< Italiani illustri
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Gregorio VII
Torquato Tasso Gabriele Malacrida


La legge di perfezione del cristianesimo reagisce dalla Chiesa nella società. Soffrendo e combattendo, la Chiesa tendeva senza posa ad assimilare quanto le sta dattorno, a conquistare i conquistatori, essa che sola avea nozioni ben determinate sui Governi e sulla moralità, che non guardava le nazioni ma gli uomini, e li proclamava eguali perchè tutti creature di Dio; liberi, perchè tutti servi ad un signore non terreno. Sentì ella quanto importasse incivilire la Germania, per arrestare l’onda dei Barbari che da tanti secoli rompeva sopra la indifesa Europa, laonde la introdusse nella società, come non era riuscito alla Roma degli Augusti; le inviò arti e lettere con missionarj che s’avanzavano senz’altro armi che la virtù, gli esempj, l’amor del bene. Che importava alla Francia quel che facessero la Danimarca o la Croazia? ma Roma ne prendea pensiero; spediva legati e nunzj prima che si usassero ambasciadori: spediva giudici, e stabiliva tribunali di nunziatura là dove conosceasi unico diritto la spada; dettava leggi comuni dove tutte le scomponeva il feudalismo; collocava dappertutto una milizia permanente di pace e di lavoro. I nuovi regni per costituirsi chiedeano la benedizione di Roma, volontieri prestandole un omaggio di pura devozione, che legittimava il loro dominio e li garantiva da pretensioni altrui.

Così il sacerdote dominava colla doppia clientela della fede e dell’interesse; e se la Chiesa non potè sradicare le inumane guerre di mezzo ai Cristiani, vide però popoli feroci e irrefrenati sottomettere i loro litigi al suo inerme arbitrato; pose termine alle invasioni coll’affiggere i Barbari al terreno dove aveva edificato la chiesa e il vescovado; insegnò a coltivare la terra, rispettare la vita dell’uomo, affezionarsi alla cattedrale, al convento che divenivano patria e focolaj d’incivilimento, e modelli di gerarchico potere e di civili ordinanze. Unica parola sentita era quella del pulpito, e impediva l’Europa di divenire quello che divennero i paesi ove la voce del sacerdote rimanea muta od uffiziale: il pio dolore, la asserita eguaglianza, i dolci sentimenti, le profetiche minacce, l’additata retribuzione erano continue proteste contro della prepotenza; proclamavano, benchè violata, la legge morale; perpetuavano dottrine che diverrebbero base del pubblico diritto. Immenso uffizio della parola, che vince l’ignoranza e la violenza, resiste ai re ed affratella i popoli! E il popolo, che non s’inganna nelle sue simpatie, si volge a quest’alito che rinfresca l’aere infocato, e impara i suoi diritti nell’adempiere i suoi doveri.

Fu per questo modo che la Chiesa venne a preponderare nello Stato, come il papato nella Chiesa; e la Roma cattolica toccò il vertice di sua magnificenza. Dov’è notevole che i re più robusti furono quelli che più largheggiarono di beni e giurisdizioni al clero, come Carlo e Ottone Magni, Alfredo, Guglielmo Conquistatore; attesochè l’uomo grande non s’alza deprimendo ciò che lo circonda, bensì traendolo alle proprie intenzioni, sempre vaste e grandiose.

In Germania nella nobiltà stava la forza, nel clero l’educazione: quella tutelava a punta di spada le costumanze settentrionali, le franchigie, l’onore; questo raddolciva gli animi per via delle lettere, dell’ordinamento, della subordinazione, non guardando ad una gente sola, ma a tutto il genere umano. Però le attribuzioni proprie a ciascuno, e per le quali avrebbero, di conserva ma distintamente, ajutato l’incivilimento, presto si confusero. E la giurisdizione ecclesiastica ormai non era più una concessione, ma un diritto; e Carlomagno stabilì potessero le curie pronunziare in tutte le cause, fossero anche portate loro da una parte sola; lo che moltiplicò il concorso a quel Foro, quanto meno nel secolare si trovavano dottrina ed equità. Con ciò gli ecclesiastici non usurpavano un potere, giacchè nol toglievano a nessuno; ma lo raccoglievano dal fango dove era caduto pe’ suoi eccessi: acquistavano la superiorità, legittima e naturale a chi è migliore.

Quando il regime sociale annetteva la giurisdizione ai possessi di terre, dovette la Chiesa studiar di accrescere i proprj, e così collocarsi colla più alta gerarchia anche mondanamente. E in fatto acquistò smisurate ricchezze, sì perchè sola ordinata fra il disordine universale, sì perchè coltivava i campi meglio che nol facessero i secolari, e li garantiva coll’immunità concessa ai possessi di essa: sia perchè la devozione, e l’idea allora dominante dell’espiazione, induceva molti a lasciare i proprj beni alla Chiesa: altri ad essa li donavano per sottrarli alla rapina signorile, ricevendoli poi da essa come livelli o feudi o benefizj, protetti dall’immunità ecclesiastica.

I popoli nel pontefice non veneravano solo il vicario di Cristo, il depositario dell’eterna verità, ma il tutore universale, il freno de’ prepotenti, l’oracolo della giustizia; i nuovi convertiti piegavansi a questo, dal quale eran venuti ad essi i missionarj, e deferivangli le cause più controverse.

I papi, volendo rintegrare la grandezza romana, sicchè non restasse più l’Italia a dominazione di Barbari, resuscitarono l’Impero abbattuto da questi, e Adriano papa incoronò Carlomagno qual imperatore d’Occidente.

Così originava quella sistemazione del mondo cristiano, che durò tutto il medioevo e ne fu il carattere. Secondo questa, ogni autorità deriva da Dio. E Dio l’affidò al suo vicario in terra, che virtualmente rimane capo dell’intera umanità, raccolta nella Chiesa universale, ed ha dal Cielo la potenza spirituale e la temporale. La spirituale partecipa egli coi vescovi, che la esercitano sotto la sua supremazia; la temporale egli affida all’imperatore da lui consacrato, che, dopo unto da lui, e dopo giuratogli d’osservare la legge di Dio e le costituzioni dei popoli, sotto l’alta sua direzione diviene capo visibile della cristianità negli interessi terreni. Come tale, primeggia sopra tutti gli altri re: giusta il costume ecclesiastico, non è ereditario, ma scelto ogni volta, ogni volta coronato. Le due podestà s’appoggiano l’una l’altra, onde non possono separarsi; neppure possono distruggersi fra loro, diversa essendo la natura della loro giurisdizione. L’imperatore qualche volta pretenderà aver mano nell’elezione dei papi perchè migliore riesca, ma questi zeleranno sempre l’indipendenza della Chiesa e de’ suoi capi. Se l’imperatore viola la legge di Dio e i patti col popolo che lo elesse, il papa lo pronunzia decaduto, e lo separa anche dalla congregazione dei fedeli mediante la scomunica. Nei litigi fra l’imperatore e il popolo o i re, il papa proferisce come arbitro supremo, e con una sanzione spirituale.

Così un sacerdote, senz’armi, senza interessi domestici o dinastici, senza pregiudizj di nazionalità, decide le controversie fra’ regnanti, intima l’onestà, la giustizia, la carità a quelli che non conoscono se non la violenza; e gli obbliga a obbedire in nome di Dio.

Roma, dopo convertita, avea tenuta la Chiesa in quella dipendenza, che già soleva la religione nazionale: tal dipendenza ora cessava. Fra i popoli germanici antichi però i diritti e le funzioni ecclesiastiche erano mescolati col potere civile; sicchè, dopo fatti cristiani, essi ammettevano i vescovi ne’ consigli del regno, come duchi e conti e re assistevano ai sinodi ecclesiastici, intrecciandosi lo Stato e la Chiesa, il cristianesimo e la nazionalità. I regni che formavansi di nuovo cercavano una sanzione col prestare omaggio al pontefice e dichiararsene vassalli. Quando sol dalla sciabola d’un soldato o dalla tracotanza d’un feudatario erano decisi i litigi, la Chiesa conservava forme legali, esame di testimonj, scritture, contratti; sicchè fu un grande acquisto di libertà pei popoli e un gran ritegno ai principi l’estendersi del diritto canonico, complesso di ordinanze emanate dall’autorità più disinteressata.

I vescovi, in nome di questo diritto e pel carattere che rivestivano, come anche per la potenza cui erano saliti come grandi baroni ed elettori dei re, ammonivano i potenti qualora sviassero dalla giustizia; proteggeano la donna dagli anormali istinti e dagli arbitrj brutali; colla tregua di Dio e coll’asilo ne’ luoghi sacri rimediavano alle guerre, incessanti ove vigeva il diritto del pugno, cioè della vendetta privata.

Qual meraviglia se il capo de’ vescovi crebbe tanto di potenza? Questa non è nell’essenza della sua missione, ma non vi ripugna, e diveniva occasione di svolgere ed ampliare l’incivilimento. Roma provvedeva anche ai più lontani popoli, ricevendo reclami, scrivendo, citando, mandando nunzj, istituendo tribunali di nunziatura ove nessun altro ve n’avea; ponendosi arbitra ne’ dissidj fra principi o di questi coi popoli; dettando leggi comuni, fondate sulla giustizia eterna, e delle quali, anche in circostanze sì mutate, possono alcune trovarsi inopportune, nessuna ingiusta.

Che se già da prima il papa interveniva giudice od arbitro ne’ grandi interessi dell’Occidente, più il fece, dopo che all’estesa monarchia di Carlo successero tanti piccoli regni, di forze equilibrate; uffizio popolare, che ovviava le guerre, proteggeva il debole, significava il voto della giustizia contro gli arbitrj dei regnanti. Ed è per verità sublime concetto, un sacerdote inerme, che scevro da mondani interessi, pronunzia nelle contese pubbliche e internazionali; e in un mondo governato dell’opinione più che da leggi politiche, parla d’onestà e dovere a coloro, cui unico diritto sono il capriccio e la forza: tipo sublime, che forse non fu mai attuato pienamente; ma esercitò ben maggiore efficacia che non i tanti altri sistemi, fantasticati per mantenere una libera alleanza o federazione tra i popoli civili.

In Occidente, ove più, ove meno, ma dappertutto era riconosciuto il primato del vescovo di Roma sugli altri. Questo si assodò coll’estendere l’uso di spedire legati pontifizj con ampj poteri; che, sicuri dell’esterno appoggio, parlavano sul gagliardo a principi e prelati.

Tanta potenza acquistata dai vescovi e dai papi non potea non venire a cozzo coll’autorità secolare. La Chiesa avea sempre gelosamente provveduto l’elezione de’ ministri suoi libera fosse, e già ne’ canoni primitivi si pronunzia deposto chi sia eletto da podestà secolare. Ma dopo che la pietà dei fedeli e la politica dei principi alzarono i vescovi e gli abati tra i maggiori possidenti, e l’ordinamento dei tempi li collocò feudatarj, parve ai re aver buona ragione per obbligarli a ricevere da essi la investitura del benefizio; cioè che vescovi e abati nuovi dovessero prestar l’omaggio al principe, e chiederne la conferma de’ possessi e delle giurisdizioni, delle quali esso gl’investiva.

I principi e i baroni, invidiando le vaste ricchezze e il conseguente potere acquistato dalla Chiesa, ne voleano almen qualche porzione. Ogni vacanza di vescovadi e del papato apriva l’arena a brogli, a corruzioni, a violenze; disputandosi la mitra e la tiara, siccome un tempo la corona imperiale. Gli imperatori, quai tutori della Chiesa, credettero rimediarvi col presedere alle elezioni e confermarle: ma ciò che prima era una protezione, un riparo a deplorabili abusi, divenne un’arroganza e un peso quand’essi non tennero per legittima l’elezione d’un papa se non fosse approvata da loro.

Secondo le norme feudali, ogni dovere veniva da un impegno personale; il possesso medesimo era una concessione, simboleggiata con atti materiali e solenni, e condizionata a patti espressi. Tale natura aveano anche i possessi, di cui gli imperanti o i baroni investivano le chiese e gli ecclesiastici, a titolo di regalie. In conseguenza essi pretendevano godere di quei beni duranti le vacanze (regalia utile), e conferire i benefizj mentre i vescovadi vacassero (regalia onoraria): pel qual modo l’imperatore e gli alti signori investivano i prelati non solo dei beni, ma della dignità, cioè non solo collo scettro e la spada che significavano il possesso temporale, ma anche coll’anello e il pastorale che esprimevano la podestà spirituale; e ne esigevano l’omaggio e la promessa di soggezione.

Era un mettere in ceppi la Chiesa e alterarne lo spirito; imperocchè, le fazioni portando imperatore ora un Franco, ora un Italiano, ora un Tedesco, a capriccio di questi modellavasi la scelta de’ papi; la tiara acquistavasi per intrighi di donne, cabale di politicanti, violenza di bravi; papa Formoso, forse perchè mostratosi avverso alla fazione italiana, era fatto dissepellire dal suo successore, e giudicare, e condannare ad avere mozzo il capo e le tre dita con cui benediceva, poi gittate nel Tevere, disacrando quelli che da lui aveano ricevuto l’ordinazione; Teodora e Marozia portavano al supremo seggio i loro favoriti e parenti; la fazione di Albano o quella di Tusculo, l’italiana o la tedesca ergeano, deponeano, richiamavano i papi, fino a crearne uno di 18 anni (Giovanni XII). Questi disordini sono raccontati colle esagerazioni consuete ai partiti, fino a dire che sedesse papa una Giovanna, la quale poi, nella solennità d’una processione, fu côlta dal travaglio del parto.

Gli uomini di retta volontà rifuggivano da tali accatti; onde le cattedre restavano a gente, che, salitavi per sì infelici scale, come avrebbe mostrato quella perfezione di virtù che è richiesta dalla Chiesa? come avrebbero potuto esser gli uomini del popolo e di Dio, se prima dovevano essere gli uomini del re? e come non essergli uomini del re, quando questo li sceglieva secondo i suoi interessi?

Pertanto lusso e corruttela e bagordo nel santuario; e non solo le cronache, ma le invettive de’ migliori ed i Concilj attestano tale depravamento, da mostrare che veramente divina era l’istituzione della Chiesa se non soccombette. — Han fame d’oro (esclama Pier Damiani contro i prelati), e dovunque giungono vogliono tosto vestir le camere a gale di cortinaggi, meravigllosi di materia o di lavoro: distendono sulle seggiole gran tappeti ad immagini di mostri; larghe coltri sospendono alla soffitta perchè non ne caschi polvere; il letto costa più che il sacrario, e supera in magnificenza gli altari pontifizj; la regia porpora d’un sol colore non contenta, e si vuole coperto il piumaccio con tele miniate d’ogni genere di splendori. E perchè le cose nostre ci pajono sordide, godono soltanto di pelli oltremarine, condotte per molto argento; il vello della pecora e dell’agnello si ha in dispetto, e voglionsi ermellini, volpi, màrtori, zibellini. Mi vien fastidio a numerare queste borie, che movono a riso, è vero, ma a tal riso che è radice di pianto, vedendo questi portenti d’alterigia e di prodigiosa follia, e le pastorali bende sfavillanti di gemme e qua e là scabre d’oro». Quando Arnolfo arcivescovo di Milano andò ambasciadore alla Corte greca, traeva immenso codazzo d’ecclesiastici e secolari, fra cui tre duchi e assai cavalieri, ai quali avea distribuito pelliccie di màrtoro, di vajo, d’ermellino; esso poi montava un cavallo di ricchissima bardatura, ferrato d’oro, con chiovi d’argento.

Quel fasto, secondo le idee d’oggi, indicherebbe una superiorità di incivilimento, di cortesia, di raffinatezza. Ma di questi scialacqui come i prelati poteano rifarsi? dilapidando le chiese e i poveri, rivendendo le dignità minori, guastando così l’umor vitale fin nelle parti estreme. Assenti dalle diocesi anche per tutta la vita, addestrandosi alle battaglie colle caccie, corteggiando principi, i vescovi corrompevano i proprj e lasciavano corrompere i costumi del clero nella guisa più deplorabile. Sul modello de’ grandi, i patroni laici faceano bottega de’ benefìzj e delle cure; mentre i secolari, a cui i chiostri erano dati in commenda, vi lasciavano sfasciarsi ogni disciplina.

Clero e popolo, trovandosi esclusi dalle elezioni e imposti superiori sconosciuti o perversi, mal si rassegnavano all’obbedienza o ne nascevano turbe e tumulti. I laici non badavano alle scomuniche, sapendo che già n’erano colpiti quelli che le lanciavano. Il beato Andrea, abate di Vallombrosa, esclama: — Era il ministero ecclesiastico sedotto da tanti errori, che appena si sarebbe trovato alcuno alla propria chiesa; chi con isparvieri e cani dandosi attorno, perdevasi in caccie; chi faceva da tavernajo, chi da usuriere; tutti con pubbliche concubine passavano vituperosamente lor vita, tutti fradici di simonia, tanto che nessun ordine o grado dall’infimo al sommo poteva ottenersi se non si comprava al modo che si comprano le pecore. I pastori, cui sarebbe toccato rimediare a tanto guasto, erano lupi rapaci».

A tanta corruttela i Concilj opponevano decreti di morale e disciplina, che nel mentre attestano il vizio, accertano che almeno vi avea proteste contro di quello. Ma finchè mercanteggiavansi le chiese, finchè se ne otteneano le dignità per denaro e brogli, finchè il libertinaggio di chi le occupava inchinavasi ai principi venditori più che non ai pontefici riformatori, potea mai sperarsi che i vescovi ricuperassero l’indipendenza d’autorità, di cui aveano fatto getto per acquistare la libertà de’ costumi? Depravata la Chiesa perchè si secolarizzò, bisognava tornarla alle norme ecclesiastiche, rinvigorire il sacerdozio, e, sua forma più stretta, il monachismo; sopra i malvagi, di qualunque grado fossero, istituire un censore, indipendente da temporali potestà; e tale non potendo essere se non il papa, era duopo sottrarre l’elezione di esso ai laici, sciogliere i sacerdoti dal legame feudale, e perciò isolarli dalle famiglie.

Chi si accingesse a rompere il triplice vincolo della terra, della famiglia, dell’autorità, con cui il clero trovavasi inceppato alla società, troverebbe durissimo cozzo nei re che scapitavano di potenza, nei preti che perdevano comodità alle passioni, nelle molli abitudini. Non poteva egli esser dunque che un eroe; nè i passi dell’eroe e in età sciagurate possono misurarsi col metro dell’uomo ordinario e de’ tempi quieti.

Nel monastero di Cluny era cresciuto Ildebrando, nato il 1013 a Soana nel Sanese; ed erudizione profana e sacra, integerrimo costume, cuor retto, giudizio ponderato nell’ideare, ferma prudenza nell’eseguire, presto lo segnalarono. Compunto della degradazione della Chiesa, ad Ugo abate suo scriveva: — Deh potess’io farvi comprendere da quante tribolazioni son io assalito, quali incessanti travagli mi premono ogni dì peggio! Quante volte ho chiesto al divin Salvatore mi togliesse da questo mondo, o mi lasciasse divenir utile alla comune madre nostra! Inesprimibile dolore e profonda tristezza invasero l’anima mia al contemplare la Chiesa d’Oriente, che lo spirito delle tenebre separò dalla fede cattolica. Volgo a occidente, a mezzodì, a settentrione? appena vi scopro alcuni che abbiano assunto l’episcopato per vie canoniche, vivano da par loro, governino il gregge in ispirito di carità, non col dispotico orgoglio dei potenti della terra. Fra’ principi secolari, nessuno che preferisca la gloria di Dio alla sua propria, e la giustizia all’interesse. Di quelli fra cui vivo, Romani, Lombardi, Normanni sono peggio che Giudei e Pagani. Se torco sovra me stesso, trovomi talmente oppresso de’ fatti miei, che speranza di salute non veggo, fuor della misericordia di Gesù Cristo. Che se io non avessi speranza di vita migliore e di giovare alla Chiesa, non dimorerei più a Roma, lo sa Dio, dove mi trovo come incatenato da venti anni, diviso fra il dolore che ogni giorno mi si rinnova, e una speranza, troppo, ohimè, lontana: assalita da mille tempeste, la mia vita non è che un’agonia continua. E giacchè siamo obbligati adoprarci a tutt’uomo per reprimere i malvagi, e costretti, mentre i principi trascurano il dover loro a difendere la vita de’ religiosi, fraternamente ti esorto che m’assista col pregare e scongiurare chi veracemente ama san Pietro, ad esser propriamente suoi figli e soldati, non preferirgli i potentati della terra, che non vagliono a dare se non favori spregevoli e transitorj, mentre Gesù ne promette di veri ed eterni».

Qui sentite annunziata l’idea sua che il mondo non potesse riformarsi se non riformando la Chiesa che n’era capo; e — Unico desiderio nostro (soggiungeva) è che gli empj si convertano; che la Chiesa conculcata, confusa, sbranata, torni al primo decoro; che Dio sia glorificato in noi, e noi coi fratelli nostri e con que’ medesimi che ci perseguitano, possiamo giungere a salvezza. Per vil mercede il soldato prodiga la vita; e noi temeremo affrontar la persecuzione per la gloria eterna?»

A que’ gemiti, a questi propositi, ben prevedete che sarà uomo da correre diritto al suo fine, senza badare a cosa che gli si frapponga. In fatto l’attività sua non cedeva ad ostacoli; crescevangli coraggio i pericoli; cominciava colla lentezza necessaria a chi vuol procedere ben innanzi, poi, secondo gli avvenimenti, s’affrettava o moderava; ricco di spedienti, vigile a trar profitto dai casi, penetrantissimo nel conoscere le persone, e saper affezionarsele ed ispirarle de’ sentimenti suoi stessi.

Essendo un arcivescovo francese accusato di simonia, Ildebrando legato pontifizio entrò giudice del caso; ed allorchè quegli processe baldanzoso in mezzo all’assemblea, dicendo, — Ove sono i miei accusatori? facciasi avanti chi ardisce volermi condannato», Ildebrando lo guardò fiso, e intimò che dicesse — Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo». Peccato contro la terza Persona riguardavasi la simonia; onde l’arcivescovo fu talmente preso dalla coscienza, che non osò proferir quella parola, ma prostrato ai piedi del giudice suo, si confessò in colpa, e indegno del sacro ministero. Quest’esempio atterrì altri, sicchè ventisette curati e molti vescovi deposero la carica comprata a denaro.

Persuaso non potersi corregger il mondo se non correggendo la Chiesa che n’era l’anima, Ildebrando, vigile, attivo, indomito, sempre fondandosi sulla vetusta tradizione e sul voto del popolo, vi si applicò quando fu preso a consigliere dai pontefici. Le nefandigie, fra cui era corso il papato, lo convinceano che ogni male venisse dal restare la suprema dignità commessa all’elezione interessata e corrotta de’ secolari: ma poichè non si poteva di tratto abolire la pretensione degl’imperatori, cominciò a sanare le nomine regie col sottometterle alla rielezione del clero e del popolo. A questo intento consigliò a Brunone, eletto papa (1049), entrasse in Roma da pellegrino, e quivi chiedesse il suffragio di chi solo avea diritto di darlo. Brunone, che fu Leon IX, il fece, ed annunziò il divisamento di deporre i vescovi che avessero acquistato la dignità a prezzo; ma trovò il male così esteso, che fu costretto rallentar quel rigore, imponendo solo quaranta giorni di penitenza ai convinti.

Lui morto, Enrico III nominò il monaco Gebardo suo consigliere, persona specchiata, che assunto il nome di Vittore II (1053), per sè e coll’opera d’Ildebrando procacciò a riformare la disciplina. Dopo di lui, una fazione, sazia di tanti papi tedeschi, portò al seggio Stefano IX (1057), che fu zelantissimo della disciplina, e che, morendo dopo soli otto mesi, pregò non si eleggesse il successore fin quando di Germania non tornasse Ildebrando. Però Gregorio conte di Tusculo, armata mano, fe proclamare l’inetto Giovanni vescovo di Velletri, col nome di Benedetto X. Ildebrando, conoscendo che il papa d’una fazione varrebbe ancor peggio che il papa d’un imperatore, si unì ai grandi, a Pier Damiani e ad altri cardinali, pregando dalla imperatrice Agnese un altro pontefice, il quale fu Gerardo di Borgogna vescovo di Firenze. Ildebrando, che ne recò l’annunzio, ebbe cura fosse rieletto in un sinodo a Siena, ove prese il nome di Nicola II (1059); e perchè più non si rinnovassero le elezioni tumultuarie, lo indusse a toglierne il diritto al re ed al popolo, per affidarlo ad un consesso di cardinali vescovi e cardinali cherici1, salvo l’approvazione del clero e l’onore dovuto all’imperatore.

I grandi, indispettiti del vedersi tolto il lucroso privilegio, spedirono chiedendo un papa al nuovo imperatore Enrico IV; e i prelati lombardi, da lui convocati a Basilea (1061), repudiata la costituzione di papa Nicola, stanziarono che il pontefice dovesse scegliersi nel paradiso d’Italia, come qualificavano la Lombardia, acciocchè avesse viscere ténere a compatire la fragilità umana, ed elessero Cadaloo vescovo di Parma, che si fece dire Onorio II. Venne costui a prendere possesso della dignità colle armi, alleandosi anche alla fazione di Tusculo; ma Ildebrando avea già fatto proclamare dai cardinali Anselmo da Baggio vescovo di Lucca, col nome di Alessandro II. Lo scisma proruppe in guerra civile, dove il papa legittimo, vinto sulle prime, finì vincitore, e un Concilio adunato a Mantova ne chiarì legittima l’elezione.

Tanta potenza esercitando, temuto dai re, riverito dai papi medesimi, da un pezzo Ildebrando avrebbe potuto assidersi sulla cattedra di san Pietro; ma celebrandosi le esequie di Alessandro, la folla invade a tumulto la basilica Lateranense, acclamando d’ogni parte Ildebrando papa per volontà di san Pietro (1073). Egli accorse al pulpito per chetare quel disordine; tutto invano; nè il gridare ristette finchè i cardinali non ebbero annunziato pontefice l’eletto dal popolo e dall’apostolo. Allora la pompa del nuovo papa e le acclamazioni si mescolarono in modo strano all’apparato funebre e al corteo di suffragio.

Con ciò si preveniva l’intervento e la probabile opposizione imperiale, e assicuravasi ai cardinali il contrastato privilegio elettorale: pure Ildebrando nè diede contezza ad Enrico, pregandolo sottrarlo da quel peso, altrimenti dichiarandosi mal disposto a soffrire i comporti di esso imperatore. Malgrado questa diffida, non avendovi trovato ombra di simonia, Enrico non potè negare l’assenso.

Allora Ildebrando, col nome di Gregorio VII, piglia assunto di guerreggiare la simonia e l’incontinenza, che da due secoli insozzavano la sposa di Cristo. Trova che la forza domina dappertutto? e’ vuol dappertutto far prevalere la coscienza; trova il pontificato fiacchissimo, robustissimo l’Impero? e’ si propone di sottomettere questo a quello, come l’anima comanda al corpo, come l’ingegno dirige le braccia.

Stato e Chiesa non han soltanto quelle relazioni di vicinanza da cui nascono le capiglie fra privati; ma coesistono in seno d’un popolo stesso, e si disputano il diritto di comandargli. Considerandosi entrambi come supremi, non conoscono verun tribunale od arbitro a cui deferire le loro ragioni e sottomettere le loro contestazioni. Intanto è mal definita la condizione di tanti ecclesiastici, che rilevano dallo Stato come cittadini, e dalla Chiesa come preti; chiedendo diritti pel primo titolo, per l’altro dispensandosi da doveri. Un pontefice poi che, come padre de’ fedeli, dà ordini o consigli dappertutto, in alcuni luoghi non è obbedito perchè straniero; o se è obbedito, può allearsi ai re contro il popolo, o al popolo contro i re, cagionando discordie profonde.

Nel medioevo non si sarebbe mai considerato il papa come straniero, non essendo le nazioni costituite esclusivamente, nè definite le sovranità; e quando dappertutto regnava la violenza, il papato, collocato nel paese più civile, e destinato a propagar i principj evangelici, acquistava quella superiorità, che la barbarie di rado ricusa a quei che la vincono di dottrina e d’umanità.

Ora messi a fronte un dell’altro, difficilmente potea schivarsi il cozzo fra lo Stato e la Chiesa; e ben prima di Gregorio VII era cominciato. La coronazione di Carlomagno fatta da Leone III lasciava l’elettore inferiore all’eletto nel temporale, ma suo superiore nello spirituale. Or come stabilire i limiti fra queste due potestà? In un affare temporale può esservi merito o peccato, e quindi attribuzione spirituale; come un affare spirituale può involger quistioni d’autorità, di spese, di territorio, di forza. Inoltre l’elezione del papa dipendeva dall’imperatore per la ricognizione: quella dell’imperatore dal papa per la coronazione: e dell’uno e dell’altro il diritto era riconosciuto dal popolo. In attinenze così mal definite potea sperarsi un accordo durevole? Già Carlomagno convocava a Roma un concilio per sentenziare sulla causa di papa Leone. Lodovico il Pio porta querela per un atto indebito di papa Leone, e questi non isdegna rispondergli; e dopo la giustificazione, Lodovico conferma le donazioni paterne. Lunghe e quasi continue discussioni agitarono i successivi Carolingi col papa o coi vescovi.

Or ecco a combattere un uomo straordinario: ma bisognerebbe fossimo vissuti in quel tempo e fra quegli uomini per poter valutare esattamente i torti e le ragioni: per conoscere se ai principi stava bene rivendicare l’amministrazione intera de’ loro Stati, o meglio al papa propugnare quell’arbitrato morale e giuridico che avea salvato il mondo dalla barbarica prepotenza; se i papi ben si valessero dei mezzi ecclesiastici pel fine morale di sostenere i diritti loro e de’ popoli; e i principi della forza e delle armi per istaccare le nazioni dalla Chiesa. Già la legge civile colpiva gli eretici d’infamia, gli escludeva dai diritti civili, ne confiscava i beni, non ponendo in ciò distinzione di gradi sociali. I papi non faceano che applicarla a loro modo; erano barbare quelle leggi; non sempre opportuna questa applicazione; ma ogni secolo va giudicato secondo le opinioni, le norme, le consuetudini, le dottrine sue. Noi oggi ravvisiamo i difetti dell’assolutismo regio e papale d’allora, come altri vedranno poi le colpe dell’odierne costituzioni. Ma chi gli atti e i tempi di Gregorio VII misurasse dagli odierni, troppo mal intenderebbe la lotta fra la Chiesa e lo Stato.

Gregorio pellegrinò per tutta Italia, amicandosi i prelati buoni. Abbracciando l’intera cristianità nelle sue attenzioni, dove in persona non giungesse moltiplicavasi per via di legati; non negligeva le minuzie della reggia e della cella; ingiunse che tutti i vescovi nelle proprie chiese facessero insegnare le arti liberali; agevole dovunque trovasse docilità, inflessibile coi contumaci, instaurava l’antica disciplina; non badava a farsi nemici, perchè in ogni atto si proponeva non compiacenza umana, ma la salute delle anime.

Divenuto il sacerdozio e le prelature privilegio dei ricchi, quest’una cosa mancava, che quelle comodità non si dovessero comprare colle astinenze del celibato, nè il posseder benefizj togliesse le gioje della famiglia; da ultimo si rendessero patrimonio le dignità, i vescovadi, il papato, introducendo anche nella Chiesa l’assurdità delle cariche ereditarie ch’ella avea sempre rejetta. Ed a questo pure si tendeva; e già in molte diocesi era invalso il matrimonio dei preti, che la prudenza, il decoro, la libertà necessaria al clero aveano fatto vietare. Allora dunque che Gregorio richiamò la trascurata proibizione, si allegavano la consuetudine d’alcune diocesi, i privilegi speciali, i legami di famiglia già contratti; e un lamento levossi per tutta la Chiesa occidentale.

Il clero dell’alta Italia erasi di buon’ora corrotto, ed a Milano il mal costume era cresciuto in proporzione della ricchezza e potenza del clero; indarno il Concilio di Pavia avea voluto interdire il matrimonio ai preti, i quali pretendevano appoggiarsi ad una concessione di sant’Ambrogio2; vi serpeggiava pure la simonia; e per questo e per ambizione quel clero stava alieno dalla santa sede, e per due secoli se ne tenne quasi separato, pretendendo la Chiesa di sant’Ambrogio non fosse inferiore a quella di san Pietro. Guido da Velate, postovi arcivescovo per favore del re e contro il privilegio del capitolato, vendeva le cariche e versava su altri il peso del suo ministero, mentr’egli consumava tempo ed entrate in caccie ed esercizj guerreschi. L’alto clero il favoriva per imitarlo; ma il minore ed il popolo ne prendeano scandalo e nausea, a tal segno che, mentr’egli celebrava, l’abbandonavano tutto solo all’altare.

A capo de’ rigorosi stavano Anselmo da Baggio, Landolfo Cotta, Arnaldo d’Alzate, levando la voce a rischio della vita. Tosto si formano due fazioni nella diocesi; fino all’armi si venne; ma trovato chi osa dire una verità, può soffocarsene il suono? Roma sostiene quelli che il ferro dei grandi minaccia, e che i sinodi provinciali scomunicano. Pier Damiani e Anselmo da Baggio, spediti legati dal papa in Lombardia, riuscirono a metter all’obbedienza il clero. Fiera fu l’opposizione dei nobili, sfogatasi anche in assassinj. Ma il popolo, che suole pretendere maggiori virtù da chi lo dirige, e che pativa dalla corruzione del clero e mal comportava si sprecassero in reo lusso le ricchezze concedute alle chiese per sollievo de’ poveri, e che dal rigore de’ monaci era stato avvezzo a considerare come perfezione il celibato, vigorosamente sostenne il decreto del papa che l’imponeva, maltrattò i renitenti, li respingeva dagli altari o fuggiva dai loro sacrifizj; onde quella disciplina prevalse, dopo quasi un secolo di contrasti3. Lo sciogliere i sacerdoti dai legami della famiglia, assicurava una milizia devota interamente al pontefice, e intenta a saldarne la potestà; toglieva che le dignità passassero per retaggio, anzichè essere attribuite per merito; nè divenissero beni di famiglia quelli che erano stati commessi alle chiese come patrimonio universale dei poveretti.

Il patriarca di Aquileja, dopo la quistione dei Tre Capitoli, era rimasto buona pezza a capo di quanti vescovi reluttavano alle decisioni del pontefice; alfine piegò anch’esso, ed ora nel ricevere il pallio dovette dare un giuramento (1079), che poi si estese agli altri metropoliti e ai vescovi nominati direttamente da Roma; ove s’obbligavano al modo stesso che i vassalli ai signori, cioè di serbare fedeltà al pontefice, non fare trama contro di lui nè rivelarne i secreti, difendere a tutta possa la primizia della Chiesa romana e le giustizie di San Pietro, assistere ai sinodi convocati dal papa, riceverne orrevolmente i legati, non comunicare con chi da esso fosse scomunicato: di poi vi s’aggiunse di visitare ogni tre anni le soglie degli apostoli, o inviare chi rendesse conto dell’amministrazione della diocesi; osservare le costituzioni e i mandati apostolici, nè alienare verun possesso della mensa se non consenziente il santo padre.

Resa al clero la potenza che trae dalla virtù, bisognava saldare l’indipendenza col toglier via la pietra dello scandalo, il diritto che i signori laici arrogavansi d’investire coll’anello e col pastorale i prelati; occasione di simonie e di elezioni indegne. — E che! la più miserabile femminetta può scegliersi lo sposo secondo le leggi del suo paese; e la sposa di Dio, quasi vile schiava, dee riceverlo di mano altrui?» Così esclamava Gregorio VII, e forte nella propria volontà e nel voto del popolo, al quale si appoggiò in ogni suo atto e dal quale trasse la forza portentosa di superare tanti ostacoli, proibì agli ecclesiastici di ricevere investitura di qualsiasi benefizio per mano di laico, pena la destituzione; e ai laici di darla, pena la scomunica.

La Chiesa non impone soltanto credenze teoriche, ma regola l’onestà degli atti: alla quale ampiezza di doveri ed efficacia di precetti fa bisogno di podestà temporale. Se le si tolga quanto ha di corporeo, troverassi ridotta ad atti interni, alle segrete contemplazioni, alle comunicazioni spirituali senza giurisdizione esterna; e mancandole i mezzi materiali che si connettono agli attributi essenziali, il sua dominio rimarrà ristretto alla coscienza.

Ma qui pure nascevano contrasti. Secondo il diritto politico, il capo dello Stato non premineva a’ suoi vassalli se non per la superiorità attribuitagli dall’infeudazione; laonde col togliere ai signori d’investire i prelati sottraevansi questi dalla loro dipendenza, e sottometteasi al pontefice forse un terzo dei poderi di tutta cristianità. Se poi la Chiesa rinunziasse ai beni e ai diritti pei quali davasi l’investitura, rimaneva spoglia d’ogni autorità temporale, e dipendente dai principi come oggi il clero protestante. Se al contrario, conservandoli, essa si esimesse dal chiedere ad ogni vacanza la conferma secolare, non solo diventava indipendente, ma sarebbesi dilatata in potenza fin a rendere vassalli i principi.

Non rifuggiva da siffatte conseguenze Gregorio, poichè, volendo rigenerare la società per via del cristianesimo, non credea potervi arrivare sinchè la sede romana non fosse levata di sopra dei troni. Ne veniva per diritta conseguenza il suo mescolarsi alle cose temporali e al governo de’ popoli: agli uni vietò il trafficare di schiavi, ad altri rinfacciò i vizj; scomunicò re contumaci, obbligò altri a continuare alla Chiesa romana quell’omaggio con cui i loro predecessori ne aveano ripagato la tutela; dove i baroni degradavano gli uomini alla condizione di bestie da soma, egli voleva rialzarli con una santità più che umana; nulla opera pel vantaggio personale, tutto per la Chiesa; inesorabile cogli altri come con sè stesso, di fede irremovibile in ciò che credeva disegno della Provvidenza, egli stesso si dà come un abitatore delle regioni dove non penetrano mai la nebbia della paura nè le ombre del dubbio. Altri papi aveano gemuto, esortato, negoziato, transatto; Gregorio comanda, ardisce ogni estremo, vuole che la potenza papale non abbia altri limiti che la volontà di Dio e la coscienza, e per correggere gli abusi si colloca di sopra dei re ch’erano interessati a conservarli4.

La mutua indipendenza della podestà secolare ed ecclesiastica è di libera discussione dacchè la Corte romana cessò dal pretendere, per diritto naturale nè per diritto divino, a giurisdizione diretta o indiretta sopra il temporale de’ Governi. Ridotta la questione a storica, non s’avrebbe che a cercare la verità; eppure detrattori e panegiristi trascendono sul conto di Gregorio VII, quasi autore di un diritto pubblico nuovo o esageratore di pretensioni papali. Il Dictatus Papæ è conosciuto lavoro apocrifo: ma quelle pretensioni appajono dalle sue epistole. Udiamolo.

«La Chiesa dev’essere indipendente da ogni podestà temporale; l’altare è riservato a colui che, per non interrotta serie, succede a San Pietro; la spada del principe è a lui sottoposta, e da lui viene perchè è cosa umana; l’altare, la cattedra di San Pietro da Dio solo vengono e da lui solo dipendono5. La Chiesa giace ora nel peccato perchè non è libera, perchè attaccata al mondo e ai mondani6; i suoi ministri non sono legittimi perchè istituiti da uomini del mondo: perciò negli unti di Cristo abbondano cupidigie e passioni criminose, ingordigia di cose terrene di cui hanno bisogno perchè attaccati al mondo; sicchè vedonsi dissensioni, astio, orgoglio, cupidigia, invidia in quelli che devono possedere la pace di Dio7.

«La Chiesa dev’esser libera, e tale divenire per mezzo del suo capo, primo uomo della cristianità, sole della fede. Il papa tiene le veci di Dio, governandone il regno in terra: senza lui non v’ha regno; senza lui la monarchia va a picco, siccome un vascello fesso. Le cose del mondo sono spettanza dell’imperatore, quelle di Dio sono del papa. Conviene dunque che questi strappi i ministri degli altari dai lacci che gli avvincono alla potenza temporale.

«Altra cosa è lo Stato, altra la Chiesa. Come una è la fede, così una è la Chiesa; uno è il papa suo capo, uno i fedeli suoi membri. Se la Chiesa esiste per sè stessa, non deve operare che per sè: come una cosa spirituale non è visibile che per una forma terrestre, e l’anima non può operare senza il corpo, nè queste due sostanze essere unite senza un mezzo di conservazione; così la religione non esiste senza la Chiesa, nè questa senza le possessioni che ne assicurano l’esistenza8. Come lo spirito si alimenta di cose terrene nel corpo, così la Chiesa si mantiene per via delle possessioni temporali. È dovere dell’imperatore, che ha in mano il poter supremo, di far ch’essa si procuri questi beni e li conservi; lo che fa che imperatori e principi siano necessarj alla Chiesa9, ma essa non esiste che pel papa, come il papa non esiste che per Dio10.

«Se vogliasi dunque che prosperino e la Chiesa e l’Impero, fa mestieri che sacerdozio e principato siano strettamente connessi, e accomunino gli sforzi per la pace del mondo11. Il mondo è rischiarato da due luminari: il sole più grande, la luna più piccola. L’autorità apostolica pareggiasi al sole, la potenza regia alla luna. Come la luna non illumina che in grazia del sole, così imperatori, re, principi non sussistono che in grazia del papa, perchè questi viene da Dio. La potenza pertanto della cattedra di Roma è assai più grande che non quella de’ principi, e il re è sottomesso al papa e a lui deve obbedienza12.

«Essendo il papa da Dio, ogni cosa è a lui sottoposta; gli affari spirituali e temporali devono essere portati innanzi al suo tribunale: egli deve insegnare, esortare, punire, correggere, giudicare, decidere. La Chiesa è il tribunale di Dio13, ed essa vi fa ragione de’ peccati degli uomini; mostra il cammino della giustizia, ed è il dito di Dio. Il papa dunque è rappresentante di Cristo e superiore a tutti; grande e tremenda è la sua dignità14, poichè sta scritto: «Tu sei Pietro, e su questa pietra fabbricherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa: ti darò le chiavi del regno de’ cieli; quanto legherai sulla terra sarà legato in cielo, e quanto sulla terra scioglierai sarà sciolto anche in cielo». Così disse Gesù Cristo a Pietro; per Pietro la Chiesa romana esiste, in essa risiede il potere di sciogliere, e sopra Pietro è fondata la Chiesa di Cristo15.

«Questa Chiesa si compone di tutti quelli che professano il nome di Cristo, e Cristiani si chiamano; onde tutte le Chiese particolari sono membri della Chiesa di Pietro, che è la romana. Questa è dunque madre di tutte le Chiese della cristianità, e tutte le sono sottoposte, come figlie alla madre. La romana assume cura di tutte le altre, può esigerne onore, rispetto, obbedienza16. Come madre, comanda a tutte le Chiese e a tutti i membri che loro appartengono, e tali sono imperadori, re, principi, arcivescovi, vescovi, abati e gli altri fedeli. In virtù della sua potenza può essa istituirli o deporli; conferisce ad essi il potere, non per gloria loro, ma per salute de’ più. Essi devono pertanto alla Chiesa umile obbedienza; e qualora si gettano nelle vie del peccato, questa santa madre è obbligata arrestarli e metterli su migliore sentiero, altrimenti sarebbe partecipe dei loro delitti17. Ma chiunque s’appoggia su questa tenera madre, e l’ama e l’ascolta e protegge, ne prova la tutela e la munificenza18.

«Qualunque resistenza incontri chi tiene in terra il posto di Gesù Cristo, deve lottare, star saldo e soffrire ad esempio di Cristo19. Dal capo devono partire la riforma e la rigenerazione; egli deve dichiarare la guerra al vizio, estirparlo, e gettare le fondamenta della pace del mondo; egli prestar mano forte ai perseguitati per la giustizia e per la verità. La persecuzione e la violenza non devono stornarlo; e poichè chi minaccia la Chiesa, e le fa violenza, e le cagiona amarezza, è figlio del demonio e non della Chiesa, essa deve sbandirlo e reciderlo dall’umana società20. Convien dunque che la Chiesa rimanga indipendente, che tutti quelli che le appartengono sieno puri ed irreprensibili: compiere questa grand’opera è dovere del papa21.

Questi concetti di Gregorio raccogliamo dalle lettere sue scritte in tempi diversi; e il ridurli in fatto fu l’opera sua continua, portandovi un’intima convinzione, e quella franchezza e vigoria, che fa angoscia ai secoli svigoriti, ma che era adatta a tempi di tanti disordini, era consenziente a quelle persuasioni. Ripetè dunque l’alto dominio sopra la Sicilia, la Spagna, la Sardegna, l’Ungheria, la Dalmazia, i cui principi, scorgendo in Roma maggior saviezza, giustizia, dottrina ed un’autorità protettrice, le aveano raccomandato come feudo i proprj regni, con ciò assicurando a sè ed ai figli una tutela contro alle usurpazioni de’ vicini e alle rivolte dei sudditi, che stavano docili allorchè nella santa sede trovavano uno schermo contro l’ingiustizia o la prepotenza de’ padroni. Demetrio re dei Russi mandò il figlio a pregare Gregorio di accettare il suo regno come feudo di san Pietro. Guglielmo Conquistatore invocava da esso la bandiera che legittimasse la conquista dell’Inghilterra. Demetrio Zwotimir duca de’ Croati, da Gregorio fatto re di Dalmazia, promise far omaggio alla sede pontifizia, vegliare sulla continenza de’ sacerdoti, diaconi e vescovi, proteggere vedove ed orfani, impedire il traffico degli schiavi. Per Gregorio la Polonia fu sottratta alla dipendenza del regno teutonico: e poichè Boleslao, rimproverato dal vescovo di Cracovia della sua vita licenziosa, l’uccise a piè degli altari, il papa lo scomunicò e depose. Quando Aroldo succedette a Sveno di Danimarca, Gregorio scriveva esortandolo alla virtù22. Vero padre dei re.

Si foss’egli incontrato in principi degni, poteva rigenerare la Chiesa e il mondo: ma in quella vece ebbe a cozzare con malvagi; e il resistere alle arti loro lo portò a metter fuori tutte le armi che gli erano offerte dal suo tempo e dalla sua posizione.

Era succeduto al trono di Germania Enrico IV (1056), re nella cuna, orfano a sei anni. Educato a tracotante idea della regia potenza e a spregio della disciplina ecclesiastica, ai venticinque era già un tirannello rotto ad ogni bruttura; maltrattò la moglie; nelle libidini neppure risparmiava le sorelle.

Persuaso convenisse tenere in duro freno i Sassoni, empiva Sassonia e Turingia di fortificazioni, donde mandava i soldati a taglieggiare il paese, connivendo agli eccessi. E diceasi che, contemplando dall’alto d’un suo castello la contrada, avesse esclamato: — Bel paese la Sassonia; ma i suoi abitanti sono miserabili servi».

Popolo e grandi oltraggiati si strinsero in federazione, e messi in piede sessantamila uomini, chiesero che Enrico smantellasse i castelli, tornasse in libertà il loro futuro duca, restituisse la prisca costituzione paesana. Disdetti delle domande, l’assalirono (1074), e ridussero a chieder pace. Compreso allora che non bastano fortezze a tener in freno gente maltrattata, si diede a carezzare i signori tedeschi, dapprima esasperati; e fidando nel costoro appoggio, accusò i Sassoni d’avere, nel distrugger le rôcche, profanato altari e sepolcri; e mandato l’eribano per tutta Germania, gli assalì e sconfisse, e colle perfidie e coi supplizj soffocò i ribelli, parola che spesso indica coloro che reclamano i proprj diritti (1075).

I lamenti de’ Sassoni unironsi allora ai tanti che d’ogni parte prorompeano contro Enrico, e si diressero al pontefice, come al repressore d’ogni vizio e tirannide, come all’appoggio d’ogni sforzo contro gli abusi. Già prima d’esser unto, udimmo Gregorio dichiarare ad Enrico che ne comprimerebbe le stemperanze e il mercato delle sacre dignità, sfacciatamente usato alla Corte di lui. Salito alla cattedra di San Pietro, scriveva al duca Gotofredo: — A nessuno io cedo nello zelare la gloria presente e futura dell’imperatore; e alla prima occasione, per via di legati, gli farò caritatevoli e paterne ammonizioni. Se m’ascolta, esulterò della salvezza sua come fosse mia propria; se ripagasse d’odj la mia premura, Dio mi preservi dalla minaccia ch’e’ fa dicendo: Maledetto l’uomo che ricusa alla spada il sangue».

Trovato renitente il principe, innanzi di dar effetto alla minaccia contro del peccatore volle colpirne i peccati; proferì destituiti l’arcivescovo di Brema e i vescovi di Strasburgo, Spira, Bamberga convinti di simonia, ed escluse dalla Chiesa cinque consiglieri di Enrico, se al tempo assegnato non rendessero soddisfazione alla santa sede; frattanto metteva in mezzo parenti ed amici affine di commuovere Enrico, il quale, alle istanze di Agnese sua madre, promise emendarsi, ed assistere il papa nell’estirpare l’eresia.

Viva compiacenza ne provò Gregorio, ma quegli, se aveva piegato allorchè temeva l’opposizione dei Sassoni, appena ne uscì vincitore (1076) pretese che i loro vescovi caduti in sua mano fossero degradati come felloni, e conferì il vescovado di Bamberga ad un suo creato. Gregorio si lamentò che, mentre in parole si dichiarava sommesso figlio della Chiesa, trascendesse poi ne’ fatti, ed insistette perchè rilasciasse i vescovi e i beni presi: ma poichè egli non vi badava, e teneasi attorno persone scomunicate; e frattanto i principi sassoni, da lui custoditi prigionieri, l’esortavano a deporre quest’indegno regnante (diritto, non cerco se giusto, ma riconosciuto in quel tempo), Gregorio citò Enrico a Roma per giustificarsi davanti ad un Concilio.

Presone più sdegno che timore, il pertinace rispose: — Enrico, re non per violenza ma per la santa volontà di Dio, ad Ildebrando non papa ma falso frate. Questo saluto tu meriti collo scompiglio che metti nella Chiesa; tu calpestasti i ministri di essa come schiavi, e così ti procacciasti il favore del volgo. Un pezzo noi tel comportammo, perchè era debito nostro conservar l’onore della santa sede: ma il nostro riserbo ti sembrò paura, e ti rese audace sino ad alzarti di sopra della reale dignità, e minacciare di togliercela, come se tu stesso ce l’avessi data; adoprasti intrighi e frodi che maledette sieno, cercasti favore col danaro, forza d’armi col favore, e colla forza la cattedra di pace donde la pace sbalzasti. Tu, subalterno, ti elevasti contro ciò ch’era stabilito; poichè san Pietro vero papa disse: Temete Dio, onorate il re: ma tu, come non temi Dio, così non onori me, suo delegato. Giù dunque, o scomunicato; va nelle prigioni a subire il giudizio nostro e de’ vescovi; giù da cotesta cattedra usurpata; io Enrico, e tutti i nostri vescovi ti intimiamo, Abbasso, abbasso».

Ecco dunque due podestà che minacciano a vicenda distruggersi: l’una avea per sè l’opinione popolare, l’altra la violenza; e ciascuna usò le armi sue.

Nella genesi delle potestà terrene, che si credevano non acquistate per forza o eredità, ma per elezione dei sudditi e per conferma di quello a cui era affidata la supremazia divina, si supponeva allora che prima condizione ai re per esigere fedeltà dai popoli, fosse il mantenersi ortodossi; e giacchè la fede vera sta nel grembo della Chiesa, chi ne fosse escluso cessava di meritare obbedienza. L’età nostra che s’intitola liberale, pone per fondamento delle sue costituzioni l’inviolabilità, ossia l’infallibilità del re, e freme al pensare che questo possa esser responsale degli atti suoi. Quegl’ignoranti padri nostri credeano infallibile non fosse se non quella Chiesa, con cui Cristo avea promesso di esser sempre; e che ad essa spettasse vigilare sulla condotta dei re, correggerli se peccassero, reprimerli se contumaci. La sapienza d’oggi, per bilanciare i poteri, ha introdotto il veto dei re alle decisioni delle Camere, e il rifiuto di queste a votar l’imposta; e le Camere non solo chiedono conto ai ministri dell’amministrazione, ma più d’una volta pretesero mutar le dinastie, e spinsero i re all’esiglio o sul patibolo. Son dunque mutate le veci, ma rimane la cosa.

Allora non era stato peranco introdotta la massima, che le cose di Governo non s’abbiano a regolare colla morale ordinaria e con una particolare equità. Allora (e giovi ripeterlo a costoro che la libertà credono nata jeri) uno non nasceva re, ma doveva esser eletto; cioè condizione del regnare era l’esserne meritevole. I re non erano despoti, ma temperati dall’assemblea generale della nazione: la suprema autorità era riconosciuta al papa non solo dal diritto canonico, ma anche dal civile de’ Tedeschi; onde lo Specchio di Svevia, raccolta delle consuetudini teutoniche, statuisce nel preambolo: — Iddio, che è detto principe della pace, salendo al cielo lasciò due spade in terra a tutela della cristianità, e le diede a san Pietro; una pel giudizio secolare, l’altra per l’ecclesiastico. Il papa impresta all’imperatore la prima (des weltichen Gerichtes Schwart darlihet der Papst dem Kaiser); l’altra è affidata al papa stesso sedente sopra un palafreno bianco, affinchè giudichi a dovere, e l’imperatore dee tenerne la staffa, acciocchè la sella non si smuova. Con ciò viene indicato che, chiunque resiste al papa, se questi nol possa col giudizio ecclesiastico ridurre ad obbedienza, l’imperatore, gli altri principi secolari e i giudici ve lo costringono col metterlo al bando23. Nessuno può scomunicar l’imperatore fuorchè il papa, e questo per tre sole cause: se dubita della fede vera; se ripudia la moglie; se turba le chiese e le case di Dio. Quando si scoprono eretici bisogna procedere contro di essi ai tribunali ecclesiastico e secolare; la pena è il fuoco. Ogni principe che non punisce gli eretici è scomunicato. E se fra un anno non venga a resipiscenza, il papa lo priverà dell’uffizio principesco e di tutte le sue dignità24.

Ed Eichhorn25 così epiloga il diritto pubblico tedesco nei secoli di mezzo: — La cristianità, che, giusta la divina destinazione della Chiesa, comprende tutti i popoli della terra, forma un tutto, la cui prosperità è affidata alla custodia di certe persone, alle quali Dio medesimo conferì il potere. Questo potere è spirituale e temporale; l’uno e l’altro commesso al papa, dal quale l’imperatore, capo visibile della cristianità per gli affari mondani, e tutti i principi tengono l’autorità temporale; e le due podestà devono a vicenda sostenersi. Ogni potere vien dunque da Dio, poichè lo Stato è d’istituzione divina: ma lo spirituale non è dal papa comunicato che in parte ai vescovi, perchè l’esercitino come suoi ajutanti».

Insomma l’autorità pontifizia faceva ciò che le costituzioni oggidì, contrappesare la regia e mantenere la libertà civile.

Di qui l’alta tutela che adoperava sopra i re della terra. Che se i re non volessero chinarsi a’ suoi decreti, un’arma terribile aveva in mano il papa, e propria dei tempi, come n’era propria quella potenza.

Fin dai primi secoli del cristianesimo, la scomunica, oltre escludere dalla sacra mensa e dalle benedizioni, produceva la proibizione di abitare, mangiare, discorrere col reprobo, e traeva anche conseguenze civili, come di rimoverlo dagli impieghi, dalla milizia, dai giudizj. Lentata la devozione, bisognò crescere lo sgomento delle scomuniche con riti e formole tali, da spaventare la prepotenza armata; gettavansi a terra candele ardenti, imprecando che a quel modo si spegnesse ogni luce al maladetto; alcuna fiata fu persino scritta la sentenza col sacrosanto vino. Qualora poi si trattasse di un potente, veniva interdetta la città o tutta la provincia dov’egli aveva abitazione o dominio: credendo il papa aver da Dio il potere di sospender a suo grado la vita delle nazioni quando la vita civile non distinguevasi dalla religiosa.

Terribile pena! I fedeli restavano privi di quella parola e di quelle cerimonie religiose che dirigono l’anima in mezzo ai turbini, e la francheggiano nelle lotte della vita. La chiesa, monumento ove tanti segni visibili rappresentano la magnificenza del Dio invisibile e dell’eterno suo regno, sorgeva ancora di mezzo alle stanze de’ mortali, ma come un cadavere senza sintomo di vita: più il sacerdote non consacrava il pane e il vino per le anime fameliche del vivifico nutrimento; non rilevava coll’assoluzione i cuori oppressi dal rimorso; negava l’acqua santa al segno del combattimento e della vittoria. Muto l’organo, muti gl’inni, che tante volte aveano tornato sereno l’animo contristato; muto il solenne mattinare delle suore di Cristo: le campane più non toccano che qualche volta a scorruccio; non più suona la parola di salute dal pulpito, donde, l’ultima ora che il santuario restò aperto, lanciaronsi sassi, significando alla turba che in pari modo Iddio l’avea rejetta. Le porte della Chiesa del Dio vivente erano chiuse al par di quelle della terrestre; estinte le lucerne tra canti funerei, come se la vita e la luce avessero ceduto luogo alle tenebre e alla morte: un velo nascondeva il crocifisso e le effigie edificanti che parlano al senso interno per via degli esterni. Solo a qualche convento era permesso, senza intervento di laici, a bassa voce, a porte chiuse e nella solitudine della notte, supplicar il Signore a ravvivare colla grazia gli spiriti estinti. La vita non era santificata nelle importanti sue fasi, quasi più non esistesse mediatore fra il reo e Dio; il fanciullo era accolto al battesimo, ma senza solennità, quasi di furto; i matrimonj si benedicevano sulle tombe, anzichè all’altare della vita. Il sacerdote esortava a penitenza, ma sotto il portico della chiesa e in negra stola: quivi soltanto la puerpera veniva a purificarsi, e il pellegrino a ricever la benedizione pel suo cammino. Il viatico, consacrato dal prete solitario, portavasi in segreto al moribondo, ma gli si negava l’estrema unzione e la sepoltura in terra sacra, anzi talvolta ogni sepoltura, eccetto a preti, a mendichi, stranieri e pellegrini. Le solennità, epoche gloriose della vita spirituale, in cui il signore e il vassallo univansi all’altare nella comunanza della gioja e della preghiera, diventavano giorni di lutto, ove il pastore fra il suo gregge raddoppiava i gemiti e i salmi della penitenza universale e il digiuno. Interrotto ogni commercio, questa morte dell’industria scemava le rendite del signore: i notaj tacevano negli atti il nome del principe colpito: ogni disastro consideravasi come frutto di quella maledizione.

Chi non sa immaginarsi quanto effetto dovessero produrre simili castighi in secoli bisognosi di credere e di pregare, pensi che avverrebbe se si chiudessero i teatri, i balli, i caffè nella nostra età, bisognosa di divertirsi, di cianciare, di spensare26.

Gregorio VII mitigò il rigore delle scomuniche, e mentre dapprima colpivano chiunque avesse a fare collo scomunicato, egli ne eccettuò la moglie, i figliuoli, i servi, i vassalli, chi non fosse abbastanza elevato per dare consigli al principe, e non escludeva dall’usare a questo gli atti di carità. Dopo ciò non fu parco di scomuniche a re prepotenti; ed oltre il polacco Boleslao, ne fulminò il normanno Roberto Guiscardo, che tardava a far della Sicilia omaggio alla santa sede, e che piegatosi al colpo, gli chiese pace e ne divenne protettore.

Cencio, prefetto di Roma, reluttava all’autorità sacerdotale, e viepiù dacchè il re fu in contrasto col papa, laonde da questo fu scomunicato. Ricco e poderoso quanto iracondo, e sperando così gratificare ad Enrico, penetra costui nella chiesa ove Gregorio compiva le imponenti e affettuose cerimonie della notte di Natale, e presolo pei capelli lo trascina nel suo palazzo (1073). Il popolo, che in Gregorio venerava il proprio rappresentante, unanime si levò a rumore, e assalita la fortezza, lo prosciolse, e sulle braccia recollo a finire a sera la messa interrotta all’alba: nè Cencio sarebbe ito salvo, se Gregorio con magnanimo perdono non avesse mostrato quanto l’uom del popolo sentasi superiore a quel della spada.

L’appoggio della fazione di Cencio avea dato baldanza a re Enrico, il quale raccolse a Worms un Concilio, dove Ugo, cardinale degradato dal papa, lesse una litania di accuse contro il papa, le più insensate e feroci, nessuna delle quali (mirabil cosa in tempi tali e fra tal gente) intacca i costumi di Gregorio; ed essendosi intimato che il non condannare il papa sarebbe una mancanza alla fedeltà giurata al re, i prelati dichiararono di più non riconoscere Gregorio. I vescovi lombardi, di cui questo avea frenato l’incontinenza, raccoltisi a Piacenza, approvarono quella decisione; e Rolando da Siena, assuntosi di notificarla a Gregorio, lo fece davanti a un Concilio da questo radunato. Le guardie l’avrebbero fatto a pezzi, se nol salvava Gregorio; e quei padri, ascoltata l’insultante lettera di Enrico, ad una voce lo esclamarono scomunicato; e il papa lo proferì decaduto dai regni di Germania e d’Italia, dispensò dal giuramento prestatogli, sospese i vescovi adunati a Worms, e spedì due legati per disobbligare popoli e principi dall’obbedienza. Fu un applauso generale tra’ Sassoni e Turingi, che, adottato per grido di guerra San Pietro, si prepararono a deporre Enrico. Visto il pericolo, questi (come fece Napoleone I dopo le sue sconfitte) scarcerò i principi e i vescovi che deteneva: ma già la lega contro di lui abbracciava tutta Germania; onde, avvistosi che l’esercito non basterebbe contro la volontà del popolo, scese a trattative; e si convenne di rimettere la causa al pontefice, dichiarando scaduto Enrico se, entro un anno, non fosse ribenedetto.

Il papa era dunque preso ad arbitro, cioè ad esprimere il voto della giustizia e della nazione. Il popolo romano reputavasi fonte della sovranità imperiale, che aveva conferita a Carlomagno, e che da esso ricevevano i successori di lui. Quindi il papa, anche qual primo magistrato elettivo dell’eterna città, restava in diritto, come di dare la corona, così di ritorgliela se l’eletto mancasse ai patti, de’ quali il principale era l’osservanza della religione cattolica e l’obbedienza alla Chiesa romana. Il pontefice era inoltre, nel diritto pubblico d’allora, il regolatore supremo dei doveri dei re come dei sudditi; sicchè facilmente consideravasi come d’origine apostolica anche il potere politico, che era non insito, ma acquisito. Il medesimo Enrico non dichiarò incompetente il papa; anzi, per non incorrere in nuove umiliazioni, risolse venire a chiedergli l’assoluzione prima che scadesse l’anno prefissogli.

Nello stridore del verno (1077) prese la via d’Italia, coll’oltraggiata moglie Berta e con un fanciullo. I nemici gli aveano chiuso ogni valico, fuor quello del Cenisio, ove dominava la marchesa Adelaide, unica figlia di Maginfredo di Susa, e madre di Berta moglie d’Enrico. L’illustre donna, che tanto contribuì all’incremento di Casa di Savoja, accolse benevola il regio genero, ma nol lasciò progredire se non le cedeva cinque vescovadi d’Italia; ottenutili, gli venne anch’essa compagna.

Lietissime accoglienze ebbe il re in Lombardia, vuoi dall’alto clero, uggiato dalle papali riforme, vuoi dai baroni, bisognosi dell’appoggio imperiale per opporsi ai popoli che anelavano alla libertà. Nella restante Italia, i Normanni appoggiavano Gregorio, sì per lealtà feudale, sì per tema che l’imperatore, fatto potente, minacciasse la loro recente conquista; il basso clero applaudiva alla rintegrata disciplina; i popolani bramavano assodare il governo a comune e respingere i Tedeschi: ma la fautrice più efficace di Gregorio fu la contessa Matilde.

Bonifazio, conte di Modena, Reggio, Mantova, Ferrara, aveva dall’imperatore Corrado Salico ottenuto il ducato di Lucca ed il marchesato di Toscana (1027), riuscendo uno de’ più potenti signori d’Italia; e s’aggiunga dei più ricchi e munifici. Fu assassinato mentre da Mantova passava a Cremona, e il popolo credette che nel luogo del delitto più non crescesse erba.

La sua vedova fu cercata in nuove nozze da Goffredo di Lorena, il quale combinò insieme il matrimonio del suo figlio d’egual nome con Matilde, fanciulla di Beatrice (1063). Goffredo parteggiò con papa Alessandro II contro Cadolao, e prestò il braccio onde reprimere Riccardo normanno, che, invase alcune terre pontifizie, pretendeva il titolo di patrizio di Roma. Morto lui (1076), poi anche la madre, e l’indegno marito Goffredo il Gobbo, Matilde si trovò signora dei vastissimi dominj paterni, e d’assai terre nell’alta Lorena, spettanza materna; e ne usava a larghissime beneficenze.

La Toscana è piena di tradizioni intorno a questa insigne donna; e Dante la immortalò collocandola alle soglie del suo paradiso. Intorno ai costumi di lei varia corre la fama, ma concorde sulla coltura sua, il coraggio, la perseveranza e la devozione verso la sede pontifizia. Devota, pur resiste alla seduzione del chiostro, allora comune, onde versarsi nell’attività del secolo, e malgrado il debole temperamento, vi riesce. Combatte in persona, parla la lingua di tutti i suoi vassalli, tiene corrispondenza con nazioni lontane, raduna una biblioteca, e fa da Anselmo raccogliere il Corpo del Diritto Canonico, e quel del Diritto Civile da Irnerio, che per sua cura aperse in Bologna la prima scuola di leggi. Tanta grandezza abbelliva coll’umiltà, e la sua sottoscrizione era Mathilda Dei gratia si quid est27.

Mostrò ella speciale devozione a Gregorio VII, e che che ne ciarli il cronista Bennone, tutta la storia la mostra innamorata non del papa ma del papato, cui restò fedele per sei pontificati successivi.

Nel castello di Canossa, che a mezzogiorno di Reggio sorge inespugnabile fra gli squallidi valloni dell’Appennino, sede allora di tanta civiltà, or rovina deserta e quasi ignorata, ricoverò Gregorio presso Matilde, quando temette che il favore dei Lombardi non tornasse l’ira allo sbaldanzito Enrico IV: ma questi interpose essa Matilde sua parente, Adelaide di Susa, il marchese guelfo Azzo, ed altri primati d’Italia per essere assolto d’una scomunica, che lo esponeva a perdere anche la corona.

Di segnalati delitti voleva il papa segnalata la riparazione, sgomento ai baldanzosi, soddisfazione ai deboli che l’aveano invocata. Esigette pertanto venisse a lui in abito di penitenza (1077), consegnandogli la corona come indegno di portarla; ed Enrico, deposte le regie vesti e i calzari e coll’abito consueto ai penitenti, potè entrare nella seconda cerchia del castello, per ivi attendere la decisione. Intanto le celle del castello erano occupate dai vescovi di Germania, venuti a penitenza e trattati a pane e acqua; i signori lombardi stavano attendati nelle vallee circostanti. Poichè tre giorni l’ebbe lasciato all’intemperie, Gregorio ammise Enrico al suo cospetto e l’assolse (18 maggio), patto si presentasse all’assemblea de’ principi tedeschi, sommettendosi alla decisione del papa qual ella si fosse; frattanto non godesse nè le insegne nè le entrate nè l’autorità di re28. Promesso, dati mallevadori, Gregorio prese l’ostia consacrata, e appellando al giudizio di Dio se mai fosse reo d’alcuno degli appostigli misfatti, ne inghiottì una metà, e porse l’altra ad Enrico perchè facesse altrettanto se si sentiva innocente. Potere della coscienza! Enrico non s’ardì ad un atto che avrebbe risoluto ogni quistione, e si sottrasse al giudizio di Dio29.

Il secolo nostro che, idolatro della forza, s’inginocchiò al brutale insultatore d’un papa supplichevole, bene sta che raccapricci al vedere un imperatore, violator della costituzione, supplichevole ad un papa tutore dei diritti de’ popoli30.

Ma a quell’umiliazione mancava il merito espiatorio per parte d’un principe che minacciava e incurvavasi, prometteva e mentiva; sicchè gl’Italiani lo tolsero in dispregio, al ritorno gli chiusero le porte in faccia, e discorrevano di deporlo e surrogare Corrado suo figlio. Enrico, indispettito, svergognato, coll’abituale sua precipitazione, ed istigato anche da Guiberto arcivescovo di Ravenna, implacabile emulo di Roma, si pose coi nemici del papa, cercò prender questo, in una conferenza arrestò il vescovo d’Ostia da lui deputatogli, ricusò presentarsi alla dieta; sicchè i Tedeschi lo deposero come contumace, e gli nominarono successore Rodolfo duca di Svevia. Gregorio riconobbe questo; e pare divisasse unire la media Italia e la settentrionale in un regno, che rilevasse dalla santa sede come ne rilevavano i Normanni nella meridionale; e a quel regno fosse subalterna la Germania. La nazionale idea non potè incarnarsi, giacchè Enrico, dando e promettendo, e operando risoluto quando il papa procedea circospetto, s’era procacciato amici assai, massime fra i vescovi realisti; e raccolto un esercito e Concilj, fece deporre Gregorio, e sostituirgli esso Guiberto, nominato Clemente III (1080).

Allora guerre con varia fortuna; l’anticesare Rodolfo di Svevia restò ucciso; un esercito raccolto dalla contessa Matilde per isnidare di Ravenna l’antipapa, fu sconfitto presso la Volta Mantovana dai Lombardi. I quali continuarono a devastar le terre della contessa Matilde, che però alfine restò vincitrice.

Enrico intanto aveva condotto a Roma il suo antipapa; ma la mal’aria e la resistenza de’ Romani, a lui avversi quanto erangli favorevoli i Lombardi, gli impedirono di espugnarla. Però egli guadagnò signori e vescovi, profuse cenquarantaquattromila scudi d’oro e cento pezze di scarlatto; alfine dopo tre anni fu ricevuto a Roma (1084), e vi si fece consacrare dal suo Clemente III, mentre Gregorio teneasi chiuso in Castel Sant’Angelo.

Roberto Guiscardo, re dei Normanni di Calabria, inteso l’oltraggio fatto a Gregorio, interruppe l’assedio di Durazzo, e corso in Italia, con un pugno de’ prodi suoi Normanni e con Saracini di Sicilia venne a Roma, e piantato il campo presso il Coliseo, commettendo saccheggi e incendj non men di quello avesse fatto l’imperatore, liberò Gregorio e ricollocollo in Laterano.

Di quivi il pontefice scomunicò Enrico e l’antipapa, indi in mezzo alle armi s’avviò verso il mezzodì. Per via cercò consolazioni sulla tomba di san Benedetto a Montecassino, nella propria vita tempestosa invidiando a quella solitaria pace: al mite abate Desiderio vaticinò gli sarebbe successore, presentendo necessaria la conciliazione dopo la lotta. A Salerno consacrò la magnifica cattedrale, erettavi dal Guiscardo, e vi ottenne straordinarie onoranze. Ma accorato dal vedersi ribelli i proprj sudditi, egli che tanti popoli aveva mossi contro i sovrani; espulso dalla propria cattedra egli che tanti vescovi avea rimossi; scissa la Chiesa ch’egli aveva tanto faticato a risarcire; vacillar nel favore tanti suoi amici, e declinare la causa alla cui fede mai non era mancato, morì esclamando: — Amai la giustizia, e odiai l’iniquità; perciò finisco in esiglio» (1085).

A quel litigio, dove Voltaire non vide che una questione di cerimoniale, mentre invece implicava la libertà umana, quattro soluzioni poteano darsi.

O annichilar la giurisdizione morale e l’elemento spirituale, surrogandovi la forza sfrenata, come voleano gl’imperatori.

O annichilare l’ordine politico, sublimando il papa come voleva Gregorio VII, ma vi repugnavano le costituzioni nazionali.

O separare affatto i due ordini, isolandoli in modo che lo Stato non sorreggesse la Chiesa, nè questa illuminasse lo Stato; al che si opponevano e i costumi e gl’interessi.

Difatti Pasquale II papa, volendo appianar ad ogni costo le differenze tra il pastorale e la spada, si spinse fino all’estrema concessione; cioè che gli ecclesiastici rinunziassero a tutti i possessi temporali, coi castelli e i vassalli avuti dagli imperatori, purchè gl’imperatori rinunziassero all’immorale diritto delle investiture. Nel suo desiderio di pace non s’accorgeva ch’era impossibile spogliar i signori ecclesiastici, tanto potenti, nè togliere ai nobili laici l’aspettativa di tanti benefizj. In fatti sorse un’opposizione universale, e s’incalorì la guerra, dove la città di Roma per lo più osteggiava il papa sinchè non l’avesse cacciato; cacciatolo, tornava a volerlo.

Non restava se non che il capo politico smettesse la nomina diretta dei vescovi e degli abati, vigilando però sulle elezioni; e investendoli delle temporalità, in modo che fossero preti insieme e vassalli, come il tempo portava.

Tal fu la transazione Calistina (23 settembre 1122), ove l’imperatore rinunziava ad investire i prelati coll’anello e col pastorale, lasciando libera l’elezione alle chiese; mentre Calisto II assentiva all’imperatore che le elezioni de’ vescovi e abati del regno tedesco si facessero coll’assenso imperiale, purchè senza simonia o violenza; l’eletto, prima d’essere consacrato, bacerebbe lo scettro col quale eragli conferita dall’imperatore l’investitura per tutti i beni e le regalìe. In Italia e nelle altre parti dell’Impero, l’eletto, fra sei mesi dopo consacrato, riceverebbe l’investitura.

È la prima di quelle transazioni fra il potere spirituale e il temporale, che si chiamano Concordati; e il Concilio lateranese (1123), ch’è il primo universale in Occidente, la confermò; poi il secondo lateranese (1139) rinnovò la scomunica contro chi ricevesse l’investitura laicale.

In tale accordo il vantaggio restava tutto al poter secolare, perocchè l’imperatore non recedeva da alcuna delle sue pretensioni, vedevasi confermato l’alto dominio, e dirigeva le scelte. Ma la Chiesa sacrificava le eventualità temporali al desiderio di far indipendente lo spirituale. Dappoi l’imperatore Lotario II rinunziò al diritto di assistere alle elezioni; come poco a poco fa tolto ai principi il goder de’ frutti de’ benefizj vacanti, e dello spoglio de’ vescovi e abati defunti.

Fu non pace ma tregua, e il cozzo fra i due principj rappresentati da Gregorio VII e da Enrico IV dura tuttavia, onde non è meraviglia se i giudizj intorno a quel passato rimangono discordi.

E già ad Alfonso di Castiglia scriveva Gregorio VII: — Il livore de’ miei nemici e gl’iniqui giudizj sul conto mio, non vengono da torto ch’io abbia loro recato, bensì dal sostenere la verità e oppormi all’ingiustizia. Facile mi sarebbe stato rendermi servi costoro, e ottenerne donativi più ricchi ancora che i predecessori miei, se avessi preferito di tacere la verità e dissimulare la loro nequizia: ma oltre la brevità della vita e lo sprezzo che meritano i beni del mondo, io considerai che nessuno meritò nome di vescovo se non soffrendo per la giustizia; onde risolsi attirarmi piuttosto il livore de’ ribaldi coll’obbedire a Dio, che espormi alla sua collera compiacendoli con ingiustizie».

Così prevedeva gli odj d’una posterità, adoratrice della forza, e che chiamò arroganza l’aver un prete osato fiaccare le burbanze d’un re.

Gregorio VII fu santificato da Benedetto XIII nel 1729; e Giuseppe II, imperatore sacristano, lo fece espungere dai calendarj austriaci. Non v’è ingiurie che non siansi dette a questo pontefice dai cesaristi; ma altrettante lodi gli furono attribuite, massime dai moderni, anche protestanti, e principalmente da Voigt nella vita che di lui scrisse. Guizot lo mette a paro di Carlomagno e di Pietro czar, riformatori per via del despotismo. Stephen (nell’Edimbourg review) lo dichiara il più nobile genio che regnasse a Roma dopo Giulio Cesare; e, come protestante detestando lo scopo di lui, lo riconosce «favorevole e forse essenziale al progresso del cristianesimo e della civiltà». La Mennais lo intitolò il gran patriarca del liberalismo: e questo concetto non è una novità, poichè il Giannone, cavilloso fautore dei diritti regj e perciò sempre ostile a Ildebrando, racconta che «niun altro più meglio e più al vivo ci diede il ritratto di questo pontefice quanto quel giudizioso dipintore che lo dipinse nella chiesa di San Severino di Napoli. Vedesi quivi l’immagine di questo papa avere nella sinistra mano il pastorale co’ pesci; nella destra, alzata in atto di percuotere, una terribile scuriada; e sotto i piedi scettri e corone imperiali e regali, in atto di flagellarli. E dopo avere così mostrato essere stato Gregorio il terrore e il flagello dei principi, e calpestar scettri e corone, volendo ancor far vedere che tutto ciò potea ben accoppiarsi colla santità e mondezza de’ suoi costumi, sopra il suo capo scrisse in lettere cubitali queste parole: Sanctus Gregorius VII».

Ma un altro grande, capace di intendere la potenza dell’eroe che domina e dirige il proprio secolo, ebbe a dire: — Se io non fossi Napoleone, vorrei essere Gregorio VII».




  1. Cardinali vescovi erano quelli d’Ostia, Porto e Santa Rufina, Alba, Sabina, Tusculo e Preneste, vicarj del papa qual patriarca di San Giovanni Laterano. Cardinali cherici erano i parroci dipendenti da quattro altre chiese patriarcali di Roma. Agli istituti di carità presedevano cardinali diaconi.
  2. Il passo fu accertato essere stato intruso. Ad ogni modo si sa che questo divieto a’ preti di aver moglie non è che una disciplina, e la Chiesa l’adottò per alte convenienze pur tollerando in alcun luogo, come fra i Greci. Che a Napoli il matrimonio de’ preti e sin quello de’ frati fosse riconosciuto vorrebbero indurlo da documenti autentici, ove trovansi soscrizioni, «Ego Petrus, filius domini Stephani monachi: Ego Sergius, filius domini Johannis monachi: Ego Joannes, filius domini Petri monachi.... (alle pagine 10, 21, 40, 46 della Sylloge de’ Monumenti del grande archivio di Napoli), Ma ciò può riferirsi a persone monacatesi dopo vedovate. Il Concilio di Melfi nel 1059 limitò il matrimonio de’ preti: dopo il Concilio romano del 1072 fu proibito. Nelle consacrazioni dei vescovi prescriveansi norme intorno all’ordinare conjugati: e l’arcivescovo Alfano nel 1066, consacrando il primo vescovo di Sarno, gli indiceva «ne bigamum, aut qui virginem sortitus non est uxorem, ad sacrum ordinem permittat accedere; et si quos hujusmodi forte reperit, non audeat promovere». Ughelli, Italia sacra, tom. VII, pag. 571. Barbato arcivescovo di Sorrento, nel 1110 ordinando Gregorio vescovo di Castellamare, dicea: «Eique dedimus in mandatis ne nunquam ordinationem præsumat facere illicitam, nec bigamum, aut qui virginem non est sortitus uxorom, neque iliiteratum.... ad sacrum ordinem permittat ascendere». Id., tom. VI, pag. 609, ediz. Venezia, 1721. Tutto ciò poteva riferirsi a vedovi, e tale disciplina è seguita oggi pure, non ordinandosi chi fosse stato bigamo vero, cioè marito successivo di due donne, o bigamo similitudinario, cioè marito d’una vedova.
  3. Il cronista Arnolfo da principio mostrasi caldissimo dell’indipendenza della Chiesa milanese dalla romana, disapprovando altamente la plebe che tumultuava contro gli eretici. Ma dopochè nel 1077 fa parte dell’ambasceria con cui i Milanesi implorarono perdono da Gregorio VII, cangiò stile, protestando «non dissentire punto da quelli che riprovavano le consacrazioni simoniache e l’incontinenza dei preti (lib. IV, 12); oggimai vedere ben altrimenti di prima, e confrontando il presente col passato, arrossire non già pei barbarismi del suo stile, ma d’avere sventatamente riferito i fatti e i detti altrui: «cumque præteritis præsentia scriptis seribenda conferret, rubore perfusum fideliter erubescere, nec barbarismos in verbis egisse, sed aliorum quælibet dicta vel facta temere indicasse confundi» (IV, 13). Col che veramente indica piuttosto aver imprudentemente recato fatti e detti, che non mentito alla verità.
    Landolfo Seniore invece, parteggiando affatto per l’indipendenza della Chiesa milanese, non solo svisa i fatti contemporanei, ma anche i antecedenti, volendo sempre esporli come tipo e specchio de’ presenti; esalta tutti i vescovi precedenti, e massime Eriberto da Cantù; trova le virtù e i meriti tutti ne’ concubinarj, asserendo con leggerezza e mentendo con impudenza come avviene de’ settarj.
  4. Nella famosa lettera al vescovo di Metz, egli non esita a mettere il papa di sopra dei re. — Questa dignità di monarca, inventata da’ pagani, non dev’essere soggetta all’eterna autorità di san Pietro, che la misericordia di Dio ha depositata in mano d’un uomo per salute de’ redenti? Re, principi, duchi, imperatori hanno ereditato questi nomi pomposi da uomini dannati eternamente, i quali, con rapine, perfidie, violenze, assassinj, esercitarono sopra i loro simili l’esecrando diritto del forte, e fatti despoti dominavano con tirannico orgoglio. Chi può dubitare che i ministri della Chiesa, i sacerdoti di Cristo, i successori di Pietro devono esser venerati per padri e maestri dei re, dei popoli, del genere umano?.... Un semplice esorcista è rivestito d’un’autorità superiore a qualunque principe, perchè discaccia gli spiriti maligni. Il pio sacerdote governa i suoi simili a salute dell’anime loro, ad onore e gloria di Dio: mentre i potenti del mondo non regnano che per soddisfar all’orgoglio ed a materiali passioni. Un monarca cristiano, quando giace sul letto di morte, implora l’assistenza del prete che gli rimetta i peccati e salvi da Satana, e lo guidi dalle tenebre agli eterni splendori: vedeste mai un prete o un laico in agonia rivolgersi al suo re? Qual principe della terra si arroga di riscattare un’anima dall’inferno in virtù del santo battesimo? E ciò che forma la sublimità della religione cattolica, il mistero che gli angeli contemplano e le potenze infernali paventano, dov’è il monarca che possa con una sola parola creare il corpo e il sangue di Cristo? Chi dunque dubiterà che l’autorità del pontefice non sovrasti a quella del re? Quegli non cerca che le cose di Dio, e vive austero fra le vanità della terra; questi si occupa solo del proprio interesse, e opprime i fratelli a danno della propria salute. Quegli è membro del corpo di Cristo; questi dell’angelo della menzogna. Quegli rinnega i suoi appetiti, macera il corpo per regnar un giorno con Dio: questi regna quaggiù per esser in eterno schiavo di Satana. Appena qualcuno ne troviamo che sia stato virtuoso e prudente. Chi di loro ebbe il dono dei miracoli come Antonio, Benedetto, Martino? Ma la santa sede conta da Pietro in poi cento vescovi ascritti alla milizia celeste, ecc.».
  5. Ep. III, 18; VIII, 21.
  6. I, 42, 55.
  7. II, 11; I, 42; II, 45; VII, 2; VIII, 17.
  8. I, 7.
  9. I, 75; V, 10; VI, 20.
  10. I, 39.
  11. I, 19.
  12. II, 13, 31; VIII, 21; I, 75; VIII, 20, 23.
  13. I, 62, 35, 15; II, 51; VIII, 21; IX, 9; I, 60; VII, 25.
  14. I, 53.
  15. VII, 6; VIII, 20.
  16. II, 1; IV, 28. Append. II, 15; II, 1; I, 24.
  17. I, 60; VIII, 21; II, 18, 32; VII, 4; VIII, 21; II, 1; V, 5; II, 5; III, 4; IV, 1; Append. I, 3, 4.
  18. I, 58; III, 11.
  19. IV, 24.
  20. IV, 28; V, 5; IX, 21; II, 1; VI, 1; VIII, 9; VI, 2; Append. II, 15; IV, 27; VI, 1.
  21. I, 70; II, 12; VIII, 5. Vedi Voigt, Hildebrand und sein Zeitalter. Parte II, cap. 5.
  22. «Monemus insuper, carissime, ut libi commissi a Deo regni honorem omni industria, solertia, peritiaque custodias. Sit vita tua digna, sapientia referta, justitiæ et misericordiæ condimento saleque condita, ut de te vera sapientia, quæ Deus est, dicere queat: Per me iste rex regnat (Prov. VIII). Pauperum et pupillorum ac viduarum adjutor indeficiens esto; sciens procerto quoniam ex his operibus et condimentis amor libi reconciliatur Dei».
  23. Ap. Senckenberg, Juris alemannici seu suecici prœfamen.
  24. Schilter, Antiq. Teuton., tom. III. Nell’elezione dell’imperatore, l’arcivescovo di Colonia gli domandava:
    Vuoi mantenere con tutte le forze la santa fede cattolica?
    Vuoi esser difensore e protettore alle sante chiese e ai ministri di esse?
    Vuoi al santo padre il pontefice romano riverentemente prestare soggezione e la fede dovuta; non violare la libertà ecclesiastica; mostrarti a tutti benigno, mansueto, affabile secondo la regia dignità; e condurti in modo da regnar a utilità non tua, ma del popolo tutto; ed aspettar il premio de’ tuoi benefìzj non in terra ma in cielo?
    Dopo coronato, l’imperatore giurava: Professo e prometto in faccia a Dio e agli angeli suoi, di osservare le leggi, far giustizia, confermar i diritti del regno, prestare il dovuto onore al pontefice romano e agli altri vescovi e vassalli; considerare i doni fatti alla Chiesa».
  25. Deutsche Staats-und Rechtsgeschichte, tom. II, pag. 358 della quarta edizione: nelle precedenti egli si esprimeva molto più esplicitamente.
    Su questo punto e sulla scomunica può consultarsi Gosselin, Pouvoir du pape sur le souverains au moyen âge; ou Recherches historiques sur le droit public de cette époque relativement à la déposition des princes, Parigi 1839, poi aumentato nel 1845. Ivi discute seriamente coi testi e coi fatti queste tre questioni: — È vero che il diritto pubblico europeo nel medioevo subordinasse tanto la potestà temporale alla spirituale, che un sovrano poteva esser deposto in certi casi per autorità del papa o del Concilio? — Quali erano i fondamenti o l’origine di questo diritto pubblico? — Quali ne furono i risultamenti?»
    Al concetto del deporre i re da un pezzo rinunziarono i papi. Il 23 giugno 1791, il cardinale Antonelli, prefetto della Propaganda in una nota ai vescovi d’Irlanda, dice: — Bisogna ben distinguere fra i veri diritti della sede apostolica e quel che maliziosamente gl’imputano. La santa sede non insegnò mai che si deva ricusare fedeltà a sovrani eretici, e che un giuramento prestato a re fuor della comunione cattolica deva esser violato, o che sia permesso al papa di privarli de’ loro diritti temporali».
    I vescovi degli Stati Uniti, raccolti nel V Concilio di Baltimora, mandarono al papa un indirizzo ove de’ loro avversarj dicono: — Sforzansi ispirare sospetti contro i loro fratelli cattolici che versarono il sangue per la libertà di questo paese: pretendono che noi siamo sotto il dominio del papa per le cose civili e politiche, e che così dipendiamo da un sovrano straniero.... Molti di noi dichiararono vigorosamente e con giuramento che il papa non esercita verun potere civile; e questa dichiarazione fu benissimo accetta da Gregorio XVI». Vedasi M. Affre, Essai sur la suprématie temporelle du pape, 1829. Questi, contro il La Mennais, dimostrò che la bolla di Bonifazio VIII è stata abrogata pochi anni dopo da Clemente V in quanto diceva che la podestà temporale fosse sottomessa alla correzione della potenza spirituale.
    Francesco Suarez, al quale il Grozio non sapea trovar l’eguale per acume filosofico e teologico, dimostra che sentimento comune de’ giureconsulti e teologi era che il potere dei re vien loro da Dio per mezzo del popolo, e ne sono responsali non solo a Dio, ma anche al popolo. Un predicatore davanti a Filippo II a Madrid, avendo pronunziato che «i sovrani hanno potere assoluto sulla persona e i beni de’ sudditi», l’Inquisizione lo processò, e condannollo a penitenza e a ritrattarsi, dicendo dal pulpito che «i re non hanno sui loro sudditi altri poteri se non quelli accordati loro dal diritto divino e dall’umano, e nessuno che proceda dalla loro volontà libera e assoluta». Vedi Bulmès, Il protestantismo paragonato al cattolicismo.
    Varj trattatisti di diritto canonico spinsero molto più innanzi i diritti papali. Lo stesso Pallavicino nella IV del Concilio di Trento, lib. IV, dice «che anzichè sussidio, recarono nocumento all’autorità pontifìcia; onde la Congregazione de’ cardinali e prelati deputata da Paolo III alla riforma della Chiesa, proferì che «tutti i disordini erano sorti dall’avere i pontefici prestato fede all’adulazione di certi che magnificavano in loro una podestà sterminata, non come di ministri, ma di signori nell’esercizio delle chiavi; sicchè il lecito ed il voluto non si distingue».
  26. San Pier Damiani avvisava Alessandro II di non precipitare colle scomuniche: san Gregorio ed altri pontefici non avere usato infliggerle alle moltitudini, se non quando si trattasse di punti di fede.
    «Porro nec beatus Gregorius vel ceteri patres, qui in apostolica sedis regimine floruerunt, hunc morem in suis reperiuntur observasse decretis, et vix eorum aliquando statutis anactema subnectitur, nisi cum catholicæ fidei clausula terminatur; quapropter si prudentiæ vestræ placet, hunc morem de cetero a decretalibus paginis amovere præcipiat».
    Il vescovo di Ermeland, nell’aprile 1872 esaminava gli effetti della scomunica, per rispondere al ministro del culto di Prussia che l’accusava d’aver turbato le coscienze appunto con una scomunica:
    1.° È di diritto naturale che ogni corporazione (la famiglia, la scuola, l’armata, il corpo degli ufficiali, la magistratura, ecc.) possa allontanare da sè un membro indegno e interdire agli altri membri un contatto che possa loro nuocere.
    2.° La scomunica si indirizza non ai cittadini, ma ai fedeli d’una stessa Chiesa; essa si riferisce non agli uomini od ai cittadini in quanto tali, ma ai cattolici in quanto cattolici; essa è dunque un interdetto religioso, una pena religiosa, una res interna Ecclesiæ.
    3.° La scomunica si riferisce ad atti che non sono prescritti dallo Stato, e quindi non ha conseguenze civili dannose. La Chiesa ha emanato una quantità di proibizioni analoghe a quella di frequentare gli scomunicati; essa proibisce, per esempio, di mangiar carne in certi giorni, di occuparsi nel lavoro in certi altri, di frequentare certi teatri, ecc. Da tutte codeste proibizioni possono risultarne dei dispiaceri ed anche dei danni; ma lo Stato non ha diritti in proposito, poichè trattasi di atti liberi che non sono obbligatorj agli occhi dello Stato.
    4.° La scomunica ha scopo religioso e morale, e non ha azione che nel dominio morale.
    5.° L’interdizione di rapporti cogli scomunicati non riguarda alcuno di quelli che loro sono legati da leggi positive (parenti, ecc.): essa è tolta per ogni motivo necessario ed anche solamente utile; la dolcezza della legge è tale che una utilità temporale basta perchè l’interdetto non si applichi più. Anzi autorevoli canonisti ammettono la necessità e l’utilità dei rapporti, se vi ha luogo a credere che la riputazione dello scomunicato ne soffra; è permesso salutare, cedere il suo posto, in una parola di fare non le cose che saranno in onore per lo scomunicato, ma quelle la cui omissione potesse farlo sprezzare. Ne inhonoretur et contemni videatur. Si vede che le leggi canoniche conservano i riguardi più minuti per gli individui segregati dalla Chiesa.
    6.° Queste leggi, già sì dolci furono ancor più addolcite da Pio IX nella bolla Apostolicæ Sedis. Non vi ha più censura contro quelli che comunicano cogli scomunicati quindi non più scomunica minore, salvo che si tratti di delitto criminale. Non vi è adunque più sanzione che per la coscienza di ciascuno, sanzione tutta del foro interno. La sola censura che esiste è un interdictio ab ingressu ecclesiæ pei preti che ammettono gli scomunicati ad divina officia: seu ecclesiastica sacramenta vel ecclesiasticam sepulturam.
    7.° Infine la sanzione del foro interno è anch’essa minima; non si tratta per coloro che violano la proibizione di commettere che un peccato leggiero (peccatum leve).
  27. Nel 1858 Amedeo Renée traduceva la mia Storia di cento anni, ed essendo lettore della imperatrice de’ Francesi al momento che macchinavasi la spedizione d’Italia e perciò giovava infervorar le memorie di questa, egli mi domandò qual soggetto potesse prescegliere. Io non esitai a suggerirgli la contessa Matilde, ed egli in fatti scrisse in due volumi Una grande principessa d’Italia.
  28. Gregorio raccontando ciò tutto ai Tedeschi, quasi si scusa dell’indulgenza usata a sì gran malfattore: — Dopo forti rimproveri de’ suoi eccessi, venne con debole scorta a Canossa, come chi non pensi a male. Quivi rimase tre dì innanzi la porta, in uno stato da mettere pietà, spoglio del regio apparato, scalzo, vestito di lana, invocando con lacrime il soccorso e il conforto dell’apostolica commiserazione; tanto che tutte le persone presenti o che ne udirono parlare, furono tocche di compassione, e intercessero presso di noi meravigliati dell’inudita asprezza del nostro cuore. Alcuni esclamarono non essere apostolica severità, ma durezza di fiero tiranno; onde alfine lasciatici piegare del suo pentimento e dalle suppliche di tutti i presenti, rompemmo il laccio dell’anatema, ricevendolo nella comunione della santa madre Chiesa». Ep. IV, 12.
  29. Il tedesco e protestante Leo scrive: — Non mancano scrittori tedeschi che considerano la scena di Canossa come un insulto fatto alla nazione tedesca da un prelato arrogante. Accecamento non degno di popolo illuminato. Deponiamo un istante le prevenzioni nate da orgoglio nazionale e dal protestantesimo, e collochiamoci in una perfetta libertà del pensiero veramente protestante. Qui scorgeremo in Gregorio un uomo che uscito da una classe priva d’ogni politica ingerenza, e appoggiato solo alla forza del suo genio e della sua volontà, rialza dall’abbiezione un’istituzione svilita (la Chiesa), e le dà uno splendore non pria conosciuto. In Enrico al contrario vediamo un uomo (e tal nome merita appena), cui suo padre aveva lasciato un potere quasi assoluto sopra un popolo prode e ricco; e che malgrado tale pienezza di mezzi esterni, trascinalo dalla bassezza del suo carattere nel fango de’ vizj più turpi, discender a farsi vile supplicante, e dopo calpestato quanto v’ha di sacro fra gli uomini, trema alla voce di quell’eroe intellettuale. Ben fa prova di spirito limitato chi da boria nazionale si lascia accecare a segno, di non esultare del trionfo riportato a Canossa da un genio altissimo sopra un uomo vile e senza carattere». Italias Geschichte, lib. IV, cap. 4, § 5.
  30. Del resto l’aver un papa fatto o ordinato in certi casi una cosa è ben altra dall’averla prescritta. Anche Paolo III esautorò Enrico VIII e i suoi discendenti; proibì agli Inglesi sotto pena di scomunica di riconoscerlo per monarca. Non so chi lo lodi; e dianzi, quando fu bisogno di spiegare l’infallibilità pontifizia a fronte del nuovo impero germanico, i vescovi tedeschi dichiararono quella bolla «uno di que’ giudizj penali che soggiaciono alle condizioni mutevoli sia della legislazione positiva umana in genere, sia del diritto canonico in ispecie».
    Lo spodestamento non è conseguenza della scomunica; e persone pie e prelati serbarono fede a Enrico IV e a Federico II sebbene scomunicati. Un principe escluso dalla comunione dei fedeli non perde perciò i suoi diritti naturali e civili, nè i politici, nè sarà disdetto obbedirgli nelle cose civili, purchè giuste.
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