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Scipione Ricci
Gabriele Malacrida Giandomenico Romagnosi


Ultimo generale de’ Gesuiti era stato Lorenzo Ricci: e i re, secondando bassamente lo spirito persecutore de’ liberalastri, cui non era bastato abolisse quella Compagnia, vollero che il papa tenesse prigione esso Ricci, il quale era reo di averla difesa sino all’estremo, e preferito vederla perire, anzichè consentire a snaturarla.

Restava a Firenze suo fratello Corso, il quale diede il proprio nome, poi la pingue eredità a un suo agnato, Scipione Ricci.

Questi volea dapprima entrare gesuita, allettato da una profezia che correva di san Francesco Borgia, che nessuno di quell’istituto andrebbe a perdizione; dappoi avviatosi per la carriera ecclesiastica, fatto auditore di nunziatura, indi vicario generale dell’arcivescovo Incontri, si condusse a Roma in occasione delle feste per l’elezione del papa Braschi, nella speranza di poter parlare al detenuto generale. Questi comunicava all’esterno coi soliti sotterfugi di qualche inserviente, e come il seppe giunto, scriveva a Scipione:

— Signor canonico rev. amat.

«Che buon vento l’ha qua portato? quante cose ho a dirle! per ora alcune: il latore del presente è il soldato che mi serve, ecc., ecc.

«Mi sta nel cuore una spina da lungo tempo. Temo che facciano spendere a Lei, a titolo di mia richiesta, mie voglie e mio sollievo, in cose che non chiedo e non mi si danno. Non incolpo veruno, e non so veramente a chi attribuire certi intrighi, ma è necessario ch’ella sia prevenuto... Non creda già ch’io sia un capo di fuorusciti. Sono stato trattato come tale, ma grazie a Dio non lo sono, ecc.».

E in un’altra:

— I miei pensieri, se sarò lasciato in libertà, son questi. Voglio venire a passare gli ultimi giorni miei in Firenze. Se i suoi signori fratelli mi gradiscono, voglio stare in casa loro, come Lei mi ha offerto. Spero che non darò incomodo: se mai questo accadesse, si prenderà partito. Le mie occupazioni saranno, fare un poco di bene per me, giacchè l’età mia mi rende inutile agli altri; e lo farò volentieri; divertirmi con libri di materie sacre, scrittura, teologia, ecc., e conversare con persone pie, savie e dotte...».

E torna ad insistere sul non arrivargli, o decimate, alcune delicature che la famiglia gli trasmetteva.

Gli ex-Gesuiti patrocinavano il nostro Scipione, che però resistette alla tentazione di mettersi a Roma in prelatura. Ebbe udienza da Pio VI, che non gli dissimulò la sua venerazione pel prigioniero: al quale, «per riguardi ai principi» tenuto coi rigori che all’ingiustizia son necessità e punizione, Scipione non potè mai ottenere di far visita: onde quegli scrivevagli il 2 luglio 1775:

— Mi conviene sagrificare il piacere grandissimo che avrei avuta di vederla e che speravo. Sia fatto il santo volere di Dio. Ma Lei potrà convincersi dell’oppressione inumana che mi si fa da’ malevoli, con impedire le ottime intenzioni di nostro signore, e senza ragione alcuna, poichè mai ho fatto male a veruno. Il foglio che le ho mandato lo custodisca con molto segreto, acciò non si prenda da quella occasione di nuocermi. Dopo la morte mia desidero che si renda pubblico. Non mi resta altro che ringraziarla e darle il buon viaggio, che le pregherò dal Signore. Lei non mi può dare ciò che desidero umanamente, ed è la libertà: in altre materie non mi manca il bisognevole, ed i miei desiderj sono assai ristretti. Sa come io mi son contenuto, e penso di non passar questi limiti. Se mai pensassi a passarli e mi fosse possibile, glielo farò sapere. Si regoli nel mandare a me, o piuttosto non mandi a me cosa veruna, perchè non mi arriva, o al più arriva solo quello che è guasto e inservibile. Se desidero cosa alcuna, sarebbe solo qualche denaro di volta in volta e non molto, o per soddisfare una voglia che mi venisse d’un libro o simile, o per aggiungere qualche ricompensa all’uomo che mi serve oltre la sua obbligazione. Vi dovrebbe essere del denaro presso il signor cardinale Torrigiani. Il solo desiderio che ho è di molti suffragi dopo la mia morte, poichè la soppressione della mia religione me ne priva di molte migliaja, ecc.».

La carta quivi accennata era una protesta dell’innocenza sua e della sua Compagnia contro le incolpazioni ch’erangli date; ed è scritta tutta di suo pugno, come anche il sunto del processo ch’ebbe a subire, e ch’egli desiderava fosse conosciuto, affinchè il mondo non ne avesse informazioni bugiarde. Vi trovammo inoltre una lettera del laico Giovan Maria Orlandi, da Roma il 1.° dicembre 1775, ove ragguaglia Scipione degli ultimi momenti di quel pio:

— Essendomi toccata la sorte di servire il reverendo padre Lorenzo de Ricci, già fu nostro proposito generale, non manco darle parte, come il medesimo mi impose nella sua ultima e penosa malattia, di raccomandarlo a Sua Divina Maestà con delle messe.... Ha pregato che siano rimunerati tutti quelli che l’hanno servito sì in vita come in morte. Ha pregato che si rimandi quella croce di ebano, la quale gli fu lasciata dal suo signor fratello, desiderando l’abbia lei per sua memoria...

«Non le posso esprimere la rassegnazione e gli atti buoni che faceva. Già subito che si ammalò diceva: — Signore, il vicario di Cristo diceva che m’avrebbe liberato presto e bene: giacchè non l’ha potuto fare lui, fatelo voi presto e bene, acciò non vi abbia più da offendere». Poi, prima di ricevere il santo viatico, fece una protesta avanti al Santissimo, che fece piangere tutti, della innocenza sua e de’ suoi religiosi: questa protesta suppongo che l’averà avuta da altri, onde, per non crescer plico, non gliela mando».

Ci sta pure una nota di quanto il generale, avanti morire, disse a don Giuseppe Nava, e la lista di varj oggetti, de’ quali, come appartenenza sua particolare, disponeva in ricordi ad amici.

Tutto ciò noi ricaviamo dalle carte di Scipione Ricci, le quali, benissimo ordinate da lui in centotto filze, furono conservate dalla sua famiglia, poi compre dal granduca Leopoldo II, dal cui gabinetto passarono nell’archivio di Stato di Firenze. Ma prima s’erano lasciate a disposizione del De Potter, vescovo apostata e autore d’una Storia del cristianesimo, nella quale demolì tanto, ch’egli stesso indietreggiò sbigottito. Su quelle carte, o massime sull’autobiografia, il De Potter stese una vita di Scipione Ricci, che è piuttosto una diatriba di poco criterio e meno prudenza, diretta a magnificarlo come eresiarca. Noi rivedemmo quell’amplissimo carteggio, e ci parve che il Ricci, onesta mediocrità, non si staccasse mai di cuore dalla Chiesa cattolica, benchè a molti errori lo traesse la smania di figurare e la bassa condiscendenza ad un principe, qual fu Pietro Leopoldo, ligio alle idee antipapali d’altri principi austriaci, e voglioso degli applausi d’un popolo, che s’annojava della sua quieta beatitudine.

E davvero i suoi cominciamenti preludeano a tutt’altro che alla più clamorosa personificazione del giansenismo in Italia. Piissimo, sopratutto zelava il culto della beata Caterina de’ Ricci; racconta di grazie ricevute per invocazione del beato Ippolito Galantini, fondatore de’ Vanchettoni; e si querela che il digiuno quaresimale, «troppo necessario per soddisfare in qualche modo ai debiti colla divina giustizia», venga negletto, nè la refezione si limiti a fichi secchi e zibibbo 1.

Fatto vescovo di Pistoja, tolse a correggere la disciplina che, in certi monasteri, sotto la direzione non de’ Gesuiti, in fama di lassi, bensì degli austeri Domenicani, era degenerata in una licenza appena credibile, cogli errori e le laidezze de’ Gnostici, fomentata dalla lettura di Voltaire e Rousseau, mantellata qualche volta da un osceno quietismo, fin a dire che la nostra perfezione consiste nell’unirsi con Dio; e siccome tutti partecipano della natura di Dio, perciò ogni carnale unione fra gli uomini esser vincolo di perfezione e di congiungimento con Dio.

Non pago a ciò, egli tolse a modificare il culto e i riti; riduceva ad un solo gli altari d’ogni chiesa per togliere la simultanea celebrazione delle messe, «introdotta con molta indecenza contro lo spirito della Chiesa e mantenuta dalla ignoranza, irreligiosità e interesse de’ ministri del santuario»: ne levava le tabelle che li dichiaravano privilegiati, o prometteano liberazione d’anime purganti; processò reliquie ed immagini miracolose, sopprimendo le meno autentiche, e proibendo di coprirle con mantelline; abolì le cappelle domestiche e certi giorni festivi: non si recitino panegirici; alla festa i regolari tengano chiuse le loro chiese per non distrarre dalle parrocchiali. Avrebbe anche voluto tutte le preci in italiano, per quanto alla religione universale convenga un linguaggio universale ond’essere in comunicazione con tutti i popoli, e non dover variare coi tempi e coi paesi le sue formole, le sue invocazioni, le sue decisioni.

Al tempo stesso favorì l’edizione delle opere di Machiavello, che l’austriaco granduca aveva affidata alle cure dell’abate Tanzini, imbevuto delle dottrine de’ regalisti francesi e tedeschi. Queste erano venute allora in moda, ed inarcavansi contro l’autorità pontifizia, sia coll’attribuir gran parte di questa ai vescovi, sia col sovrapporvi la principesca. Come sempre, i colpi maestri dirigevansi alla testa; ed allegavasi come ragione l’averne Roma abusato, coll’usurpare facoltà che non avea da principio. Risalendo ai primordj della Chiesa, se ne indagavano la disciplina e i riti, e ciò che in que’ principj non si trovava, sentenziavasi riprovevole: voleasi tornare il papa alla povertà di Pietro, e il ministro Giani diceva che il clero, quando fosse spogliato dei beni, vedrebbesi costretto ad acquistare meriti reali. È l’artifizio de’ Luterani ortodossi; senonchè i Giansenisti non rinnegavano la papale supremazia; solo la voleano limitare, controbilanciare, press’a poco come i costituzionali in politica, i quali, s’anche trovano follia ed assurdo il potere monarchico ereditario, non osano spingersi fino alla sovranità del popolo, e s’arrestano a mezza strada: onde Lacordaire definiva il giansenismo «eresia sleale, che non osando attaccare la Chiesa in faccia, come un serpente le si ascose in seno».

Modestia di giudizj noi ci sentiamo viepiù obbligati a tenere verso Cattolici, che per alcuni dissensi particolari la Chiesa non ha espressamente respinti dalla sua unità, benchè con quelli e coll’appellarsi all’antichità, anzichè accettare l’autorità presente, dessero in un mascherato protestantismo. E come il protestantismo avea per fondamento il senso privato nell’interpretare la Scrittura, così i Giansenisti lo volevano nell’interpretare gli scritti, le parole, la storia della Chiesa.

Bisogna stare a ciò ch’è antico, diceano essi.

Sì, quanto alla fede nella parola di Cristo, com’è scritta dagli agiografi o conservata dalla tradizione, la Chiesa pretende esser oggi qual era nel cenacolo, e ripudia il concetto d’una successiva formazione dei dogmi, pur ammettendone una successiva esplicazione. Via via che nasceva un errore, la Chiesa chiariva esso dogma, definiva, interrogando quel che le varie Chiese aveano tenuto sul punto controverso, e definendo secondo era apparso allo Spirito Santo e ad essa.

I Giansenisti dicono: — Credo alla Chiesa quando mi propone una verità rivelata. Il Cattolico dice: — Tocca alla Chiesa pronunziare ciò ch’è rivelato; dogma è un articolo di dottrina che la Chiesa propone a credere rivelato2. In punti decisi dalla Chiesa bisogna prima esser cristiano, poi teologo; prima credere, poi esaminare; esaminare non per far dipendere la nostra fede da questo esame, ma per illustrare e difendere le decisioni della Chiesa3. I Giansenisti non si contentano di sapere quel che decide la Chiesa, ma se le decisioni sieno fondate sulla Scrittura e sulla tradizione: cioè se basti o no l’oracolo della Chiesa da sè. Quindi un limite all’autorità del papa, al suo primato d’onore e di giurisdizione: al credere che l’ortodossia è il papa, è Pietro, è Damaso, è Pio VI e Pio IX. Ma poichè volevano apparir devoti alla Chiesa nell’atto di impugnarne le decisioni, erano costretti avvolgersi in formule e restrizioni, e dichiarare il giansenismo una mera invenzione de’ loro avversarj4.

Uno de’ loro punti di dissenso dalla pratica universale de’ fedeli è la venerazione verso i santi e il culto a Maria, venuto, secondo essi, a tale esuberanza da derogare a quello dovuto a Cristo.

Certo gli stranieri che vengono ad ammirare il nostro cielo, le arti nostre, le nostre devozioni, allorchè vedono ad ogni crocicchio santi e madonne, e popolani prostrati a venerarle, e in collo e in petto immagini e scapolari; quando nella chiesa del tal santo, alla festa della tal Madonna farsi orazioni particolari, esporsene le ossa, baciarne le reliquie, possono scivolare nella credenza che noi vi prestiamo adorazione, che teniamo presenti i santi più che Dio, che il culto della sua madre ecclissi quello di Cristo.

Ma distinguiamo bene la fede dalla devozione. La fede importa l’obbligo di credere ciò che crede la Chiesa universale. Devozione è l’onore che si tributa agli oggetti della nostra fede. Possiamo credere senza aver devozione, sebbene la devozione non possa stare senza la fede. La fede è sempre la stessa dappertutto e in ogni tempo; nella devozione è lasciata grandissima latitudine all’individuo. Il rito, la forma di un culto non isboccia bell’e formato, come Minerva dal cranio di Giove: il Sole in primavera non ha ancora squagliato i ghiacci, fatto schiudere l’erbe e colorire i fiori: eppure è quello stesso che ci arde in luglio. Prima quel culto dovett’essere tributato all’apostolo; vennero poi i martiri, poi altri santi, la cui glorificazione erasi manifestata forse maggiormente che non d’alcuni, più vicini al Salvatore. Qui si venera il santo che vi nacque, vi morì, vi apostolò, vi operò un prodigio della grazia o della carità: là è la tomba d’un altro, gli stromenti del supplizio d’un martire, un’apparizione, una rivelazione. Son memorie, insite alla natura umana siccome tutto quanto ricorda le geste degli eroi, de’ benefattori della patria; c’è la ammirazione pel dottor della Chiesa, c’è la compassione pel martire, c’è la compunzione pel penitente. In ciò tutto si trova qualcosa che decade, qualcosa che sottentra: han luogo l’entusiasmo e il tepore, giacchè tutto quaggiù è vita, è movimento, cioè cangiamento continuo.

Giuseppe, lo sposo di Maria, è un santo che appartiene ancora all’antico e già al nuovo Testamento; fu il più vicino a Cristo; la Chiesa primitiva gli ebbe una venerazione implicita, eppure il suo culto cominciò tardi; cominciato che fu, tutti l’abbracciarono coll’ardore che conveniva allo sposo di Maria.

E Maria? Non v’è dubbio che la devozione ad essa fu ampliata assai, dai primi tempi quand’appena trovasi nominata, infin quando Pio IX ne pronunzia come di fede la immacolata concezione. Il tipo di lei, dai rozzi tentativi delle catacombe sino alle meditate aspirazioni del Minardi si trasforma oh quanto, eppure senza cangiarsi. Già nella prima scena del mondo, quando il seduttore corrompe l’umanità, è vaticinato che un’altra donna schiaccerà il capo del serpente. E seconda Eva la chiamarono i primi Padri; dottrina rudimentaria, dalla quale si può dedurne la santità, la verginità, l’immacolata concezione, l’efficace patrocinio. Maria non fu madre e nutrice di Cristo? non istette accanto alla sua croce? nol raccolse ucciso? Quanti dolci pensieri, quanti vivi sentimenti non deve eccitare una creatura, messa in così intime attinenze coll’ente divino? la donna elevata fin ad esser madre del Dio umanato? Ma egli rimane sempre il redentore, che ci rigenera continuamente; ella, la madre dataci sulla croce: ha gran potenza, ma affatto indiretta: il Cattolico non abbasserà mai il Creatore fino a questa creatura; nè lei eleverebbe a divinità, col che negherebbe quella di Gesù; il nome di lei nè tampoco si proferisce nell’amministrare i sacramenti; noi la preghiamo che preghi per noi peccatori: a lei portiamo affetto, usiamo famigliarità, appunto perchè somiglia a noi, provò i dolori nostri, eppur è tanto gloriosa.

Chiedetene il più semplice credente, e vi risponderà che queste chiese sono la Casa di Dio: portano lo speciale vocabolo d’un tal santo o d’un tal fatto; vi saranno anche molti altari, dedicati a varj santi: che monta? il Cristiano li prega come intercessori presso il Dio unico. Giunge la festa di quella chiesa? ognuno v’accorre, ognuno vi fa una preghiera, e genuflessioni e inchini e baci in diverso modo: sono altrettante vie per avvicinarsi a Dio.

Certo, come in tutte le dottrine concrete e vitali, è difficile assegnare teoricamente i limiti tra la verità e l’errore, tra il bene e il male. E viepiù quando si tratti d’affetti. Natura di questi è il correre senza ritegni, mirando all’oggetto proprio e a null’altro: e sarebbe freddo e inconcludente colui che sapesse serbare tutte le convenienze, misurare tutte le esternazioni. Di che importanza non sono per chi le scrive e per quello a cui son dirette le espressioni delle lettere amorose! Fate che un indiscreto le colga, che cadano sotto gli occhi d’un indifferente, che acquistino la pubblicità d’un giornale o d’un giudizio, parranno scempie o esagerate.

Tanto avviene della devozione, qualora vogliasi anatomizzarla con fredda critica; è il cuore che sente, non la ragione che pruova; e atti e parole di supremo affetto per chi le usa, possono, direi devono incontrare la disapprovazione o la beffa di chi le analizza; che se furono adoprate da qualche persona di eminente santità, divengono venerabili al popolino, la cui religione tien facilmente qualche cosa di vulgare, qualche mistura di fanatico o di superstizioso.

Non mi dite che appunto il dovere del pastore è di correggerla, appurarla. La snaturereste. I pastori vegliano perchè non trasmodi; ma essi non ne sono gli autori; e se volessero imprimere tutti i moti a misura, la ucciderebbero. La devozione, perchè sia universale, deve abbracciare tutte le intelligenze, tutti i sentimenti; sto per dire che bisogna si pieghi agli istinti per poterli emendare. Gli è perciò che trovansi unite le sublimità del culto con ingenuità della pratica, che oserei chiamare puerili.

Riflessioni simili avrà certamente fatto più d’uno, allorchè il Ricci a certe particolari devozioni particolare guerra movea.

Del cuore, come sede degli affetti, parlano più volte le sacre Scritture, anche riferendolo a Dio. Tanto più poteasi applicare a Dio umanato; e non sarebbe difficile negli scrittori sacri trovare allusioni al cuor di Gesù. L’immagine poi, sotto cui ora è presentato, troviamo distintamente indicata da san Francesco di Sales in una lettera del giugno 1611, ove alla beata Francesca di Chantal descrive l’insegna che vorrebbe dare al nuovo Ordine delle Visitandine. — Sta notte Iddio m’ha dato il pensiero che la nostra casa della Visitazione, per la grazia sua, è abbastanza nobile per aver il suo blasone. E ho pensato, se voi siete d’accordo, che dobbiam prendere per stemma un cuore trapassato da due freccie, chiuso da una corona di spine, e che sostiene una croce, coi santi nomi di Gesù e Maria».

Solo un secolo dopo, la visitandina Margherita Maria Alacoque manifestò una rivelazione, dove le era imposta la devozione al sacro cuore di Gesù. Le superiore del suo convento di Paray-le-Monial reluttarono gran tempo a darle ascolto: al fine è tenuta come una santa; teologi profondi attingono da lei lumi superni; la devozione del Sacro Cuore si diffonde: il padre De la Colombière, uno de’ più insigni gesuiti, la propagò nell’Inghilterra, allora gelosissima contro i Cattolici, mentre nella Francia filosofistica e giansenista era invano combattuta. Subito si istituirono congregazioni sotto quel nome, e la devozione ne crebbe tanto, che monsignore Belsunce, eroe della peste a Marsiglia, consacrò questa città al Sacro Cuore nel 1720. Vedutone universalizzato il culto. Clemente XIII nel 1763 ne decretò la festa. La nuova devozione s’attribuì a intrugli gesuitici, talchè contro di essa sbraitavano quanti erano ostili a quella compagnia, e il Ricci con una pastorale del 1781 la interdisse nella sua diocesi.

Quanto il Sacro Cuore dai Gesuiti, tanto dai Francescani era commendata la Via Crucis, e questa pure il Ricci impedì, o almeno ordinò una variazione in cinque delle stazioni, non espressamente indicate nell’evangelico racconto. Ne nacque disputa calorosissima, a cui presero parte il Bettinelli, l’Affò, e principalmente Giovanni Maria Pujati friulano (1733-1824), che per le opinioni sue osteggiato fra’ Somaschi, andò benedettino, ma presto da Monte Cassino fu dagli amici richiamato nel Veneto a forbottare in que’ garriti teologici. Credo di lui una Nuova maniera di prender la Via Crucis, dedicata al Ricci; operetta arida e senza unzione, e per nulla acconcia a devozione popolare.

Insieme il Ricci diffondeva i libri di suo sentimento, fortunatamente ignorati fin allora alla Toscana, e opuscoli di quell’erudizione triviale e incompleta, che illude gli spiriti frivoli; favorì una stamperia in Pistoja «per isvelare le ingiuste pretese di questa Babilonia spirituale che sovverse e snaturò tutta l’economia della gerarchia ecclesiastica, della comunione de’ santi, dell’indipendenza dei principi»; e di là uscivano gli opuscoli giansenistici. Egli stesso mandò a tutti i parroci le Riflessioni morali di Quesnel, dichiarandolo libro d’oro; parlava continuo contro «le pretensioni ildebrandesche, il regno fratino e romanesco5, la pertinacia de’ preti e frati nel vendicarsi dei torti non solo, ma d’ogni opposizione»; e così o seminava o inveleniva questioni fin allora o ignote o non curate fra noi.

In somma, venivano messi in accusa il papa e gli ecclesiastici; e il sacerdozio stesso divertivasi a screditare il sacerdozio, come si fosse «diffuso negli ultimi secoli un generale offuscamento delle verità più importanti della religione, le quali sono la base della fede e della morale di Gesù Cristo».

Davvero, allorchè la scuola di Voltaire sottominava la Chiesa, è doloroso che questa parte del clero italiano istigasse a capiglie interne; allorchè Cristo era deriso, si venisse a misurare l’autorità del papa; allorchè a visiera alzata dichiaravasi guerra alla infame, si gittassero in mezzo dissensi per un rito, per la pluralità degli altari, la Via Crucis, il Sacro Cuore, o la Grazia efficace e la sufficiente.

Era quello un momento che tutti pensavano a riformare il genere umano secondo certe idee preconcette, applicabili a tutti i tempi e i luoghi. N’era derivato un famoso congresso nella taverna di Ems; i teologi e filosofi dell’Holstein formarono una Convenzione del Nord, e proposero al Governo gli autorizzasse a costituirsi in assemblea centrale, con comitati subalterni per meglio sistemare la società. I re erano riusciti a far considerare Roma come un’avara che inghiottiva l’oro, destinato solo alle casse regie; come una riottosa che eccitava a sottrarre all’onnipotenza dei Governi le coscienze; come una ignorante che impediva la diffusione dei lumi, procurata dalle scuole principesche. I filosofisti spingevano i regnanti all’assolutismo coll’abbattere l’unico potere che potesse frenarli, l’ecclesiastico. Conforme alle idee dispotiche allora in moda, Giuseppe II avea tolto i seminarj diocesani, e costituito un portico teologico a Pavia, il quale divenne il quartiere generale di quella guerra da sacristia. Nella libreria Comino le opere che si spacciavano erano le Conferenze del Duguet, le Istituzioni ecclesiastiche di Dannenmayer, la Bibbia del Sacy, le opere di Arnauld, le Provinciali di Pascal, i Discorsi famigliari del Thiebaut, la Verità della religione del Dupin, e gli altri raccomandati dal Ricci. Dettava in quel portico Pietro Tamburini bresciano, che trovata già viva la controversia, venutaci di Francia, vi si buttò e perseverò nella lunghissima vita (1736-1827) con ira contro i Gesuiti e servilità alla potenza regia; campeggiò continuo contro la primazia papale, pubblicando principalmente l’Analisi del libro delle Prescrizioni di Tertulliano (1781), la Vera idea della santa sede e delle Congregazioni di Roma6, e De summa catholicæ de Gratia Chiristi doctrinæ prestantia vel necessitate; opera tradotta in molte lingue.

Lo secondava e difendeva Giuseppe Zola, nato a Concesio di Brescia il 28 agosto 1739, e morto colà il 5 novembre 1806. A lui ancor giovane, Brescia affidò la biblioteca Quiriniana; professò teologia nel seminario, e pubblicò De fontibus theologiæ moralis, volendo richiamare dal molinismo. Quel che diceasi partito gesuitico riuscì a far destituire e lui e il Tamburini; ma ecco Clemente XIV gl’invita a Roma a dirigere tre collegi, ove il Tamburini fondò un’Accademia Teologica, in cui lesse sull’Apologia di San Giustino, sulle opere d’Origene contro Celso, sulle Prescrizioni di Tertulliano: difendea la Chiesa scismatica di Utrecht: consigliava gli Inglesi cattolici a prestare il giuramento prescritto. Al Ganganelli succeduto Pio VI, i due bresciani dovettero partirne dopo sei anni; ma i duchi austriaci li chiamarono professori a Pavia: lo Sperges, referente per gli affari d’Italia a Vienna, fece dare a ciascuno quaranta zecchini per le opere che aveano presentate al trono, poi un assegno e quartiere nel Collegio Germanico Ungarico, e allo Zola mandò libri opportuni a’ suoi studj. Questi pubblicò un’orazione del Non dissimular i mali nella storia ecclesiastica, poi i Prolegomeni dove indica le fonti della storia ecclesiastica, con un bel parallelo tra il Fleury e l’Orsi. Ne’ Commentarj delle cose cristiane prima di Costantino confuta molti errori de’ Protestanti, e specialmente sul piccolo numero de’ martiri. Ai varj trattati anteponea sempre dissertazioni storiche, come quella sugli errori intorno alla Grazia; in latino terso, ma pesante. Difese Arnaldo da Brescia; poi i gravi lavori interruppe per sostenere il Tamburini, ed a vicenda si fiancheggiavano, egli con più erudizione, questi con più fuoco, e molto contribuirono a formare una generazione di sacerdoti, ligi all’autorità secolare qualunque volta volesse soperchiare la ecclesiastica.

Nell’Analisi delle Prescrizioni di Tertulliano (1781) il Tamburini portava all’eccesso la regola desunta dalla tradizione scritta, mentre attenuava l’autorità della Chiesa viva e parlante, e alla fede surrogava la storia e la critica, rimovendo così l’elemento soprannaturale dell’infallibilità della Chiesa, che non dipende da ragionamenti umani, sibbene dal perenne oracolo dello Spirito Santo.

Capirono i buoni qual portata avesse l’attacco, e s’accinsero d’ogni parte a respingerlo, talchè egli stimò prudente appigliarsi a quistioni più mascherate, e sull’orme degli stranieri dettò la Vera idea della santa Sede, dove sostiene apertamente che la Chiesa insegnante non si compone solo dei vescovi, ma anche dei preti e diaconi, i quali sono egualmente giudici in materia di fede, e compartecipi al governo; vuol l’unità; accetta l’infallibilità del pontefice, ma quando siavi perfetta concordia fra i membri della Chiesa, fra tutti coloro che non si sono apertamente separati dall’unità di essa.

Aggiunse, sempre ad imitazione de’ Francesi, i Caratteri d’un giudizio dogmatico; Cos’è un appellante? le Lettere Piacentine, le cui principali conclusioni sono, che il giudizio dogmatico del papa non è perentorio, quand’anche suffragato dalla pluralità de’ vescovi; onde si può da esso appellare; e che unico giudizio perentorio nelle quistioni è la perfetta concordia intera della Chiesa.

Ognun vede come questa sia impossibile, giacchè vi mancherà, non foss’altro, il concorso di quelli che la pretendono7.

Nel 1783 a Pavia fu stampato Taddœi s. r. i. comitis de Trautmansdorf, i. collegii germanici ticinensis alimni, de tollerantia ecclesiastica et civili; apoteosi del potere principesco, fin a sostenere che «non può dubitarsi del diritto regio nelle cose sacre»: che «il principe come principe ha diritto sulla dottrina pubblica, le cerimonie e i riti, e di stabilir per comuni suffragi la pubblica religione; i sacerdoti non diferire dagli altri ufficiali dello Stato, onde spetterà all’imperatore la loro elezione, e tutta l’amministrazione esterna». Fu creduta opera o dello Zola o del Tamburini, e probabilmente entrambi vi collaborarono, come trapela dalle lodi ch’essi vi diedero, e da queste parole della dedica a Giuseppe II: Illud tacere nequeo, quod singulari munere tuo nobis concessum est: habere nos scilicet egregios duos vìros J. Zolam ac P. Tamburinum, celeberrimæ Academiæ professores, quorum suavissima consuetudine, summaque doctrina non uti solum, sed et frui mihi fas est. Hi sane stimulos mihi addiderunt, consiliis, monitis, atque opera juverunt sua, ut hunc laborem susciperem et inceptum absolverem.

Il Tamburini la difese colle Riflessioni del teologo piacentino: poi col pseudonimo di frà Tiburzio svelenivasi contro gli Ambrosiani di Milano, alludendo principalmente all’oblato Locatelli, il quale, nella Esposizione della dottrina cristiana per la diocesi milanese, commentò insignemente le tesi che eransi proposte in quel seminario in occasione delle lauree, e che effettivamente erano il sunto del giansenismo. Esso Locatelli forse, od altri anonimi pubblicarono un foglietto di dubbj su quelle tesi, facendone spiccare i sofismi col sommessamente domandarne schiarimenti8. Frà Tiburzio, sostenendo le tesi, demoliva l’infallibilità della Chiesa col far infallibili tutti i membri di essa; per modo che anche un piccolo numero potevano promulgare dottrine eterodosse, purchè non si segregassero dalla Chiesa; nè questa potrebbe escluderli se non per unanime suffragio universale.

Il secolo nostro ha men che mai il diritto di meravigliare se intitolavansi liberali quei che fiancheggiavano l’assolutismo dei re, e che trovavano favore principalmente dai principi austriaci di Lombardia e di Toscana. Tali erano in generale i legulej per abitudine antica, i magistrati per desiderio di soperchiare; il bel mondo per ispasso. A gloria d’essi Austriaci mancava che anche i vescovi si contrapponessero al papa, e in fatto al congresso di Ems i prelati di Germania, sotto la presidenza dei principi elettori del Reno e del primate di Salisburgo, auspice Giuseppe II, clamorosamente contrastarono di giurisdizioni con Pio VI. Volle imitarli l’Italia, dove però i campioni della stretta ortodossia non erano minori in numero e valore che gli oppositori.

La vicinanza della Toscana agli Stati Pontifizj avea moltiplicato i punti di contatto, e in conseguenza di conflitto fra i due Governi; e il liberalismo di que’ ministri si pompeggiava nel sottrarre facoltà a Roma per arrogarle ai principi. Fin il debole Gian Gastone, ultimo de’ Medici, avea proibito all’arcivescovo Martelli di pubblicare il sinodo diocesano, e intimavagli che esso «non può ingerirsi che nel mero spirituale, e non vogliamo proceda contro i laici con pene temporali, per qualunque titolo potesse allegare». Francesco di Lorena, ispirato da Giulio Ruccelaj capo della giurisdizione e avversissimo alle pretensioni ecclesiastiche, limitò gli acquisti delle manimorte, tolse al Sant’Uffizio la censura dei libri, e ne’ processi gli aggiunse due assessori.

Pure al nunzio competevano sempre la giurisdizione ecclesiastica, il conceder alcune indulgenze e dispense per peccati occulti o casi riservati e per mangiare grasso, il commutare voti, legittimare spurj, vendere o livellare beni ecclesiastici, ed altri attributi che pareano incomportabili colle nuove idee dell’onnipotenza principesca. Pietro Leopoldo, aspirando alle lodi dei Giansenisti e de’ filosofi, tolse ad imitare suo fratello Giuseppe II, il cui distintivo fu l’avversione ai clero: sicchè pose la mano negli ordinamenti della Chiesa con ruvidezza e dispregio; cassò il tribunale di nunziatura e l’immunità de’ beni ecclesiastici, gli asili, il mendicare; abolì duemilacinquecento confraternite, tutti gli eremi e molte fraterie, tra cui, con comune dispiacere, i Barnabiti, che applicavansi all’istruire con gran soddisfazione de’ genitori; limitò le monacazioni; vietò i pellegrinaggi e qualunque pubblica devozione non autorata dal Governo; e le esteriorità nelle esequie, e il pubblicare le censure contro chi mancasse al precetto pasquale; modificò le curie vescovili; dispose del patrimonio delle chiese; mutò destinazione a pii lasciati, ne vendè i beni, restrinse le parrocchie, istituì un’amministrazione del patrimonio ecclesiastico, preseduta dal Ricci, al quale pure concesse alcuni conventi, di cui avea soppressi i monaci; regolò le dispense matrimoniali, l’età della monacazione e i voti e la clausura; ai parroci, eletti tutti per concorso e con una stabile congrua, i vescovi comunicassero le facoltà de’ casi riservati; i vicarj generali dovessero ogni tre anni approvarsi dal principe; nessun decreto valesse senza l’exequatur governativo; ne’ dubbj come ne’ bisogni i vescovi si volgessero a lui, tutto disposto ad esaudirli, ma non prendessero mai ingerenza nel Governo.

In queste innovazioni era contrariato dall’arcivescovo di Firenze9, ma quando leggiamo il tono dimessissimo con cui questi esponeva le sue querele anche in materia di tutta competenza ecclesiastica10, ci rallegriamo che persecuzioni più apertamente illiberali abbiano restituita oggi al vescovado la dignità, che ipocrite protezioni gli avevano sminuita.

Di rimpatto il granduca era ispirato, o piuttosto secondato dal Ricci vescovo di Pistoja, che finamente adulando, gl’insinuava di far valere l’onnipotenza regia. Dico fina adulazione il rimpianger i tempi di Teodosio, quando il «popolo, meglio inteso de’ diritti, o vogliam dire dei doveri di un sovrano verso le cose e le persone ecclesiastiche, lo chiamavano e lo riguardavano come vescovo esteriore. La calamità dei tempi ha fatto scordare questi titoli.... e poichè ella vuol regnare più sul cuore che sul corpo dei sudditi, niuna cosa tanto è in cui le bisogni persuaderli, quanto in ciò che appartiene alla religione». E soggiunge: — Quanto alle materie (delle riforme) l’Altezza Vostra non ci troverà cosa che non sia di sua competenza: o sono canoni proprj della Chiesa, fatti nei generali o particolari Concilj, o sono cose che riguardano la esteriore disciplina. In tutti i casi all’Altezza Vostra conviene, come protettore e difensore della Chiesa, il rammentare e proteggerne i canoni, e come sovrano lo stabilire quello che il bene di essa richiede».

Con ciò gli attribuiva anche la potestà di abrogare i canoni, e stabilirne dei nuovi, quando lo richiedesse il bene della Chiesa! — Solo dai buoni studj (aggiunge) può sperarsi una felice rivoluzione negli Stati; finchè gli studj saranno fatti secondo il sistema fratino e secondo le mire della Corte romana, i sudditi saranno ignoranti e superstiziosi, e addetti a Roma.... Si è dunque creduto bene l’ingiungere (negli studj) l’obbligo di tenere la massima importantissima della indipendenza della potestà temporale dalla spirituale. Se Vostra Altezza ha questo, può dire di aver tutto quello che è necessario perchè sia ben ricevuta ogni riforma ecclesiastica».

Allorchè Pio VI si lamentò che il Ricci, nel turpe processo delle monache pistojesi, avesse dato pubblicità ad impudicizie, che saria stato carità o prudenza ricoprire, Leopoldo chiamossene offeso, e dal ministro Piccolomini fecegli scrivere, sperava che, «fatte migliori riflessioni, darebbe ad esso prelato qualche contrassegno di propensione, e al granduca qualche motivo di essere meno disgustato dell’avvilimento in cui vede che la Corte romana riduce i vescovi quando non sagrificano col proprio dovere i loro diritti, per lasciare tutta, l’estensione a quelli che Roma pretende».

Tale linguaggio al papa cattolico potea tenere allora un arciduca d’Austria, che poi al teologo ducale scriveva essere «stanca Sua Altezza Reale del mal umore, animosità e contegno molto strano, col quale il santo padre tratta gli affari della Toscana».

Tanto bastava, e, ciò ch’è meraviglia, basta per farlo applaudire dai liberalastri.

I Punti di vista, da S. A. R. spediti a tutti i vescovi della Toscana sotto il 26 gennajo 1786, sono una specie di pastorale, dove esso ingiunge convochino ogni due anni sinodi diocesani, in cui esaminare varj punti, fra’ quali, l’introdurre migliori libri di devozione, impedire tanti giuramenti, anche ne’ tribunali; se espurgare i breviarj dalle leggende false o erronee; se amministrare i sacramenti in vulgare; se restituire l’elezione de’ parroci al popolo, il quale scelga tre elettori, che coi parroci anziani del distretto presentino al vescovo il soggetto; il clero sia educato uniformemente: si formino molti libri per uso dei parroci, a’ quali raccomandansi la Regolata devozione del Muratori, la Storia ecclesiastica di Bonaventura Racine, noto portorealista; il corso di teologia morale del Tamburini; i Costumi degli Israeliti e de’ Cristiani e i Discorsi sulla storia ecclesiastica del Fleury; dove si noterà non trovarsi indicate le Istruzioni di san Carlo. Proponeasi pure che tutti si conformassero alle dottrine di sant’Agostino sopra la Grazia. E perchè non restasse dubbia l’intenzione, il quinto punto esprimeva doversi «rivendicare all’autorità de’ vescovi i diritti originarj loro, statigli usurpati dalla Corte romana abusivamente».

Non è da credere che tutti accettassero questi punti colla sbadataggine dei tempi, in cui i caratteri furono snervati dalle convulsioni; ed oltre i molti opuscoli stampati «in Ferrara, in Assisi, in Roma, non contro il Ricci solo, ma contro il granduca e la maestà dell’imperatore, e col ministero de’ frati divulgati per tutta Italia»11, nell’archivio Ricci trovammo delle controsservazioni di gran peso (al N.° 28); fra il resto mostrando che sant’Agostino è degno d’ogni venerazione, ma la Chiesa non riconosce l’infallibilità in nessun dottore dopo gli apostoli. I vescovi di Colle e di Chiusi obbedirono raccogliendo subito sinodi diocesani, e decretandovi secondo l’ispirazione del granduca; ma quello che il Ricci adunò, segna gran posto nella storia ecclesiastica col titolo di sinodo di Pistoja.

V’invitò quanti in Italia favorivano il partito regalista; quali il genovese Eustachio Dégola (1761-1826) difensore di frà Paolo, e dappoi amico del famoso vescovo Gregoire e compilatore degli Annali politico-ecclesiastici, ove sosteneva la religione esser fondamento della libertà: Vittorio Sopransi milanese carmelitano, critico severo delle omelie del vescovo Turchi; il Pujati, professore a Brescia e a Padova, autore di moltissimi opuscoli e traduzioni sulle controversie del giorno; i fratelli Cestari, l’orientalista padre Giorgi, il torinese Gautieri filippino, l’astigiano Vallua, Benedetto Solari vescovo di Noli, il Cadonici di Cremona, i bresciani Guadagnini, Zola, Tamburini; Martin Natali professore al portico teologico di Pavia; i toscani abate Tanzini di Firenze, Fabio de Vecchi di Siena, Ricasoli ed altri, ne’ cui scritti innumerevoli12 non mancano le cognizioni teologiche nè le storiche nè le sociali, bensì l’elevazione interiore e quello spirito di carità e rispetto filiale che si vorrebbe sempre nelle quistioni ecclesiastiche.

Presidente al concilio il Ricci, vicepresidente Giuseppe Paribeni professore dell’Università: il Tamburini ne fu promotore e anima, disse l’orazione inaugurale, e col Palmieri ebbe l’incarico di redigere i decreti. Si cominciò col recitare i salmi LXVIII Salvum me fac, e LXXVIII Deus venerunt gentes; del resto ogni passo fu dato sulle orme degli appellanti francesi. È superfluo dire che ciascun punto vi era discusso con gran varietà, e da taluni con un’audacia che strisciava all’eresia; e vi si faceano correzioni, emendamenti, proteste.

Nelle sette sessioni si dissertò sopra la natura e gli effetti della Grazia, accettando le dottrine che attribuivansi a sant’Agostino, e la fede esser la prima grazia, proposizione condannata dalla bolla Unigenitus: adottando, secondo Bajo e Quesnel, la distinzione dei due stati e due amori, l’impotenza della legge di Mosè, la dilettazione dominante della Grazia e l’onnipotenza sua, e la poca efficacia del timore. L’indulgenza assolve solo da penitenze ecclesiastiche, e il tesoro soprarogatorio de’ meriti di Gesù Cristo e la sua applicazione ai defunti son invenzioni degli scolastici: come è baja il limbo de’ bambini.

Per la confessione è abolita la riserva de’ casi: e la scomunica non ha altra efficacia che esterna.

Intorno all’eucaristia si fece un’estesa e sviluppatissima professione. — E poichè si è introdotta nel popolo la falsa opinione che quelli che somministrano ad un prete una elemosina colla condizione che questo celebri una messa, percepiscono dal sacrificio un frutto speciale, il sinodo comanda ai parroci d’insegnare al lor gregge che il sagrificio della messa è d’infinito valore, ma che l’applicazione dei frutti di esso dipende da Dio, e che la maniera di parteciparvi maggiormente si è di unirsi con ferma fede e con spirito penitente e acceso di carità col sacerdote nell’offrirlo; che essi avranno il merito dell’elemosina quando l’abbiano fatta per spirito di carità; poichè Dio non riguarda il dono, bensì la pietà del donatore».

Nel matrimonio pregavano il granduca a dichiararlo contratto civile, serbando però la necessità della benedizione, che conferisce la grazia necessaria a sostenere il peso conjugale. I principi possono stabilirvi impedimenti.

Fu decretato che i vescovi sono vicarj di Cristo, non del papa; e da Cristo immediatamente tengono le facoltà per governare la loro diocesi, onde non si può nè alterarle nè impedirle: anche i semplici preti hanno voce deliberativa nei sinodi diocesani, e al pari del vescovo decidono in materia di fede. La Chiesa non può introdurre dogmi nuovi, nè i suoi decreti sono infallibili se non in quanto conformi alla sacra scrittura e alla tradizione autentica.

Nelle chiese vi abbia un unico altare, non quadri che rappresentino la santissima Trinità in abitudine mondana; non si veneri un simulacro più che l’altro; non il cuore carneo di Cristo; facciasi in vulgare la liturgia e tutta ad alta voce. Ogni fedele deve leggere la sacra scrittura, a tal fine volgarizzata. Proponeasi di ridurre i monaci a un Ordine solo, ed escludere i voti perpetui.

Il capo X versa tutto sul giuramento, ed è notevole come il Ricci, proponendo poi una legge pel granducato, dicesse: — Non è parso conveniente introdurre il giuramento di fedeltà de’ vescovi. Ogni suddito è astretto a questa fedeltà e soggezione al principe anco per dovere di coscienza: l’obbligo è più forte per un vescovo».

Molte definizioni dogmatiche degli ultimi secoli repudia siccome abusi di autorità che la divina provvidenza ha permessi per tentazione e prova de’ suoi servi; sarebbe nuovo abuso dell’autorità il trasportarla oltre i confini della morale e della dottrina, estendendola a cose esteriori, e colla forza esigendo quel che dalla persuasione e dal cuore dipende, attesochè il divin Redentore ha ristretto tutte le facoltà della Chiesa allo spirito. Qualvolta i pastori travalichino questi limiti, perdono il diritto alla assistenza promessa, e le loro determinazioni sarebbero usurpazioni, alte a seminare scandalo e divisione nella società13.

Si accettavano le quattro proposizioni della Chiesa gallicana, includendole nel decreto De fide, e i dodici articoli del cardinale Noailles; approvavansi le riforme introdotte dal granduca e dal Ricci, e si prescrisse il catechismo, allora pubblicato dal Montazat arcivescovo di Lione. La professione di fede doveva essere siffatta:

— Io credo e confesso con ferma fede tutti gli articoli del simbolo degli apostoli. Ammetto e abbraccio con tutta fermezza le tradizioni degli apostoli e della Chiesa, con tutte le osservanze, usi e canoni di quella. Ricevo la sacra scrittura secondo il senso che ha sempre tenuto e tiene la nostra santa madre Chiesa, alla quale ne appartiene il giudizio e le interpretazioni, e giammai non la prenderò nè la esporrò che secondo il comune consenso de’ padri. Confesso i santi sacramenti della nuova legge, istituiti da nostro signor Gesù Cristo: ricevo inoltre e ammetto le cerimonie approvate e usate dalla Chiesa nell’amministrazione di questi sacramenti. Io professo che nella santa messa si offerisce a Dio un sagrifizio vero, che è propiziatorio per vivi e per morti; e che nel sacramento dell’eucaristia sono realmente, veramente e sostanzialmente il corpo, il sangue, coll’anima e divinità del nostro salvatore Gesù Cristo, e che in quello è fatta una conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel sangue; la quale conversione viene chiamata dalla Chiesa transustanziazione. Confesso inoltre che sotto una delle specie si prende e si riceve Gesù Cristo tutto intero e il suo vero sacramento. Credo che vi ha un purgatorio, e le anime che vi si ritrovano possono essere sollevate dai suffragi e dalle buone opere de’ fedeli. Che si debbono invocare i santi e venerare le loro reliquie e le loro immagini. Confesso che nostro Signore ha lasciata nella sua Chiesa la facoltà di assolvere dai peccati, per enormi che possano essere, e di accordare le indulgenze. Io riconosco la santa Chiesa cattolica apostolica romana essere la padrona e la madre di tutte le Chiese, e prometto e giuro obbedienza al pontefice romano, successore di san Pietro principe degli apostoli e vicario di Gesù Cristo. Io faccio professione di tutto quello che è stato determinato dai Concilj generali, e massime dal sacro Concilio di Trento intorno al peccato originale e alla giustificazione. E insieme detesto, riprovo e condanno quanto è contrario a quelli, e generalmente tutte le eresie che furono condannate dalla Chiesa, protestando che io voglio vivere e morire nella fede che abbraccio presentemente mediante la grazia di Dio. Ciò prometto e giuro; e così mi ajuti Iddio e i suoi santi evangelj, che io tocco».

Il granduca, nella circolare 26 gennajo 1786, chiariva di «considerare come suo primo e principale dovere il procurare che l’esercizio della nostra santa religione sia purgato dagli abusi e pregiudizj e da tutto ciò che impedisce che la medesima venga ricondotta alla sua vera e giusta perfezione, semplicità e splendore». Pertanto dalla real villa di Castello seguitava con giornaliera sollecitudine ogni passo del sinodo: allontanò il Marchetti ed «altri imbroglioni» che poteano mettere di mezzo le pretensioni romane: traeva ragione di rallegrarsi dal vedere i più attenersi puntualmente alla sua circolare, e sebbene non mancava chi resistesse, stimò poter fidarsi a convocare un Concilio nazionale, cioè di tutta la Toscana, per fissare stabilmente e uniformemente in tutto lo Stato un piano uniforme di dottrina e di disciplina ecclesiastica. Diffidavano dell’esito le persone meglio avvedute, e nominatamente il senatore Gianni, il più liberale fra’ consiglieri del granduca: tuttavia per disporlo il persuase che nel 1787 chiamasse i tre arcivescovi e quindici vescovi nel palazzo Pitti ad una conferenza preparatoria ove potessero menare consultori e canonisti, purchè non frati. Ivi pure il Ricci propugnava continuo le dottrine giansenistiche, presentava come modello il sinodo scismatico di Utrecht del 1663, ed esortava i vescovi a imitarlo, accettando i curati come giudici, e premuniva contro gli intrighi della Corte di Roma che adoprerà i monaci e il nunzio per mandare l’opera a vuoto, attribuiva ogni autorità al principe, o almeno agguagliavala a quella del sinodo tridentino col professare che si operava «in conformità di quanto ha prescritto quel sinodo, e degli ordini e istruzioni sovrane veglianti nel granducato».

Ma non vi trovò tanta condiscendenza come a Pistoja; savj oppositori non lasciarongli attuare i progetti: e il granduca sciogliendo l’assemblea, con severe parole non dissimulò ai vescovi d’andare poco soddisfatto perchè non avessero secondato le sue intenzioni.

Calvino invade l’Italia», diceano i timorati.

— Finalmente si vedrà repressa la tracotanza de’ papi», diceano i regalisti.

Ma da una parte molti ecclesiastici repugnavano al preteso ripristino de’ vescovi negli antichi diritti e al nuovo giuramento; dall’altra sulla scena, fra vescovi e cortigiani, intrometteasi un attore nuovo, quel che a vicenda si divinizza col nome di popolo, o si vilipende col titolo di vulgo. Nelle Fiandre si era esso furiosamente levato contro le innovazioni religiose, introdotte colà pure da Giuseppe II, oltraggiò i professori del nuovo seminario, ruppe alfine in aperta rivolta. Anche in Toscana, mentre i discoli buffoneggiavano quelle controversie, il popolo, affezionato alla religione degli avi, di sinistro occhio avea guardato alle riforme del Ricci; il quale, gonfiato dall’aura principesca, facea recitare in vulgare i salmi, cambiava il fructus ventris nell’Ave Maria, alle litanie della Beata Vergine sostituiva quelle di Gesù, levava gli ornamenti preziosi dalle chiese, spogliando il culto del suo splendore e interrompendo pratiche care alla pietà, quale la funzione della notte di Natale. Quando si celebrò in italiano, e il prete alla fine si voltò a cantare — Andate, la messa è finita», fu uno scoppio di risate; scoppio d’indignazione nell’udir battezzare «per Dio vero, per Dio santo». I libri di pietà da lui raccomandati, stracciavansi e si gettavano ne’ mondezzaj: sulle pareti scrivevansi ingiurie, e si trovò appiccicato alla porta del duomo un cartello con Orate pro episcopo nostro eterodoxo.

Il Ricci aggiunge che s’insinuava non apertamente ma sordamente l’insubordinazione contro Leopoldo, quasi camminasse sulle traccie d’Enrico VIII, «il che però non fu chiaramente detto»; che s’attentò fin alla vita di lui vescovo: insinuazioni solite de’ partiti, e che l’onest’uomo disdegna, ma che davano pretesto di ricorrere alla protezione sovrana, e d’ottenere guardie e castighi. Essendosi poi sparso che il vescovo volesse togliere dalla cattedrale di Prato l’altare ove si presta particolare venerazione alla cintola della Beata Vergine, que’ plebani tumultuarono, e il 20 maggio dell’87 invasero la chiesa cantando e sonando nei modi che il Ricci proibiva; arsero il trono e gli stemmi di questo, e i libri portanti novità; riposero in venerazione le reliquie ch’erano state sepolte, e seppellirono invece le pastorali del Ricci; e in onta di lui si diedero a fare processioni e litanie e venerare le immagini.

La popolaglia non si ferma a mezzo nelle sue dimostrazioni; la fiera sollevazione usò sgarbi a chi più si era appassionato nelle novita, e son curiose le lettere ove essi ragguagliano il vescovo degl’insulti che ricevettero. Il granduca, professando «di non aver la minima paura, e che il Governo volea procedere col massimo rigore», represse i riottosi, e ventotto volle puniti in pubblico colla frusta ventuno condannati alla reclusione e sette alla milizia, egli abolitore del patibolo; ed esprimendo che s’astenea di far di peggio per condiscendere al Ricci.

Questi era rimasto immune, ma non convertito; nè il fu dalla bolla dogmatica Auctorem fidei del 28 agosto 1794, ove Pio VI condannava ottantacinque proposizioni di quel sinodo, di cui sette qualificava eretiche. Tali erano: essersi offuscate le dottrine e la fede di Cristo; la podestà esser data alla Chiesa, e dalla Chiesa riceverla i ministri; esser abusi il fôro esterno e il potere giudiziale coattivo della Chiesa; il vescovo ricevere da Dio tutti i diritti occorrenti a reggere la diocesi, a giudicarvi, a riformarne le consuetudini e le esenzioni, nè questi diritti potersi alterare o impedire: le riforme eseguirsi in sinodo dal vescovo e dai parroci con voto deliberativo; essere stato costume de’ secoli migliori che i decreti e le definizioni anche de’ Concilj non fossero accettate se non coll’approvazione del sinodo diocesano.

Altre proposizioni si notavano come erronee, sovversive della gerarchia ecclesiastica, o false, temerarie, capricciose, ingiuriose alla Chiesa e alla sua autorità, conducenti al disprezzo dei sacramenti e delle pratiche sante, offensive alla pietà de’ fedeli: e a ciascuna proposizione si indica il motivo della riprovazione, o perchè già condannata in Wiclef, in Lutero, in Bajo, in Quesnel, in Giansenio, o perchè opposta ai decreti di Trento, o lesiva dei diritti de’ Concilj generali.

Vaglia il vero, se ogni sinodo diocesano anche senza trascendere come questo, si arrogasse di definire sulla podestà, sul dogma, sulla disciplina, ove sarebbe più l’unità cattolica? Coll’esagerare i diritti dell’episcopato, lentavansi i legami gerarchici colla sede romana, e riducevasi il papa a nulla più che «il primo tra i vicarj di Gesù Cristo». Com’è divino, sebben delegato, il ministero de’ curati, così asserivasi divina la loro istituzione, e quindi faceansi congiudici nel sinodo.

Tutti i vescovi aderirono alla bolla Auctorem fidei, eccetto due di Toscana e Benedetto Solari di Noli, in cui difesa scrisse un anonimo, confutato poi dal Gerdil. E del Gerdil credeasi lavoro meditatissimo questa bolla. Prima d’emanarla erasi invitato a Roma il Ricci per iscagionarsi; egli non v’andò; pubblicata che fu, denunziolla al Governo toscano come attentatoria ai regj diritti. Perocchè, abbandonato dal popolo, dai pensatori, dagli ecclesiastici, egli s’appoggiava affatto al granduca, al Governo. Fin dal primo tempo che fu accusato di eterodossia, aveva diretta al granduca una difesa «di quelle verità che l’ildebrandismo chiama eresie». Al modo stesso Febronio si professava cattolico: ma quando Roma lo condannò il 27 febbrajo 1766, oppose che la Corte di Vienna e auliche magistrature l’aveano approvato.

Fallita l’idea del Concilio, il Ricci propose al granduca una legge, nella quale ordinava secondo le idee pistoiesi tutto quanto concerne la Chiesa, con arbitrio cesaresco e con sanzioni rigorose, fin a proibire a qualunque stampatore di pubblicare libri o fogli che trattassero di tali materie.

Stampò anche un’apologia: il granduca, ormai unico suo sostegno, mandò in esigilo il Marchetti, autore delle Annotazioni pacifiche, e perseguì gli autori del Dizionario Ricciano, ove di sarcasmi e celie opprimevasi il vescovo; ad istanza del Ricci fe pubblicare gli atti del sinodo; e anche dopo divenuto imperatore, raccomandava di tenere man forte nella diocesi di Pistoja contro gli emissari e gli aderenti di Roma, cioè quelli che voleano ancora esercitare le devozioni al modo avito, e seppellire i loro morti con croci e lumi. Fatto è che i Pistojesi andarono lieti quando, il 28 maggio 1787, il Ricci scrisse al governatore come le turbolenze sorte per cagion sua l’inducessero a domandare la sua dimissione da vescovo di Pistoja: insieme chiedeagli due grazie: la prima, perdonasse a quelli compromessi nella sollevazione di Prato; l’altra la pubblicazione del sinodo. — Tutti i miei buoni parrochi, che ne hanno formati e consacrati con me i decreti, desiderano ardentemente di dare al pubblico quest’attestato della loro fede e del loro zelo per la buona disciplina, ecc.»14. Il nuovo granduca scriveva al papa, l’aprile 1794: — Quanto erano stati mal ricevuti gli Atti del Concilio pistojese, sorgente di mille scandali, di controversie, di tumulti, con altrettanto applauso è stata accettata dal popolo e dal clero delle due diocesi la pastorale del vescovo Falchi, che ha fatte totalmente abolire le novità che si era tentato d’introdurvi»15.

Esso Ricci durava in assidua corrispondenza coi prelati che più mostravansi avversi ai diritti papali: al conte di Bellegarde vescovo, e al Colloredo arcivescovo di Salisburgo offriva di diffondere le opere in quel senso; col Gregoire consolavasi che «mercè di lui, una sacra filosofia cristiana va a succedere alla superstizione e all’irreligione che afflissero la Chiesa di Gesù Cristo» (10 marzo 1795): e il 14 giugno 1794 in cattivo francese: — Il papa è ora alla Certosa di Firenze. La scandalosa condotta de’ suoi famigliari contribuisce non poco ad abbattere l’opinione che il popolo ne avea. Dio voglia fargli misericordia! la Corte che lo circonda ha altrettanto orgoglio quanto aveva a Roma», e soggiunge che spende moltissimo, che mangia di grasso in giorno di digiuno: — Nulla m’ha più persuaso del cattivo stato in cui ci tuffava la bolla Auctorem, fatta sotto la scorta dei Gesuiti e del metafisico Gerdil, il gran consigliere del re di Sardegna di cui fu precettore». Vanno sull’egual tono altre lettere allo stesso. All’abate Giudici di Milano largheggia lodi perchè ama e professa la religione senza rinunziare alla ragione e al buonsenso; e gli augura lena e vigore per difenderla dagli attacchi de’ Saducei e de’ Farisei moderni, che sono tanto peggiori quanto più coperti nemici della casta sposa di Gesù Cristo. A Ferdinando Pancieri parroco di San Vitale, nel maggio del 1794 scrive: — Io per me non ho mai dubitato che Roma sia quella Babilonia di cui si parla nell’Apocalisse, in Geremia, ecc. Credo che lo spirito tutto carnale di quella curia ci adombri quella prostituta, che opera il male e se ne pavoneggia. Ma quanti secoli sono che questo scandalo regna? Chi ci dice che cesserà?»

Sull’egual corda intonava il Tamburini: — Voi mi affliggete sul presente aspetto delle cose ecclesiastiche e sul rovesciamento delle più belle speranze che si erano concepite di una opportuna riforma dei tanti mali che da gran tempo opprimono la sposa di Gesù Cristo. Parea già venuto il tempo delle misericordie. Il Signore avea suscitato in Israele dei buoni e zelanti principi, che, mossi dagli abusi grandissimi, che coll’essersi moltiplicati e dilatati, aveano piantate profonde radici, prestavano tutta l’opera loro per la necessaria riforma. Nelle varie parti d’Europa alcuni vescovi illuminati e probi corrispondevano con tutto lo zelo alle savie mire de’ principi. Dotti maestri nelle varie Università del mondo cattolico, spargevano i giusti principi della dottrina che servivano a consolidare la esecuzione delle diverse provvidenze de’ sovrani sugli articoli dell’ecclesiastica disciplina. La Toscana, sotto gli auspici dell’immortale Leopoldo, apriva il più bello e giocondo prospetto della desiderata riforma agli occhi dei giusti estimatori delle cose ed ai veri amatori del bene della Chiesa. La Lombardia austriaca e la vasta Germania, le provvidenze principiate da Maria Teresa e continuate da Giuseppe II, consolavano le speranze dei buoni ed annunziavano vicino il compimento della riforma ecclesiastica. I seminarii generali aperti, le università ristorate, i vari abusi soppressi, il progresso de’ buoni studii, l’unità delle massime, i vari capi di disciplina ristabiliti, tutto, tutto prometteva il felice ritorno dei più bei giorni della Chiesa di Gesù Cristo. Se dappertutto non trionfava la verità a fronte degli inveterati pregiudizii ancor dominanti, dappertutto almeno respirava dalla dura schiavitù in cui si era tenuta ne’ secoli antecedenti dai nemici di ogni bene e dai carnali figliuoli della Chiesa. L’appoggio che essa avea per divina misericordia trovato ne’ principi, rendeva sicura la difesa della medesima, e prometteva in un breve giro di anni la più felice rivoluzione nelle menti degli uomini. In questo apparato di cose ognuno riconosceva il dito del Signore e la voce di Gesù Cristo, che facendo cessar la procella, portava la calma ed annunziava alla sua Sposa giorni lieti e sereni. Ora chi avria mai detto che le cose cangiassero in un momento d’aspetto, e che un nembo improvviso, dissipando nel fiore le più belle speranze, minacciasse di far ricadere le cose nell’antico caos onde alzavano il capo? Una morte intempestiva rapisse alla Chiesa ed allo Stato due illuminati e zelanti sovrani nel più bello delle generose intraprese. Il torbido della Francia sparse dappertutto la confusione e il disordine. Sparisce la luce che era comparsa sull’orizzonte e succedono le tenebre....».

Di fatto i tempi si erano fatti grossi; la rivoluzione francese convelleva dalle radici l’antica società; e la perpetuità cattolica trovossi a fronte coll’idea quotidiana, il vangelo coi giornali. Mentre fin là i principi eransi adombrati del clero come troppo favorevole al popolo, al popolo fu presentato il clero qual sostegno dell’assolutismo; e la rivoluzione, non men dispostica dei re, arruffò le cose religiose e volle comandare alle coscienze. L’Assemblea Nazionale decretò che ciascun dipartimento di Francia formasse una sola diocesi, e ne assegnò il capoluogo; le divise fra dieci metropoli, cassando le altre; proibì di riconoscere l’autorità d’un vescovo o metropolita, la cui sede fosse in paese straniero; soppresse i capitoli, le collegiate, le abbazie, i priorati, le cappellanie, i benefizj, eccetto i vescovadi e le parrocchie; il nuovo vescovo non s’indirizzerà al papa per ottenere la conferma, solo scrivendogli come a capo visibile della Chiesa universale; ma la conferma chiederà al suo metropolita o al vescovo anziano della provincia. L’elezione dei vescovi e dei parrochi era affidata a un corpo elettorale, abolendo i patronati laicali. Il vescovo è pastore immediato della parrocchia episcopale, con un determinato numero di vicarj che l’amministrino, e formino il consiglio permanente del vescovo, che senza di loro non potrà esercitare verun atto di giurisdizione pel governo della diocesi. Al vescovo e al suo consiglio spetta la nomina de’ superiori del seminario, che son membri necessari del consiglio del vescovo. Al primo od al secondo vicario della chiesa cattedrale spetta il diritto di sostenere le veci del vescovo in sede vacante, sì per le funzioni curiali, sì per gli atti di giurisdizione.

È questa la famosa costituzione civile, che il Thiers chiama «opera dei deputati più pii, più sinceri dell’Assemblea, senza di cui i filosofisti avrebbero trattato il cattolicismo come le altre religioni». Così l’avessero trattato! ma questa era un’applicazione del giansenismo, e fu dai Giansenisti proposta e accettata come un mezzo di salvar almeno qualcosa: mentre la libertà qui pure avrebbe prevenuto gl’immensi mali derivati da questa mostruosità di trasformare i preti cattolici in semplici filosofi, che continuassero a dir messa senza creder nè al vangelo, nè alla Chiesa, nè alla divinità di Cristo; conservare il culto come pascolo del popolo e salvaguardia della sua moralità; commettere cioè una grande ipocrisia, quasi fossesi conservato il fondo. Così costringendo i preti a giurare d’essere fedeli alla nazione, alla legge, al re, alla costituzione decretata, la Costituente obbligò gli onesti a separarsi dalla rivoluzione, gettò la divisione nelle coscienze e negli atti, e rese necessario le migliaja di supplizj, che fanno ancora esecrata la memoria di quei tempi.

Il granduca, che era passato imperatore di Germania, trovò allora la necessità d’introdurre rigori anche nella mite Toscana, e di ristabilirvi il patibolo, che in placidi tempi aveva abolito. Da chi l’aveva inteso da un testimonio, fui assicurato che, quando Leopoldo tornò da Vienna a Firenze, il vescovo Ricci fu a fargli riverenza: — i vescovi giansenisti facevano riverenza ai principi anche austriaci per non farla al papa! e Leopoldo l’accolse a cortesia, e lo pregò di mostrargli le lettere che un tempo gli avea scritte, e di cui desiderava rinfrescarsi la memoria. Il Ricci gliele recò: ma dopo d’allora, per quante volte tornasse all’anticamera, non fu più ricevuto: anzi una volta l’imperatore si lasciò sentire rispondere al ciambellano: — Non ha capito che nol voglio ricevere?» e l’intesero i gentiluomini che stavano in anticamera.

Poco tardò il torrente a valicare le Alpi, e innondare anche la beata Toscana, sovvertendovi religione, leggi, consuetudini, pensare; il che allora, come altre volte, s’intitolava liberazione.

Il popolo (solite ingiustizie) a chi desiderava una novità attribuiva l’approvazione di tutte le novità; e per lui giansenista equivalse a giacobino. Nicola Spedalieri, nel libro che gli fu fatto scrivere sui diritti dell’uomo intitola un capitolo «Il favore accordato all’ipocrisia del giansenismo è la democrazia, come nel governo della Chiesa, così nel governo civile».

Il Ricci era propenso alle idee innovatrici; ma vedutone l’eccesso, pubblicò una lodata istruzione pastorale sopra i doveri dei sudditi, ove dice: — La debolezza in cui nasce l’uomo, e i continui bisogni che in ogni età l’accompagnano, ai quali senza l’altrui ajuto non può soddisfare, sono altrettante voci, che, sempre vive nel fondo del cuore di ciascheduno, lo avvertono incessantemente, e lo convincono essere fatto l’uomo per vivere in società. Ma come mai gl’interessi di tutti gl’individui, che, a motivo delle passioni che agitano l’uomo, gli uni agli altri si oppongono e si urtano assieme, potranno essere diretti allo scopo del pubblico bene senza un capo che da tutti indipendente e superiore a tutti, vegli al buon ordine, alla prosperità ed alla sicurezza del corpo? Da questo così semplice principio con facile raziocinio si ricava, che, siccome Iddio è il creatore dell’uomo, e l’autore di quella dolce tendenza, che ha a vivere in società, così dee essere anco l’autore della podestà dei sovrani, senza la quale la società medesima non potrebbe sussistere. E perciò le loro persone son sacre e inviolabili, a loro si dee rispetto e sommissione, ed alle loro leggi e ordinazioni una esatta ubbidienza. Nè vi lasciate ingannare da qualche preteso filosofo, che sotto il falso pretesto di amore all’umanità, rovescia i fondamenti della società medesima, facendo i sovrani ministri del popolo e non di Dio. Poichè quantunque la forma del governo venga originariamente dalla scelta e dal consenso dei popoli, nondimeno l’autorità del sovrano non viene dal popolo, ma da Dio solo. Perchè ha bensì dato Iddio al popolo la podestà di scegliersi un governo, ma in quella guisa che la scelta di quei che eleggono il vescovo, non è quella che lo fa vescovo, ma fa duopo che l’autorità pastorale di Gesù Cristo gli sia comunicata per mezzo della ordinazione, così non è solo il consenso dei popoli che fa i sovrani legittimi, e dà loro un vero diritto su i sudditi; onde è che l’apostolo non chiama i principi ministri del popolo, ma di Dio, perchè da lui solo riconoscono la loro autorità. Fatta poi una volta la scelta del governo, l’autorità legittima di fare le leggi risiede unicamente, e privatamente nel sovrano che lo amministra. Questo negli Stati successivi non muore giammai, ma perpetuandosi l’esercizio di sua autorità nei legittimi successori, ci obbliga a rispettare sempre in essi la immagine visibile dell’autorità di Dio invisibile. La Religione che, lungi dall’essere alla ragione contraria, anzi tanto la perfeziona quanto ne è superiore, di così sfavillante luce ha rivestito queste verità, e con tanta chiarezza in tutta la loro estensione a tutto il mondo le ha proposte, che ignorarle è colpa, e il tentare di alterarle, e porvi dei limiti non può essere che effetto di una fina malizia».

Eppure, quando al clero francese fu imposto di dare il giuramento alla costituzione civile, ai vescovi che ribellavansi al papa egli aveva indirizzato una Risposta ai quesiti sullo stato della Chiesa in Francia, propugnando i decreti dell’Assemblea Costituente. Al mutar dunque delle cose egli aderì ai nuovi governanti; e mostrò loro altrettanta devozione quanta agli antichi padroni. Ciò si chiamava civismo allora, italianità adesso.

Ma ben presto le armi che aveano portato la repubblica militare e l’empietà, portarono il despotismo militare e una reazione che diceano religione. Il popolo che, come ad ogni novità, dapprima aveva applaudito alle coccarde tricolori, al berretto rosso, agli alberi della libertà, alle municipalità, con altrettanto fervore e senno gli esecrò, e insorse contro i democratici con una ferocia da mai non aspettarsi in contrade che si qualificano gentili. In Firenze assalse il Ricci, e a fatica il Governo costituitosi lo sottrasse dal furore plebeo col farlo arrestare. — Sessagenario (egli si duole) fu tradotto come un vil malfattore per mezzo de’ sbirri a piedi, in una sera di piena illuminazione e per le strade le più popolate, alle pubbliche carceri», benchè egli si fosse sempre «fatto un pregio di distinguersi per il particolare attaccamento alla Casa d’Austria, e in ispecial modo ai sovrani che hanno governato la Toscana».

E dal carcere, poi da San Marco, infine da una villa in cui fu relegato scrisse varie lettere all’arcivescovo di Firenze, facendo atto d’intera sommessione. — Il Signore mi fece grazia di eccitare nell’animo mio una maggiore e filiale tenerezza verso il papa. Avrei ben di cuore desiderato di presentarmi ad esso quando era in Certosa per confessargli questi miei sinceri sentimenti e la parte che io prendeva alle di lui afflizioni; ma io non potea farlo senza il permesso del Governo». E soggiunge la più ampia professione di fede. Anche al papa che, strascinato fuor di Roma e a fatica ricevuto alla Certosa di Firenze, alfine era messo prigioniero a Valenza, scrisse il 1.° agosto del 99.

Erano i tempi, sempre sciagurati, della riazione; ma presto il ritorno dei Francesi nella Cisalpina e la battaglia di Marengo avvicendarono i tremanti e i minacciosi. Allora il Ricci, al 24 novembre 1800, al Pamieri in lunga lettera segretissima diceva ciò tutto avere scritto per violenza, per sottrarsi alle persecuzioni: «tra gli spaventi di morte e i più ignominiosi trattamenti mi obbligò l’arcivescovo a far una lettera a Pio VI, in cui protestava la mia ortodossia, ecc.». Altrettanto esprimeva al Gregoire nel gennajo seguente. In fatto egli, che avea ricusato accettare la bolla dogmatica «non potendolo secondo le regole della Chiesa», quando fu in carcere dichiarò accettarla «non altrimenti che inerendo alle regole della Chiesa»; cioè con un sottinteso, che spiega poi dicendo: — La pace pubblica della Chiesa e dello Stato esigeva un rispettoso silenzio sulla bolla Auctorem: tanto intesi di promettere nella sommissione, che professai secondo le regole della Chiesa. Io mi credei in dovere di appigliarmi a questo compenso seguitando il sentimento del grande Arnaldo, che fu il fondamento e la base della pace di Clemente IX»

Continuava dunque nello stile de’ suoi, non negando l’infallibilità del papa ma sofisticandone i modi; volendo ch’egli decidesse di concerto con tutta la Chiesa, e con certe regole canoniche. — All’arcivescovo Martini, esposi (scrive nelle Memorie), che la bolla Auctorem Fidei non fu a me spedita: che doveano essergli noti gli ordini del Sovrano perchè nè apertamente nè implicitamente fosse pubblicata: potei anche assicurarla che S. A. R. mi avea fatto dire che su questo affare dovea gittarsi una pietra, nè mai più parlarsene»; rendeva insomma il suddito giudice degli atti e della coscienza del superiore; e anche dopo la condanna persistette a supporre savj quelli soltanto che aderissero al suo conciliabolo. — Questo sinodo era commendato dalle persone più probe, più illuminate, più interessate pel bene della Chiesa. Avversarj erano tutti i nemici d’ogni buona riforma, gl’ignoranti, i falsi devoti, i fautori delle pretensioni della curia romana, gli avversarj della dottrina di sant’Agostino».

Tristo a chi si crede costretto a mutare tono colla politica! sciagurate le palinodie! Un nuovo ordine di cose impiantavasi sulle rovine dell’antico; le repubbliche divenivano regni e principati; all’ombra di nuove vittorie adunavasi un conclave, dove il Gerdil, autore della bolla contro il Ricci, sarebbe uscito papa se non metteagli il veto l’Austria; e il nuovo pontefice Pio VII andava in Francia a coronare Napoleone, che, dopo venuto in Italia ad abbattere i troni e gli altari, altari e troni avea rialzati. Allorchè, reduce da quell’atto. Pio VII passò da Firenze il 1805, il Ricci gli presentò nuova protesta «di non aver mai avuto altri sentimenti che quelli definiti dalla bolla di Pio VI; non sostenute nè credute le proposizioni enunciate nel senso giustamente condannato nella surriferita bolla, avendo sempre inteso che, se mai qualche parola o parole avessero dato luogo ad equivoco, fossero subito ritrattate e corrette».

Il papa l’accolse amorevolissimo, e anche dappoi il Ricci gliene scrivea ringraziamenti affettuosi: — Rammenterò sempre con filiale tenerezza il giorno felice in cui furono esauditi i miei voti; e nella vita ritirata che meno per attendere al grande affare della mia eterna salute, non cesserò mai di pregare caldamente l’Altissimo perchè conservi lungamente alla sua Chiesa nella santità vostra un pastore illuminato e zelante, e ai suoi figli un padre tenero ed amoroso, ecc.» (Firenze, 20 maggio 1805).

Le lettere che allora diresse agli amici suonano nel senso stesso: e sino al fedele Pancieri dice: — Io nulla tanto desiderava quanto questo, ma non potevo immaginarmi che ciò accadesse nel modo che ella avrà già saputo. Pio VII, superando le mie speranze, ha accolto con tanta amorevolezza i miei sentimenti sinceri di obbedienza e di attaccamento alla sua sacra persona.... Dicano quel che vogliono i maligni, non dobbiamo curarli. La dottrina cattolica è salva: noi abbiamo fatto ciò ch’era necessario per l’edificazione de’ popoli, mostrando il nostro amore alla unità; abbiamo tolto quello scandalo che taluni prendevano per ignoranza, altri per malizia. Il voler troppo difendere la nostra estimazione non era conforme all’esempio di Gesù Cristo» (15 giugno 1805).

Eppure allora stesso mandava al Targioni: — Ho alzato la voce senza riguardo; ho combattuto a campo aperto, coll’ajuto del Signore, finchè ho creduto volesse questo da me. Adesso il ritiro, il silenzio, la preghiera sono il mio dovere. Il tempo di parlare verrà, ma forse Iddio lo ha riservato ai nostri posteri, quando Babilonia avrà colmo il sacco. Non è per questo che il grido della fede non si senta sempre: ma, voglia Roma o non voglia, pur troppo la Chiesa ha adesso tutte le apparenze di debilitazione e di vecchiaja per l’oscuramento di tante verità che da molti s’ignorano, dai più non s’apprezzano».

L’intolleranza degli scrupolosi non sa vedere nel Ricci che frode e doppiezza. L’intolleranza degli adulatori venali, peggiore che quella degli inquisitori, lo qualificherebbe di vile, giacchè sostengono che rinnegò la propria coscienza per paura. Noi vi vediamo un uomo che errò, se ne pentì, ma non seppe reprimere ogni lampo di umana superbia: lo condanni chi è senza peccato. Ma in lui veramente si conosca quanto sia pericoloso il volere novità, che non entrarono nelle consuetudini o nelle idee del popolo, e il cercarvi appoggio dalla potenza governativa; e quanto a questa è improvido il mescolarsi in materie che spettano unicamente alla Chiesa, dovendo essa limitarsi a impedire che questa esca dalle sue competenze, e nel resto affidarsi alla libertà.

Nella calma degli ultimi giorni il Ricci radunò tutto il suo carteggio, poi compilò la propria vita, conchiudendo: — Qui farò fine a queste Memorie, che forse un giorno potranno servire di disinganno e di scuola a chi le vedrà; e quando pure restino sepolte, non sarà poco profitto per me l’aver riandato nel mio ritiro i tratti grandi della divina misericordia sopra un suo servo inutile. Sia dunque lode e gloria al Signore che ha esaudito le mie preghiere, disimpegnandomi da tanti cimenti a cui ero esposto; e disimpegnandomi con modi così inaspettati ed impensati. Voglia pur egli preservarmi da nuovi rischi, e mi dia grazia pei meriti di Gesù Cristo e colla intercessione di Maria Santissima, dell’angelo mio custode e de’ santi miei avvocati e di tutti gli eletti, di passare il resto di mia vita in modo, di esser in punto di morte chiamato a godere di quella eterna beatitudine che col prezioso suo sangue ci ha meritato. Fiat, fiat. Amen, amen».

E con tali sentimenti speriamo sia spirato al 27 gennajo 1810.

Altri molti il prevalere della rivoluzione avea richiamati al vero, ma il Tamburini proseguì anche dopo cessata la gara. Spargendosi che i Giansenisti l’avessero preparata colla loro insubordinazione, nelle Lettere teologico-politiche sulla presente situazione delle cose ecclesiastiche (1794) mostra come le riforme che i principi volevano introdurre negli affari ecclesiastici scontentassero il popolo, e scalzassero l’autorità dei Governi. — Moltissimi erano esacerbati dalla distruzione delle abbadie, risguardate utilissime al lustro delle famiglie; altri molti per la soppressione dei chiostri, considerati come opportuni alla comodità spirituale del popolo; altri non pochi per la distruzione delle confraternite, credute attissime a nutrire la pietà de’ fedeli. I principi cercarono produrre una rivoluzione nell’opinione degli uomini», ristorando le Università, e facendo pubblicare opere che «alla sovranità temporale vendicassero gli originarj diritti»: ma si confuse il calor della mischia coll’idea della vittoria, e fidandosi nella forza, i principi posero mano alla riforma nel calor della disputa, e recarono una ferita più acerba sì all’intelletto che alle passioni. Qui riferisce passi de’ caporioni della sêtta, tutti in favore della podestà regia e contro l’origine popolare della sovranità, asserita dal Buchanan e sua scuola; la taccia di Giacobini riversa sui Gesuiti, e la ribellione e il tirannicidio, cioè quel che oggi s’intitola liberalismo.

E appunto da libero cesarista egli asserisce che tocca allo Stato stabilire l’osservanza dei giorni festivi, gl’impedimenti e le dispense nel matrimonio, nel quale dee separarsi il contratto dal sacramento, nè proibirlo al clero; peccano i pastori che sinceramente non fanno ossequio alle leggi e ai voti de’ principi per la restaurazione della disciplina ecclesiastica; esser indecente che i sacerdoti vivano dell’onorario della messa.

Gian Vincenzo Bolgeni bergamasco (1733-1811), che con soda teologia e piana logica facilmente spezzava l’artifiziosa retorica del Tamburini, oppose anche a queste lettere un opuscolo, più serio e riservato che nol lasciasse sospettare il titolo, I Giansenisti son Giacobini? mostrando come essi appoggiassero, non l’autorità, bensì il regalismo. Al venir dei Francesi, il Tamburini ballò cogli altri attorno all’albero, cantando «Viva l’Università, figlia della ragione e madre della libertà», e presentò la sua Introduzione alla filosofia morale all’amministrazione della Repubblica Cisalpina, professando, come al tempo dei duchi, i diritti sovrani sopra la Chiesa, e che «vescovi e preti non hanno propriamente se non una direzione nel puro ecclesiastico» (pag. 330). In quella Introduzione espone le lezioni cominciate nel 97, ove confuta l’utilitarismo e deriva i supremi principj morali dalla convenienza delle relazioni degli esseri e degli atti col fine stabilito dall’Autore della natura.

Al tornare degli Austriaci nel 99 il Tamburini sofferse della riazione e dei rigori del vescovo Nani; poi Napoleone lo ricollocò all’Università, dove festeggiato dagli scolari, distinto dagli imperatori di cui accattò il favore combattendo i papi, visse sino al 1825 senza mai ritrattarsi, vantandosi carico d’anni e di scomuniche. Ebbe esequie onorevolissime e un Monumento nell’Università, ma l’edizione che si cominciò delle opere sue complete non ebbe lo spaccio che speravasi dalla proibizione, e lasciossi in tronco. Forza d’ingegno, prontezza, opportuna familiarità di esprimersi in argomenti scentifici non gli negano neppure gli avversarj.

Il suo amico Zola, col quale almanaccava una specie di conciliazione tra il filosofismo francese e la fede richiamata ai primordi, pubblicò il Piano d’una riforma ecclesiastica, e per qual modo i principi cattolici possano riuscirvi (1790): ma quando salì imperatore Francesco II, egli fu congedato, assegnandogli, è vero, lauta pensione e gli onori e le insegne del posto, non men che al Tamburini. Al venire de’ Francesi fu rimesso in posto, ma essendosi allora soppresso il seminario generale, egli tornò in patria, e sebbene vedesse la nazione bresciana decaduta troppo dalla prisca floridezza, v’accettò la cattedra di eloquenza. Ivi recitò un’orazione, nella quale il famoso anatomico Antonio Scarpa lodava «quella filosofica franchezza che pochi in simile argomento avrebbero osato di spiegare nelle presenti circostanze. Come si troveranno piccoli i nostri repubblicani e i nostri legislatori, i quali non sanno nulla di tutto ciò che Zola si propone d’insegnare! Come dovrebbero trovarsi umiliati quelli che a governare credono bastevole l’andar vestiti da ranocchi, con gran pennacchio e gran sciabola».

A lui vediamo prodigate lodi dagli scolari e dai colleghi, fino a dire, Nulla ferent talem sæcla futura virum; ma Germano Jacopo Gussago suo encomiatore parla «delle peripezie ch’egli ebbe a soffrire, sino a spargersi sopra di esso, da’ preti, da’ frati e da’ bigotti, sospetti di libertinaggio e di empietà». Fu sempre appassionato dei romanzi, nel che esortava a non imitarlo.

Allorchè di Francia, con un torrente d’armati ci fu trasmesso un torrente di errori, e della servilità nostra fu sintomo un vomito di opuscoli avversi alla religione e brutte copie di francesi, molti di quelli che aveano osteggiato il pontefice scesero nell’arena a difendere l’autorità, che aveano contribuito a scassinare. Ma l’alito del portico teologico di Pavia si sentì lungamente fra il clero lombardo, e proruppe fin nel 1855, allorchè qualche prete pavese, per la dichiarazione dogmatica dell’immacolata concezione, sofisticò sul modo della decisione e della promulgazione; volle vedervi un tentativo del papa di svertare l’episcopato; poneva in avvertenza il Governo; sperava che il potere civile proteggerebbe dalle persecuzioni ecclesiastiche: frasi conosciute e ripieghi consueti di quella scuola.

E in nostra gioventù vedevamo in Lombardia, il clero diviso tra papisti e giansenisti: questi ultimi, generalmente di austera condotta e di studio, e che facilmente curvaronsi alla servitù francese, impostaci col nome di libertà, ottennero impieghi, onori, vescovadi; pure non vi galleggiò alcun nome, che pareggiasse i tanto illustri di Francia.




  1. Il Ricci riflette che, in sua gioventù, era poco frequente il caso d’un indulto generale nella diocesi: e quando accordavasi, era solo per uova e latticinj, esclusine pur sempre i mercoledì, venerdì e sabati, la prima e l’ultima settimana, e le vigilie dell’Annunziata e di san Giuseppe: e mai non si concedeva due anni di seguito. Clemente XIII nel 1767 dispensò anche per l’uso delle carni, dal che venne grave scandalo; poi Pio VI abbondò.
  2. Ratum habemus quod a Deo traditum esse sanctæ matris Ecclesiæ auctoritas comprobavit. Catechis ex decreto Concilii tridentini ad parrochus, pag. 14.
  3. Bolgeni, L’Economia della fede.
  4. Nelle proposizioni di Pavia, si legge:
    «Hæresis janseniana est inane spectrum, calide confictum ab hostibus veritatis ad suos adversarios opprimendos».
  5. Una delle maggiori accuse che Pietro Leopoldo appone ai Minori Osservanti, è che «il lettore pone per principio che il governo della Chiesa è monarchico, e che il romano pontefice ne è veramente il monarca. Questa eresia si fa passare come un articolo di fede.... Tralascio di accennare gli altri spropositi sulla superiorità del papa al Concilio». — Faceva pietà (dice altrove) il legger gli scritti di quei lettori (frati).... Le Bolle dei papi erano venerate come regola di fede. La loro infallibilità era data per domma». E del suo sinodo dice: — Troppo si temevano le conseguenze dai partigiani della Corte di Roma, che prevedeva l’effetto che potea produrre contro l’antica macchina della monarchia papale un corso di dottrina e disciplina insieme raccolto, e fondato sul vangelo e sulla tradizione, assortito appunto per battere in dettaglio quella diabolica ed anticristiana invenzione».
  6. 1781, con note del Guadagnini.
  7. 1771. Altre sue opere sono:
    De justitia Christiana et de sacramentis. Pavia, 1783 e 84.
    De ultimo hominis fine, deque virtutibus theologicis et cardinalibus. Pavia, 1785.
    De Ethica cristiana. Pavia, 1785.
    De verbo Dei scripto ac tradito. Pavia 1789.
    Introduzioni e lezioni di filosofia morale, volumi 7 in -8, dal 1802 al 1812.
    Saggio di poesie composte oltre l’ottantesimo anno.
    Il Tamburini insiste sulla necessità della perfetta concordia de’ fedeli, dell’unanimità almeno morale di tutti coloro che non si sono apertamente separati dall’unità della Chiesa. «Non si può trattare d’eretico o scismatico (dic’egli) chi, dubitando dell’unanime consenso della Chiesa intorno ad una decisione del papa o della seda apostolica, ricusasse d’aderirvi». Vera idea, parte II, c. 4, § 18.
    Basta dunque un solo dissenziente. Eppure i Giansenisti si considerano in libertà di resistere: in dubiis libertas.
    S’ha una lettera del Gioberti fin del 1830, diretta all’avvocato Saleri di Brescia, ove applaude ad un costui Elogio del Tamburini, effondendosi nelle lodi di questo, siccome grand’osteggiatore di «quella setta potente che, dopo corrotta la morale, corrotti i dogmi e la disciplina, vuol mescere il cielo colla terra, la società civile colla ecclesiastica, il regno spirituale col temporale, perpetuare gli abusi presenti, far rivivere quelli della bassa età, e spenta ogni civiltà moderna, richiamare nella religione e nel mondo l’antica barbarie». Esorta il Saleri a raccogliere tutte le lettere del Tamburini; e a procurare un’edizione compiuta delle sue opere a Firenze, dove la censura è più benigna.
  8. Episcopatui romano non ita adnexum dicimus primatum, ut Ecclesia illum in aliam quamcumque cathedram transferre non possit.
    Arnaldus Brixiensis nec proprie schismaticus fuit, nec seditiosus, nec turbulentus.
    Nullus episcopus, nec romano excepto, potest aliquem excommunicare, nisi de consensu, saltem præsumpto, totius corporis Ecclesiæ.
    Hæresis janseniana est inane spectram, calide confictum ab hostibus veritatis, ad suos adversarios opprimendos.
    Ecclesia subesse potest errori in definiendo sensu librorum qui canonici non sunt.
    Quælibet gratia Christi efficax est.
    Romanus pontifex pastorale munus exercere nequit in alterius diœcesi, absque proprii ordinarii facultate.
    Episcopi suam a Christo immediate jurisdictionem habent, non a romano pontefice.
    Concilia generalia esse supra pontificem propugnamus.
    Ecclesia nullam habet potestatem conferendi indulgentias pro mortuis.
    Approbationes confessariorum nec ad loca nec ad tempus limitari possunt.
    Romanus pontifex in rebus fidei ac morum, etiam cum Ecclesia sua particulari, judicium pronuncians, subesse potest errori.
    Irrefragabilis conciliorum auctoritas minime pendet a confirmatione romani pontificis.
    Index librorum prohibitorum congregationis romanæ nequit esse regula pro discerneadis bonis libris a malis.
  9. Gaetano Incontri (— 1781) di cui lodaronsi grandemente la Spiegazione sopra la celebrazione delle feste. Il suo Trattato teologico sulle azioni umane, denunziato alla sacra Congregazione, non fu trovato riprovevole.
  10. «Molti invero sono i pregiudizj che dalla libertà di pensare, di parlare, di leggere ho riconosciuto esser derivati alla nostra santa religione da qualche tempo in questa nostra città, e che hanno aperto più libero il campo al libertinaggio, dappoichè le podestà ecclesiastiche non hanno potuto usare dell’autorità loro; ed essendone da più parti giunta la notizia alla santa sede, ho ricevuto dei forti eccitamenti dal sommo pontefice per riparare agli abusi onde l’ho supplicato a confortarmi col suo ajuto nell’adempimento del mio ministero. All’occasione, nelle maniere più proprie, ho pensato alle volte, affine di non mancare verso il popolo alle mie cure spirituali confidato, d’istruirlo con degli avvertimenti pastorali, e mi è stato impedito come è noto; me ne sono rispettosamente rammaricato; ho fatto sovra a varj punti appartenenti alla religione ed al costume, siccome sopra altre maertie concernenti l’ecclesiastica disciplina, delle umili rappresentanze, e per mio demerito non sono stato esaudito. Vostra eccellenza sa quante volte mi sono dato l’onore d’essere ad ossequiarla per parteciparle le mie più riverenti e fervorose istanze; sicchè confesso che nelle divisate contingenze mi trovo alquanto disanimato. Qualora poi venga assistito nell’esercizio del mio vescovile impiego dalla suprema autorità che vivamente imploro, m’incoraggierei molto, nè avrei più che desiderare. Con tal fiducia pregando V. E. a riprotestare all’imperial consiglio la mia più distinta venerazione mi pregio di rassegnarmi di V. E., ecc.». È del 1752. A proposito dell’abolizione della censura avendo il vescovo di Chiusi mosso alcun richiamo, fu obbligato ritrattarsi, e scriveva: «Sacra Cesarea maestà. Con estremo rammarico e cordoglio dell’anima mia appresi da sua santità le aspre doglianze avanzate dalla maestà vostra contro la mia povera persona, come che abbi avuto il temerario ardimento di offendere la di lei imperiale persona, mio augustissimo sovrano.... Mi riconosco in debito di presentarmi ossequioso al trono della c. m. v., ecc.».
  11. Così il Ricci, nell’autobiografia manoscritta.
  12. Tra la farragine d’opere pubblicate allora, citiamo:
    Memorie istorico-ecclesiastiche per servire d’apologia a quanto viene presentemente praticato in differenti corti d’Europa per condurre la disciplina ecclesiastica, e specialmente regolare (per quanto sia possibile), nel primiero suo istituto, opera d’un italiano; colla falsa data di Conisberga 1782, e l’avviso che si vende dal librajo Bindi a Siena.
    La Monaca ammaestrata del diritto che ha il principe sopra la clausura, e della libertà che le rimane di tornarsene al secolo soppresso il monistero e l’istituto, 1783.
    Della monarchia universale de’ papi, 1789.
    Necessità e utilità del matrimonio degli ecclesiastici, in cui si dimostra che il papa può dispensare quelli che chieggono, 1770.
    Piano ecclesiastico per un regolamento da tentare nelle circostanze dei tempi presenti. Venezia, 1767.
    Raccolta di opuscoli interessanti la religione. Pistoja, stamperia Bracali, 1786, e avanti: 17 vol.
    Ragionamento intorno ai beni temporali posseduti dalle chiese, dagli ecclesiastici e da tutti quelli che si dicono Manimorte. Venezia, 1766.
    Rendete a Cesare ciò ch’è di Cesare.
    Sonetti contro le opinioni di Michele Bajo, di Giansenio iprense, del Belelli, del padre Berti agostiniano, del Viatore, del Rotigni, del Migliavacca (proibiti nel 1762).
    Gesù Cristo sotto l’anatema e sotto la scomunica, ovvero Riflessioni sul mistero di Gesù Cristo rigettato, condannato e scomunicato dal gran sacerdote e dal corpo dei pastori del popolo di Dio; per istruzione e consolazione di quelli che, nel seno della Chiesa, provano un simile trattamento. Pistoja, 1786.
    Vedasi principalmente Istoria dell’assemblea degli arcivescovi e vescovi di Toscana. — Punti ecclesiastici, compilati e trasmessi da S. A. R. a tutti gli arcivescovi e vescovi della Toscana e loro rispettive risposte. Firenze, 1788. Al frontispizio è una stampa con figure simboliche, e al di sotto un genietto che tiene aperto un libro, sul quale è il titolo Enciclopedie. All’esposizione di tutte quelle infinite ordinanze, che quasi tutte concernono materie affatto ecclesiastiche, come messali, libri di preghiere, catechismi, massime di teologia morale e fin dogmatica, premette: «Furono ammirati i lumi del principe sopra l’ecclesiastica disciplina, e la di lui moderazione nel sottoporre all’altrui giudizio quello che egli poteva liberamente determinare come di sua piena competenza». Proemio, pag. 4. Fra le carte del Ricci, oltre il carteggio suo col granduca nel 1783, v’è un gazzettino dell’assemblea, manoscritto farcito di pettegolezzi. Inoltre molti scritti di accuse e discolpe per quel che si faceva nel sinodo. Contro del quale, fra tanti altri, scrisse Carlo Borgo di Vicenza gesuita, autore d’un Arte delle fortificazioni e difesa delle piazze, per cui Federico II lo nominò tenente colonnello. Premio satirico.
    Nel 1769 viaggiò in Italia Agostino Gian Carlo Clement di Auxerre, uno de’ più ferventi missionarj delle opinioni giansenistiche, e vi incalorì i suoi partigiani; tra i quali Foggini, Bottari, Del Mare, Palmieri, Tamburini, Zola, Alpruni, Pujati, Nanneroni, Simioli conservaronsi seco in carteggio, e se ne hanno lettere nei 24 volumi che ne restano. Descrisse questo suo Viaggio in Italia ed in Ispagna (1802, 3 vol.) in modo goffo e vanitoso.
  13. Numero XIII del Decreto di fede. Ma nel n. X erasi scritto: — Non può temere il fedele che la Chiesa abusi giammai di questa autorità. L’assistenza divina, che la assicura di non errare quando esprime il suo giudizio sulla dottrina e la morale, le assicura per la stessa ragione il privilegio di non abusare. Se tale sicurezza mancasse, saremmo egualmente incerti nella nostra credenza, e potrebbe sempre chiedersi se la Chiesa avesse o no abusato della sua autorità, o si fosse dipartita dalle vere sorgenti, che rendono infallibili le sue decisioni; sicchè le decisioni della Chiesa resterebbero soggette ai capricci e al giudizio d’ogni privato».
  14. Lettera nell’archivio secreto di gabinetto. Affari del vescovo di Pistoja, filza XIII.
  15. Archivio Ricciano, filza XVI.
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