la sua fermezza risultava dallo sforzo e dalla tensione, derivanti dal contrasto delle passioni, anzi che da una possanza regolata da motivi certi, ragionati, profondi. Risalì dunque all’ora che la lotta fra i patrizj e la plebe venne decisa in favor di questa collo assodamento della monarchia d’Augusto48, monarchia temperata da un senato, da potenti patrizj, dall’opinione educata fra le popolari discussioni. Ma ne’ tre secoli seguenti, mutasi in un’asiatica autocrazia: Diocleziano, collocandosi lungi da Roma, affievolisce la forza centrale; Massimiano immola i più illustri senatori; Costantino, annojato d’una città, ove non potea spegnere la memoria delle franchigie, compie la rovina traslocando la sede. Allora il consiglio del senato romano più non sostenta la prerogativa imperiale, abbandonata agli intrighi ed ai capricci del palazzo; due Augusti e due Cesari si dividono e suddividono il comando delle armi e le supreme attribuzioni: sovvertito l’ordine delle milizie, le legioni sono riempiute di Barbari insaziabili e licenziosi: le regole civili e dell’amministrazione mutansi in catena di servili uffizj, da cui ognuno procura sottrarsi; ogni dì più sfrenate le imposizioni; pazzamente angustiati il commercio e l’industria, talchè la caduta di quell’impero, più che opera de’ Barbari, dev’esser riguardata come un enorme politico suicidio.

Di due istituzioni principali di quel tempo vuolsi tener conto, il diritto civile e l’amministrazione municipale. Il primo si sviluppò meglio che non avesse potuto sotto la policrazia o l’autocrazia precedenti; e tutela com’esso è della proprietà personale, reale, morale, domestica e sociale, mantenendosi fra la barbarie successa, diede impulso alla rigenerazione, assecondato in ciò potentemente dall’amministrazione municipale, lasciata illesa dalla oppressiva ma non gelosa dominazione dei settentrionali invasori. Anche il cristianesimo, disgiungendo il sacerdozio dall’impero, propagando sentimenti di carità e di giustizia, e rinvigorendo la gerarchia sacerdotale, moralmente dissoggetta dalle vicissitudini politiche, rimase vero palladio della civiltà.

Il Romagnosi sa vedere come, già prima dell’irruzione de’ settentrionali, fosse sprecato il tesoro della sapienza antica, come quelli campassero la civiltà dallo sterminio d’una sbrigliata autocrazia, inducessero miglioramenti nell’economia e nella politica, ed avviassero al risorgimento. I nostri svestirono la fiacchezza e la servilità, ingenerate dalla tirannide: dopo Carlomagno ebbero re proprio e leggi ed assemblee: il clero costituì un poter nuovo, fondato sui meriti personali e più colto che ne’ guerrieri dominatori, il quale esercitava la giustizia con solennità e la sanciva con premj invisibili. Così l’amministrazione economica serbata ai Comuni, la libertà religiosa risolta in unica credenza, la conservazione del diritto romano, la pubblicità dei giudizj, l’intervenzione del clero a moderare i potenti ed educare la plebe, l’arti ed i mestieri esercitati, le armi ripigliate per difesa contro Ungari e Saraceni, resuscitarono l’italico genio, mentre il declinare del dominio greco, longobardo e franco dava opportunità ai municipj di innestare sulle istituzioni e sulle abitudini sopravvissute il nuovo incivilimento italiano, che fu germe dell’europeo.

Qui ricorre il successivo dominio dei sensi, della fantasia, della ragione, prima nella forza brutale dei dominatori, poi nelle imprese cavalleresche, infine nello studio del diritto e nelle controversie fra la Chiesa e l’Impero. Vi vedete ancora il discernere, il comprendere e il contemperare, nel contrasto fra i vinti e i dominatori; questi intesi a conservar la personale indipendenza e la politica divisione, quelli a garantire i possedimenti, le leggi, la religione: nel qual cozzo la forza della conquista rimane stritolata, quella de’ dominati ricupera vigor morale e guerresco; antagonismo, donde nacquero poi le compiante discordie fraterne e l’impotente lotta delle fazioni che pareano un desolato eccidio dell’italica civiltà, eppure erano un fermento delle forze eterogenee per assimilarsi.

Nell’incivilimento rinnovato d’Italia, il Romagnosi avvisò un procedimento inverso: poichè, dove ordinariamente il politico previene l’ordine morale e l’economico, questi al contrario ne’ Comuni fiorivano, mentre il politico barcollava. Del che furono cagione le tradizioni e le abitudini, per cui non si fondò lo stato economico sopra i possedimenti di territorio, bensì sul commercio e sull’industria. Ciò costrinse a commettere le armi a destre mercenarie; i baroni se ne valsero contro la nazionale libertà; gl’intestini dissidj obbligarono a tornare alla dittatura dei podestà, cui successero i tirannelli che convertirono la primazia feudale in prerogativa principesca.

E se a quei tempi mancava una forza accentrata, che tutelasse le persone, le cose, le civili istituzioni, pure il perfezionamento economico e morale si effettuavano mercè la coltura e gli eccitamenti della libera concorrenza ed il benigno influsso del diritto romano. Le susseguenti fortune, e il non essersi ne’ bei tempi preparata e diffusa nessuna opinione generale e radicata de’ principj filosofici e politici, c’impedirono di salir quanto Francia, Spagna, Germania, Inghilterra.

Chi vorrà in questo lavoro degli estremi anni del Romagnosi numerare le novità, presto sarà al fine, ma qui troviamo delle dottrine sue capitali mostrata l’applicazione e la certezza: qui vediamo l’incivilimento, diretto dalle medesime leggi della mente umana, cioè la trinomia dello stimolo esterno di persone e cose, dell’interna corrispondenza della propria energia, e dell’effetto d’un triplice perfezionamento.

Ma se la civiltà europea è dativa, dond’essa è derivata?

A questa ricerca diresse il Romagnosi i suoi discorsi intorno ai primitivi Italiani49, che traeva dalla Libia; e pochi s’accontenteranno dell’uso che fa della mitologia, delle induzioni filologiche, dell’avere scambiato per carattere di stirpe quel ch’era rozzezza di artisti; e del supporre che popoli da prima pastori, poi Itali agricoli, quindi Fenici e Atriaci industriosi qui trapiantassero diversi stadj di civiltà, anzichè far l’uno dall’altro occasionare.

Al medesimo scopo furono dirette le Ricerche sull’India, soggiunte all’opera di Robertson, e lo studio onde teneva dietro alle scoperte de’ viaggiatori, per poter dedurre che la terra primitiva dell’incivilimento non esista più, come più non si conosce l’originaria del frumento; ma fosse forse l’Atlantide, forse un continente, di cui oggi non sono più che un avanzo le isole disseminate nell’Oceano Pacifico.


XIII.


Discorrendo di queste derivazioni, con rapidità e franchezza cercava somiglianze fra le genti più divise, raffrontando i vetustissimi monumenti italici, i vasi etruschi e atriaci, le scavazioni sepolcrali, gli edifizj ciclopici, scorrendo da Gozo alla Sicilia, alla Libia, all’India, all’ultima Islanda, ravvicinando i coralli sporgenti sui lidi del Mediterraneo con quelli delle isole Sandwic, traendo argomento dalla conformazione delle montagne, e dai fossili che elegantemente egli denominava medaglie della natura, dagli istromenti del culto, dagli altari giganteschi, simboli primitivi dell’associazione di preghiera e di sacrifizj. Giovato da una memoria tenace se altra mai, con sicurezza ripeteva nomi, citava testi, ricordava passi; e a me più volte asserì, che delle cose imparate poteva avere dimenticate alcune, ma in quelle che si ricordava, era certo della fedele riproduzione.

Di qui la varietà di sue cognizioni. A tacere gli studj civili e la legislazione pratica, che erano il suo campo, avea sulle dita la Bibbia e i santi Padri e il diritto canonico; toccavi di cose fisiche? sentiva rinascere l’amore che giovinetto portò a quelle scienze: sovente citava classici latini e italiani; tenevasi pure in corrente delle novità letterarie, lontano dal mostrarne quel superbo dispregio, che gli scienziati sogliono affettare per tutto ciò che non è positivo. Il gusto (pensava egli) entra nell’economia dell’ordine naturale e necessario, relativo ai progressi morali, e le rivoluzioni di quello si spiegano colla naturale costituzione dell’uomo. Ajuta poi efficacemente il perfezionamento morale, elevando ad occupazioni, cui l’uomo non potrebbe essere avvicinato dalle idee esibitegli dalla fortuna e da’ suoi primitivi bisogni; e provocando l’attenzione coll’agevolare l’intelligenza delle cose difficili, ajuta ad una più raffinata istruzione. Le leggi del gusto si fondano sulla derivazione delle idee intellettuali dalle sensibili: suoi mezzi sono approfittare della naturale inclinazione che spinge gli uomini ad amar le facili e piacevoli sensazioni; ond’è che il gusto precedette sempre la scienza; e le arti belle sono nell’ordine del perfezionamento morale quel che i fiori negli alberi: poco durano, ma cadendo lasciano il frutto, che senz’essi non sarebbe fecondato.

Così la sentiva il Romagnosi, ed era a vedere come applicasse le leggi del gusto alle belle arti, principalmente all’architettura, nella quale sapeva disegnare un capitello, che teneva del nuovo senza uscire dal corretto, ed un arco di vôlta, che, senza scostarsi dal centro tondo, variava la monotonia coll’aggiungervi quel non so che, nel quale sta il bello, e che i Greci conobbero a meraviglia.

E gli darà gloria certa l’aver sempre consociate le varie scienze; le dottrine giuridiche applica all’economia pubblica e svolge nella filosofia; morale, politica, economia, giurisprudenza, filosofia, connette e coordina per cercare natural fondamento ai diritti umani e alle loro garanzie.


XIV.


Non può dirsi che o nelle Università o nei tribunali facciasi ora grand’appoggio sulle opere sue, più lodate che studiate, più citate che lette; e l’assetto de’ tempi sottentrati ci persuade a badarci di preferenza su quella che altre volte si negligeva, la Scienza delle Costituzioni. Era il momento che la Santa Alleanza avea, comunque sia, raffazzonata l’Europa, sottraendola alle interminabili guerre e alle innazionali invasioni dell’Impero, e volendo assicurare le libertà nuove, compromesse dalla rivoluzione coll’esagerarle. Per tutto discorrevasi di popolo e di costituzioni, e l’esempio della Carta conceduta alla Francia era invidiato da tutte le nazioni. Allora il Romagnosi pubblicò anonimo, Della Costituzione d’una monarchia nazionale rappresentativa (1815).

Per lui Costituzione è «la legge che un popolo impone a’ suoi governanti, onde tutelar sè stesso contro i loro arbitrj»; al che vede richiedersi ben altro che i gladiatori delle Camere, e quelle larve vulgari che coprono una sistemata servitù. La sua, non ricalcata sulla francese come tutte le odierne, porterebbe:

1.° Una rappresentanza del principato, dipendente dalla nazione, indipendente da qualsiasi altro corpo statuale:

2.° Una rappresentanza nazionale, eletta dai cittadini, che concorra a far le leggi, a conceder soldati e denari, e far certe nomine;

3.° Un protettorato politico, indipendente dal principe, che nè fa leggi nè giudica, ma patrocina la nazione presso la legislatura e presso l’amministrazione; veglia, insta, rattiene, acciocchè una legge sia fatta od eseguita;

4.° Un senato conservatore per tutela della costituzione e dello Stato e per l’altre eminenti funzioni di confidenza, indipendente dal principe; e che non si muove se non eccitato da altre autorità.

Al principe spetta il proporre e promulgar la legge; per decretarla vuolsi il concorso de’ rappresentanti. Il potere postulante è affidato al patrocinio politico, che non è un congegno di Governo, ma una istituzione morale. Il potere moderatore compete al senato, composto di tre Camere: de’ giudici, de’ conservatori, de’ pacieri, destinati a toglier di mezzo le collisioni. A tutti sovrasta l’opinione educata e regolata.

A questi tipi si atteggerebbero l’ordine amministrativo, il giudiziale, il militare. Sovrana è la nazione, che si riserva sempre il potere di decretare, modificare, mutar la costituzione, conoscere quanto fa il Governo, e suggerirgli i provvedimenti.

Essa è la solidità di uno de’ poteri dello Stato, mentre all’altro potere spetta l’azione, cioè l’amministrazione tutelare; e al terzo l’opposizione, cioè il moderare il principato.

Stabilito l’antagonismo fra i poteri dello Stato, la Costituzione si riduce principalmente a regolarlo.

Avvezzato a’ Governi forti, il Romagnosi proscrive la divisione de’ poteri imperativi; non vuole che al re se ne tolga o diminuisca veruno, ma unicamente si cauteli l’esercizio secondo la necessità di far convergere l’interesse dell’uomo con quello del re. Tant’era lontano dall’assioma moderno che il re regna e non governa!

Il difficile consiste nel combinare la dignità della persona regia collo sviluppo progressivo e razionale della libertà, e colla irresponsabilità della persona stessa. Devesi conservare a base (egli pensa) l’autorità regia, e porle d’accanto, non in via d’attribuzione, ma in via di eccezione, la garanzia positiva costituzionale; il che però ha luogo quanto alla sola persona del monarca a cui fu affidato il pieno mandato di governare.

Il meccanismo del Governo non doveva togliere nulla nè alla provvida antiveggenza della legislazione, nè alla libera energia dell’amministrazione. A ciò architettava un sistema di pesi e contrappesi, che faceva assomigliare la macchina dello Stato ad un orologio, esatto quando le sue parti lavorano bene, guasto ad ogni piccolo sconcertarsi d’una di esse.

Il Romagnosi rifuggiva dalle massime invalse da poi, d’eterna gelosia verso il re; eppure, non ammettendo nè la sovranità popolare nè il diritto divino, non può che mettere i due poteri a conflitto. Se il re ha la piena sovranità, non si può che porgli argini affinchè non ne abusi; organizzare la naturale nimicizia fra il potere esecutivo e il legislativo. Ma que’ suoi contrappesi potrebbero mai far nascere la fiducia nel re? La storia poteva chiarirlo che l’integrità regia può benissimo modificarsi, e anche distruggersi, purchè rimanga l’integrità sociale. Le Costituzioni sono uno storico acquisto della democrazia sopra la monarchia, la quale venne a perdere i primitivi caratteri di diritto di conquista, poi di diritto divino, poi di proprietà, attribuitile successivamente; e le si surrogò la volontà generale, il concorrere di tutti a far le leggi e a governare. Laonde la Costituzione non è più una garanzia coattiva, bensì un naturale equilibrio de’ poteri; dove non più le classi, ma gli individui, sciolti da ogni privilegio collettivo e forti nella sola personalità, non soggetta a ragion di Stato, compiono ciascuno il proprio dovere, ed obbligano ogn’altro a compirlo.

Il rappresentante della nazione vorrebbe stabile: perocchè, se egli si confonde poi col cittadino qualunque nel suo futuro, non si hanno cauzioni della presente sua devozione alla causa nazionale; non garanzie dalle vendette e umiliazioni della Corte. Vorrebbe in conseguenza accentrare la maggior parte della rappresentanza legislativa in quelli che hanno cariche perpetue, annesse alla dottrina. E grand’importanza attribuiva al sapere e ai dotti, che di preferenza avrebbe voluto fossero scelti a rappresentanti della nazione. Ma conscio della brutale avversione del bel mondo contro chi sa, non vuol gettarli in braccio alle «infinite brighe di quella turbolenta genia di semidotti, tanto più attiva a importunare, a sedurre, a calunniare, a prevaricare, a servire, quanto è meno abile a governare. L’invidia pel vero merito, unita alla vulgare ambizione, attraversata da un concorrente superiore, getta disperatamente costoro nell’adulazione, nell’intrigo e in ogni sorta di furfanterie per soppiantare chi loro fa ombra».

Ad ogni modo trovava strano che, per esser avvocato, ingegnere, medico, si domandino un tirocinio e prove, ma nessuno per esser organo del popolo e legislatore. Le assemblee legislative devon essere composte di persone che sappiano quel che dicono e quel che vogliono; sicchè propone di non convocarle dapprincipio, bastando il senato e il protettorato e l’esercito, finchè nuove scuole, e personaggi, chiamati anche dall’estero, non abbiano educato i legislatori.

Un’altra necessità riconosceva egli, prima di adunar un Parlamento; che la nazione si fosse costituita, proclamando quella che egli chiamava etnicarchia, e noi oggi nazionalità50, cioè il possesso unito di tutto un territorio circoscritto da’ suoi naturali confini. «Il destino chiama oggi ogni nazione incivilita a costituirsi in corpo unico, regolare, indipendente, il quale, forte per resistere agli urti esterni ed interni, somministri agli individui, ai quali la natura accomunò bisogni, lingua, genio ed interessi, tutti i soccorsi economici, morali e politici».

Giudicava spensierato il chiamare alle elezioni «la disciolta moltitudine, invece de’ corpi comunali, che formano le vere unità elementari d’una incivilita nazione.... Colle nomine fatte dai Comuni, nei quali confondonsi le antipatie individuali de’ partigiani, si conciliano tutti gl’interessi pubblici e privati, e si comunica quel vero spirito pubblico che forma l’anima e la forza morale dello Stato»51.

Ogni Comune elegge a rappresentante un possidente, che n’abbia fatta domanda: i nomi sono spediti al capo dipartimento, ove ogni anno si estraggono a sorte quelli che dovranno sedere nell’aula legislativa. Supponete uno Stato di 2160 Comuni, qual era il regno d’Italia, e 120 deputati; solo in 18 anni sarebbero esaurite le borse, e solo allora si rinnoverebbe la generale elezione.

A queste elezioni, come a tutte quelle di impieghi, bisogna che uno si offra candidato. Ecco una gran differenza dalle Costituzioni odierne, come pure queste lunghe intermittenze agli immorali parosismi delle elezioni, e le interminabili cure per impedir ogni prevaricazione.

Alle donne si accordano la possidenza stabile, la fiducia commerciale; perchè non accordar pure i diritti civili? L’educazione primitiva intellettuale e morale non si otterrà giammai felicemente, se non vi si faccia concorrere la donna.

«Principio d’ogni Governo civile è che al merito sia libera la via d’ascendere, e sien adoperate tutte le utili ambizioni» senza badare a partiti e opinioni. Nel Parlamento siedono uomini passionati; bisogna dunque che le passioni de’ rappresentanti della nazione sieno illuminate sui veri interessi di questa. Quindi è duopo vengano preparati; e perciò siano stabilite la pubblicità e la libertà delle cognizioni e delle discussioni.

A’ suoi tempi non era ancora la stampa divenuta il prevalente potere. Pure egli la proclama libera «senza altri limiti se non quelli della verità e del rispetto dovuto a ogni genere di proprietà; fra le quali proprietà la più preziosa è la giusta stima altrui, cioè l’onore.... Quegli sconsigliati che piaccionsi d’un’incondita libertà, non si lagnino poi dell’ipocrisia, delle menzogne, alle quali i ministri son costretti di ricorrere onde porsi al coperto dall’inerudita libertà....».

È ciò che si ripete da cinquant’anni.

Nel suo eccesso di creare uffizj, avrebbe voluto che il Governo avesse egli pure un organo che dicesse il vero, il solo vero; accertasse le prove dei fatti, e smentisse le menzogne anche ufficialmente; fosse l’appello pronunziato dalla verità imparziale contro la calunnia e la maldicenza degli emuli e de’ nemici: cómpito difficile, ma non più che tanti altri giudizj, a cui il potere si tiene obbligato; nella guerra civile costituita dalla stampa sconfinata, assumerebbe la veste di piacere: proteggerebbe, com’è dovere del Governo, l’onore del cittadino: colpirebbe di vergogna il detrattore e di beffardo, che usurpa le divise di libertà e di franchezza; e salverebbe il Governo dal dover fiaccamente assentire a qualche denigratore, che ebbe l’arte di far echeggiare e sue dicerie, e di fingerle pronunziati popolari.

Le due più singolari istituzioni della sua Costituzione sono il Protettorato e l’Istituto.

Il Protettorato è un Consiglio centrale di venticinque membri, e d’un delegato per ogni Comune e per ogni reggimento di soldati. I protettori sono eletti, sovra loro domanda, dai possidenti di ciascun Comune, preferendo quelli che offrono di servire gratuitamente; compilano e conservano il censo personale e politico del Comune, i ruoli della guardia nazionale, le armi e le bandiere; hanno ispezione sulle scuole parrocchiali e sulle guardie nazionali; intervengono alle funzioni elettorali, ai Consigli comunali, alla leva; ricevono tutte le notizie e domande e querele relative all’amministrazione pubblica, ai delitti, agli arresti; danno opera che si provveda alle famiglie povere, agli stranieri, ecc.; son organi e tutori del Comune, degli stabilimenti e de’ cittadini presso il Governo. Congeneri uffizj ha il protettorato de’ militari.

Il grand’oratore, capo triennale di questo Consiglio, nomina i venticinque protettori e i loro uffiziali; presta il giuramento a nome de’ cittadini, esamina i rapporti de’ varj protettori, proclama le azioni segnalate civili e militari, le utili invenzioni, e implora applausi e ricompense.

Questo patrocinio politico non fa editti, non amministra, non giudica, non oppone un veto; ma udita qualche illegalità, ne raccoglie le informazioni, e se non vi provvede il ministro, ne porta querela all’alta Corte di giustizia. Oltre reclamare a favor de’ privati, copre i pubblici funzionari da illegittime diffamazioni.

Gli uomini rimangono colpiti da cosa comandata, più che da cosa dimostrata; e la decisione d’un corpo, reputato sapiente e imparziale, fa maggior effetto sopra uomini liberi, che non la stessa legge. Ma l’effetto deve esser uno e costante. Perciò richiedesi una aggregazione stabile d’uomini rispettabili, depositarj e cultori delle stesse massime e delle stesse dottrine; corpo imparziale e illuminato, le cui decisioni vengano assunte come autorevoli per finire le controversie; corpo indipendente dagli altri costituzionali, imparziale pel modo di sua formazione, reputato per lumi e zelo. Questa sarebbe la consulta di Stato. Mentre all’Istituto politico spetta la conservazione immediata della moralità nazionale, la consulta ha facoltà di promuovere leggi e interpretazioni: insomma ella versa sulla legge costituzionale, mentre l’Istituto versa sull’amministrazione relativa alla costituzione.

Quest’Istituto accademico politico, non per lucubrazioni scientifiche o lecornie letterarie, frutti d’individui isolati, bensì consacrato ai progressi e alla conservazione delle dottrine statuali, e a raccoglier le persone che custodiscano il deposito de’ dogmi politici, dilatasi in tutto il corpo della nazione e ne’ grandi centri, in numero indefinito, senza spesa. Ogni cittadino può intervenire alle adunanze come uditore; può domandare d’esserne socio coltivatore, poi, dopo un certo tempo e dopo prove di merito intellettuale e morale e civile, ricorre all’areopago per divenire consulente. Da quello scelgonsi gli eleggibili al patrocinio politico, all’areopago, al senato, sempre sovra loro concorso; e i consultori di Stato, i professori d’Università, i ministri.

L’Istituto ha un granmaestro a vita, escluso da ogni altro impiego o emolumento. Non potrà nè rispondere nè interloquire su verun atto particolare d’autorità costituita: bensì stendere i progetti d’interpretazione legislativa della costituzione, mettere a concorso temi politici, qualificare come contrarie alla costituzione o alle leggi certe dottrine promulgate da scrittori nazionali o stranieri.

Gli autori di opere meglio conducenti alla moralità pubblica si eleveranno a consulenti, e il corpo di questi potrà rispondere a quesiti, dubbj, difficoltà, proposte da professori o da funzionarj; tutti insieme devono promulgare certe dottrine, delle quali il Romagnosi esibisce lo schema.

Quell’Istituto è dunque un apostolato abituale. Non vi s’entra che dopo acquistata reputazione di scienza politica, massime collo sciogliere quistioni, messe a concorso dalla consulta di Stato.

Siffatta istituzione, che si deriderebbe in tempi ove la prima cosa che si rimuova è l’indagine della verità, verrebbe a determinare e regolare quel ch’egli chiama potere predominante; la pubblica opinione. Questa consta d’intelligenza e d’interessi: ed è una guisa di pensare uniforme e costante della maggior parte della nazione, che giudica una cosa buona o cattiva, degna di lode o di biasimo, giovevole o contraria alla prosperità. Nei legislatori, nel Governo, ne’ savj, questo modo di pensare deriva dalla conoscenza de’ principj; nel popolo è determinato dall’autorità o dall’interesse. Quando le cose sono coordinate in modo, che il cittadino, anche senza saperlo, desideri ciò che la legge prescrive, e seguendo la sua volontà eseguisca la legge, congiunge la maggior libertà colla maggiore docilità; riesce naturalmente virtuoso, patriotico, retto estimator del bene e del male pubblico o privato; se desidera stima, onori, applausi, non può scegliervi altri mezzi che quelli pubblicamente utili; talchè, essendo annestati la libertà, l’opinion pubblica, l’amore della gloria, formano il vero potere predominante.

L’istruzione pubblica egli restringerebbe alla sfera del servigio pubblico, al quale vuolsi preparar gli uomini nella repubblica. «L’ispezione della autorità, se dovrà esser tale da assicurarsi del buon esito dell’insegnamento, non dovrà esser tale da comprimerlo col governar troppo». E propone scuole «fondate e dirette dal Governo, ma senza ledere mai la libertà nè delle private società, nè delle famiglie», alle quali vuol si lasci lo scegliere quel maestro che più aggrada (pag. 354).

Nell’istruzione primaria l’ispezione sia affatto indiretta; «quando la legge abbia vietato gli usi indecenti e violenti, prevenuto le maniere che sconvengono al coraggioso e nobil vivere repubblicano, io credo nel resto debba riposare sull’industria dell’istitutore (pag. 353). Divider le classi per tutto il mondo, compassare l’istruzione co’ calendarj, vessare con discipline, del pari incomode a’ pubblici funzionarj ed agli allievi, come pur troppo si è praticato e si pratica, è pedagogia per l’oscurantismo e per la schiavitù» (pag. 354).

Nel divisare gli studj superiori, l’istruzione dottrinale, egli professavasi «preso dal più profondo sdegno e dolore pel loro stato odierno» e pel gran bisogno d’una pronta riforma di studj, e di una mano gagliarda per eseguirla.

Sono cinquant’anni che s’inculca questa urgenza: e la generazione educata al modo ch’egli deplorava è questa odierna, che sa tutto, ha letto tutto, sentenzia di tutto, sicura della propria infallibilità.

L’opera del Romagnosi è lunghissima, eppure non versa che sulla parte più eminente della costituzione, sul supremo ordinamento dei poteri dello Stato, ed egli stesso prevede che niuno ne rimarrà soddisfatto. Evidentemente aveva sott’occhio il libro di Beniamino Constant, che per alcun tempo fu il manuale del liberalismo negativo: che se il nostro non dimentica il diritto storico, dappertutto trapela come gli mancasse la pratica de’ Governi rappresentativi, allora affatto insoliti all’Europa latina: all’Inghilterra avemmo sempre la colpa di poco badare. Meglio conosceva egli l’assolutezza regolamentare dell’Impero, e in conseguenza troppo si fida ai decreti; mediante questi, pensa ottenere che nelle elezioni abbia sicura preferenza il merito; erige perfino un Istituto per assicurare il lavoro agli artigiani; provvede anche al caso de’ poteri eccezionali per guerra, per insurrezione, per invasione, per interregno, per resistere ad atti tirannici, e istituisce un comitato di provvidenza, formato d’uno del Consiglio di reggenza, uno de’ conservatori del senato, uno del Consiglio del protettorato, con pieni poteri.

Di quel libro pubblicò solo la prima parte; nella seconda modificavasi cogli insegnamenti del tempo, ma non la stampò mai, onde va noverata fra le disgrazie che toccano ad un autore, le opere postume: apparendo men riflessa, e ispirata alle idee invalse tra noi dopo il 1830; sicchè, accostandosi a Rousseau più che a Montesquieu, considerò che, quando il monarca si trova sotto la mano della nazione, il Governo ne è realmente repubblicano, sebbene la forma ne sia monarchica; e adotta il titolo di «Governo repubblicano nazionale rappresentativo».

Al postutto gli sta forse bene quel che Rousseau disse di Montesquieu, che concepì il potere diviso, al modo di chi dividesse l’uomo in parti, che una ha l’intelligenza, l’altra la memoria, l’altra la volontà. V’avrebbe influito la sua ammirazione per la statua di Bonnet?

Sul fine della vita sbozzava ciò in Discorsi, che, come pare, destinava per l’Istituto di Francia, onde è notevole l’importanza che vi attribuisce ai municipj. Assurdo, disastroso e nullo è ogni politico ordinamento, nel quale alle municipali unità non venga compartito il massimo de’ poteri locali, compatibili coll’unità della suprema amministrazione nazionale. Per questo solo mezzo si effettua il concorso degli individui, de’ consorzj e de’ Governi, costituente la politica e matura civiltà di una nazione.... Senza la pienezza delle municipali prerogative e il libero loro uso, il corpo dello Stato rassomiglia ad una macchina passiva, mossa malamente dal palazzo, la quale ti presenta una massa corpulenta, non una nazione animata e possente. Legate gli uomini al circondario da loro conosciuto e prediletto, e meraviglierete quanta stabilità acquista la monarchia. Migliori e più costanti amici mai non avrà un re, che i municipj amministrati a guisa di private famiglie.... È vano parlar di costituzione senza premettere l’ottimo ordinamento municipale, schietto e sgombro da incompetenti ingerenze».

Chi poi i Governi voglia guardare non tanto rispetto alle garanzie politiche quanto alla giustizia, eccellenti avvisi potrebbe raccogliere dalla parte prima della sua Genesi, sul prevenire i delitti. Riconoscendo che la forza non basta, la vuole sussidiata dalla politica, dalla religione, dalla convivenza sociale, dall’onore; le cui sanzioni cospiranti rendono un Governo veramente robusto. Il buon Governo si riduce ad una grande tutela delle giuste prerogative di ciascuno, accoppiata ad una grande educazione. La legislazione ha per oggetti generali e ordinarj l’attribuire azioni ed eccezioni esecutive, assegnare forme estrinseche onde esercitarle, impervi cautele sussidiarie. La prudenza politica è l’arte di effettuar l’utile d’una società civile entro i limiti del diritto e secondo la morale pubblica. Disgiungere la politica dalla giustizia sociale è il peggior servigio che rendere si possa ai Governi e ai popoli. La giustizia segnerà sempre il punto su cui riposano la sicurezza, la potenza, la bontà d’ogni umana operazione. La giustizia sociale non è diversa dalla moderazione politica. La politica esterna ed interna può ridursi al solo precetto di rispettare e farsi rispettare52.

Nell’impedire i delitti, gran parte doveva attribuire all’educazione, ch’è la prima, la perpetua, la più variata, la più importante delle arti umane. Abbandonando la domestica, la pedagogica, la scolastica e ogn’altra speciale, considera soltanto la assoluta e perpetua, e la ripone nel formare uomini che si occupino di cose utili, che tra loro usino i riguardi dovuti alla sociabilità, che si soccorrano ne’ bisogni; vale a dire, operosi, rispettosi, cordiali. Ma che a quell’intento credesse efficaci le complicazioni amministrative non pare, giacchè allegava volentieri come modello i Trentini, cresciuti in un regime municipale, sotto un piccolo principe, con norme e statuti alla vecchia, eppure morali, operosi, non mai bugiardi per proposito; allegava gli abitanti della valle di Colli presso Bobbio, tutti possessori di piccoli appezzamenti, senza arti industriali e senza possidenti estranei; niuno abitava in grotte o capanne, ma in case di pietra a due piani, vicine ma tutte separate fra loro; niun ricco, ma niuno mancava dello stretto necessario. Il tribunale stava sessanta miglia discosto, nè altra autorità risedeva nella valle che il parroco. Durante il giorno occupati, la sera i giovani ballavano, i vecchi cantavano le preci della Chiesa; semplicissimo il vestire, i fanciulli scalzi e in camicia; la contentezza su tutti i volti. Il Romagnosi non vi rinvenne ombra di delitto; incaricato di aggiustar alcune minute differenze, non trovò che alcuno asserisse un fatto falso o negasse un vero; «l’impressione da me allora ricevuta di questo consolante spettacolo fu così profonda, che non l’ho mai potuta dimenticare» (§ 1066).

E forse volea sottintendessimo che tale stato non era dovuto a congegni costituzionali, ad arzigogoli politici, a parolone de’ pugilatori della Camera e de’ giornali; e altra cosa che la politica volersi ad ottener quell’ordine sociale, nel quale sono respinte le ingiurie e pareggiate le utilità mediante l’inviolato esercizio della comune libertà, e quella facilitas imperii, che forma il voto supremo d’ogni savio Governo.


XV.


Come tutti i pensatori, il Romagnosi volea dare ai varj suoi scritti un concetto unico, facendoli convergere a due opere che aveva in progetto, la Filosofia civile e la Vita degli Stati; pure confessava: — Niun lavoro io lascio che comprenda un corpo d’intera dottrina, ma soltanto vedute fondamentali, la più parte concernenti la civile filosofia, e che servono di nesso, di complemento, e in parte di riforma a quelle che già esistevano».

Qual sentimento destava in noi allorchè ci additava il lungo stadio che gli rimaneva a percorrere, mentre lo vedevamo chinare a precipizio verso la fossa!

Fu il Romagnosi appuntato di oscurità. In taluno la difficoltà d’intenderlo sarà subjettiva, nata dal mancare del corredo di cognizioni convenienti a tanta sapienza, o dalla sciagurata abitudine delle frivole letture, che avvezzano gl’intelletti a scivolare sopra le cose, a foggia di ruscello che per ogni lieve inciampo svia e si spande ove più agevole trova il passaggio. È impossibile riuscir chiaro a chi non vuol essere attento; ma una stringata analisi, un cumulo di postulati, ardui complicamenti delle posizioni astratte, frequenti digressioni sul metodo; uno stile ch’egli medesimo confessa astratto, generale, compatto, rimoto dalla comune e più sensibil maniera di comprendere le cose, rendono faticosa la lettura del Romagnosi, che, nella sua aridezza impassibile ed algebrica, mai non esce con una di quelle parole che accelerano il battito del cuore. Egli, sollevato a tutta l’altezza della nostra età, riepilogava intero il passato, collegava sempre le nuove produzioni colle idee antecedenti, le riferiva tutte ad una mira: ravvicinava relazioni lontanissime, saltando i giudizj intermedi per afferrare ed esporre soltanto le idee capitali; onde troppo male può calcolarne l’accordo chi non abbia ben osservato e il punto da cui moveva e quello ove tendeva. Se contempli un pianeta a mezzo il suo cammino e per quel solo istante che passa pel tuo telescopio, pretenderesti scoprire le leggi del suo corso, l’inclinazione dell’orbita sua, le relazioni del suo moto col restante dell’universo?

Però chi cominciasse a leggere l’Assunto primo, passasse quindi all’ Introduzione allo studio del diritto pubblico, ove sono svolte le dottrine accennate nell’Assunto, quindi meditasse le Vedute sulla logica, possederebbe, se non tutte le dottrine del Romagnosi, almeno le definizioni ed il linguaggio, che sono la chiave del resto.

Qualvolta una cosa possa esprimersi in due maniere egualmente esatte, il preferire la più facile e chiara è preciso dovere dello scrittore; e il Romagnosi professava che il metodo migliore è quello che, nella maniera più breve, più facile, più proficua, porta le più certe cognizioni necessarie. Su queste parole si potranno certo condannare e la Introduzione al diritto pubblico, ove la stringata analisi e il cumulo delle definizioni e dei postulati affaticano la mente degli apprendenti, e la Genesi, dove la mancanza di lavori preparatorj lo costrinse ad inserire ogni tratto proteste, esami, confutazioni de’ metodi opposti, dichiarar parole e definizioni, riassumere l’esposto e quel da esporre, ripetere lo stato della quistione, digredire sovra proposizioni intermedie.

Egli confessavasi di tale difetto, ma lo credeva inevitabile a chi volesse il più possibile avvicinarsi alla dimostrazione matematica con un linguaggio tanto meno preciso, e far che «i principj procedessero armati di tutto punto colla forza della dimostrazione, e che a modo di stretta falange si facessero strada in mezzo ai pregiudizj ed alle opinioni interessate».

Il Romagnosi si pose cogli sperimentali fin quando giovanissimo studiò in Bonnet, e secondo il lento ma giudizioso metodo articolato di questo, compendiò la filosofia di Locke53. E nel metodo da lui seguito ne appare l’influenza; l’ipotesi sua della statua potè suggergli quella dell’uomo isolato, nella Genesi e nei discorsi sulla libertà e l’eguaglianza: come Bonnet, accumula dimostrazioni anche là dove l’induzione sarebbe bastata; come Bonnet, connette l’ideologia colla fisica, affine di trasportare, per via di somiglianza, la legge della necessità dai corpi alle operazioni dell’intelletto; come Bonnet, mostrasi più atto ad ordinare e abbracciar con logica robusta, che non a semplificare con analisi sottile. Pure quel metodo, che nella storia delle facoltà dell’anima riusciva monco se non dannoso, vôlto da Romagnosi a ridurre in pratica le astrazioni, apparve fecondo di sociali verità. Smoderata egli diceva la guerra bandita al sillogismo, che, se è inetto all’inventare, è indispensabile per connettere, convincere ed applicare i principj conosciuti; sicchè l’opera degli scolastici non si deve da capo a fondo rovesciare, bensì ravvivarla con largo filosofico intendimento. Però, come uom d’affari, cerca dettami positivi; studiando non l’uomo speculativo, ma l’uomo di fatto, e il pensiero vivo e attuantesi nel mondo. Illusorio è il vantato valore delle generalità al cospetto della vivente natura, ma bisogna stare alle nozioni intermedie assicurate, attinte dallo stato pratico, e adoperare una logica, che, per via di mezzi e di fini, scenda a gradi al livello dell’umana industria; e considerar la natura e la società non in astratto, ma in età, in luoghi e con tradizioni determinate, se vogliasi stabilire la scienza dell’utile e del giusto, che deve abbracciar la terra e camminare coi secoli. Senza ciò, si dà alle teoriche una disastrosa potenza, che pretende diriger le umane operazioni, trascurando quanto si oppone fra la sommità de’ principj e le operazioni assegnabili all’industria umana; sconosce o anticipa le opportunità, e, nell’intento del bene, opera il peggio.

Con tale metodo entrato a studiar l’uomo, non adoperò l’analisi dissolvente, per cui sarebbe duopo pigliarlo sin dalla concezione, e sconvolgere affatto le società costituite, senza rispettare gli affetti e le istituzioni più sacre. La filosofia fu per lui la conoscenza delle cose per via delle cause assegnabili; lo studio della mente umana, una grande storia ragionata della coltura intellettuale de’ popoli, operata dalla natura; la filosofia civile, una cognizione de’ principj che dirigono l’umanità al meglio realmente ottenibile per via delle cause coordinate a colta e soddisfacente convivenza: cognizione non dedotta da platoniche preordinazioni, ma capo d’arte da effettuarsi dall’industria umana, a norma di positive e reali necessità. La religione, l’agricoltura, la socialità non apparvero agli occhi suoi come fenomeni della specie umana, ma siccome fattori dell’incivilimento.

Così studiando la dottrina dell’umanità sperimentalmente al modo che soglionsi le altre parti dello scibile umano, ne ravvisava l’economia divina in armonia col sistema fisico dell’universo. L’unità centrale e la continuità e connessione d’effetti e di cause, ond’è regolato l’andamento vario e progressivo di questo, devono essere la norma degli atti umani per divenire utili; giacchè a questa legge suprema sono sottoposte egualmente le opere dell’ingegno e della mano, le fisiche e le morali, le esteriori e le interne, quelle de’ singoli uomini e delle popolazioni.

Questo non era metodo che potesse guidarlo a capitali scoperte: nè egli pretese essere collocato fra i genj creatori, o fondatore della filosofia civile. Quante volte si applicava il Non veni legem solvere sed adimplere! quante volte dichiarò che le opere sue non erano se non una direzione degli studj d’apparecchio!

Contendendogli la gloria di inventore, nessuno esiterà a confessare che, a qualunque parte degli studj accostossi, vi portò incremento, e v’introdusse l’ordine, che era il carattere della sua mente.

Montesquieu, e più regolatamente Bonnet, aveano già insegnato come alla necessità di dirigere i mezzi al fine dovessero darsi per appoggio le relazioni reali della cosa: già altri aveano trovato la genesi morale della pena nel diritto della difesa diretta o indiretta, e posto per misura di essa la necessità di contrappesare il vigore e la qualità dell’impulso criminoso. Poi svegliandosi, nella seconda metà del secolo passato, la pubblica ragione, declamazioni di oratori, argomentar di filosofi, ordini di sovrani, eccitamenti d’accademie, sopratutto i lavori delle assemblee di Francia aveano diffuso grandi lumi sul diritto penale, talchè il Romagnosi trovossi spianata innanzi la strada. Pure sommo merito è il suo d’aver afferrata tanta estensione di cognizioni, osservatele da sublime punto, vagliate con critica severa, ridotte infine ad una compatta unità.

Se la psicologia non fece progredire, la filosofia di Condillac fondendo con quella di Locke e di Bonnet e con qualche principio di Hume; se la sua dimostrazione dell’esistenza dei corpi non è nè nuova nè concludente; se soverchiamente complicate appajono le facoltà, le astrazioni, le emissioni intellettive, dimostrò per altro come le logie individuali non racchiudono che la prima metà della scienza, deducendo da qui la necessità di studiare l’altra nelle diverse relazioni della società, nella quale si sviluppa la ragionevolezza, frutto dell’educazione, della convivenza, dell’incivilimento; e quindi d’associare la psicologia individuale colla scienza sociale, connettendo la logica pura, dalla quale risulta la sicurezza del raziocinio, col progressivo magistero della mentale attività; e consolidare i principj che dirigano l’educazione dell’intelletto.

Antichissimo canone del diritto è far convergere la privata colla pubblica utilità54. Che chi governa troppo governa male già lo sentivano i negozianti francesi quando, interrogati da Colbert che cosa potesse operare a lor vantaggio, gli risposero: — Lasciateci fare». Adamo Smith, piantando sull’interesse individuale la comune prosperità, avea proclamato la libera concorrenza: aveva, come altri economisti italiani, accennata l’intima connessione della politica economia colla giurisprudenza. Il Romagnosi, questi principj conformando alla sintetica ragione italiana, ne fece splendide applicazioni all’ordine pratico, stabilendo che la libertà personale non deva limitarsi senza un fatto positivo autorizzato dall’ordine di ragione; e che l’uomo non serva mai all’uomo, ma solo alla necessità della natura e al proprio meglio.

Quanto alla ragione ed alla filosofia civile, Hobbes, erigendo l’arte sociale sulla scienza dell’uomo, e considerando il diritto come null’altro che una forza utilmente diretta, le leggi del giusto un lento trovato della ragione pel meglio dell’umanità, e la politica l’arte di frenare l’indefinita forza dell’amor proprio, avea gettato i semi di molte delle dottrine svolte dal Romagnosi; altre erano state poste in pieno giorno da Grozio e Puffendorf: Vico avea preso da più alto le mosse, per accennare le guise, onde l’uomo dallo stato eslege entra nelle vie progressive della civiltà. Pure l’unità centrale ed il necessario concatenamento di cagioni e d’effetti non erano stati abbastanza cercati, talchè i punti più rilevanti per determinare il pieno ed assegnabile scopo della scienza e dell’arte sociale poteano dirsi assunti ma non provati; la civile convivenza davasi per facoltativa; l’agricoltura non era elevata a rigoroso dover naturale: non dimostrata la legge dell’opportunità nell’umana perfettibilità; non tradotto esso principio della necessaria conservazione nel principio della socialità, nè questo in quello della civile potenza dello Stato. Lo fece il Romagnosi accostando alla pratica dell’arte sociale le astrazioni del diritto; cercò le leggi della perfettibilità nella società qual ella è effettivamente, affine di ottener la progressione del giusto; e poichè senza la storia razionale dello sviluppo dello spirito, del cuore e dello stato politico è impossibile sodare un sistema di morale, di legislazione, di governo conforme alla ragione, acconcio alla pratica, giovevole alla potenza ed alla prosperità, perciò estesissime relazioni di secoli e di paesi richiamò a pochi principj di fatto o di ragione.

Anche il corso delle nazioni era stato considerato da altri, e massimamente dal Vico; ma questi seguitava colla giurisprudenza l’andar delle sociali necessità soltanto come astruso contemplatore della storia. Altri studiosi ultrametafisici presero la dottrina dell’umanità non come fondo, ma come guida definitiva, creando la storia positiva a lor talento, e vagando in un aereo indeterminato. Il Romagnosi mirò a ridurre le speculazioni in leggi necessarie ed in precetti di scienza: onde non s’arrestò, come il Vico, allo splendore de’ secoli più acclamati, ma, conforme al movimento impresso agl’intelletti dalle rivoluzioni del secol nostro, cercò la trasmissione ed il risorgimento attraverso i tempi più foschi, ed offerse non il tipo storico ideale delle civiltà come il gran Napoletano, ma il normale effettivo, predicando col fatto come colle parole che il valore della sapienza voluta dalla natura, consiste nell’opera proficua. Quindi, dopo avere con un sistema concatenato posata la ragione de’ progressi dell’umanità, insegnò ad agevolarli traducendo la scienza che conosce in arte che effettua, e nè superstizioso adoratore degli antichi, che scrissero poco e favoleggiarono molto, nè ligio a’ moderni, che scrivono molto e ragionano poco, non solo continuò la scuola della filosofia civile, costantemente mantenuta in Italia traverso a disastri d’ogni maniera, ma la ristaurò col nuovo metodo di associar la morale, la politica, l’economia, la giurisprudenza, la psicologia, per cercare natural fondamento ai diritti umani ed alle loro garanzie.

Che se misura della robustezza d’un ingegno è la costanza ne’ principj metodici, la quale non può nascere che da profonda meditazione, eminentemente ne dovremo lodare il nostro maestro. Le dottrine della giurisprudenza le trovi applicate all’economia, sviluppate nella filosofia; una scienza viene a rinfianco dell’altra; tutte sono coordinate a quel sistema, ove sinonimi sono resi prosperità e giustizia. Ebbe egli a ripetermi come dalle dottrine da lui stabilite gli fosse occorso più volte di vederne derivar conseguenze non prevedute, ma non mai d’aversene a pentire o ritrattare. Eppure viveva in tempi di violento cozzo fra le teoriche, di stolte e sapienti, di delire e generose pratiche, fra le quali non è piccola lode che non siansi invecchiate le dottrine del nostro pensatore, e che rimanga siccome rappresentante della scienza, elevata al livello del secolo.

Dopo ciò che accennammo parlando della Genesi, non fa mestieri ripetiamo qual cosa essenziale crediamo mancare ai principj suoi55. Altri derida pure questi sentimentalisti, questi platonici, i quali suppongono ciò che non cade sotto i sensi; ma se la dottrina nostra ci dà spiegazione anche di quello che indarno in altre cerchiamo, grand’impresa avrà alle mani chi ci vorrà indurre a lasciare il certo per l’incerto, se non vogliasi dire il vero pel falso. E nel pensar nostro viepiù ci assodava il vedere come lo stesso analitico Romagnosi si trovasse non di rado condotto a supporre alcun che più lontano, recondito, superiore. Volle con Hobbes far della giustizia nulla più che l’espressione d’un calcolo d’utilità, basato sulle inalterabili relazioni delle cose; ci diede l’uomo automa di Bonnet e Condillac, tutto sensi, tutto cómputi d’amor proprio: pure, ben comprendendo come ciò non valga a spiegare lo slancio, il sagrifizio, che fanno affrontare le beffe, la mitraglia, le pesti, il patibolo, dovette ricorrere al caso, alla fortuna per imprimere quell’urto che solo fa procedere. Nella scienza dell’uomo dovette supporgli un istinto per la verità e pel meglio. Nella storia, riconoscendo la necessità d’una trasmissione, senza cui credeva che l’uomo, astrattamente perfettibile, non potesse giungere ad attuale perfezione, dovette ricorrere ad ignoti educatori, che da ignota terra recassero il sapere, e soli veggenti fra gli uomini ciechi, inventassero e culto e leggi e giustizia. Dunque supporre una ragionevolezza tradizionale, dunque supporre un tradizionale linguaggio: — il linguaggio! questo spiegateci, innanzi d’averci assicurato che tutto crolla dinanzi alla vostra analisi sterminatrice.

Possente dialettico, forte al generalizzare, giudizioso e tranquillo nell’ordine, alle scienze civili, legali, economiche propose sempre un fine eminentemente sociale, e di convertire in arte la dottrina; abituò a vigorosi sforzi l’intelletto, che non acquista bene se non quando acquista a fatica.


XVI.


Allorchè leggiamo le opere di insigni e benevoli pensatori, amiamo figurarci sieno stati in grand’estimazione presso i contemporanei e vicini, adoprati a servigio dello Stato, il quale ha bisogno di profittare di tutte le abilità. L’esperienza mostra il contrario, e già Bacone avea notato che le idee comuni vengono encomiate dal pubblico, le mediocri gli strappano l’ammirazione, le sublimi gli sfuggono.

Il Governo italiano utilizzò il Romagnosi; ma in tempo di tanto sfarzo, di pingui stipendj, di gloriose distinzioni, non ne fece meglio che un impiegato. Gli si assegnò una cattedra speciale a Milano, ma l’aveano un Salfì, un Giani, un Anelli, un Morali ed altri mediocri. Invitato a dare un piano d’istruzione, nel 1807 scriveva al Bramieri: — Io sarò probabilmente regio ispettore generale degli studj politico-legali di tutto il regno»; ma nol fu, non ottenne un titolo, non la decorazione della corona di ferro, che non mancò a tanti, così da meno di lui; «ma avrei temuto (ripeteva sovente) di non poter più essere altrettanto creduto, quando avessi portata sul petto una medaglia ».

Il Governo austriaco ignorò sempre il documento del Machiavello, che gli uomini prestanti bisogna o spegnerli o carezzarli: e si sarà forse ascritto a merito l’accettar gli articoli di lui in un giornale da esso retribuito. Nessun principe gli mandò una croce o gli chiese pareri: solo un tratto lord Guilford l’invitò professore a Corfù; un milanese, che non era lui, fu scelto a compilare il Codice Penale pel Canton Ticino, un altro il Parmense56: l’Istituto Italiano prima, nè il Lombardo-Veneto poi, non l’annoverarono fra’ loro membri, e nessuna delle insigni accademie; quella di Francia se lo aggregò negli ultimi suoi anni, ma diè prova di non sapere quali opere avesse fatto57.

Quelli che erano stati suoi colleghi e suoi inferiori, vide mantenersi a galla, e salire coll’arte di chi sa mutare vela al mutar del vento. E poichè coloro che pretendono la libertà di cambiar opinione non sanno poi tollerare chi persevera nelle sue; e i partiti credonsi sempre traditi da chi non li serve al modo ch’essi vogliono, avran tacciato di utopista a vicenda e di ritardatario quel che non camminava con loro. Soliti tedj, pei quali, chi è geloso della indipendenza di atti e di pensieri si riduce a farsi solltario nelle popolose città, esule nel proprio paese.

Dai libri non ritraeva che scarsamente, e scriveva al Bramieri: — Ho fatto meravigliare questi nostri stampatori (di Piacenza) palesando loro che l’accordo fatto con quello di Pavia è di L. 10 di Milano il foglio in-4°.». Intende della Genesi del diritto penale, che, dopo la prima stampa del 91, riprodusse a Pavia nel 1807, poi non più fino al 1824 a Milano, quando corresse e aggiunse le ultime due parti. Le altre opere sue non furono ristampate se non al fine della sua vita e dopo morto.

Dicono difficile il far accettare un soccorso a nobil animo. Ma invece d’infliggergli l’umiliazione d’un sussidio, quante maniere di mascherarlo, di convertirglielo in titolo di compiacenza! Un ospitale inganno avrebbe potuto preparargli l’abitazione presso un ricco che mostrasse bisognare de’ suoi pareri; si potea chiedergli consultazioni legali e retribuirle; si potea raccomandargli giovani ricchi, che andassero attingere benevolenza e generosità dal colloquio d’un vecchio venerabile per età, per carattere, per sapienza; potea darglisi la lusinga più dolce a un autore, ristampandone le opere, e comprandone tante copie quante si farebbe d’un romanzo francese. Un amico, un buon negoziante che non la sottigliava colle raffinatezze della buona società, Luigi Azimonti, sapeva e trarselo in campagna, e fargli trovare la biancheria occorrente, metterlo a parte del vino comprato, della ciocciolata allestita, e fargli accettar denaro come supposto compenso di lavori letterarj o legali. Oh sì: le anime alte sono disdegnose, ma il bel mondo gode deprimerle, e arrogarsi, se non altro, la superiorità del poterle compassionare58.

Nè il Romagnosi si lamentava. Coll’indipendenza d’uno spirito che non cerca se non il vero e il buono, e non interroga le dicerie, ma la coscienza propria e la comune, sapeva e diceva che gli applausi popolari non toccano al genio, condannato alla logica severità; pure «l’importanza de’ suoi studj credeva tale, che sarebbe riconosciuta da chi non si fa un dovere d’insultare una grandezza che umilia». Ciò non vuol dire che restasse indifferente agli attacchi; e parmi vedere ancora il fino sorriso con che un giorno mi segnò a dito nelle Famiglie celebri del Litta queste parole: — Pur troppo nella nostra Italia il cicaleccio degli sfaccendati, mentre prorompe in continui lamenti sulla mancanza di virtù civili, perseguita poi con maligno accanimento que’ rari uomini, che con nobili imprese si consacrano al bene de’ loro concittadini».

Amava la lode: oh! lasciate questo tenue compenso alle tante espiazioni che la implacabile mediocrità infligge a ogni coraggio, a ogni talento che la mortifica: e che, chi operò unicamente in vista del bene, si allieti della lode come d’un trionfo delle idee da lui propagate. Considerava come assicurato il suo posto nella generazione presente e nelle avvenire, sicchè dissero avrebbe veduto d’egual occhio se, chi veniva a guardar la gran bestia, gli si fosse buttato a ginocchi, o gli avesse stretto confidenzialmente la mano; ma ciò che cento volte asseriva, di non avere sentito stimolo alcuno d’ambizione, lo provò col non cercare di soddisfarla col piaggiar ai potenti, nè, ciò ch’è ancor più raro, ai bassi dispensieri della fama. Persuaso che la forza non decida d’ogni cosa, fra’ disastri confidava nel progresso; ne seguì attento le vie, tutto sperando dall’opportunità e dalla continuità, disapprovando l’egoismo moderno che, fantasticando cose nuove, pretende veder improvvisati quegli avanzamenti, cui si arriva solo colle spinte innovatrici del tempo e colla prudenza. E non è poco il saper correggere il secolo senza esecrarlo, scostarsi dalla ciurma senza conculcarla, soffrire senza discredere.

Facea meraviglia il sentirlo ragionare facondo e continuato sopra disparatissimi soggetti con tal prontezza ed ordine, che si sarebbe detto, e’ legge; con profonda persuasione animando la voce e il gesto senza perdere la dignità. Soleva egli ammirare ne’ classici statisti italiani, sovra tutti nel Machiavello e nel Paruta, il materializzare le proposizioni in guisa, da porle quasi sottocchi, e scolpirle indelebilmente nella memoria.

«La fame e la povertà fanno gli uomini industriosi; le leggi li fanno buoni. — Quel nome del franco stato, che forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, merito alcuno non contrappesa. — Il popolo molte volte grida, Viva la sua morte e muoja la sua vita. — Sempre una mutazione lascia lo addentellato per la edificazione dell’altra». Questi e somiglianti modi citava egli spesso, e non di rado allo stampo di quelli foggiava i suoi concetti.

Chiamò la filosofia di Kant una crisalide aristotelico-cartesiana colle gambe in aria. Raccomandava di studiare nei sommi non solo per trarne dottrina, ma con fiducia di migliorare il loro modo di vedere, giacchè un fanciullo sulle spalle d’un gigante vede più del gigante stesso.

«Soldi e soldati (diceva altre volte) regolano il mondo.

«La civiltà cammina in carrozza.

«Dire che l’uomo coll’associarsi rinunzia alla sua indipendenza, è come dire che l’infermo, col prender il chinino, rinunzia alla sua febbre.

«Le storie per lo più non ci presentano che una folla di ingiurie recate al genere umano dall’ambizione e dall’ingordia».

Gli ordinamenti romani, de’ quali era ammiratore, paragonava a quell’architettura antica, ove non facea mestieri di cementi e chiavi per regger insieme le parti, ma si sostenevano per la propria massa. La costituzione inglese eragli una facciata col basamento gotico, il primo piano romano, il solajo alla barocca. Chiamava i Francesi, manifattori de’ pensieri altrui; e se si accorre generalmente a loro anzichè alle fonti, non è meraviglia, giacchè più gente trae agli orafi che alle miniere. Agli Italiani attribuiva come dote somma il buon senso, e, quando non siano corrotti da fittizie istituzioni, l’ammirabile potere della coscienza, che sublima il carattere di questa nazione, nata a regere imperio populos. Essi in fatto, diceva, quattro volte ebbero l’imperio del mondo: quel della forza co’ Romani, della religione coi papi, del commercio colle repubbliche, finalmente delle arti e del sapere. All’incontro vedeva dalla Spagna esser derivati sommi mali all’umanità: l’intolleranza religiosa fin da Itacio, le false decretali, l’Inquisizione e corporazioni prevalenti sull’educazione e sulla politica.

Narrava come, ai tempi suoi, i giovani andavano per consiglio ai sapienti, cioè non pubblicavano cosa prima d’averne avuto parere con provetti; e lagnavasi che più così non s’adoprasse in oggi.

Suggeriva un dizionario, ove a ciascuna suddivisione dello scibile umano si accennassero gli autori che n’aveano trattato; sommo ajuto ai nostri tempi, quando è già una scienza il conoscere quelli che di ciascuna scienza scrissero.

Meravigliavasi ancora che, mentre abbondano scuole ove con lungo tirocinio addestrarsi nell’arti belle, così scarsa cura si adoperi nell’estendere le cognizioni della civiltà.

Vissuto nei tempi del maggiore sobbollimento d’Europa, veduti casi e persone che formeranno epoca, chiamato ad osservare in atto i congegni degli Stati, aveva avuto e campo e volontà di studiare i sentimenti, i raziocinj, gli atti, cioè lo sviluppo religioso, scientifico e pratico della società, ed imparato a giudicare al vero dei casi, degli uomini, dell’umanità. Quindi avea tratto una sicura e grandiosa maniera di valutare i politici eventi, sorvolando alle minuzie per coglierne i supremi risultamenti, e stimarne il merito morale e la politica ragione. Quindi ancora una salda fiducia ne miglioramenti sociali, e sapeva avvertirli anche traverso agli apparenti disastri; ma conosceva del pari che un altro indizio dell’egoismo moderno è la sfrenata fantasia di cose nuove, che pretende immediati i progressi, cui si arriva solo con movimento continuato ma insensibile, col tener occhio alle spinte innovatrici del tempo, deducendone una prudenza, che guida le necessarie e non precipitate riforme, senza disperar mai della Provvidenza.

Mostrando però come le anime generose devano temperare il proprio ardore e transigere col lento svolgersi dello spirito pubblico, non dimenticava che, nei gravi momenti della patria, il giovane che si avventa nei pericoli senza calcolare se il suo sangue sarà utile, è più stimabile del freddo ragionatore, che s’asside fra le rovine esclamando: — L’avevo predetto».

Consentaneo a ciò, sostenne senza vanità le cariche; con virtuosa rassegnazione tornò alla povertà; nè mai trescò con coloro che per ignobili vie tendono a nobile meta: tanto in ciò più lode vole, quanto il camminar a piccoli passi reca una specie d’affanno a chi si sente capace di percorrere di slancio la via.


XVII.


Han detto che l’uomo di esteso intelletto non è di forte memoria. Il Romagnosi è una delle molte eccezioni che io ho conosciute. Han detto che le facoltà mentali non si ampliano se non a scapito delle facoltà del cuore. Altra consolazione dell’invidia. Il Romagnosi, amò i vicini, amò quel che gli fu servo buono e fedele; amò la sua terra natale, e a Carlo Botta non sapea perdonare d’aver qualificato i Piacentini superbi ed arroganti59; e se gli accidenti non gli consentirono le dolcezze domestiche, dalla sua famiglia restò separato di corpo, non d’affetto, la soccorse finchè n’ebbe agio; anche ridotto alla pensione di mille ducencinquantacinque lire, parte ne erogava a sostentamento d’una sua sorella, alla quale volle si continuasse tale sussidio anche quando carcerato. Il resto, cogli scarsi ritratti delle consulte e dei lavori letterari, gli bastava al vivere misurato. Negligeva la domestica economia; e senza punto alterarsi, se il servo una mattina gli avesse detto, — Oggi non v’è da comprare il pranzo», gli avrebbe tranquillamente dato l’oriuolo da metter in pegno, e sarebbe continuato a studiare.

Con qual bontà accoglieva chiunque! e l’abbiamo veduto credersi obbligato a rispondere a lettere e interpellazioni direttegli da persone affatto sconosciute, da giovani appena usciti dalle scuole. In disadorne camere a un terzo piano, davanti a un lento fuoco o ad un tavolino con due candele di sego, il venerando vecchio noi giovani accoglieva colla famigliarità d’un padre, sebbene coll’autorità d’un maestro: e col senno di chi molto ha vissuto temperava la baldanza di chi tutto spera.

Conservò benevolenza di condiscepolo per Melchior Gioja, e negli ultimi loro anni li vedevamo trattarsi con ischietta cordialità e con quella vivace benevolenza, che sembra privilegio della giovinezza. II Gioja venerava nell’amico il profondo pensatore, del quale era capace d’apprezzare e le innovazioni portate negli studj comuni e una precisione di metodo, ben più concludente del suo. Il Romagnosi desiderava nel Gioja un fondamento positivo alle asserzioni, esattezza logica, retta deduzione, costante riverenza per le civili libertà: e quando mancò ai vivi, ne stese la biografia con benevolenza pur non dissimulando come, sagace nell’osservare e nel cogliere concetti singolari da singolari fatti, non seguitava un’esatta deduzione dagli effetti alle cause, e nel coordinamento dei mezzi al fine; esaminava con discernimento più che non assumesse con totalità e raccogliesse con proposito; mal appropriava le formole algebriche alla morale60: deferiva soverchiamente al Bentham e agli utilitarj: era insomma acuto nei frammenti, ma negletto nel tutt’insieme: intento più ad istruire immediatamente che a meditare posato.

All’osceno spettacolo delle prepotenze de’ fiacchi, le anime serie cadono in una stanchezza melanconica, che degenera in amara e incancellabile tristezza: ma tutto ciò è ben altro dal codardo suppor male dove può spiegarsi bene, dallo sparlare di tutto e d’ognuno; turpe retaggio degli animi corrotti e de’ caratteri infiacchiti. Il Romagnesi da giovane scriveva al Bramieri: — È una delle mie massime che, quando si presenta qual cosa che possa spiacere, si deva chiarirsene tosto, o per ottenere una giustificazione, o per accertarsi dell’animo di chi ha a fare con noi. Io lascio alle anime deboli il cedere alle prime impressioni, e nutrire nell’oscurità e nel silenzio il risentimento, senz’avere mai il coraggio o di chiarirsi o di prendere apertamente il loro partito».

Lontano da quella che in alcun luogo chiamò virtuosa bile dell’adulta austerità, da quella diffidenza, da quel mistero di cui amano circondarsi certe fame incontrastate, generalmente giudicava benigno, mostravasi paziente, benevolo: offendeasi di chi pretendesse trovare ne’ suoi scritti allusioni ingiuriose, ripetendo che si dee predicar il Vangelo e risparmiare i peccatori: chi gli toccasse della sua prigionia, rispondeva, sapere che la giustizia umana non può essere infallibile, e che troppo spesso, come dice Tacito, è gran pericolo una gran virtù.

Quanti io ho inteso piagnucolare della censura d’allora, come avesse soffogato il lor genio, impedito i loro parti! Egli sorridendo acconciavasi a certe precauzioni di mera forma, a cambiare un aggettivo, a usare una circonlocuzione, e fin in un giornale stipendiato dal Governo, la Biblioteca Italiana, sapeva conservare la dignità come può sempre un cittadino, che non asconde nè il proprio nome, nè il proprio pensiero.

Aveva alcuni amici a prova di bomba, com’egli s’esprimeva, che il nominarli eragli una dolcezza ed ebbe e settarj e persecutori, due genìe fatte per rendere famosi.

Quel suo faticare senile ci convinceva che il tempo è elastico, e più se ne fa, più può farsene; e noi, scrivendo, dovevamo sempre domandarci, — Che ne dirà il vecchio?» Che se v’era tra noi chi non sapeva se non ammirare ed incensarlo, altri discuteva con lui stesso le sue dottrine, e non temeva offenderlo col presentargli le objezioni; ed egli chiariva le proprie tesi, compativa, discorreva, giudicava, confutava, applaudiva; ci confortava contro que’ fischi, da cui, come la locomotiva, comincia ogni ardito movimento. Così un tempo i paladini invecchiati sedevano ne’ tornei, guardando con tenerezza e stima la gioventù, le cui prodezze pareano rinnovellar le loro, e consolavansi rinascesse nella nuova generazione il valore della passata.

Cercava anche avvezzarci a scoprire il vero e il durevole sotto la parola fugace e a bella posta menzognera de’ giornali; a veder come il fatto medesimo sia nei diversi diversamente esposto, e lodato o biasimato, e dedotte illazioni identiche da opposti principj, od opposte da principj identici. È grand’utile l’estendere l’arte di leggere bene nella odierna complicazione di interessi; perocchè questa conduce a capire che l’utile e il giusto son una cosa sola.

Ed è bello il ricordare come egli, per regj decreti escluso dalle cattedre, lasciasse una scuola, che sarebbe riuscita utile al sospirato riordinamento italiano, se uno strano avvicendarsi fra i calcoli di Turquaret e gli entusiasmi di Don Chisciotte, e lotte brutali, e l’animalesca nimicizia delle forze bastarde contro la legittima dei pensanti, e la mutua intolleranza, non l’avessero in parte soffogata, in parte sviata tra i partiti, tutta sparpagliata in conati impotenti perchè isolati; mentre pure conservò qualcosa di comune; lo schermirsi dagli intrighi de’ petizionanti come dalle seduzioni de’ fortunati; il venerare i principj, malgrado la vulgare idolatria per la riuscita; quella franchezza applicata alla letteratura come alla politica, per cui si riconosce il bene anche negli avversarj, si disapprova il male anche negli amici; quel largo liberalismo che consiste nel rettificare le idee, invigorire i caratteri, sanare le abitudini, onde trovarsi padroni di sè quando non s’abbia più padroni.

Se, com’è detto in sant’Agostino, vero cristiano è quegli che usa misericordia con tutti, non lasciasi turbare da ingiuria veruna, si duole de’ patimenti altrui come de’ suoi proprj, non comporta che il debole sia oppresso, e allo sventurato soccorre, tal possiamo dire sia stato il Romagnosi. Certe postume declamazioni di amici e di nemici l’han fatto passare per un empio, dimenticando che la religione è un’eccelsa piramide, la cui cima si asconde fra le nubi, ma ai pensatori è concesso esplorarne la base e misurar le proporzioni. Altri il foggiarono da martire dell’inquisizione ecclesiastica. Chiariamo i fatti. Qualche zelante denunziò la sua Genesi del diritto penale alla Congregazione dell’Indice, che, come ogni altro tribunale, accetta le accuse e le pondera. È suo canone, spiegato massimamente dal breve 15 luglio 1751 di Benedetto XIV, che, qualvolta si tratti di autore cattolico e in buona fama, gli si usino tutti i riguardi, e vengangli comunicate le imputazioni e sentite le discolpe. Per mezzo di monsignor Opizzoni, arciprete del Duomo, nel novembre 1827 furono dunque additati al Romagnosi varj passi dell’opera sua; ed egli, grato ai generosi riguardi co’ quali veniva onorato dalla Sacra Congregazione, si sentì in dovere di corrispondervi con la dovuta venerazione e lealtà, ed espose le giustificazioni, o spiegazioni che vogliano dirsi, assicurando quel consesso della profonda sua venerazione61. Il qual consesso, «dopo diligentemente esaminate le osservazioni e spiegazioni sopra le proposizioni censurate, ne commendò la sommessione e il rispetto, sol consigliando, pel caso di ristampa, alcune aggiunte spiegative».

Fu bello della persona, e se ne compiaceva; la sua testa richiamava quella di Leonardo da Vinci, con piccoli e vivi occhi, che palesavano l’attitudine a veder pronto, giusto, lontano, ma non gli diminuivano l’aria di bontà. Fin dall’aprile 1812 era stato tocco d’apoplessia, di che gli rimase sempre difficile il portar la persona. Più aggravavasi invecchiando, ma la mente conservava serena, e solo in sul finire temeva come la peggior disgrazia il sopravvivere senza poter pensare o lavorare. Dio gli risparmiò questo avvilimento, e presente a sè, e confidente in ciò che avea fatto di bene e scritto di vero, la notte verso l’8 giugno 1835 si ricongiungeva alla Prima Cagione. Noi lo circondavamo, addolorati come alla morte d’un padre, e mestamente riflettendo come, di tanti lumi nella mente, di tanta bontà nel cuore, di tanta potenza negli atti, non gli restava più che un Crocifisso. Da quello avrà nella vita dovuto più volte ritrarre coraggio per sopportare l’iniquità e la noncuranza degli uomini; da quello attinse forza di morire perdonando, e fiducia di morire perdonato, presentandosi con quel benedetto segno sulla fronte al giudizio di giustizia e di misericordia.

Volle esser sepolto nel cimitero di Carate, dove più volte avea ristorato la salute coll’aria balsamica della Brianza, colla schietta amicizia dell’Azimonti, colla calma così cara all’uomo che declina.

I discepoli gli eressero nella Biblioteca Ambrosiana una statua, quando tale onore non era per anco sparnazzato a una plebe di celebrità. Queste si dimenticheranno; il Romagnosi resterà finchè gli eredi conservino gratitudine ai predecessori; sarà studiato da chi ami invigorire l’intelletto contro la dominante cascaggine, e sarà più capito e meglio valutato quando cessi l’odierno ecclissi del senso morale.




  1. La riconoscenza sua verso il cardinale Alberoni volle mostrare sul fin della vita tessendone un elogio, nel quale il figliuolo dell’ortolano salito ministro della Spagna e ricchissimo porporato, è da lui giudicato con indulgenza soverchia, fin a scusare le guise non sempre dritte, per le quali divenne oggetto dell’ammirazione, poi dell’ira de’ potentati: indulgenza riprovevole in istorico, ma indizio d’animo grato.
  2. II prevosto Tononi in una breve biografia del Romagnosi, dice: — Nella piccola società Piacentina, oltre le questioni di eloquenza e sui poemi, e le ricerche sui grandi letterati che ebbe il paese, trattavansi in dotte ed erudite dissertazioni de’ problemi più difficili che riguardano i principj e le conseguenze delle sociali discipline. Il professore Grazioli vi ragionava del miglioramento dalle scienze e dalle arti arrecato ai costumi dei popoli, e confutava il paradosso di Rousseau che volle far vedere il contrario. Il socio dottor Gaetano Parolini manifestava le sue ricerche sul primo principio del diritto naturale e sui diritti dell’uomo. L’avvocato Bonzi dava un saggio d’introduzione alle scienze morali, cercando un unico ed universale punto di partenza sì pel diritto naturale come pel poetico, sì per la ragione canonica come per la civile giurisprudenza. Gaetano Godi, discuteva sulla pena di morte, e supponendo nella civile società il diritto d’infliggerla, proponeva di emendarne l’abuso e renderla meno frequente. In tale argomento il socio ragiona pure della punizione dei delitti e dei vantaggi che la repubblica si propone nell’esercitarla, e tre ne enumera: 1.° l’emendazione del colpevole; 2.° l’impedirgli che rechi ulteriori danni alla società; 3.° l’allontanare coll’orror della pena gli altri cittadini d’imitarlo. Bianchi mostrava la virtù pubblica, necessaria alle monarchie del pari che alle repubbliche. Cattanei discorreva sopra una storia ragionata delle opinioni sparse fra le nazioni. Gervasi esponeva le sue indagini sull’istruzione dei sordi-muti, dove rivela una serie di fatti ed importantissime riflessioni tratte dalla filosofia delle lingue. In quella società si dissertava liberamente e con profondità delle diverse forme di governo, de’ temperamenti necessarj alla monarchia affinchè non si cangi in dispotismo, dell’origine e dei fondamenti della suprema potestà; sulla tortura esaminandosi i pensamenti di Filangeri e di Beccaria, sul culto esterno in rapporto alla morale e alle vicende della nazione; intorno alla lingua primitiva, al colore degli Africani, all’educazione popolare e fin delle donne, e di molte altre quistioni».
  3. Lettera 29 novembre 1802 al Bramieri. Accennasi un suo discorso accademico sull’Amor delle donne, 1793, ove confuta Elvezio che volea farne il motor precipuo della legislazione; e dove non fa che riprodurre le idee di Schmit nella dissertazione sull’Amore e gelosia (Essays, Londra, 1776).
  4. Rousseau, servile alla filosofìa di Locke, che sconosce l’essenza della ragione e tende a sopprimere il libero arbitrio, suppone che l’uomo nasca senza i due attributi necessarj della ragione e della libertà morale. In conseguenza deve subito venir a cozzo co’ suoi simili, essendo incapace di resistere all’istinto. Non può dunque esser moderato che da un patto, conchiuso co’ suoi simili, per togliersi all’anarchia e alle miserie dello stato di natura. Finzione assurda, ma inevitabile qualora nell’uomo, oltre l’intuizione sensibile delle cose e la coscienza d’un’energia propria, non si riconosca un’intelligenza che si esercita secondo certe regole e un’attività libera.
  5. Ben altrimenti Rousseau avea detto: L’ordre social est un droit sacré, qui sert de base à tous les autres: cependant ce droit ne vient point de la nature; il est donc fondé sur les conventions.
    Come può esser diritto ciò che non viene dalla natura? Poi, o l’ordine sociale è necessario al ben essere dell’uomo, e il fatto non sarà che l’attuazione d’un ordine naturale: o non è necessario, e non potrà mai servir di base agli altri diritti. Oggi la dottrina del patto sociale è affatto scaduta; ma non meglio regge quest’altra di Kant: — Essendo i diritti naturali dell’uomo inerenti alla sua natura, essi da per tutto l’accompagnano: anche fuori della società ne gode, e lo stato sociale non ha altro scopo che quello di garantirli». Con ciò restano destituiti di base i molteplici diritti che nascono dallo stato sociale e in forza di esso, ed autorizzato ogni arbitrio fuori dei meschini limiti qui segnati. Giambattista Vico già aveva fatto fondamento dei diritti la naturale socialità dell’uomo.
  6. Vedi il capo V, art. I della parte V. Più sono sviluppate queste dottrine nell’Assunto primo.
  7. Le due parti, che trattano del prevenir i delitti, e del modo d’applicare i principj riguardanti l’esercizio del diritto penale, furono aggiunte solo nell’edizione del 1823.
  8. Assunto primo, § IX.
  9. Non prima di Alberto De Simoni: della cui opera Sui delitti di mero affetto il Romagnosi scrisse una critica.
  10. «Il diritto penale compete alla società unicamente in forza dei rapporti dell’avvenire». § 241.
    «Parmi dimostrato, il diritto penale non essere altra cosa fuorchè il diritto di difesa, modificato dalle circostanze sociali, ossia una specie del diritto generico di difesa». § 332.
    Nel capo XIX fortunatamente si contraddice, ammettendo che il prevenire può esser lo scopo, ma non la causa del diritto penale; che si previene collo stabilire una sanzione, cioè col retribuire male per male; «col parlar alla mente, onde agire sulla volontà, in modo che la forza repellente della pena temuta vinca la forza impellente del delitto immaginato». § 338.
    E più esplicitamente al § 982: «Come havvi una sanzione penale, havvi pure una sanzione remuneratoria. Tanto i mali quanto i beni hanno una forza morale, valevole a provocare certi atti, ad impedirne certi altri».
    Il profondo sentimento suo del vero fa che talvolta ripudii la teorica della semplice difesa, come quando nell’introduzione esclama: «Quanto è desiderabile all’ordine sociale quell’accordo, in cui il reo, all’atto di subire la pena, dice a sè stesso: Io me la sono meritata, e lo spettatore pronuncia ch’ella è giusta! Questa voce, sollevata dal sentimento indelebile di approvazione pel giusto e pel vero, proprio dell’essere intelligente e morale, è l’accordo della stessa natura».
  11. «Non è iniquo che io sagrifichi il benessere di un altro per la necessità di conservare il mio; come non lo è che egli, per la stessa ragione, faccia lo stesso rapporto a me; quindi la vittoria e la conservazione mia, che io ottengo coll’uso della forza mia, son cose sempre lecite. Ecco il diritto della necessità». § 26.
    «Quando l’innocenza viene dalla necessità sacrificata al pubblico interesse, evvi sempre fra la nazione e l’innocenza un urto di diritti in senso contrario, il quale fa sì, che qualunque esito della forza venga giustificato». § 262.
    «Anche nel caso che siavi necessità di sacrificare un innocente alla pubblica salvezza, la nazione resta sciolta dall’obbligo di risparmiarlo». § 274.
  12. Anche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo leggevasi: — La legge non deve stabilire che pene strettamente ed evidentemente necessarie».
    Secondo gli hegeliani, la pena è un atto legittimo del potere sociale in quanta restringa la libertà quanto e come è necessario per la rintegrazione dell’ordine sociale.
  13. Il Romagnosi contiene tutta la dottrina di Feuerbach, che fu pubblicato solo nel 1799; eppure il signor Hèlie parla continuamente del Feuerbach e mai del Romagnosi; neppure il nome ne proferì Pellegrino Rossi, benchè in un capo intero lo confuti.
    Romagnosi, il 14 settembre 1830 scriveva a Valentino Pasini: — Del libro del Rossi non ho letto se non l’articolo dell’Antologia di Firenze. L’impressione che mi rimasta si è che, in ciò che il Rossi aggiunse del suo nella teoria fondamentale che serve come di antecedente al diritto penale, non vedesi che rapsodia, illusione e controsenso. Leggasi Cicerone, leggansi gli autori di morale teologia sul preteso diritto naturale platonico, e si vedrà la rapsodia. L’illusione poi sta nel capovolgere una dottrina che racchiude un problema di dinamica morale, nel quale tutti i partiti devono concorrere, ed un problema di diritto che si può dimostrare. Nel primo si tratta di far giocare forze ripulsive contro forze impulsive: nel secondo di far valere la giustizia. Il controsenso poi del tutto mostruoso del Rossi si è quello del preteso consenso del genere umano, accoppiato col modello del jus naturale platonico, e questo controsenso è stato altamente spiegato perfino da Cicerone, il quale dall’opinione e dal fatto pratico delle genti abborrisce di dedurre le regole del jus naturale.
    «Ma ciò che rende abbominevole questa teoria del Rossi, si è che con questo pasticcio si fomenta realmente un ateismo morale ed un arbitrario infinito. Tutte le volte che i dettami non sono sanzionati colla impreteribile necessità della natura si dà luogo all’arbitrario.
    «Non mi fa meraviglia che il Rossi non citi neppur una volta il mio libro della Genesi. Come esso incominciò colla sua prima lezione in Bologna, così pure prosegue anche in Ginevra. Baldassare Poli si ricorda ancora d’uno schiaffo datogli da un condiscepolo, perchè sostenne che la prima lezione udita in Bologna era rubata di pianta dal Filangeri e dalla mia Genesi. Quanto il mio libro è conosciuto in Germania, altrettanto è sconosciuto dal pubblico francese. Il Rossi quindi aveva un bel giuoco pel suo genio plagiario.
    «L’Antologia di Firenze ha fatto troppa grazia ad un nativo italiano al quale punto non cale del suo paese nativo. Ottima quindi reputo l’idea sua di rivedere il pelo a quel libro, onde rendere più popolari i buoni principj. Giovine come ella è, potrebbe per la prima volta prodursi con onore. Faccia pur lei il suo articolo, e lo faccia in proprio nome, perchè chi critica deve mostrare il viso, ed io, se le piace, lo rivedrò prima della stampa».
  14. Discorso dell’Agente Morale Massimo.
  15. A mia istanza, l’illustre fisico Giuseppe Belli esaminò quella esperienza nella Biblioteca italiana tomo IIC, p. 62, cercando indovinare in quali condizioni si fosse posto il Romagnosi per far l’esperimento, e conchiuse che a nessun modo il movimento dell’ago poteva essere prodotto dall’azione elettro-magnetica di una corrente del genere delle azioni considerate da Oerstedt; dubita perfino se l’azione fu elettrica, o non anzi meccanica. Solo pargli notevole l’osservazione sull’attrazione col filo bagnato, che poteva soccorrere a mostrar l’identità del fluido galvanico con l’elettrico.
  16. Nell’Assunto primo § VI e XIX, definisce la libertà «la facoltà di andare esenti per parte di qualunque esterna potenza da opposizione nell’esercizio dei nostri doveri». È un aspetto negativo, mentre la libertà è l’energia propria dell’uomo.
  17. In quell’occasione furono, dalla imperiale stamperia di Roveredo, stampati versi italiani, latini e in dialetto trentino, con questo titolo: Pel felice ritorno da Innsbruk dell’illustrissimo signor Gian Domenico Romagnosi ex pretore di Trento, e consiglier aulico d’onore di S. A. R. vescovo e principe di Trento, a significazione di sincero giubilo dell’innocenza riconosciuta, si pubblicano le seguenti poesie. Melchiorre Cesarotti compose un’epigrafe latina, e scrisse lettera al Romagnosi come a poeta, esortandolo a dedicarsi di proposito alla conversazione delle Muse, che sono le più care consolatrici de’ guai della società, ecc.
    Fortunatamente il Romagnosi non adempì il voto del professore, e dopo un primo tentativo, fece divorzio dalle sante Muse. Che se i lettori fossero curiosi d’aver un saggio del suo verseggiar, riferiremo alcune strofe del Pervigilio di Venere.

                   Ami domane
                        Chi non amò;
                        E ancor chi amò
                        Ami domane.
    Nuova e canora sorgere
         Già vedi primavera;
         In primavera il nascere
         Fu dato ad ogni sfera.
    In primavera accordano
         Gli amori le lor voglie;
         Nido nuzial gli aligeri
         In primavera accoglie, ecc.


    Altri versi fece per occasione, meschini. Più volte noi si rideva del poco suo gusto poetico, pel quale a Manzoni preferiva l’abate Pozzoni.

  18. Le opere di Hobbes sono intitolate Philosophia civilis, e il Vico nel Proloquium de Univ. jur. etc., dice: Philosophia.... quatenus agit de repubblica, de legibus, doctrina civilis appellatur, quæ per doctrinam de virtute, de justitia, de doctrina morali progignitur. Anche in Quintiliano troviamo civilis scientia (II, 15 al fine): ma più precisamente Isidoro, nel II Orig. 24, distingue la filosofia in ispettiva e attuale: l’ispettiva dividesi in naturale, dottrinale e divinale: «Actualis dicitur quæ res propositas operationibus suis explicat, cujus partes sunt tres, moralis, dispensativa et civilis. Civilis dicitur per quam totius civitatis utilitas administratur».
  19. .... Doctrinas, quæ in opinionibus hominum positæ sunt, veluti moralibus et politicis. Cogitata et visa.
  20. Vedute fondamentali, ecc. Lib. II.
  21. Parole del rapporto ministeriale 11 dicembre 1806, che accompagnava il progetto.
  22. Vedi lo stesso rapporto.
  23. Ultime e più necessarie aggiunte e riforme al progetto del Codice di procedura penale del regno d’Italia, Milano, 1806.
  24. Codice di procedura penale pel regno d’Italia. Brescia, Bettoni, 1807. Edizione ufficiale di XXXII e 315 pagine in-8.°.
  25. Erano De Lorenzi, Luini Giacomo, Canova, Silva, Bellani, Nani, Raffaelli, Ragazzi, Sanner, e segretario L. Luosi.
  26. Collezione dei travagli sul Codice Penale pel regno d’Italia. Brescia, Bettoni, 1807. Volumi 6, in-8.°.
  27. Gl’incaricati erano Guicciardi senatore; Smancini consigliere di Stato e prefetto dell’Adige; Negri presidente della Cassazione; Compagnoni, Romagnosi, Valdrighi.
  28. Progetto del Codice Penale pel regno d’Italia, riveduto dalla Commissione istituita da S. A. I. il principe vicerè con decreto 30 agosto 1808, sesta redazione; senza data, ma è della stamperia reale del 1810.
  29. Lettera del gran giudice 24 agosto 1810. Trovo un’altra lettera di Méjean al Romagnosi del 26 febbrajo 1808, ove gli accusa ricevuta d’un importante lavoro sul Codice Napoleone. Non so qual sia, se pur non lo sbagliasse coll’accennato progetto.
  30. Col decreto 7 dicembre 1810 eransi aggiunti al Codice di procedura 89 articoli, coi capi XIV e XV riguardanti la Riabilitazione e la Prescrizione.
  31. Decreto 18 gennajo 1809. Nelle scuole speciali, sistemate dal decreto 15 novembre 1808, in Milano erano professori, oltre il Romagnosi, Porali di chimica; Gianni d’ostetricia; Monteggia d’istituzioni chirurgiche; Paletta di anatomia; Salfi di diritto pubblico e commerciale nelle relazioni dello Stato cogli esteri; Anelli d’eloquenza pratica legale; Morali di lingua e letteratura greca; Bossi Giuseppe pel disegno e le grandi teoriche della composizione. Il Romagnosi aveva annui franchi 3000 come professore, e 2000 per gli altri uffizj. Dava le sue lezioni in piazza de’ Mercanti, nel luogo delle antiche scuole palatine.
  32. 19 maggio 1814.
  33. Negli Italiani Contemporanei, vol. II, pag. 131. Ivi sono le prove e i documenti di molti fatti, che qui nudamente recammo.
  34. Decreto presidenziale 24 settembre 1822. «Da’ processi essendo risultato che professa de’ principj che non permettono gli sia affidata l’istruzione della gioventù, S. E. il conte presidente dell’I. R. Governo è venuto nella determinazione di dichiarar cessata l’autorizzazione d’insegnare come maestro privato».
    Ne aveva patente dal 18 novembre 1819.
  35. Decreto 14 novembre 1826.
  36. Per esempio, di Massenzio egli fa un grande e redentore della nazionalità italiana, per raffacciarlo al depresso Costantino.
  37. A Pellegrino Rossi pareva non ancor venuto il tempo di unire la giurisprudenza e l’economia. Eppure già s’è fatto col riconoscere sotto allo scambio un’associazione tacita: e in conseguenza da regolare colle leggi dell’associazione.
  38. Già su questi tre elementi facea fondamento il Gioja nel Nuovo prospetto delle scienze economiche.
  39. Come ciò si combina coll’indefinito progresso, da lui in altri luoghi sostenuto al modo di Condorcet?
  40. Nel libro citato io pretesi con pochissime linee sciogliere problemi, a cui egli consuma lunghe pagine.
  41. L’ingegnere Giuseppe Merlo, morto in Milano il 28 aprile 1829, fu valente matematico e idraulico. Oltre un lavoro giovanile stampato sull’Uso della tavola parabolica per le bocche d’irrigazione del De Regi, ne lasciò uno importantissimo sulle curve, in cui, mediante un solido immaginato da lui, e chiamato disfeno, non solo tutte le coniche, le quali sembrano fra loro isolate, vengono fuse in un tutto connesso e continuo, ma sono pure dimostrate molte altre curve di rilevante uso pratico. Alla Condotta delle acque aggiunse una memoria per risolvere questioni sull’uso delle acque, specialmente nelle irrigazioni dei fondi regolate sugli orarj.
  42. Che cos’è la mente sana?
  43. Prometeo, Iside e Osiride, Ercole, Orfeo, Bacco, Manco-capak, Mama-Oella, gl’Incas nel Perù, i Gesuiti nel Paraguay.
  44. Vedilo nella guerra di Troja e negli Arabi moderni, lo studio dei quali importa non poco a ben conoscere un certo stadio della civiltà.
  45. Ciò è simboleggiato in Codro e Tarquinio, ultimi re di Atene e di Roma.
  46. Montesquieu non mostrò tener conto dell’opportunità, che pure è il solo operante in natura nel tempo e pel tempo; talchè, a sentir lui, le varie forme di reggimento potrebbonsi a capriccio adottare e sovvertire. Romagnosi sentiva con Platone che le leggi non vengono fatte dagli uomini, ma dall’andamento dei tempi. Onde il Vico De uno univ. juris, ecc. § 9: «Si cum Platone dixeris opportunitatem esse rerum humanarum dominam, uti vulgo dicunt fortunam, non piane erraveris». Grande importanza parmi, nel presente bollore della società europea, il raccomandare questa legge dell’opportunità, nè è estraneo il qui riferire alcune parole di Lessing nel libro già citato: «I progettisti gettano spesso un guardo aggiustato sull’avvenire, ma non sanno poi aspettarlo. Vogliono che questo avvenire sia accelerato, anzi accelerato da essi medesimi; vogliono effettuare nell’istante dell’esistenza loro le cose, cui natura impiega migliaja di anni. In fatto, che pro ne torna ad essi, se il meglio che prevedono non arriva mentr’essi vivono?... Cammina ad insensibili passi, o Provvidenza eterna: solo non permettere ch’io disperi di te perchè insensibile il tuo procedimento: non permettere ch’io disperi di te neppur quando il tuo passo mi paresse retrogrado. Non è vero che la linea più breve sia sempre la retta».
  47. Romagnosi dava colpa all’autore della Storia delle repubbliche italiane di non aver alla fine riassunto quel che sparsamente avea dello intorno alla condizione dell’industria e del commercio ne’ varj Stati italiani, e sulla potenza e le relazioni esterne di esse. Il Sismondi, al quale io non tacqui tale critica, ne convenne pienamente; e manifestava alto concetto del nostro Romagnosi, sebbene mai non fosse stato con lui in corrispondenza. Sarebbe stato desiderio del Romagnosi che qualcuno esponesse in ristretti quadri i secoli della coltura italiana, comprendendovi le arti meccaniche, liberali ed intellettuali, che servissero di repertorio per gli studiosi, ricordassero ai nostri l’eredità de’ maggiori, e persuadessero la gioventù ad essere italiana, pensatrice, operosa e concorde, per salire al primato, certamente serbata dalla natura alla patria di Dante, di Machiavelli, di Galileo.
  48. Pochi ancora sanno vedere come aumento della libertà popolare la fondazione dell’impero in Roma: nè questo è il luogo d’addurne le convincenti ragioni. Anche Romagnosi non lo teneva se non con certe restrizioni. Del resto, alcune opinioni manifestate pubblicamente da me, intorno alla decadenza ed al risorgimento d’Italia, discordi affatto dal Romagnosi, aveano avvivato una disputa fra me e quel sommo, e se il non aver io acceduto alla sentenza del maestro fosse arrogante ostinazione, il pubblico lo potrà decidere.
  49. Inseriti nel marzo, aprile e maggio 1833 della Biblioteca italiana, a proposito della Storia degli antichi Italiani del Micali, sopra la quale e sopra i vasi scavati a Canino dal principe Buonaparte molto studio abbiamo fatto insieme.
  50. P. II, 1. I, c. 19 e seg.
  51. Discorsi.
  52. Spigoliamo volentieri questi passi per contrapporli a chi considera il Romagnosi come un mero utilitario. Nella nuova edizione della Genesi confutò Bentham (§ 1009 e seg.), mostrando come, undici anni dopo ch’egli, il Romagnosi, avea proclamato tutt’altre massime, si fosse fatta conoscere la costui dottrina dell’utile, ch’egli chiama sterminato assurdo.
  53. Questo compendio, fatto a 18 anni, è tra’ suoi manuscritti.
  54. «Unum debet esse omnibus propositum, ut eadem sit utilitas uniuscujusque et universorum: quam si ad se quisque rapiat, dissolvetur omnis humana consociatio». Cicerone. E sant’Agostino, Città di Dio, 4, 4: «Remota justitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?»
  55. Il dott. Alessandro De Giorgi, che fece l’edizione di tutte le opere del Romagnosi (Milano, 1840 e seg.) in otto grossi volumi, e vi pose l’affetto e la prevenzione di chiunque faticò sulle opere d’un grande, dichiara che, anche nell’opera principale, «ad ogni tratto s’incontrano delle proposizioni, che, prese isolatamente, mal reggerebbero alla prova dei fatti o di solidi argomenti; ma il senso di esse, quando a molte altre si ravvicinino, riceve il più delle volte delle modificazioni». E soggiunge: «Qualche opinione dell’autore chiaramente esposta, e in tutta l’opera ammessa, parvemi indubitatamente falsa». Noto è come lo confutassero il Rosmini, e con insistenza il padre Tapparelli.
  56. Il Codice del Cantone Ticino fu principalmente opera dell’avvocato Marocco milanese. Alessandro di Russia aveva dato ordine alla Commissione sopra il Codice che, in ogni dubbio, ricorresse a Bentham. Vedi Papers relatives to codification and public instruction, 1817.
  57. Al qual onore mostrossi riconoscente mandando ad essa Accademia una Memoria sui modi onde preparare uomini di Stato, e poi lasciandola, per testamento una grandiosa medaglia col suo ritratto egregiamente balzalo a cesello, che fu collocata fra i ritratti di due altri insigni italiani, Ennio Quirino Visconti e Lagrangia.
  58. Ecco documenti dolorosi. Nell’agosto 1806 scriveva al dottor Serventi banchiere a Parma: — Dalla qui unita lettera del Ministro di Giustizia del Regno d’Italia V. S. Ill.ma comprenderà che io sono chiamato colà per essere consultato e che ciò deve cadere fra pochi giorni. La maniera colla quale l’amministrazione ha scemato l’onorario stabilito ai professori non mi ha lasciato a disposizione nemmeno un soldo onde fare il viaggio. Io abbisogno di 400 lire (franchi 100) che certamente potrò restituire entro sei mesi col conveniente frutto. V. S. Ill. ma può prender tutte le più accurate informazioni per sapere se io sia uomo da mancare alla mia parola.
    «Senza mediatori, e colla più aperta fiducia ricorro a Lei, conoscendo la sua maniera di pensare. Uso di una lettera perchè non avrei coraggio a farlo in persona. Ad un favore di un prestito ordinario Ella unirà un tratto di beneficenza abilitandomi ad un fatto a cui sta annessa la mia riputazione e la mia fortuna. Ho l’onore di dichiararmi Div.mo ed obb.mo servitore G. D. Romagnosi».
    Poi segue l’obbligazione; ma essa rimase nelle carte del banchiere fino al 1822, quando gli eredi ne domandarono l’estinzione. E il Romagnosi mandava i 100 franchi il 29 gennajo 1823, scusandosi se «assorbito allora in lavori legislativi, la mia memoria non si accordò cogli impulsi del mio cuore».
    Si hanno, fra altre, due lettere che Luigi Azimonti scriveva all’Angiolino Castelli l’agosto 1834, dicendo sapere che il Romagnosi, allora nella villa d’esso Azimonti a Carate, non era tenuto abbastanza pulito d’abiti e biancheria, perchè non ne aveva a sufficienza. Gli facesse dunque fare quattro paja mutande e due paja calzoni per cambiarlo ogni giorno, senza ch’egli lo sapesse, e così curare «la proprietà de nostro patriarca».
  59. Bolla chiama il cardinal Alberoni «superbo ed arrogante, insomma tale nella disgrazia quale nella prosperità, indomabile piacentino». Del resto al Romagnosi non poteva geniare lo storico, che scevera così totalmente i casi politici della vita morale ed economica degli Stati.
  60. Un solo esempio ne tolgo dalla prefazione alla Teoria del Divorzio, pag. V, VI. «Leggi, diritti, doveri, contratti, delitti, virtù non sono che addizioni, sottrazioni, moltipliche, divisioni di dispiaceri e dolori, e la legislazione civile e penale non è che la aritmetica della sensibilità».
    Il Romagnosi discordò pubblicamente dal Gioja rispetto alla suddivisione della proprietà.
  61. Le opinioni sue intorno alle relazioni fra la Chiesa e lo Stato espresse nella Scienza della Costituzione.
    — L’unità della religione è sempre un gran bene per uno Stato. Ma essa non è veramente un bene, se non quando la religione stessa serve o servir può al bene dello Stato colla sanzione da lei prestata alla morale pubblica e privata, e colla associazione del ministero religioso col ministero politico. Dico l’associazione, e non dico la soggezione. So quanto importi ai popoli l’aver un estremo appoggio contro il dispotismo illimitato: e io considero la religione come il vero palladio della vita civile.
    «Quando le cose siano costituite in modo, che una religione sia, e quanto alla sua dottrina e quanto al suo ministero, veramente sociale, io son d’avviso che un ordinator d’uno Stato, trovando il suo popolo imbevuto di una credenza sola, debba esser sollecito a conservare e proteggere quest’unità, pensando che qualunque alterazione sarebbe politicamente nociva.
    «Quando parlo della conservazione e della protezione non voglio autorizzare nè la coazione nè l’intolleranza; ma soltanto raccomando la tutela politica dell’unità. Io escludo quindi la predicazione e il formale proselitismo d’una nuova setta. Escludo il pubblico esercizio d’una diversa setta di stranieri domiciliati, rispettando in essi la libertà delle loro credenze, e ammettendoli a partecipare di tutti i diritti civili e politici.
    «In breve io difendo l’unità della religione dominante di fatto, come una mia proprietà preziosa, senza offendere o invadere la proprietà altrui.
    «Circa la dottrina io mi congratulo coll’Europa nella quale predomina il cristianesimo, perchè vi trovo le più favorevoli disposizioni dal canto dei dogmi morali ad iniziar l’opera d’un governo nazionale. Quella religione, la quale collo stesso precetto e colla stessa forza ha santificato il dovere di dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio; quella religione la quale ha comandato che ogni anima ubbidisca alle autorità superiori, che ha inculcato di rispettarne i divieti consacrando la spada della giustizia; quella religione che, astenendosi dal canonizzare esclusivamente una data specie di governo o una data forma di amministrazione, volle lasciare le nazioni libere a piegarsi alle esigenze dei luoghi e dei tempi, nate da quella suprema o varia economia colla quale la provvidenza divina governa le genti; quella religione, dico, ha in sè quanto conviene per venir in sussidio della più equa e provvida legge costituzionale.
    «Qual è quel pastore, il quale, insegnando e inculcando dal pulpito e dal confessionale i doveri verso Dio e verso il prossimo, ricusasse di predicare e di inculcare anche i doveri verso il principe, verso la patria?
    «Uno dei primarj titoli del cattolicismo è il soccorso dei poveri. Nulla v’ha di più consacrato dalla antica, media e nuova disciplina di questo titolo....
    «Sono di parere che negli Stati cattolici la religione stessa debba servire, non solo come mezzo morale, ma eziandio come mezzo economico ad alimentare l’istruzione primitiva popolare».
    Nell’occasione della censura qui sopra accennata ebbe opportunità di spiegarsi meglio:
    «Altro è il ministero religioso, ed altro è il politico del sacerdozio. In qualità di ministero religioso, il sacerdozio goder deve una pienissima immunità, e ubbidire a Dio e non agli uomini, come gli apostoli dichiararono alla sinagoga. Ma dall’altra parte, come sostenersi potrebbe l’indipendenza religiosa del sacerdozio, se non venisse stabilita nello stesso tempo quella dei fedeli rispetto al politico governo? È forse possibile che il pastore diriga un gregge, se altri nello stesso tempo ha il diritto di sottrarlo alla sua direzione? Or fingasi che si ammettesse nell’autorità politica il diritto di comandare una religione diversa da quella professata dal sacerdozio, o di frapporre impedimenti o discipline contrarie alla libertà religiosa; a che si ridurrebbe il sacerdozio?
    «Ma dall’altra parte io ho propugnata la libertà di coscienza, unicamente a fronte dell’autorità politica, e nulla più. Dunque consta positivamente ed ocularmente che io ho essenzialmente difeso la esistenza stessa della Chiesa a fronte dei Governi, e quindi l’unico e massimo fondamento dell’autorità stessa del sacerdozio.
    «La immunità religiosa del sacerdozio è immedesimata con quella dei fedeli. Dunque per primo ed essenziale fondamento si deve porre l'immunità e spontaneità di credenza nei particolari, onde poi stabilire l'immunità direttiva nei sacerdoti. E siccome i mezzi autorizzati dal ministero religioso non possono nè debbono essere che morali e mai violenti, così il sacerdozio legittimo non si può trovare mai in lotta giuridica nè co’ credenti, nè co’ governi.
    «Poste questo premesse, parmi anzi doversi ringraziare la Provvidenza divina per avere attribuito al Sacerdozio una potenza irresistibile e conforme alla dignità dell’uomo! io voglio dire il potere d’una spontanea credenza e di una opinione vittoriosa. Il credere non liberamente è un controsenso.
    «La cosa cangia d’aspetto sotto di un dato rapporto parlando dei sacerdoti, allorchè dessi si pongono allo stipendio dei governi, ed assumono il carattere di funzionarj politici. Allora il sacerdozio diviene una funzione pubblica, e i membri di lui contraggono la qualità d’impiegati dello Stato. Allora essi debbono essere preparati e sorvegliati concordemente allo spirito ed alla unità del governo, onde servire alla cosa pubblica.
    «Or qui noi sortiamo dalla sfera delle dottrine religiose, e però non si tratta più di materia censurabile coi principj puramente religiosi ed evangelici, ma la quistione diviene unicamente di diritto politico naturale. Dall’altra parte io non posso credere che il Reverendo Relatore voglia ammettere la solita accusa data al sacerdozio cattolico, di volere introdurre lo scisma politico, e di erigere una sovranità mondana, rivale di quella dei Governi. Questa accusa sarebbe, pur troppo, fondata tutte le volte che, assumendo il sacerdozio come ministero pubblico, si volesse sottrarlo alla suprema ispezione dello Stato.
    «Ora nel mio libro che cosa si trova? Che, parlando della libertà di coscienza, io ne ho sempre trattato in linea di diritto naturale e pubblico, e nei rapporti fra il cittadino ed il governo, e però che in sostanza io ho sostenuto la libertà religiosa della Chiesa rispetto ai governi. Venendo poi ai sacerdoti, io ne ho parlato nel solo caso nel quale il sacerdozio assume le funzioni di ministero politico, e non quando è puramente religioso, come, per esempio, egli era nei primordj della Chiesa cristiana. La lettura dei §§ 1168, 1174, 1180, è positiva, lucida e senza equivoco. Nel detto § 1180, specialmente leggonsi le seguenti parole: «Se infatti il ministero loro venga considerato e trattato come una pubblica funzione, come potrebbe mai un Governo illuminato e provvido tralasciare di prepararne gli agenti?» Si noti poi, che io non dissi che il Governo debba prepararli piuttosto in modo mediato che immediato, vale a dire coll’intervento concordato della superiorità ecclesiastica, o senza di tale intervento».

Note

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